giovedì 28 giugno 2012

Itaca e la destra. All'ombra di un sogno trasformato in cenere


Itaca è una metafora pericolosa. Nel 1946 Italo Calvino la utilizzò, sulle colonne dell’Unità, per raccontare “il mito del ritorno a casa: il dover tornare a casa su mezzi di fortuna, per paesi irti di nemici. E’ la storia degli otto settembre, la storia di tutti gli Otto settembre della Storia”. Un’interpretazione suggestiva, non fosse che Ulisse e i suoi intraprendono il loro viaggio verso casa al termine di una guerra vittoriosa in terra altrui, il solo Ulisse si salva, e di Otto settembre, purtroppo, “la Storia” conosce solo il nostro.

Quella di Calvino era la lettura sentimental-consolatoria di un Paese. Una quindicina d’anni dopo, Luigi Comencini la codificò da par suo nel magistrale Tutti a casa. Ve lo ricordate? “Colonnello, è successa una cosa incredibile, i tedeschi si sono alleati con gli americani e ci stanno sparando addosso” diceva concitato al telefono il tenente Innocenzi con la faccia di Alberto Sordi. Per esorcizzare il dramma, ci andavamo specializzando nella farsa. Nel tempo è diventata una seconda pelle.

Itaca è la destra, dicono in molti, più o meno compunti. Nel 1997 scrissi un pamphlet che si intitolava Per farla finita con la destra, e insomma sul tema credo di avere già dato. Se ci ritorno è perché sono uno fedele alle amicizie e quella con il direttore di Totalità ne fa parte.

Storicamente parlando, la Destra in Italia non è mai esistita e se si guarda bene l’Italia fu fatta nonostante la destra, quella reazionaria, quella del trono e dell’altare, quella codificata dal Congresso di Vienna… Nella storia di Francia c’è de Maistre e l’elogio del boia, in quella nostra preunitaria c’è Monaldo Leopardi, l’ultimo spadifero: non è la stessa cosa…

La Destra storica, si dirà, quella è esistita, e ci portò al pareggio del bilancio. Se qualcuno si accontenta di così poco, non sarò così crudele dal negarglielo, anche se aveva più a che fare con la geometria parlamentare che con i principi. Curiosamente, è quella che da Indro Montanelli a Marco Travaglio, passando per Michele Serra, viene sempre citata come punto di riferimento di una vera destra moderna, non populista né cialtrona, tantomeno trasformista (povero Giolitti). Sfugge come un’Italia analfabeta, dove non c’era il suffragio universale e si votava per censo possa essere presa come punto di riferimento di una rinnovata modernità, ma nella foga polemica, si sa, noi italiani non ci facciamo mancare nulla.

Fascismo, il convitato di pietra della nostra storia

In Italia la destra è stata una foglia di fico. Serviva a celare il frutto proibito del fascismo, risultato indigesto dopo una ventennale consumazione, eppure l’unica creazione politologica indigena, insieme con i Comuni e le Signorie, il che dovrebbe far riflettere. Nel panorama politico del Novecento, il fascismo è stato un po’ come la statua del Commendatore nel Don Giovanni di Mozart: ingombrante, minaccioso e letale. Strozzò nella culla un sistema democratico-parlamentare fragile e impreparato alla modernità: le masse e i partiti di massa, l’industrializzazione, la politica delle grandi potenze.

Si sforzò, e fallì, nell’impresa di far coincidere una gloria universale con una politica nazionale, ciò che Mario Missiroli definì la grandezza e la tragedia italiana: una nazione piccola incapace, per la sua storia pregressa, a rassegnarsi a un piccolo ruolo. Era come avere un metabolismo da ricchi in un corpo da poveri.

Il fascismo portò con sé l’antifascismo, ma anche, e sopratutto per l’Itaca di cui si parla, il neofascismo. Non bisogna nascondersi dietro un dito: politicamente parlando, destra era l’etichetta per cercare di smerciare un prodotto altrimenti invendibile. La Destra nazionale, la Costituente di Destra, la Grande Destra, la Destra degli Italiani, tutti loghi, tutti marchi, tutti brand fasulli, il trionfo del tarocco…

L’antifascismo intanto fece l’Italia. La fece nella logica calviniana sentimental-consolatoria e a suo modo cinica, ma la fece. Un Paese senza ambizioni nazionali, però faticatore, un po’ Arlecchino e un po’ Pulcinella, per far dimenticare il Capitan Fracassa e Matamoro finito in tragedia, individualmente simpatico, ma senza carattere, da amare, ma senza prendere sul serio. I partiti chiamati a rappresentarlo, la Democrazia cristiana e il Pci, erano del resto il contrario di un partito nazionale: il primo prendeva ordini dal Vaticano, l’altro da Mosca. Dal 1948 al 1989, da noi fu più importante, come potere, gestire il ministero delle Poste che non il ministero degli Esteri.

E’ questa Italia ad aver fatto gli italiani. Quanto all’altra, minoritaria e sconfitta, minoritaria perché sconfitta, politicamente sterile, si adagiò fra il mugugno, la rassegnazione, il rifiuto. Individualmente fece la sua strada, professioni, commerci, riuscite sociali ed economiche, ma non rappresentò mai un’alternativa: era il mondo dei vinti, popolato di revenants, di fantasmi, e aggrappato all’idea di un Paese più immaginario che reale: le vecchie zie di longanesiana memoria, gli ufficiali in pensione, il decoro borghese, le poesie imparate a memoria… Il suo elettorato si consumò fra il Msi e la Dc, il primo per spaventare la seconda, la seconda per tenere sotto tutela il primo, ruota di scorta da usare, sino alla fine degli anni Cinquanta, ruota bucata e inservibile dopo…

Se volessimo essere sinceri con noi stessi, dovremmo dire che fu questa la Destra del Paese: qualunquista e conformista, nostalgica, bigotta e clientelare, timorosa del nuovo, aggrappata al vecchio, né reazionaria né conservatrice, semplicemente per lo status quo, senza passato e senza futuro. L’unica che abbiamo conosciuto.

La destra senza più il nemico

Poi ci fu la caduta del Muro di Berlino, la fine del comunismo, il venir meno del bipolarismo e con essi  l’intero sistema della cosiddetta Prima repubblica crollò. Si era retto perché c’era una conventio ad excludendum che inibiva il Pci dal governo nazionale, pur non negandogli il potere locale, ma questo significava un sistema di fatto bloccato, senza alternanza e con un centro ondivago, con una parcellizzazione delle forze in campo che faceva di partiti minuscoli gli aghi della bilancia di alleanze eterogenee, il tutto con l’occupazione manu civili dei partiti sulla società, uno spreco di risorse, un aumento del debito pubblico, della corruzione e dell’inefficienza, un moltiplicarsi di governi e di crisi di governo (governi balneari, governi monocolori, governi delle larghe intese, governi programmatici, governi di solidarietà nazionale, più di quaranta in quarant’anni…).

Negli anni Novanta, l’Italia si ritrovò così a essere un Paese da rifondare. Non c’era nulla che valesse la pena conservare, non c’era niente di cui piangere. Il crollo delle ideologie toglieva inoltre peso ai giudizi e ai pregiudizi garanti del precedente potere: essere corrotti era peggio che essere fascisti, essere comunisti non era più un titolo di merito, essere democristiani tornava a significare non essere niente… Schematizzando, era l’Italia antifascista che era giunta al capolinea, l’altra, lo abbiamo detto, si era chiamata fuori dal gioco condannandosi per di più alla sterilità politica: un partito inutile, incapace di qualsiasi elaborazione critica.

L’Odissea, in fondo, cominciò allora. Si partì per la guerra, ma già con i Proci in casa, più preoccupati a vendere quei pochi gioielli di famiglia rimasti che a forgiare le armi per la battaglia. Si scambiò Berlusconi per Agamennone, o, più semplicemente, sbagliammo ancora una volta l’acquisto dello straniero…

Dalla sua Berlusconi aveva il pragmatismo. Era il figlio, o forse il fratello, data l’età, di quei personaggi della commedia all’italiana che sono la fotografia dell’Italia del secondo dopoguerra: strafottenti, bugiardi, ruffiani, simpatici, inaffidabili, gli eroi del Sorpasso, della Voglia matta, di In nome del popolo italiano… Con in più però il successo, elemento non secondario, e sufficiente sensibilità per capire che si era chiuso un ciclo e che davanti si apriva una prateria per chi sapesse e volesse cavalcare.

E i nostri greci? Il minimo che si possa dire è che erano inadeguati. Si erano cullati nel rifiuto della storia, e ora la storia gli cadeva sulla testa. Non avendo mai fatto i conti con il proprio passato, ne erano diventati la caricatura e in più non erano mai stati in grado di prepararsi un futuro. A disagio nel “libera tutti” della fine delle ideologie, gli mancava la duttilità e la pazienza per costruire un soggetto nuovo. La spocchia e la presunzione tipica di chi confonde la tattica con la strategia, ne accorciava ancor più la vista; la voglia frenetica di esserci, di partecipare alla vittoria, fece il resto. Per arrivare più velocemente alla meta, si spogliarono di tutto. Nudi alla meta, appunto.

Cosa resta dopo vent’anni

Vent’anni dopo (il doppio dell’Iliade), che cosa resta? Un pugno di ex ministri. E’ scomparso un partito, e con esso un’identità, e per la maggior parte si è confluiti obtorto collo in un contenitore più vasto. In quell’arco di tempo, l’alternativa alla Prima repubblica si è rivelata fallimentare: niente riforme, la dignità nazionale ridotta a solita malinconica operetta, il Paese più o meno spaccato a metà, un numero elevato di concubine, qualche cognato e molti sicofanti, l’Italia consegnata mani e piedi a un governo di tecnici non eletto. Più che a Troia,  si sono accampati a Roma e c’è chi ha messo le tende a Montecarlo.

Però c’è sempre Itaca, dicono. Ma non è vero, e se anche fosse vero non ne ho nessuna nostalgia e me ne ero andato tanti anni prima proprio per questo. Era sterile, non vi cresceva nulla e in fondo non era casa mia. Ci ero arrivato navigando, come succede a chi va per mare e sa che i porti sono un male necessario. Non mi piaceva l’Italia, non mi piaceva l’immagine dell’Italia che mi veniva raccontata sui libri di storia, ero figlio di un’epoca che non sentivo mia, i gusti della maggioranza dei miei coetanei non mi appartenevano.

Ero antimoderno ancora prima di saperlo, ero scontroso, orgoglioso, timido e solitario. Appartenevo a una generazione che non aveva fatto a tempo a perdere una guerra, e però mi sentivo più in sintonia con i vinti che con i vincitori: l’orgoglio della vittoria mi ha sempre fatto orrore, ma è difficile rassegnarsi alla sconfitta senza neppure aver avuto il tempo di combattere…

Così, per quel poco che può contare, ho cercato di invertire la tendenza. Credo che la storia di una nazione la si debba assumere per intero, non la si può scegliere, come si fa con la carne o la frutta al mercato. Bisogna accettare il bene e il male, farne tesoro, ricavarne una lezione, meditare su grandezze e miserie. L’esatto contrario di quello che ha fatto l’Italia, che infatti resta un Paese fragile, compiaciuto quasi dei suoi difetti al punto di trasformarli in pregi.

