sabato 29 settembre 2012

Cartoline dal Novecento. Quel secolo breve che non vuol mai finire


Una delle chiavi di lettura dell'ultimo saggio di Giampiero Mughini (Addio, gran secolo dei nostri vent'anni, Bompiani, pagg. 382, euro 17) sta nella frase «il Novecento, questo secolo da cui non mi riesce di traslocare». L'altra è una citazione di Carlo Mollino, geniale outsider artistico, che l'autore eleva a epitaffio del XX secolo: «Poter arrivare “più su” là dove non si vede che nebbia-chiarore-capire tutto-senza sapere nulla».

Mughini è un figlio del Novecento che non sa rassegnarsi alla sua scomparsa. Superficialmente, e complice anche il titolo del libro, si potrebbe pensare che il suo attaccamento a ciò che è stato abbia a che fare con la nostalgia della giovinezza, arrivati in un'età in cui guardando il futuro non si vede altro che il proprio passato. In realtà è qualcosa di più profondo, non facile da definire, una sorta di sindrome della grandezza, la consapevolezza di essersi formato e aver fatto parte di un'epoca terribile e insieme magnifica, una tempesta di idee e di fatti a petto della quale ciò che è venuto dopo è solo una risacca dove qua e là galleggiano relitti senza vita.

Prendiamo la politica e le ideologie. Il Novecento ha fuso la prima con le seconde, ha tenuto a battesimo, allevato e fatto alleare e/o confliggere gli “ismi” che hanno segnato il suo percorso, comunismo e fascismo, nazismo e capitalismo, terzomondismo. In loro nome e per loro conto, l'Europa si è suicidata in due guerre mondiali e si è spaccata in due blocchi contrapposti, gli Stati Uniti si sono illusi che quel secolo divenuto “americano” sarebbe rimasto tale per sempre, la decolonizzazione si è rivelata un sanguinoso cimitero di buone intenzioni...

Prendiamo le idee. La modernità artistica ne ha accompagnato l'intero percorso, in pittura come in letteratura, nell'architettura come nel design e nella moda, spostando sempre più avanti il traguardo, fino a ritrovarsi in una babele dove le distinzioni non esistono più, nessun linguaggio è più riconoscibile, la sperimentazione è un valore in sé, un fine e non un mezzo. Avendo predicato tutte le libertà, si è finiti con l'approdare in una sorta di dittatura della libertà che non tollera regole e si arroga ogni diritto, il privato divenuto pubblico dell'attuale società dello spettacolo e della rete.

Usciti dal Novecento (un secolo che comincia un quindicennio dopo la sua data storica e finisce un decennio prima, con la caduta del Muro di Berlino del 1989), conviviamo con i suoi residui passivi, senza nulla per cui esaltarsi e tutto per deprimersi. Secolo occidentale per definizione e, se si vuole, anche per convenzione eurocentrica, il nostro sguardo abbraccia una crisi economica di cui ci sfugge il senso, una costruzione europea miope e senza gloria, una decadenza generalizzata come di una civiltà giunta al suo epilogo. Visto dall'Italia, il panorama è ancora più avvilente, un Paese senza, svuotato da una diarrea politico-istituzionale, da un'assenza di prospettive e di progetti, intellettualmente miserabile quanto a risultati. Giustamente Giampiero Mughini se ne chiama fuori. E noi con lui.

Biografia intellettuale, Addio, gran secolo dei nostri vent'anni è un libro costruito per blocchi fatti di gusti e di disgusti. C'è l'intellettuale libertario di sinistra che, negli anni Sessanta, si scontra con «quel Corano a misura del Novecento detto marxismo-leninismo», e negli anni Settanta cerca di trovare una via d'uscita a quella guerra generazionale fra «opposti estremismi» che come una lebbra infetta l'Italia. Nei Settanta è anche la spiegazione di una passione dell'autore per la cultura francese fra le due guerre. «Me lo indicate un solo dei libri dell'una o dell'altra fazione politica italiana di allora che oggi valga la pena prendere in mano e sfogliare?». Laddove, invece, nella Parigi del Fronte popolare prima, dell'occupazione tedesca dopo, c'è comunque un livello intellettuale all'altezza della terribile grandiosità dell'epoca, Nizan e Maurras, Drieu e Aragon, Céline e Sartre, Souvarine e Malraux, Rebatet... I suoi eroi e le sue canaglie, insomma, rimandano a una terribile esemplarità di cui, quarant'anni dopo, da noi si vedrà solo la sanguinosa caricatura.

Figlio del secolo, Mughini lo è anche nella sua identificazione con ciò che nel secondo dopoguerra significò la rivoluzione dei costumi e dei consumi, la contestazione, il femminismo, la rivoluzione sessuale e le nuove mode musicali, l'entrata in scena della controcultura americana che da underground divenne poi icona del glamour, del successo e della fama, la celebrità secondo il suo profeta Andy Warhol. Eppure, in quella specie di cortocircuito artistico- esistenziale, c'era come la spia di un malessere tipicamente novecentesco da un lato, nella sua ansia di assoluto, e insieme ultima vampata di un secolo bruciatosi troppo in fretta, nel momento in cui la società di massa si prendeva la rivincita definitiva sulle élites: dalla droga all'arte, è il mercato la nuova divinità con cui si debbono fare i conti, la quantità che sostituisce la qualità, l'economia come unico metro di misurazione.

Ben scritto, con uno stile riconoscibilissimo nella secchezza del giro di frase e nella ricchezza dell'aggettivazione, brutale e poetico, il libro si chiude con quella citazione molliniana ricordata all'inizio e per Mughini epitaffio del XX secolo, quel «capire tutto-senza sapere nulla». Per certi versi, e l'autore non me ne vorrà, la si potrebbe rovesciare, perché poi di quel secolo oggi possiamo dire di sapere tutto, ma di non aver capito nulla. Guerre civili, odi ideologici, polarizzazioni estreme, culturali ritorni all'ordine e culturali fughe in avanti in cerca di nuove, impossibili sintesi, non c'è momento del Novecento che, basta volerlo, sfugga alla nostra conoscenza. Eppure continuiamo a scimmiottarlo quasi fosse un riflesso condizionato, il cane di Pavlov nell'esperimento omonimo. Il XXI secolo non fa che salivare, ma senza capire il perché. Ulteriore motivo per starsene alla larga.

(di Stenio Solinas)

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