lunedì 1 ottobre 2012

Giovanni Pascoli interprete della decadenza


Tutt'altro che "facile", Pascoli va affrontato nella sua estrema complessità e in quella ricchezza di temi e di accenti, che ne fa un insonne sperimentatore, al pari di d'Annunzio. E, come d'Annunzio e altri decadenti, Pascoli va alla cerca delle memorie, delle eredità ancestrali, di quel tempo per nulla "perduto" che alimenta la nostra tradizione, connettendo presente e passato con uno sguardo augurale rivolto al futuro. Bene ha fatto, dunque, il Pontificium Istitutum Altioris Latinitatis, a rendere omaggio al Poeta, nel centenario della sua morte, proponendone un aspetto che, sconosciuto ai più, è tutt'altro che secondario: il poeta "latino", l'eccellente autore di composizioni nell'aurea lingua di Roma, il cantore di paesaggi storici e mitici che fondano la nostra civiltà ("Post occasum Urbis. L'eredità culturale e letteraria di Roma antica", introduzione e note esegetiche a cura di Mauro Pisini, traduzione di Chiara Savini, concordanza verbale a cura di Alessandro Toniolo, presentazione di Manlio Sodi, LAS, Libreria Ateneo Salesiano). 

Pascoli fu "latino" per vocazione. Amava la cultura classica - riteneva la sua "humanitas" eternamente feconda - e non mancò mai di partecipare ai concorsi di poesia latina organizzati dalla Accademia delle Scienze di Amsterdam, vincendo ben tredici volte. Docente di lingua e letteratura latina tra i più prestigiosi, nei "Carmina" descrisse la vita dei Romani nei riti e nelle occupazioni giornaliere, come il lavoro dei campi ("Ruralia"), cimentandosi anche con episodi e spunti tratti dalla vita e dalle opere di Virgilio e di Orazio ("Liber de poetis") e seguendo infine, in sette composizioni, la nascita del Cristianesimo sino al suo trionfo ("Poemata christiana"). Da tutto emergono la riverenza nei confronti di uno straordinario patrimonio culturale e la convinzione di una "latinitas" viva, da cui dobbiamo costantemente attingere, sia evocando i suoi imperiali splendori sia ricostruendo i giorni amari della sua decadenza, sotto i colpi della furia barbarica. 

Già, la decadenza. La "decadenza" raccontata da un "decadente". Un decadente "nazionalista", però. E, laicamente, "cristiano". Roma non morì, non muore. Si rinnova. La parola di Gesù è una tempesta e saranno una tempesta i barbari che infieriranno sull'Urbe, ma saranno loro stessi affascinati dalla magnanimità di quelle rovine, abitate da gloriosi fantasmi. Finché, in prospettiva, la Croce non si accompagnerà alle ritrovate insegne dell'Impero. In "Post occasum Urbis" è narrata questa storia. La trilogia ("Solitudo"- "Sanctus Theodorus"- "Pallas"), composta da Pascoli nel 1907 e presentata quattro anni dopo al concorso bandito per il Natale di Roma, nel cinquantesimo del Regno, è volta dunque a recuperare "insieme" le origini e l'universalità dell'Urbe, che il Cristianesimo non annienta, ma trasforma, sia pure attraverso un processo doloroso di morte e distruzione. Anche qui l'unità ritrovata, e non "contro" ma "con" il Cristianesimo. Ed anche, in prospettiva, una nuova missione di civiltà? Forse. Si ricordi che in quegli anni il Pascoli è anche animato dal fervore "colonialista" e che in occasione della guerra di Libia, pronuncia a Barga il celebre discorso- protofascista?- "La Grande Proletaria si è mossa". 

Ma torniamo all'opera, così mirabilmente ritrovata e riproposta dall'Ateneo Salesiano. Per quel che riguarda il valore magistrale della prova pascoliana, l'eredità dei classici cui il poeta ha attinto, le scelte lessicali, lo stile, la personale e coltissima rielaborazione ecc., il lettore - che non sia pago della splendida traduzione ma ami "confrontare" il testo italiano con quello latino - potrà attingere alle note accurate e puntuali che "resuscitano" il "Post occasum". 

Da parte nostra un convinto esercizio di ammirazione di fronte a un poeta che con tanta efficacia ha saputo descrivere una città che finisce per aprirsi a una più ampia resurrezione. Un "compositore" che ha saputo attingere al nitore e alla forza di "quella" lingua, rispettandola e rimodellandola, perché ci narrasse una storia esemplare. Storia di uomini, paesaggi, emozioni, impressioni, attese. Totila, le trombe di guerra, i saccheggi, le fughe, la città deserta, i palazzi, le case, i templi vuoti, i barbari che riempiono con la loro chiassosa e feroce presenza il Foro, la Via Sacra, l'Anfiteatro, il Tempio di Vesta, il Campidoglio, e il silenzio, le volpi e gli avvoltoi che si aggirano tra le rovine. Ma non fu augurale per Romolo e Remo il volo degli avvoltoi? E non è augurale la primavera che torna a suggerire i tre nomi dell'Urbe- Amor, Flora e Roma? E la Chiesa di San Teodoro, sorta sui resti di un tempio eretto da Romolo e Remo, e dove era custodito il gruppo scultoreo della lupa che allatta i gemelli, non è il segno di un'attesa? E non ci richiama a questa stessa attesa il fantasma di Pallante, primo eroe-martire pagano di Roma, alleato del troiano Enea e morto, ucciso da Turno, re dei Rutili, combattendo nel nome di Enea, dunque della Roma a venire; non ci richiama a questa stessa attesa di civiltà e di unità l'immagine del suo corpo adagiato sui rami di un corbezzolo, prefigurante il tricolore col verde delle foglie, il bianco dei fiori, il rosso delle bacche?

(di Mario Bernardi Guardi)

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