Per fare politica occorre cultura

Ora, per fare politica, bisogna avere un’idea della politica, ovvero un’idea di ciò che si vorrebbe essere, altrimenti si fa del minuto commercio, si vivacchia, “si lavicchia”, avrebbe detto Totò… Ecco, noi continuiamo a lavicchiare e anche il berlusconismo è stato, alla fine, un accontentarsi sempre e comunque di lavicchiare… Per fare politica nell’ottica di cui sopra (per l’altra c’è Lusi, c’è Di Pietro, c’è Fini, mettete voi i nomi che volete, sono interscambiabili), ci vuole cultura.

Le Signorie, i Comuni, il Risorgimento, furono un fatto culturale prima che politico. Lo fu anche il fascismo, e Mussolini fu il primo politico del suo tempo a poter visitare una mostra d’arte futurista sapendo di che cosa si trattava. Ci era nato dentro, ci era nato insieme, ne parlava la lingua. Lo è stato il comunismo, quello originale e quello import-export (e per restare all’Italia lo sappiamo bene): è quella semina che produsse il successivo raccolto, e l’essere poi appassito non inficia il valore di quello sforzo.

Fra le due guerre prima, per mezzo secolo dopo, il comunismo è stata una straordinaria arma di seduzione intellettuale e i suoi residui passivi ancora permangono. Se si vuole, anche il berlusconismo ha avuto una sua cultura, l’essere in sintonia con un’epoca: la tv commerciale e i nuovi media, l’apparire, il successo tutto e subito, il liberismo spinto, il culto del corpo e della giovinezza, l’impresa e non l’impiego, il privato e non il pubblico…

C’era un’Italia stanca di una recita politica, economica, sociale che non portava da nessuna parte: il berlusconismo le diede l’illusione del cambiamento. Se dopo si ridusse a lavicchiare, come dicevo prima, è perché era una cultura troppo light, preferiva l’accordo, voleva la logica del consenso, praticava l’acquisto più che la convinzione. Ma questa è un’altra storia, anche se c’è da chiedersi come, e in che modo, in quest’altra storia stessero i suoi alleati greci.

Le coordinate di Itaca

Se nei miei vent’anni mi è capitato dunque di ormeggiare a Itaca, l’impressione, quarant’anni dopo, è che non sia cambiato nulla: le stesse taverne, gli stessi avventori, gli stessi piatti e gli stessi vini con risse annesse, le medesime puttane. E’ quello che capitò agli émigrés dell’Ancien Regime, scampati alla Rivoluzione francese e tornati in patria dopo Napoleone. Niente avevano imparato, niente avevano dimenticato.

La parola Destra è un mantra salvifico, vuol dire tutto perché non dice più niente, è un palliativo nei confronti dei nostri fallimenti. Si critica tanto l’illuminismo progressista, ma il tradizionalismo della destra è speculare: il primo insegue sempre il bene futuro dell’umanità, il secondo compiange sempre le tenebre in cui l’umanità è caduta. Peccano entrambi, anche se in maniera diversa, di irrealismo, ma la destra ha l’aggravante di un’atemporalità che la rende sterile.

Atemporalità. Sento già l’obiezione, e vorrei mi fosse almeno questa volta risparmiata. Sono qui per un dovere d’amicizia, l’ho detto all’inizio, e quindi i principi, gli archetipi, il mondo della tradizione, di grazia, vorrei se ne facesse a meno. Li do tutti per buoni, li accetto a prescindere: ma, è un modesto consiglio, se volete far politica dovrete farne a meno. E’ zavorra, non andreste da nessuna parte.

C’è comunque chi dice che destra e sinistra abbiano ancora un senso, siano discriminanti in virtù dell’atemporalità appunto della prima, della prosaica modernità della seconda. Proviamo a fare qualche esempio.

L’eutanasia è di destra o di sinistra? E la procreazione assistita? Si deve stare sempre con l’Occidente o si accettano anche le ragioni dell’Oriente? Si esporta la democrazia liberale con le armi o si pensa che ogni nazione debba scegliersi la propria strada? Siamo con i mercati per la globalizzazione o riteniamo che le frontiere abbiano ancora un senso? Vogliamo più industrializzazione, oppure puntiamo alla decrescita? Difendiamo la famiglia tradizionale o ci apriamo alle coppie di fatto? La cittadinanza per ius sanguinis o anche per chi ci lavora e paga le tasse? E l’omosessualità, e l’ideologia dei diritti dell’uomo, e la laicità dello Stato?

Le destre che stavano a Itaca nella mia gioventù, lo dico con cognizione di causa, erano interessanti intellettualmente, ma innocue politicamente. Facevano parte di un combinato disposto a cui il neofascismo offriva una dimora, scomoda, ma pur sempre una dimora. Lì potevano anche azzuffarsi e polemizzare: erano all’ombra di un sogno tramutatosi in cenere.

Adesso che anche quella cenere è stata spazzata via, bisognerebbe reinventarsi tutto da capo e, diciamoci la verità, nessuno è in grado di farlo. Vedo sbarcare in quel porto greci che in questi ultimi vent’anni si erano finti americani, o che vent’anni prima, appunto, si erano venduti al più potente alleato, oggi da loro sbeffeggiato.

Vedo greci duri e puri che esibiscono le loro dubbie decorazioni, ma tengono nascoste nel cassetto le onoreficenze e le prebende  che intanto intascarono: direzioni, posti, premi, incarichi, programmi… Perché poi in questa guerra di Troia  non c’è quasi più nessuno, fra quelli che ora a Itaca vorrebbero svernare, disposto ad ammettere di averla combattuta per conto terzi e per il puro bene proprio.

Il Cavaliere è tornato a essere il male, loro sono tornati a essere gli idealisti di sempre, crociati dell’idea. Poi dice che uno si butta a sinistra, per dirla ancora con Totò, principe della risata e principe, visti i tempi, della politica.

Vogliamo dirlo che è stata anche la fiera degli ossimori. Anarchico conservatore. Fascista libertario. Democratico individualista. Teorico del proporzionale presidenzialista, liberal comunitario, comunista nazionalista, populista aristocratico…. La fantasia, ammettiamolo, a destra non ha mai fatto difetto.

La miopia politica e culturale genitori del disastro

C’è stata una miopia politica? E’ una domanda talmente retorica che quasi me ne vergogno. E però, per averla posta, e per avervi dato una risposta in termini assertivi, non ieri o l’altro ieri, ma nel 1995, me ne dissero di tutti i colori, per usare un linguaggio  forbito. Solo che non ci voleva una mente particolarmente brillante, bastava infatti la mia, per accorgersi che quei greci di Itaca andavano incontro al disastro: bottini di battaglia, ma non la vittoria, e tantomeno la conquista di una moderna Troia.

Sarebbero scomparsi, come infatti è avvenuto.

C’è stata una miopia culturale? Idem come sopra, ma vale la pena di soffermarcisi, sia pure in breve. La classe dirigente politica, senza offesa, era mediocre, eterne seconde file che solo la falce dell’anagrafe portò insieme e d’improvviso alla ribalta. Erano i gregari a vita e di una vita e le eccezioni, si sa, confermano le regole. Aspettarsi di più avrebbe avuto del miracoloso, ma i miracoli sono merce rara: dopo lo sdoganamento berlusconiano, anche in cielo c’era chi aveva diritto al suo riposo.

C’erano però gli intellettuali. Dal 1994 al 1998 ho avuto una tribuna privilegiata. Dirigevo le pagine culturali del Giornale, berlusconiano, certo, ma di un Berlusconi appena sceso in campo con un’armata Brancaleone dove c’era di tutto: residui socialisti, spezzoni democristiani, leghisti e nazionalisti,  fascisti, neofascisti, postfascisti e libertari… Non starò qui a fare un’esegesi culturale di quegli anni, ma la delusione, quella sì, è un qualcosa che va sottolineato.

Mi ritrovai collaboratori per i quali il fascismo non era ma passato, altri che dopo averci sguazzato dentro si riscoprivano liberali, altri ancora che si facevano consiglieri di quello stesso principe fino al giorno prima sbertucciato, o che dopo aver proclamato chiaro e forte la fine della dicotomia destra-sinistra, forte e chiaro ne stabilivano ora l’irrimediabilità.

Era la sagra dell’ipocrisia, del falso e dell’ignoranza e ci vorrebbe un Balzac per darne conto. E’ che si erano rotti gli argini, arrivava la piena, ma c’era più melma che limo. In maggioranza veniva da Itaca, e questo è un altro dei motivi per cui non ci voglio tornare.

Rimango a Troia con Cardini

Fra gli interventi ospitati da Totalità, quello di Franco Cardini mi ha emozionato. Cerco sempre di tenere a bada l’età, ma mi accorgo che invecchiando il ciglio si fa comunque meno asciutto. Mi capita al cinema, se parlo in pubblico di un amico che non c’è più, se leggo articoli o libri in cui si rispecchia una parte della mia vita. Fra me e Cardini ci sono una decina d’anni o poco più, e quindi siamo vecchi tutti e due, ma quando lui ne aveva trenta ed era già più o meno in cattedra, io ne avevo venti ed ero un disgraziato senza arte né parte che voleva fare la rivoluzione e disprezzava gli intellettuali. In più Franco era cattolico e medievista, e io ero un ateo pagano (chi di ossimoro ferisce…) irrimediabilmente moderno nella mia imberbe antimodernità.

Per farla breve, mi sembrava uno dei tanti professori di cui era lastricata la via della cosiddetta destra universitaria, una via più trombonesca che aristocratica: era bravo certo, era colto, certo, ma era comunque un accademico, ovvero noia infinita al peggio, passione ben temperata al meglio.

Dieci anni dopo, lui ormai un brillante storico quarantenne e io un trentenne sempre appassionato di politica e sempre senza né arte né parte, facemmo conoscenza in un seminario di studi, Al di là della Destra e della sinistra. Costanti ed evoluzioni di un patrimonio culturale, organizzato dalla Nuova destra, di cui facevo parte, in Veneto. Della categoria degli accademici sopra ricordata, Cardini era naturalmente del secondo tipo, ma per un ignorante e un estremista del pensiero quale allora io ero, più che un pregio questo era un difetto. Fosse stato un accademico scarso e palloso, non avrei neppure perso tempo a sfogliarlo; l’essere invece interessante e intelligente me ne rendeva imprescindibile la lettura, ma inconcepibile l’utilizzo. Detto in parole povere e stupide, a chi come me sognava la presa del potere culturale, che cosa serviva sapere tutto sulla cavalleria medievale?

In quei tre giorni di convegno Franco si presentò con un eskimo e un basco da guerrigliero, la barba e il fisico alla Hemingway. Tenne un intervento sui concetti di festa e di comunità che a distanza di trent’anni ancora ricordo. Era, al suo massimo livello, una lectio magistralis, una conversazione colta, una chiacchierata fra amici, un brindisi di compleanno, un’orazione funebre e una mozione degli affetti. Era, insomma, un racconto, l’affabulazione straordinaria intorno a un tema che si tramutava in storia e memoria, passato e presente, ricordo, rimpianto e promessa. Nel recuperare radici che a un pensiero distratto potevano apparire disseccate, Cardini le faceva brillare davanti agli occhi e ne rendeva comprensibile il senso, il significato, la contemporaneità.

Ecco, tutto questo semplicemente per dire che è per me un onore starmene fra le rovine di Troia in sua compagnia.

(di Stenio Solinas - fonte: www.totalita.it)

Buttafuoco: "Gli italiani tornino ad essere navigatori"


La crisi che stiamo vivendo è soltanto economica o c'è dell'altro?

"Sicuramente in questa crisi c'è un fondamento spirituale, anzi nell'assenza di spiritualità si manifesta questa crisi. Il fatto stesso che abbiamo forgiato generazioni abituate all'idea del posto di lavoro, anzi abituate più allo stipendio che al lavoro avendo noi abbandonato quella che è stata la tradizione dell'umanesimo del lavoro questo ci ha portato a essere soltanto carne da macello a disposizione dei progetti di globalizzazione nella migliore delle ipotesi o, nella peggiore, a essere soltanto un granaio di consenso a disposizione del primo che arrivava nei nostri paraggi e dettava legge".

Rispetto alle crisi passate, sembra esserci un maggiore scoramento, quasi come se la speranza di uscire dal tunnel sia una chimera. E' d'accordo?

"Nel passato c'era un radicamento terraneo, forte che faceva sì che comunque la dimensione fosse quella della profondità, del vivere in profondità, con grande partecipazione perché c'era anche un aspetto corale forte di simbiosi. Adesso siamo solo delle monadi solitarie impazzite, tanto è vero che non abbiamo più davanti a noi una prospettiva. Ti faccio un esempio pratico?"

Prego

"Se tu metti a confronto una fotografia scattata a Scampia, allo Zen di Palermo o al Librino di Catania con una scattata in uno slum di Mombay la differenza è totale. Perché sono tutti e 4 quartieri della cosidetta emarginazione della povertà con la differenza che in quello di Mombay tu vedi brulicare la vita, vedi gente che non sta con le mani in mano, che si muove, che si agita, che fabbrica, che si adopera e che cerca di realizzare qualcosa pur nella povertà dei mezzi. Nelle tre foto scattate nelle nostre tre zone vedrai qualcuno appoggiato al muro, qualcun altro ad attardarsi in un bar, un altro ancora impegnato a cercare un cliente per lo spaccio della droga. Dopodiché il deserto totale".

Lei è anche uno studioso di religioni. C'è qualche colpa da additare al cristianesimo?

"Il cristianesimo ha smarrito totalmente quella che è l'unica vera spinta propulsiva della religioni che per dirla nel linguaggio di Nietsche è la volontà di potenza. Se tu metti a confronto una foto di una chiesa costruita nel 2012 e una moschea vedrai che la moschea è comunque bella, rifulge di potenza mentre la chiesa avrà questo effetto di grande casamento mesto, triste, disegnato secondo le esigenze e le necessità di quegli scatoloni da periferia. Queso perché nella moschea c'è la volontà di potenza, l'adesione a un progetto di bellezza. Nel cristianesimo è venuto meno. Tanto è vero che si è confusa l'identità religiosa con una specia di società di assistenza sociale, diventando solo un accomodante ufficio di ascolto sociale".

Secondo lei, siamo al capolinea o c'è spazio per una rinascita?

"La rinascita, la rigenerazione ci sarà e ha anche un destino ben preciso che è l'Eurasia. La cosa che mi fa ridere in tutto questo parlare di crisi è che noi stiamo a guardare che cosa farà la Germania, la Francia, l'Inghilterra non parliamo poi di cosa può essere la deriva statunitense, ma non ci rendiamo conto invece che vicino a noi c'è una grande potenza regionale come la Turchia che è molto più potente economicamente, commercialmente, culturalmente e anche dal punto di vista della freschezza delle generazioni rispetto a Francia, Inghilterra, Italia".

La rigenerazione risiede nella Turchia, quindi?

"La patria nostra è quella che ha saputo dare un indirizzo alla via della Seta con il percorso verso la Cina, verso le Indie, verso quella grande traiettoria dove c'era quella capacità dell'italiano di ritrovare se stesso viaggiando nel mondo. Non è un incaponirsi da erudito perché non lo sono, ma è una indicazione che devono raccogliere innanzitutto i mercati, i commercianti, quelli che devono recuperare giorno dopo giorno questo spirito imprenditoriale e riuscire a fare quello che nella storia è stato sempre segnato da chi ha saputo essere popolo di santi, eroi, ma soprattutto navigatori".

Che idea si è fatto del fenomeno dei suicidi dal punto di vista sociale e giornalistico?

"Sui suicidi la penso come il Duce. Bisogna applicare la censura, non bisognerebbe parlarne perché c'è sempre quella dimensione di contagio che poi prende l'opinione pubblica. E' pericolosissimo parlare di suicidi, applicare la morbosità come condimento dell'informazione".

Un percorso di letture per uscire dalla crisi?

"Una guida del touring club che porti attraverso il percorso della via della Seta. Solo questo, viaggiare, andarsene via".

mercoledì 27 giugno 2012

All’attacco dei rossi nel nome di Dio e del Re cattolicissimo


Può sembrare strano, a noi contemporanei, immaginare un soldato del XX secolo andare all’assalto alla baionetta recitando il rosario e invocando la Vergine. Più strano ancora se a farlo sono interi battaglioni di volontari, arruolatisi in un’armata esplicitamente e programmaticamente cattolica. Invece una tale armata ci fu, i cosiddetti Requetés «carlisti» che combatterono contro i rojos (i «rossi»: comunisti e anarchici) nella guerra di Spagna del 1936-39. Il loro essere nuovi crociati stava nello stile a cui si assoggettavano per giuramento: soccorso dei nemici feriti e preghiere di accompagnamento per i nemici caduti, rispetto massimo della popolazione civile, niente bordelli e ubriachezze, messe e comunioni al campo, vita liturgica compatibilmente con le operazioni di guerra.

Militavano nel campo dei nacionales, evidentemente, ma con le debite distanze ideologiche da Franco e, soprattutto, dai falangisti, che consideravano servi dei nazisti tedeschi (non di rado tra questi e i requetés iniziava con sfottò e finiva in risse, subito sedate dagli ufficiali). Li si riconosceva dal basco rosso, visibilissimo in combattimento, per cui venivano chiamati tomates (pomodori) o amapolas (papaveri). «Carlisti» perché i loro avi avevano combattuto, nell’Ottocento, ben due guerre a favore del pretendente al trono Carlos, fratello del re Ferdinando: il primo prometteva di restaurare l’antica monarchia tradizionale spagnola, cattolica e rappresentativa dei fueros locali; il secondo era sostenuto da liberali e massoni, nonché da italiani dello stesso credo, come Cialdini e Durando, arruolatisi appositamente. Internazionale era anche la composizione del volontariato carlista, che annoverava anch’esso italiani accorsi per difendere la civiltà cristiana.

Questa fu l’esplicita motivazione che convinse uno di loro, il romagnolo Alfredo Roncuzzi, a partire per la Spagna. Tenente requeté ma anche uomo di lettere (era scrittore e commediografo, amico di Raimondo Manzini e Piero Bargellini, sulla cui rivista Frontespizio scriveva), è il solo che abbia affidato allo scritto il resoconto di quei giorni di guerra vissuti in prima persona, dalla partenza via nave al ritorno a conflitto finito. Oggi le Edizioni del Girasole ne propongono le memorie: L’altra frontiera. Un requeté romagnolo nella Spagna in guerra, a cura di Pier Giorgio Bartoli (pagg. 262, euro 20).

Ferito più volte nel suo Tercio, racconta de visu quel che la storia ci ha tramandato: la strage di preti e suore, il terrore comunista, le distruzioni di chiese, le fucilazioni rituali delle statue di Cristo. Ma anche il clima tetro che vigeva nel campo avverso, di contro alla serena allegria nelle trincee requetés; i miliziani costretti ad avanzare con la pistola alla nuca e che, alla prima occasione, disertavano, nostalgici dei canti religiosi che sentivano nella trincea opposta. Ma quel che desta meraviglia, nelle pagine del Roncuzzi, è l’esatta coscienza del motivo per cui lui e i suoi commilitoni si erano arruolati: un regno spagnolo (nelle speranze, primizia per il resto d’Europa) realmente rappresentativo, un parlamento coi «rappresentanti di ceti qualificati e categorie produttive: esponenti del clero, delle forze armate, delle corporazioni, delle municipalità, dei sindacati ecc., non di un popolo indifferenziato, valevole solo numericamente». C’è anche una perfetta analisi del processo di scristianizzazione, cominciato dal Rinascimento e passato per la rivolta luterana, l’Illuminismo, il giacobinismo e finito, logicamente, con i seminatori di odio puro per tutto ciò che esiste.

«Il marxismo, del resto, è così: protesta, sciopera, scatena tutte le tempeste per arrivare al potere e, giuntovi, non sa più che fare di quello Stato per la cui distruzione si era mosso»; così, «impone il collettivismo, che nessuno vuole, perché tutti intendono la solidarietà nella misura del proprio benessere non soggetto quotidianamente a sorveglianza speciale, dà agio all’ateismo di diventar religione di Stato». 

E poi, l’amara constatazione: «Come diceva Donoso Cortés, le rivoluzioni avanti tutto sono malattie della gente ricca». Di fronte alle solite accuse alla Chiesa: «La Chiesa nel suo umano svolgersi presenta una società in cui il dispotismo può introdursi, in certe evenienze, di soppiatto e contro la sua dottrina; l’antichiesa, invece, è una chiesuola in cui il dispotismo è di casa e perpetuo». 

(di Rino Cammilleri)

martedì 26 giugno 2012

Giornalismo azzecagarbugli


Vedo avanzare una stagione sinistra. Quella del ritorno in grande stile degli Azzeccagarbugli che nel post Mani Pulite furoreggiarono riuscendo in pochissimi anni a trasformare i ladri in vittime e i magistrati nei veri colpevoli. Gli Azzeccagarbugli, intellettuali e giornalisti, sono specialisti nell'uso del sofisma, del paralogismo (argomento falso ma con l'apparenza di vero) e, come nel gioco delle tre tavolette, nel mischiare, a seconda di quanto gli torna comodo, i piani di discussione passando da quello giuridico al politico al sociologico, con l'intento di intorbidare le acque e rendere oscuro ciò che è chiaro, nero ciò che è bianco.

Un caso direi di scuola è l'articolo scritto da Fabrizio Rondolino, ex uomo di D'Alema, per Il Giornale del 21 giugno a proposito dell'autorizzazione all'arresto di Luigi Lusi data dal Senato: “È la prova che il giustizialismo, l'ordalia manettara, la subordinazione alla magistratura inquirente sono sopravvissuti alla fine dell'anti berlusconismo...

È un giorno di lutto per la sinistra italiana perché il valore della libertà personale è più grande delle sottigliezze giuridiche... del protagonismo plebeo che esige ogni giorno un nuovo lazzarone da impiccare sulla pubblica piazza”. Noi che, a differenza dell'aristocratico Rondolino, siamo dei cittadini plebei vorremmo semplicemente che anche i nobili fossero chiamati a osservare quelle leggi che noi tutti siamo tenuti a rispettare. Perché l'uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge è il principio-cardine della liberal democrazia, se cade questo principio la democrazia perde ogni senso e legittimità e si traduce in un neofeudalesimo, con un doppio diritto, uno per i plebei, intransigente e feroce, e uno per i neoaristocratici, così lasco e morbido da diventare quasi inesistente.

Insomma la vecchia, cara, schifosa giustizia di classe. Rondolino aggiunge: “La carcerazione preventiva è un crimine e uno scandalo... tenere le persone in prigione prima del processo significa esercitare una pressione sull'imputato che somiglia assai più alla tor tura”. Se questo principio fosse assoluto, allora deve valere anche per Giovanni Vantaggiato e per tutti coloro che sono attualmente in carcere in attesa di processo, in genere per reati molto minori di quelli imputati a Lusi, una grassazione di denaro pubblico per 25 milioni di euro che lui chiama graziosamente “un fatto di costume”. Ci sono invece casi in cui la carcerazione preventiva si rende necessaria e il Codice di procedura penale ne definisce rigidamente i requisiti. Naturalmente Rondolino parte dal presupposto, del tutto arbitrario, che questi requisiti nel caso di Lusi non ci sono e che quindi la richiesta d'arresto del Gip è illegittima: “Quali nuovi reati avrebbe potuto commettere Lusi? Quali prove avrebbe potuto occultare lui che parla con i magistrati e con i giornalisti ogni giorno? Oppure sarebbe fuggito all'estero?”. Ohè, se esistono o meno i requisiti per un arresto lo stabilisce il Gip, e in seguito il Tribunale della Libertà, e ancora successivamente la Cassazione o Fabrizio Rondolino costituitosi in arbitro e giudice unico, in Tribunale Speciale?

Noi siamo plebei, ma non proprio così cretini da non capire che, per l'ennesima volta, la classe dirigente e i suoi lacchè ci stanno prendendo in giro. Ma di fronte alle solite fumisterie non sappiamo come reagire. Non abbiamo difesa. O, forse, una difesa c'è. Quando ero all'Europeo, c'era un giovane collega, Claudio Lazzaro, bel ragazzo, alto, aitante, dolce, un po' naif e ingenuo. E nelle assemblee di redazione i vecchi marpioni del giornale gli cambiavano ogni volta le carte in tavola, il bianco diventava nero e il nero bianco. Lui ne rimaneva sconcertato e amareggiato. Finché un giorno, dai e ridai, anche il mite Claudio perse la pazienza. Si alzò e grande e grosso com'era puntò sul caporione e guardandolo dritto negli occhi disse: “Bene, allora ditemi a chi devo spaccare la faccia?”. E il bianco tornò bianco e il nero nero. È davvero a questo che volete portarci?

(di Massimo Fini)

Un maledetto nel cielo della «Pléiade»


Adesso che finalmente Drieu La Rochelle entra nella Bibliothèque de la Pléiade, la collana letteraria più prestigiosa di Francia (Romans, rècits, nouvelles, 1834 pagine, 65,50 euro), vale la pena soffermarsi sul destino di un romanziere tanto dubbioso e critico riguardo al proprio talento, quanto sicuro rispetto al cammino da percorrere: raccontare la decadenza nel segno dell'antimodernità. Raccontarla chiamando in soccorso la satira e il cinismo, per meglio offendere e quindi difendersi, l'una e l'altro messi al servizio di una grazia stilistica disinvolta, fatta di sprezzatura e di quella gravità necessaria ad affrontare un tema quale la crisi di una civiltà.

Nelle scelte fatte dal curatore Jean-François Louette, non c'è naturalmente tutto Drieu: restano fuori, fra gli altri, I cani di paglia e L'uomo coperto di donne, e non è un gran male, ma anche L'uomo a cavallo, e Una Donna alla finestra, è ed è un peccato. Ci sono, come è giusto, Fuoco fatuo, Lo stato civile, Racconto segreto, La commedia di Charleroi, Piccoli borghesi e Gilles, ed è difficile dire quale sia il più bello. Felice è anche il recupero di Bleche, il suo primo vero romanzo, comprensibile che sia Dirk Raspe, il suo ultimo e incompiuto, a chiudere la selezione.

Letti in sequenza, essi sono rivelatori di una consapevolezza critica e di una capacità descrittiva e di interpretazione quali è difficile trovare, una sorta di balzacchiana commedia umana applicata alla Francia del primo Novecento.

Trenta e passa anni fa mi capitò di definire Drieu, con giovanile protervia, «un grande scrittore fallito» o qualcosa del genere. Louette cita sul tema un'affermazione di François Mauriac, che lo collocava fra «i falliti immortali», e la giudica severa nella formula e eccessiva nei toni. Ha ragione, ma lasciando Mauriac alla sua gesuitica grandezza, nel mio piccolo vorrei cercare di spiegare meglio il perché di quel mio giudizio così reciso e così parziale.

Un primo elemento è che Drieu si sentiva a disagio nei panni del romanziere: personaggi e storie avevano per lui un valore per il significato morale che se ne poteva trarre. Spesso nei primi c'è un eccesso di caricatura, spesso le seconde venivano lasciate a sé stesse, non evolvevano, oppure divenivano estenuanti nel loro procedere minuto. Restava l'impressione di uno scrittore che messosi coscienziosamente al lavoro, di colpo ne avesse abbastanza, sentisse la noia e l'artificio, temesse quasi il suo stesso talento. Drieu è un prosatore ammirabile, e non a caso Paul Nizan lo definì, come saggista, il migliore della sua generazione, ma nel romanzo di lungo respiro è la monotonia il peggior nemico, e ne era perfettamente consapevole. Proprio perché non era attratto dalla narrazione in sé, ma dalla riflessione che avrebbe dovuto procurare, c'è nei suoi romanzi l'impazienza e insieme la diffidenza verso una letteratura intesa come religione: la religione della bella forma, la religione della perfetta architettura della pagina, lo scrittore come sacerdote di un culto assoluto. C'è sempre stata in Drieu l'idea che la scrittura fosse un succedaneo dell'azione.

Era anche questo un portato della decadenza e della modernità, il predominio della parola, meglio della chiacchiera, e insieme la fine delle gerarchie, l'incapacità della nuova classe borghese a raccogliere l'eredità della vecchia classe aristocratica sconfitta, il passaggio da una società naturale a una società artificiale, il trionfo dei diritti e non più il rispetto dei doveri. Nei romanzi di Drieu c'è un lungo rosario di fallimenti: impotenza degli uomini e infecondità delle donne, vigliaccherie dei soldati e trombonismo dei politici, velleità intellettuali e ossessione economica, corruzione del potere, della gloria, della Chiesa. È l'immagine di una società che corre verso il disastro senza saperlo, o meglio senza volerlo vedere: nessuno sa più incarnare il proprio ruolo, è il dominio della sterilità mascherata da benessere.

Nato nella decadenza propria della modernità, «il Moderno è una catastrofe planetaria», Drieu però sa di farne parte ed è questo che dà un particolare tono di contemporaneità alla sua prosa. Non c'è in lui la fuga verso l'esotismo, il chiudersi nella torre d'avorio del proprio rifiuto del mondo, la scelta di una fede trascendente. Le miserie, le vigliaccherie, il fallimento e la paura della condizione umana che egli racconta sono anche le sue: non è un giudice, è un testimone interessato, parte lesa, ma anche principale imputato. 

«Avrei voluto scrivere un libro intitolato: Pamphlet contro me stesso e i miei amici. Sarebbe stato un modo di scrivere una diatriba sull'epoca. Fustigavo senza pietà l'epoca in me, questa epoca in cui la società invecchiava così velocemente».

Tutto questo rimanda a un altro elemento, una sorta di autobiografia mascherata che è stata per certi versi la dannazione di Drieu, il prendere sempre e comunque le sue creazioni come calchi personali, il confondere i protagonisti dei suoi romanzi con il loro autore. Allo stesso modo, il fascismo politico di Drieu, in filigrana presente anche nella sua narrativa (il culto della forza, il ritorno alla natura, la necessità delle ´lites, lo spirito di sacrificio, il rifiuto della democrazia, eccetera) e come tale tranquillamente accettato fino al 1939, l'anno in cui viene pubblicato Gilles, che ne è un po' il compendio, è stata la successiva camicia di Nesso con cui la critica, letteraria e no, del dopoguerra lo imprigionerà per negarne in nome della morale ideologica ogni grandezza artistica. Scrive Louette che, a più di mezzo secolo dalla morte, il suo fascino, nonostante tutto, sta proprio nell'impossibilità di tradire lo scrittore rispetto al militante, o viceversa, tanto in lui estetica e politica facevano parte della stessa persona. Tornare a leggerlo, o cominciare a leggerlo, non è più peccato. 

(di Stenio Solinas)

Implosione Pdl: non ci sono idee


Pdl, una vera e propria implosione: neppure il più pessimista degli analisti politici avrebbe potuto immaginarla tanto devastante e tanto repentina. Nella mente e nel cuore di Berlusconi il partito era già morto da tempo. Gli irriducibili hanno coltivato qualche illusione circa la sua sopravvivenza fino a pochi giorni fa finendo per arrendersi all’evidenza dopo le discutibili uscite del leader sulla crisi, sulle elezioni anticipate, sulla fine dell’euro e sul ritorno alla lira. Ma sono stati soprattutto gli spericolati movimenti promossi dal Cavaliere all’interno del Pdl (primarie, annunci di “sorprese” che non hanno sorpreso nessuno, ammiccamenti al grillismo e ad indefinite liste civiche o di genere) a mettere tutti di fronte al fatto compiuto: l’eutanasia del soggetto nato su un predellino nel novembre 2007 e compiutamente formatosi nel marzo 2009 con un congresso che assomigliava più ad una convention aziendale che ad una assise politica.

È singolare che ancora oggi, quando nessuno più realisticamente immagina una rimonta che dopo la scissione promossa da Fini nell’estate 2010 sembrava alla portata, non ci sia un solo dirigente che s’interroghi sulle ragioni di una dissoluzione avvenuta in tempi tanto rapidi da sorprendere perfino coloro che pure avevano pronosticato un percorso accidentato alla formazione politica nata da una “fusione a freddo” o, come disse qualcuno all’epoca, da una fusione per incorporazione concretizzatasi nella fagocitazione di Alleanza nazionale da parte di Forza Italia secondo uno schema notarile e commerciale a dir poco inusitato nella formazione di aggregazioni politiche.

Ed è ancora più singolare che nessuno si chieda come mai il partito in soli quattro anni sia precipitato dal trionfale 37,8% conseguito alle politiche a poco più del 15%. Con stupore assistiamo a tragicomiche ipotesi di sopravvivenza avanzate da quegli stessi che non si sono accorti che ciò che è mancato al Pdl sono state le idee, una cultura politica nuova, un’identità: tutta roba che non s’acquista ai banchi degli illusionisti che fondano le loro ragioni sul malessere senza offrire ricette adeguate a crisi epocali come quelle che stiamo vivendo da almeno un ventennio. Al Pdl per diventare il fulcro di una mobilitazione di massa tesa all’innovazione sociale ed alla modernizzazione istituzionale occorreva una visione della politica ed un progetto organico intorno al quale chiamare a raccolta gli italiani dei quali non è riuscito a dotarsi.

Il fallimento dell’esperienza, del resto, non è stato improvviso: era iscritto nella nascita stessa del partito berlusconiano che ha declinato, soprattutto nell’ultima fase, la gestione del potere in chiave personalistica e tutt’altro che carismatica facendo crescere faziosità intestine che lo hanno balcanizzato fino a renderlo ingovernabile. Da qui la delusione stessa del Cavaliere che si è trovato di fronte ad un meccano dalle molte anime e per niente unitario, dominato da interessi contrastanti che non hanno mai trovato il modo di comporsi poiché mancavano di un minimo comun denominatore che li tenesse insieme.

Non si comprende sulla base di quale prospettiva molti pasdaran del Pdl invocano in un contesto tanto lacerato il ritorno alle elezioni a breve scadenza: una pulsione suicida sembra animarli non rendendosi conto che con la vigente legge elettorale ed in virtù della diminuzione dei parlamentari (sempre che la mini-riforma vada in porto) avrebbero una rappresentanza poco più che simbolica nel nuovo Parlamento. Non che le cose cambierebbero a marzo o ad aprile, ma se non altro verrebbero risparmiate al Paese da qui alla prossima primavera convulsioni tali da affossarlo definitivamente.

Un ragionamento semplice diventa complicato quando ognuno gioca una sua partita. Complice il Cavaliere che li ha stimolati a prevedere lo spacchettamento del Pdl (casa buona e giusta e fosse avvenuta ordinatamente e seguendo ragionamenti politici lineari e fondati), i capicorrente si sono inventate opzioni asimmetriche per tentare di salvaguardare se stessi ed i propri sostenitori. Così il Pdl è diventato un contenitore di velleità e di risentimenti che nessuno più è in grado di arginare. Altro che federazione dei moderati o degli incazzati. Ci mancava la “Rosa tricolore”, un’estrema follia o un’ultima bufala? Comunque la si pensi, può accadere che nel clima di cupio dissolvi si imbastiscano le ipotesi più bizzarre e perfino ridicole, ma che poi tanto ridere non fanno. Me ne viene in mente una. Sembra che Pdl e Lega abbiano ritrovato l’antico feeling sullo scambio tra semipresidenzialismo e Senato federale. Non so se è vero; è comunque plausibile. Ma qualcuno si è chiesto se la forma di governo può essere davvero cambiata con un semplice emendamento e se un ramo del Parlamento può essere definito “federale” posto che la forma di Stato federale non è?

Ecco, quando mancano le idee tutto è possibile. Perfino che la farsa si trasformi in tragedia. Per il Paese, naturalmente.

(di Gennaro Malgieri)

domenica 24 giugno 2012

Nella mano di Bonucci che censura Balotelli c’è l’essenza dei bulli buoni


Lo Spiegel ha torto marcio, quando si augura che l’ormai nota istantanea di Leonardo Bonucci e Mario Balotelli non diventi il dagherrotipo-padre degli Europei, la foto sigillo di quella che solo ai teutonici (e ai loro pallidi seguaci anche italiani) può apparire come una brutta sceneggiata di rancori mal sopiti e scomposti. La verità è all’opposto: il gesto di Bonucci era, sì, un modo per proteggere da se stesso l’ombroso Balotelli dopo il suo gol all’Irlanda, era al contempo l’affermazione nitida del principio d’autorità. Autorità solidale e sfacciata, corporale, quasi amorevole nella sua gagliardìa. Diremmo perfino legionaria, “fiumana”, se il richiamo al comandante D’Annunzio non rischiasse una immeritata diluizione nel cratere di miserie omosolidali e omofobiche rovesciato sui calciatori italiani negli ultimi giorni.

Non conta soltanto il fatto anagrafico – Bonucci è di tre anni più grande, come ha fatto ben notare Fabrizio Roncone sul Corriere di ieri – né si può risolvere la questione con l’anzianità della militanza in Nazionale. C’è dell’altro, e questo altro interpella sia l’efficacia volontaristica di Bonucci, che non è mai passato per “buono” (ha fama di scommettitore accarezzato da inchieste) ma si è messo al servizio di un obiettivo giusto; sia l’inattesa capacità di sottomissione da parte del purosangue Balotelli: uno che, se abbiamo decifrato a dovere il tipo, le mani in faccia non se le farebbe mettere nemmeno da una delle sue sgallettate in vena di smancerie. Invece è successo, e l’allenatore Cesare Prandelli ha così già trovato una risposta alla sua sollecitazione retorica – Balotelli deve accettare le critiche e capire che nessuno ce l’ha con lui –, l’ha trovata negli occhi fondi e stralunati con cui l’infantile gigante nero ha accettato di farsi silenziare per pochi lunghissimi secondi. E in mondovisione.

In fondo è una questione di gerarchia tribale, oltreché di convenienze: delle due teste matte all’opera nella circostanza, una ha avuto il naturale bisogno d’essere messa sotto tutela dalla compagna meno fragile. In quel frangente Bonucci rappresentava l’anima del gruppo (o del clan), si potrebbe dire secondo i canoni di un vecchio linguaggio ancorato all’etnologia, incarnava una sorta di Io totemico nel quale palpitavano tutti i vaffanculo strozzati nella gola dei colleghi in squadra, tutti gli scappellotti che Prandelli e il capitano Gigi Buffon hanno dovuto o voluto evitare di elargire all’indisciplinato Balotelli. Insomma tutte le rimozioni provocate dal timore di apparire in controtendenza rispetto al senso comune (cioè razzistelli e tendenzialmente discriminatori, secondo lo schematismo egemone) o di dover ingaggiare con Balotelli una zuffa spettacolare.

Lo Spiegel ha torto perché non c’è nulla di più umano di una pulsione sub umana tradita, esibita in pubblico ma contemporaneamente messa in sicurezza. La mano sinistra di Bonucci incollata alla bocca di Balotelli, il braccio destro a cingergli il collo in una posa a metà tra l’abbraccio e lo strangolamento, le labbra semiserrate a sussurrare minacce amichevoli: è l’essenza del miglior mondo pallonaro, il segnacolo di una passionalità popolare messa in scena da bulli buoni in cerca di gloria. Sappiamo fin troppo bene che i tedeschi prediligono la propria inespressività robotica. Ovvero che, essendo loro dei sognatori romantici (calco negativo dei poeti incompresi, Hölderlin a parte), quando si tratta di mediterranei rissosi pretendono per lo meno di godersi la nobiltà epica dei titani verseggiati da Omero. Ma il piè veloce Achille, Menelao possente nel grido di guerra e il magnanimo Ettore hanno smesso di gareggiare da molti secoli. E poi la collezione intera dello Spiegel non vale mezzo rigo di appunti manoscritti di uno Schliemann.

(di Alessandro Giuli)

mercoledì 20 giugno 2012

L'Europa ha venduto l'anima ai banchieri


Siamo prigionieri di politici che hanno rinunziato al loro ruolo per permettere ai banchieri di distruggerci come «Nazione», come «Stato», come «Popolo» attraverso un unico strumento, quello finanziario.

Sono convinta che della nostra civiltà, italiana, francese, tedesca, di quella di tutti i Popoli d’Europa, non rimarrà nulla, sopraffatta dalle invasioni africane, musulmane, cinesi, ma soprattutto dalla volontà di ucciderci che anima i nostri governanti. I banchieri ne sono lo strumento più rapido e più spietato.

Non è catastrofismo. Il libro Dopo l’Occidente , che ho presentato ieri alla Libreria Feltrinelli di via Orlando a Roma, con gli amici Barbara Palombelli e Giordano Bruni Guerri, è stato scritto anche con una segreta, disperata speranza: che ciò che affermo non avvenga; che parlandone, discutendone, mettendo il quadro davanti agli occhi di tutti, qualcuno sia spinto ad agire per impedirlo. Saremmo ancora in tempo, infatti, se domani, non più tardi di domani, l’Italia desse il segnale della ribellione al suicidio, della volontà di riappropriarsi di se stessa, della propria identità, della propria cultura, della propria storia, quella storia attraverso la quale siamo riusciti con tanta fatica e tanto coraggio a diventare liberi, liberi del dominio papale, del dominio austriaco. Liberi, liberi, liberi, ma vi rendete conto? Come si è potuto pensare di far ritornare gli italiani ad obbedire agli stranieri? Chi ha potuto credere che gli italiani, e non soltanto gli italiani, ma tutti i popoli d’Europa non sarebbero morti, morti nell’anima, prima ancora che nelle proprietà e negli affari, così come appaiono oggi, nel trovarsi prigionieri e fustigati di volta in volta da un tal ignoto belga, da un talaltro ignoto tedesco, sudditi di un impero surreale, creato a tavolino da quei pochi potenti che aspirano al governo mondiale e che debbono necessariamente perciò distruggere le nazioni, i singoli popoli.

L’Europa unita non esiste e non può esistere salvo che inducendo i popoli alla morte politica e civile; facendoli guidare, dominare da banchieri nel nome del denaro, della moneta. Oggi ne abbiamo avuto l’ennesima prova. La Borsa va male, come al solito, o perfino peggio del solito. Tutti quelli che credevano e speravano che in base ai risultati delle elezioni in Grecia, interpretati come una risposta «pro euro», finalmente la Borsa avrebbe cominciato a dare qualche segnale positivo, esprimono il proprio disappunto come se davvero la catastrofe provocata dall’unificazione europea potesse essere annullata con il grido di sottomissione emesso dalla vittima all'ultimo respiro nel momento in cui il carnefice sta per stringerle definitivamente il cappio al collo. I greci hanno appunto detto di sì perché avevano il cappio al collo. I governanti, politici e banchieri, che esultano per questo risultato, si rivelano per quello che sono: ripugnanti usurai che la penna di Balzac non sarebbe sufficiente a descrivere.

La cosa più tragica, poi, è che non sono soltanto avidi usurai: tutti i banchieri, salvo le rare eccezioni di coloro che hanno accumulato grandissime ricchezze riducendo sul lastrico milioni di persone, sono di mediocrissima intelligenza e commettono enormi errori nella loro cupidigia come dimostrato dalle crisi di cui stiamo pagando il conto dal 2008 a oggi. Non sono stati forse i banchieri a scrivere il trattato di Maastricht, capolavoro d’ignoranza e di falsità, a progettare la moneta che ci ha portato al disastro?

Non c’è nulla di più vergognoso e stupido che mettere a capo delle istituzioni dei banchieri. Dobbiamo trovare il modo per liberarcene.

(di Ida Magli)

Marco Tarchi: la Siria e l'ipocrisia occidentale


RingraziandoLa anticipatamente vorrei chiedere la sua opinione sulla situazione della Siria e il rischio di  una nuova guerra. Il Ministro Terzi in una intervista al Corriere della sera parla dell'ineluttabilità del ricambio di potere a Damasco e lo considera il modo migliore di conservare amicizie nel mondo arabo, proponendo l'intervento di caschi blu con la capacità di autodifesa per fermare la violenza.Qui bisogna essere chiari - dice il ministro - una cosa è fornire armi agli oppositori, altra molto diversa sarebbe intervenire militarmente . Lei cosa ne pensa...

Da molti anni le potenze occidentali praticano una forma di ipocrisia particolarmente insidiosa. Dall'Iran all'Afghanistan, dalla Libia alla Siria - e si potrebbe continuare con gli esempi - accampano pretesti per legittimare agli occhi delle opinioni pubbliche dei propri paesi azioni militari che in realtà corrispondono solo ai loro interessi geopolitici e/o economici. Il caso siriano non è che il più recente, e non è nemmeno originale. Ricalca uno schema ormai noto. Si favoriscono rivolte contro governi che sono considerati di ostacolo, le si esalta mediaticamente calcando i toni emotivi e facendo apparire lo scontro politico come una lotta fra il Bene (i ribelli) e il Male (i regimi esistenti). Si offre sostegno d'ogni tipo - inclusa la fornitura di armi sottobanco - ai rivoltosi, per far scoppiare la guerra civile. Quando questa è esplosa, non la si ammette ma ci si limita a parlare di una crudele repressione contro i dissidenti. Le uccisioni di parte governativa durante il conflitto sono presentate come massacri; di quelle di parte ribelle non si parla o se ne presentano le vittime come inevitabili "danni collaterali". Infine, dopo una martellante campagna contro le "negazioni dei diritti umani" e una prima fase in cui si parla genericamente di necessità di "trovare una soluzione", di "riportare la pace", di "creare canali umanitari per i profughi", di "procedere per via diplomatica", si passa all'azione. Che l'Onu voti oppure no, si reclama ancor più ipocriticamente il dovere di "proteggere i civili" (solo quelli che abitano le zone dove più forte è la presenza ribelle, beninteso) e, su questa base, si passa all'azione militare a favore degli insorti. Bombardamenti, azioni sul terreno di commandos infiltrati, eccetera. Fino a cogliere il vero obiettivo: eliminare a qualunque costo la situazione politica sgradita e tentare di imporre un regime di proprio gradimento. Come abbiamo visto e stiamo vedendo, non sempre quest'ultimo obiettivo viene raggiunto, ma quello è lo scopo. E la Siria non è che il prossimo tassello di questo mosaico. Che ne comporterà altri, dato che l'obiettivo finale è ampliare quanto più possibile la sfera di dominio "occidentale", cioè statunitense, sul pianeta.

(fonte: www.ariannaeditrice.it)

Il senso di una storia


Una Destra è sempre esistita, è tale prima ancora come atteggiamento culturale, filosofico, mentale, che determina solo dopo una categoria del politico.

Essere di destra significa appartenere a una modalità prepolitica, aderire a una visione del mondo e della vita, frutto di una concezione che pone al centro dell'universo l'individuo, l'uomo, fondato sulla libertà e sulla spiritualità del suo agire.

Si è molto dibattuto sul superamento o meno delle categorie di destra e sinistra; in realtà al di là dei nominalismi l'antinomia culturale, intesa in senso schmittiano, fra conservatori, tradizionalisti, identitari, comunitari, idealisti da una parte, e progressisti, positivisti, illuministi, razionalisti, comunisti dall'altra, è sempre esistita e sempre esisterà.

La storia dimostra come i tentativi di approdare a un pensiero unico siano sempre miseramente falliti. Una Destra sopravvivrà anche nel nuovo millennio, anche se, come tutte le categorie filosofico-politiche avanza, si aggiorna, assume il senso dei tempi ai quali ci riferiamo, lasciando alla radice una visione del mondo e della vita.

In Italia, come nel resto dell'Occidente, questa modalità prepolitica ascrivibile alla Destra ha radici lontane che sposano l'italianità più profonda, da Dante a Machiavelli, a Vico, a Manzoni, a Croce, Gentile, fino alle avanguardie del primo Novecento. Epoche diverse, contesti storici diversi, individualità spiccate, ma al fondo una visione comune che esalta la tradizione degli uomini quale «morale della Storia» destinata a offrire coesione agli «spiriti di popoli» (Völkergeister) e dove il potere non è tirannia, ma è chiamato a rappresentare la communitas, un popolo unito dalla storia.

Proprio alla luce di queste premesse balza agli occhi il paradosso italiano degli ultimi anni, riassumibile nella formula prezzoliniana de "la Destra che non c'è". In un passaggio epocale segnato dalla drammatica crisi, innescata dal fallimento di quel "progetto eurocratico" coltivato dai salotti giacobini e dai poteri forti, quando la realtà ontologica rilancia de facto una risposta di Destra, la sua visione basata sul radicamento nazionale (Volksgeist), il suo organicismo comunitario, questo luogo politico in Italia non esiste più.

Un paradosso che diventa una sofferenza esistenziale per chi ha declinato certi valori in tempi di emarginazione e nei quali si negava alla Destra addirittura il diritto ed esistere.

La società globale rischia di portare l'umanità al disastro, sia il turbocapitralismo che la socialdemocrazia hanno mostrato le loro insufficienze nell'organizzare una risposta credibile, si sono affidati a soluzioni tecnocratiche inodori e insapori. «Stiamo per assistere al ritorno dell'identità nazionale», ha scritto Simon Jenkins sul Guardian.

«Il laissez-faire e la tecnocrazia internazionale non forniscono una valida alternativa allo stato-nazione», ha aggiunto l'economista di Harvard Dani Rodrik. Così mentre l'Europa, dalla Francia, alla Svezia, all'Austria, alle Fiandre, al Belgio, all'Ungheria, alla Polonia, pullula di risposte di destra al nichilismo europeo, in Italia la destra non c'è più, liquefatta al sole di alleanze ed esperimenti sempre più precari.

La politica necessita, oltre che di programmi sull'immanente, di visioni, di prospettive, di coltivare destini. Giuseppe Prezzolini (nella foto n.d.r.), in un lungo articolo, apparso il 29 aprile 1973, a pagina due del Corriere della Sera, l'unico che abbia mai scritto per il quotidiano di via Solferino, elencava le ragioni della Destra. A distanza di decenni alcuni di quei contenuti restano intatti nella loro freschezza proprio perché ancorati a una dimensione iperpolitica.

Per decenni l'essere di destra ha inciso nella carne viva di ciascuno di noi. Può tutto finire così? È giusto che finisca così? Chi ha avuto il merito e la fortuna, l'onore e l'onere, di fare il ministro, il parlamentare, il sindaco o ricoprire altri incarichi di prestigio non può non avvertire il senso di responsabilità storico rispetto al vuoto che vicende - poco nobili e molto personali - hanno determinato.

Rifare una Destra, riannodare il senso di un'identità storica non significa tornare indietro, chiudersi, o tantomeno isolarsi. La Destra italiana non deve certo rinnegare quel percorso di modernizzazione e attualizzazione storica compiuto nell'ultimo ventennio. Nessuna nostalgia del ghetto.

Tuttavia, proprio per evitare l'insorgere di derive irrazionali, per le spinte che vengono dal contesto globale, per l'oggettiva necessità di risposte forti, per la domanda di difesa dell'identità nazionale (soprattutto su un piano economico), la Destra deve riappropriarsi della sua identità in maniera autonoma e autosufficiente.

Poi, in un sistema di alleanze aperto, ben venga il dialogo programmatico con cattolici, popolari europei, liberali, riformisti di origine socialista, e tutte le altre espressioni delle culture moderate che vogliono essere antagoniste al giacobinismo italiano.

Non irrilevante appare un'altra questione. Negli anni '70 il Pci vantava la cosiddetta diversità morale, quella che Pasolini esaltò nella formula «un'altra Italia nell'Italia». Non sappiamo se questa diversità fosse fondata, sta di fatto che anche la Destra italiana può vantare una sua diversità morale che accompagnò nobili battaglie e che sostanzia una tradizione incompatibile con certi stili di vita, visioni padronali che stanno distruggendo il Pdl.

Non è detto che questa sia una ricetta certa, che il ritorno ad Itaca possa funzionare ma non si può far finta di nulla, questo è inaccettabile.

(di Gennaro Sangiuliano)

lunedì 18 giugno 2012

Democrazia e violenza


Il Foglio ci informa che “la filosofa femminista” Luisa Muraro in un pamphlet intitolato "Dio è violento" riflette sulla legittimità dell'uso della violenza in democrazia, contro il potere democratico. Ne è nato un dibattito in cui sono intervenute soprattutto femministe, più o meno storiche, che disinvoltamente dimentiche dei loro mantra sulla 'non violenza' con cui ci hanno fracassato i coglioni per decenni, propendono per una risposta affermativa sia pur in termini sufficientemente contorti per poter ritirare la mano dopo aver scagliato il sasso.

Per la verità questa questione io l'avevo già posta nel 2004 con un libro "Sudditi. Manifesto contro la democrazia" che ebbe un largo consenso di pubblico (150 mila copie, allo stato) ma fu silenziato dall' 'intellighentia'. Non capisco (o forse capisco fin troppo bene) perchè se certe cose le dice la Muraro meritano considerazione mentre se le dico io, magari con un certo anticipo, no. Ma lasciamo perdere. E' indubbio merito della Muraro aver scelto il momento giusto. Perchè dopo mezzo secolo di oppressione partitocratica che ci ha portato al punto in cui siamo, e non solo dal punto di vista economico, c'è in giro – è inutile nasconderselo – una gran voglia di menar le mani.

La cosa è ovviamente delicatissima. Per ragioni legate alla nostra storia recente e per questioni teoriche. Già nel '68 si sosteneva che la violenza era legittimata dalla "violenza del sistema". Ma il '68 è stato una cosa "comica e camorristica" per usare un'espressione di Luigi Einaudi a proposito della massoneria, di figli della borghesia che sciamavano per le strade urlando “Uccidere un fascista non è reato”, “fascisti, borghesi ancora pochi mesi”, ma che in realtà aspiravano solo a diventare direttori del Corriere della Sera o conduttori di qualche programma Tv. Più serio è stato il terrorismo ma, a parte che, come il '68, cavalcava un'ideologia morente, il marxismo-leninismo, non è certo questo il genere di violenza cui pensa la Muraro, ma a una violenza di massa, una violenza di popolo.

Questione teorica. Le democrazie non dubitano che sia legittimo abbattere i dittatori con la violenza (è una questione che si è posta fin dall'antichità, già Seneca si domandava “è lecito uccidere il tiranno?”). Tanto è vero che le 'rivolte arabe' sono state viste con grande favore e in alcuni casi (Libia) aiutate anche 'manu militari', per altro del tutto arbitrariamente.

Ma in democrazia? Che bisogno c'è della violenza? C'è il voto. La Muraro sostiene che la violenza è diventata legittima perchè, di fatto, si è rotto il 'contratto sociale'. Interpellato a mia volta dal Foglio ho risposto “più che morto il contratto sociale non è mai esistito”. Perchè la democrazia rappresentativa non è mai stata, fin dalle sue origini, democrazia, ma un sistema di oligarchie, di aristocrazie mascherate, di lobbies, di partiti, che schiacciano il cittadino che ad esse non si adegua, che non ne bacia le babucce, riducendolo allo stato di suddito. Per quanto possa sembrare paradossale è stata proprio la democrazia rappresentativa a tradire il pensiero liberale che voleva valorizzare capacità, meriti, potenzialità del singolo individuo, dell'uomo libero che non accetta queste subordinazioni feudali e che sarebbe il cittadino ideale di una democrazia, se esistesse davvero, e ne diventa invece la vittima designata.

Contro questa truffa ben congegnata è lecita la rivolta, anche violenta se occorre. Del resto le Democrazie sono nate su bagni di sangue e non si vede ragione alcuna per cui, avendo tradito quella che doveva essere la loro essenza, non si possa e non si debba rendere loro la pariglia.

(di Massimo Fini)

Non confondiamo il Buddismo con le buddanate

 
Tra pochi giorni il Dalai Lama torna in Italia e un suo nuovo libro si abbatte nelle librerie, con un titolo che rende appetibile il buddismo come una tisana di felicità: La felicità al di là della religione (Sperling&Kupfer). Il Buddismo è la «religione» più amata, o quantomeno più tollerata, dall'ateismo pratico d'occidente e dalle sue vestali laiche. Va forte nei media e nei supermarket della fede, spopola a Hollywood, a differenza del cristianesimo. Le conversioni delle star a Budda non si contano: da Richard Gere a Oliver Stone, da Sharon Stone a Sting, da Keanu Reeves che interpretò Budda nel kolossal di Bernardo Bertolucci a Tiger Woods e Steven Seagal, dai cantanti Patty Smith a Leonard Cohen, fino a Roberto Baggio a non pochi sessantottini in vena mistica, anche Sabina Guzzanti. Alla causa buddista si avvicinano in tanti, perfino Dacia Maraini, forse in ricordo di suo padre Fosco, e vanno forte gli ingegneri guru sul web coi loro corsi di meditazione buddista. Ma la consacrazione più eclatante del buddismo è la conversione di Lisa, la figlia pensante di Homer Simpson: quando arrivano pure i cartoons, è fatta, il buddismo entra nel canone occidentale. Il Dalai Lama piace in Occidente, è una specie di pop star accolto nelle istituzioni e in tv. E tuttavia in Tibet le persecuzioni cinesi continuano, i buddisti continuano a darsi fuoco, la repressione dell'antica anima religiosa prosegue come sotto il regime di Mao e poche e sfuocate sono le reazioni.

Il Buddismo ha un'aura di religione dolce, innocua e light. Esprime festosa e colorita mansuetudine e spiritualità da nirvana, leggera e nutriente. Contro «quest'aura di santità inscalfibile» del Buddismo giunge ora un libro di Roberto Del Bosco, che non ha qualifiche particolari per occuparsi del tema ma che viene pubblicato dalla casa editrice ipercattolica Fede & Cultura di Verona (Contro il buddismo. Il volto oscuro di una dottrina arcana, pagg. 151, euro 15). Ma il libro è interessante perché dà corpo a un crescente malumore del mondo cattolico più legato al tradizionalismo davanti a questa invasione pacifica di campo del buddismo in occidente. Del Bosco denuncia il buddismo come una dottrina della distruzione e del nulla infernale, ben accolta nel politicamente corretto, ma istigatrice di violenza, di perversioni sessuali nel nome del Tantra, di stupri e coprofilia rituali, pedofilia e suicidi, sacrifici umani e perfino massacri. Coglie spunti sparsi e assai eterogenei: per esempio il fatto che il primo test atomico indiano voluto da Indira Gandhi si chiamasse «Budda ha sorriso». Chiama in causa le edizioni Adelphi che veicolano in Italia libri di ispirazione buddista, e sottolinea gli intrecci del buddismo con il nazismo, l'estrema destra, fino a parlare di fasciobuddismo. E su questi temi getta o rilancia ombre nere su grandi studiosi del buddismo e dell'oriente come Giuseppe Tucci, Pio Filippani Ronconi e lo stesso Julius Evola. Ma allo stesso tempo si insinua lo zampino della solita Cia per sostenere il buddismo e si ricorda che il Dalai Lama si sia una volta definito marxista. La foga antibuddista porta Del Bosco perfino a prendere le parti dei loro persecutori cinesi e maocomunisti.

Ma le pagine più discutibili riguardano le responsabilità buddiste nei massacri e nelle guerre, Vietnam in testa, lo strascico mondiale del '68, fino allo Sri Lanka. Fino alla tesi un po' forzata che i bonzi buddisti cerchino il martirio per propaganda: sarebbe facile e altrettanto assurdo applicare la stessa tesi ai martiri cristiani. Ed è pericoloso per un cristiano attribuire alla religione le nefandezze e i fanatismi di alcuni suoi seguaci. Fino al responso definitivo di condanna: «C'è un potenziale apocalittico inarrestabile dietro al buddismo tantrico... il mondo che vuole Budda è molto simile all'inferno». Comunque la si valuti, la lettura di Contro il buddismo è originale e in controtendenza e soprattutto riaccende un po' di spirito critico sui fenomeni religiosi ridotti a mode. Dopo decenni di terrore ad opera del fanatismo islamico, qui viene indicato in Budda il nuovo nemico per l'Occidente. Considerando la potenza crescente di Cina e India, e il rischio occidentale di soccombere a loro, c'è da aspettarsi che spunti un'Oriana Fallaci che suoni la sveglia per una crociata antibuddista?

Gli dà manforte il quindicinale «cattolico antimodernista» Sì sì no no che nel suo ultimo numero attacca uno dei guru del nostro tempo, Raimon Pannikar, filosofo morto due anni fa e ispiratore delle giornate interreligiose di Assisi, criticando il suo catto-buddismo (più elementi di induismo). In realtà il sincretismo di Pannikar, prima che religioso e culturale, è biografico e genealogico, perch´ era figlio di una cattolica spagnola e di un indiano hindu.

La sua opera completa è ora in via di pubblicazione dall'editrice cattolica Jaca Book (il suo primo tomo filosofico-teologico è Il ritmo dell'essere, pagg. 538, euro 68). Perfino l'esortazione saggia del Dalai Lama rivolta agli occidentali di non abbandonare la propria religione per convertirsi al buddismo - «cambiare religione causa sofferenza», e spesso nasce da «curiosità superficiale» - viene letta dall'autore di Fede & Cultura al contrario, come «uno stratagemma di un grande piano di possessione». Non mi pare che il buddismo preveda la missione di convertire «gli infedeli». L'appello del Dalai Lama ci sembra invece sensato per reagire al supermarket delle religioni e al tentativo di usare il buddismo come una specie di dieta e di tè verde, di salutismo spirituale e benessere psico-termale.

Ma il buddismo fesso d'Occidente, venuto dal cinema, dai consumi e dal vuoto, non può oscurare e demolire la grande tradizione buddista che merita attenzione e rispetto. Né si può onestamente negare che in un Occidente in crisi, annegato nell'io e nei consumi, depresso e tossicodipendente, il buddismo sia concepito da molti disorientati come una mezza ancora di salvezza e una risposta più sana rispetto alle ideologie o alla psicanalisi. Si tratta insomma di distinguere tra chi lascia la religione cristiana per il buddismo, che ci sembrano in verità assai pochi, e chi invece si aggrappa al buddismo per risalire la china del nichilismo. Perché il buddismo non toglie fedeli alla Chiesa, ma utenti alla cinica società della tecnica e del mercato. Si tratta di distinguere tra buddismo e buddanate. 

(di Marcello Veneziani)

sabato 16 giugno 2012

Franco Cardini ai ‘camerati’: “La prossima rotta? Non passerò da Itaca”


A Itaca, o da qualunque parte dell’Ellade veniate, cari camerati, tornateci voi. Io sono vecchio: e passata la settantina si perdono tanti bei piaceri e tanti invidiabili vantaggi, forse non si diventa nemmeno tanto più saggi (anzi, per la verità c’è il pericolo di rimbambire…), ma in cambio si acquista l’impagabile diritto di dir ormai quel che si vuole.

Cari fratelli di non so più quale sponda, siamo stati felici anche quando eravamo o ci ritenevamo o fingevamo di essere degli Arrabbiati. In fondo, il mondo era nostro: di noialtri happy fews, di noi emarginati e ghettizzati, odiati e disprezzati, discriminati e perseguitati, ma anche Signori dell’Isola-Che-Non-C’è, Sovrani dell’Agartha misteriosa, Custodi dell’Ultima Dimora Accogliente al di là della quale c’è l’Ombra che si allunga da est, Sentinelle dell’ultima ridotta che veglia sul Deserto dei Tartari. Ed era nostro anche l’Avvenire: quello del Mito e dell’Apocalisse, anche se non proprio quello della Storia.

Era una strana follìa, la nostra. Chi prima chi dopo, tra gli Anni Quaranta e gli Anni Novanta del secolo scorso, per mezzo secolo circa – e non è poco… – abbiamo continuato a viver intensamente e appassionatamente di politica e qualcuno anche a morirne: eppure, non è che facessimo sul serio politica nel senso proprio e corrente di tale termine. Quella, ci ripetevamo, erano i politicanti e i politicastri a farla: e il politicume non c’interessava. Erano i nostri miti, quelli che inseguivamo. L’Europa che non c’era mai stata anche quando era sembrato che ci fosse, gli dèi che muoiono e che risorgono di cui parla Drieu La Rochelle, la Nazione strettamente legata alla Giustizia Sociale, l’Europa consumata nel rogo di Berlino e schiacciata dai carrarmati sovietici per le strade di Budapest. La Tradizione risplendente di sole dorato e il Fascismo immenso e rosso. Anche dall’altra parte, per noi boscevichi e borghesucci non erano nulla di concreto: erano grotteschi fantasmi creati nella Terra di Mordor, dove l’Ombra cupa scende. Non avevamo certo tempo di scender da cavallo per guardar che cosa ci fosse sotto le pieghe del Capitale di Marx o dentro gli armadi delle banche di mister Adam Smith. A sistemar quella paccottiglia bastavano una riga di Nietzsche, un verso di Pound, un aforisma di Sorel. Com’è bello, al limite quanto è comodo, essere dei puri e assoluti Sconfitti! Che ebbrezza sentirci liberi dalle avvilenti responsabilità reali e concrete, esenti da mediazioni e da relativizzazioni, perfettamente intangibili dinanzi al sudore e al fango di chi, vincendo, era obbligato a sottostare al giogo umiliante del mondo!

E intanto, attorno a noi, si srotolava la Commedia Umana di chi invece viveva del nostro entusiasmo e del nostro amore per le Vette innevate. Avvocaticchi e onorevolucci avvinghiati ai loro collegi, amministratori oculati del ghetto dove si agitavano bravi e onesti travet del nostalgismo littorio e ragazzacci rissosi che si divertivano a picchiarsi uno contro dieci, picchiatori il più delle volte a loro volta picchiati. Loro si arrampicavano sulla roccia del nostro entusiasmo, andavano a Montecitorio e a Palazzo Madama grazie ai manifesti che noi attaccavamo di notte, distribuivano stentorei A noi! durante grevi cene cameratesche e quindi, sottobanco, svendevano al politicantume clericale e moderato i voti raggranellati nel nome della Rivoluzione affinché venissero metabolizzati in moneta corrente e politically correct, biglietti della Banca del Trasformismo e cambiali pagabili alla Borsa dello Scambio dei Piccoli Favori. Fu così che, da Michelini a Fini, si bruciarono i nostri entusiasmi e si consumarono le nostre illusioni.

Ritualmente, a intervalli più o meno regolari, le nostre successive generazioni si svegliavano dal sogno incantato e se se andavano. Spesso sbattendo la porta, più sovente alla chetichella e a testa bassa. Chi cercava un lavoro, chi si faceva una famiglia, chi pensava alla carriera, chi si accorgeva di aver intanto cambiato idea e chi si rendeva conto di non averne mai avuta una al di là dei simboli e degli slogan, spesso démodés e di cattivo gusto. Qualcuno, come Roberto Mieville o Adriano Romualdi, moriva. Qualcun altro, come Roberto Vivarelli o Beppe Vacca o Giulio Salierno o Carlo Mazzantini o Stanis Ruinas o Antonio Pennacchi o i “ragazzi di vita” di Pierpaolo Pasolini, passava al “nemico” (ammesso che fossequello il nemico): magari per un paradossale eccesso di coerenza e di fedeltà, come forse sarebbe accaduto a Berto Ricci se non fosse andato lucidamente e disperatamente a cercar la Bella Morte.

Eppure, qualcosa era rimasto. Finché, politicantismo parlamentare e ipocrisia di federali e di funzionari a parte, le condizioni politiche ci obbligavano a un iterato nondum matura est, restava l’illusione di essere degli emarginati perché, in un mondo di vili e di corrotti, noialtri eravamo nonostante tutto migliori degli altri. Finché c’erano gli altri a considerarci diversi, a ripetere che il miglior fascista era quello morto, la nostra Voce poteva pur orgogliosamente dirsi quella della Fogna. Nell’immenso oceano delle idee confuse sì ma non certo poche, nel Grande Magazzino di noialtri Eversivi e Refrattari, c’era tutto e il contrario di tutto. C’erano il Sacro Romano Impero e la Vandea, la fedeltà al Re (“Dio guardi!”) e al Papa-Re, ma anche la Rivoluzione sociale e il mito – nato “a sinistra” contro il Trono e l’Altare, scivolato “a destra” contro la sovversione materialistica – della Nazione.

Che cos’era dunque la Destra, che cos’era la Sinistra? Se lo sono chiesti in tanti, ce lo siamo chiesti in tanti, prima di Giorgio Gaber. A suo tempo, qualcuno ha dato perfino ascolto ad Armando Plebe e un po’ tutti abbiamo giocato al quiz proposto da “L’Espresso”, quello col cane di destra e il gatto di sinistra, la vasca da bagno di destra e la doccia di sinistra, il bluson noir e gli stivali a punta di destra e l’eskimo innocente di sinistra, Battisti (nel senso di Lucio) di destra e Guccini di sinistra.

Quando avevo vent’anni e mi piacevano Nietzsche, Sorel e un po’ anche Bakunin, ero missino ma la destra non mi diceva nulla: mi piaceva il gesto di D’Annunzio che scavalca i banchi parlamentari correndo a sinistra, “verso la vita”, mentre sapevo bene che Mussolini aveva scelto per la sparuta pattuglia dei deputati fascisti entrati di fresco a Montecitorio la destra come cosciente provocazione contro la “Destra” e la “Sinistra” storiche dell’Italietta.

Se il pugnale del Luccheni a lacerar la carne dell’imperatrice Elisabetta mi appariva già da allora un sacrilegio blasfemo, vedevo in cambio in Gaetano Bresci che spara al “Re Buono” un giusto vindice dei cannoni dell’infame Bava Beccaris puntati a zero contro la povera gente: e un giovane geniale universitario, Gabriele Truci – filosofo e musicologo, beethoveniano di stretta osservanza, caduto a ventitré anni dal cielo sullo Starfighter che guidava come sottotenente d’aeronautica – mi confortava nel mio “fascismo di sinistra” figlio sia pur discolo della gloriosa Unione Sindacale Italiana; contemporaneamente a quella scelta storico-politica, però, mi affascinava la “Destra cosmica” proposta da Attilio Mordini, da Fausto Belfiori, da Primo Siena: gli eletti alla Destra del Padre, il Destra versus Sinistra come il Sopra divino contrapposto al Sotto infero, Luce contro Tenebra. Del resto ero cattolico, come con qualche occasionale debolezza sono grazie a Dio sempre rimasto: e mi sentivo fermamente, solidamente ancorato alla Dottrina Sociale della Chiesa alla quale amavo avvicinare la bozza di costituzione della Repubblica Sociale, i “Diciotto Punti di Verona”, almeno per i capitoli dedicati appunto all’economia e alla socialità. Il mio ideale sarebbe stato la quadratura del cerchio, la composizione di quell’ossimorico enigma, la conciliazione tra Sinistra storica e Destra ontologico-metafisica.

Ma ci si poteva accontentare anche di meno. Per molti di noi, la Destra stava nell’inginocchiarsi dinanzi all’Altare della Patria; per molti altri, nel sogno di vederlo saltar in aria. Si stava “a destra” con De Maistre e con Donoso Cortés, con Schmitt e con De Unamuno; ma anche con Sorel e con D’Annunzio, con Mussolini e perfino con Perón; qualcuno, tra Anni Settanta e Anni Ottanta, decise di stare “a destra” perfino col “Che” Guevara. Si evitava accuratamente di porci qualche imbarazzante questione: stendevamo un velo pietoso, e forse anche un po’ ipocrita, su quello che per analogia con il “socialismo reale” potremmo definire il “fascismo reale”, quello del compromesso con il capitale, della repressione poliziesca, del colonialismo tardivo ma non meno feroce, del razzismo e del genocidio. In quanto “fascisti immaginari”, ci autoassolvevamo da colpe e da doveri di critica: la nostra emarginazione ce lo consentiva in quanto non c’imponeva né discussione né verifica. Il nostro sogno era la conciliazione fra Tradizione, Nazione e Giustizia Sociale; e quindi l’avventura cavalleresca, Ungern e Harrer, Lawrence d’Arabia e i mercenari “cuori-di-tenebra” nel Katanga. Mitologia, mitopoietica, metapolitica, antipolitica.

Un po’ più di rigore storico, forse, sarebbe stato necessario: e, come si recita nel seder pasquale ebraico, “ci sarebbe bastato”. Allora avremmo visto bene, e ce ne saremmo accorti con chiarezza, come la radice dei nostri malintesi e dei nostri disagi stava tutta – Zeev Sternhell lo ha spiegato bene – nel groviglio di eventi e nel piano inclinato di malintesi maturato tra la “rivoluzione” del 1830 e quella del 1848, quando le borghesie europee, impaurite per l’ascesa del Quarto Stato, avevano mischiato le loro idee, le loro aspirazioni e i loro interessi “nazionali” con una buona dose di quelle istanze “tradizionaliste” che fino ad allora erano state proprie di una  Destra cattolica, legittimista e comunitarista che esse avevano fino ad allora odiato e considerato la sua massima nemica. Da quel foedum impius era derivato tutto il resto: quello era stato – cari camerati che volete tornare a Itaca – il “”cavallo di Troia” attraverso il quale capitalismo, borghesismo e liberismo si erano insinuati in quel che restava del bastione antimoderno compromettendolo del tutto.

Perché la radix omnium malorum, non dimentichiamolo, è la rivoluzione della Modernità intesa anzitutto come individualismo e come Volontà di Potenza connessa con l’inversione – maturata tra XII e XVI secolo e sfociata nella follìa conquistatrice e rapinatrice del mondo – del rapporto tra produzione e consumo, quindi con il primato dell’economico e con il processo di secolarizzazione che ha desacralizzato il potere politico e del quale le Chiese cristiane storiche dell’Occidente sono esse stesse corresponsabili. Individualismo e Volontà di Potenza che ci hanno strappato dall’antica, millenaria regola secondo la quale si produce per consumare, che ci ha obbligato a consumare per produrre sempre di più, che ci ha resi schiavi delle regole del profitto e del progressismo faustiano, che ha distrutto progressivamente qualunque “cultura del limite”.
La grande apostasia è cominciata quando l’Europa ancora cristiana ha definitivamente accantonato la prospettiva scolastica del rapporto tra homo e communitas come un rapporto tra imperfezione e perfezione, e quindi della perfezione della comunità di fronte all’imperfezione del singolo individuo – che non diventa persona se non nella sua dimensione sociale, nel suo rapporto con gli altri – ch’era fondata sulla base di un’unità e di una gerarchia esistenti nella società in analogia con quelle che reggevano il cosmo: perché “sicut homo est pars domus, ita domus est partis civitatis: civitas autem est communitas perfecta, ut dicitur in Politicae. Et ideo sicut bonum unius hominis non est ultimus finis, sed ordinature ad bonum commune, ita etiam et bonum unius domus ordinaretur ad bonum unius civitatis, quae est communitas perfecta”; e di conseguenza, “bonum proprium non potest esse sine bono comuni vel familiae vel civitatis aut regni” (Thomae Aquinatis Summa theologiae, I.a. II.ae, q. XC, art. 3 e II.a II.ae, q. XLVII, art. 10, sulla scorta della Politica aristotelica). Tutte le grandi civiltà dell’antichità e per quel che ne sappiamo dello stesso medioevo occidentale si sono naturaliter ordinate a questo principio che Tommaso lucidamente codifica in pieno Duecento: qui sta il nucleo forte e profondo della natura umana, dell’homo politicus che in quanto tale è anche homo religiosus, quindi del fondamento stesso di quel “diritto naturale” che oggi, lontano dal dogma e a oltre mezzo millennio dall’avvìo della rottura apostatica, appare tanto arduo non solo a restaurarsi, ma anche a definirsi per il presente: poiché il faustismo, una volta accettato in parte e ancorché in inizialmente limitata misura, diventa inarrestabile e conduce fatalmente alla legittimazione dell’ homunculus.

In fondo, cari amici, con molti errori e con una prospettiva neopagana e immanentistica di fondo che quanto meno a me cattolico lo rendeva inaccettabile, tutto ciò era stato sul serio spiegato con una qualche efficacia nella Rivolta contro il mondo moderno di quell’a noi ben noto Innominabile Jettatorio Barone dal magistero del quale in un modo o nell’altro almeno noialtri nati fra il ’30 e il ’60 siamo stati tutti toccati e al quale dobbiamo pertanto esser tutti grati.

Ma forse il potere logora davvero soprattutto chi non ce l’ha. Privi di Maestri e provvisti di rozzi metodi artigianali, lontani dai centri nei quali il pensiero poteva essere agevolmente ed efficacemente elaborato, ridotti alle nostre piccole università artigianali di covi di periferia in cui si studiava su libri comprati di seconda mano, non siamo stati – sia pur magari senza colpa – all’altezza della situazione che abbiamo dovuto affrontare nel mezzo secolo tra la fine della seconda guerra mondiale e l’effimero fallace avvento dell’era della Megapotenza Unica mondiale e del “pensiero unico”. Stavamo passando, come ha detto Zygmunt Bauman, dalla “Modernità solida” ben certa dei suoi valori individualistici ed economicistici alla “Modernità liquida”, o “Postmodernità”, che li avrebbe invece messi in discussione: avremmo dovuto egemonizzare questa fase di passaggio, invertire magari il ciclo storico, metterlo in discussione e postularne perfino la reversibilità. Non ne siamo stati capaci. Ci ostinavamo, per provincialismo e per ignoranza, a parlar ancora in termini tardottocenteschi e a baloccarci con oziose desuete questioni mentre il mondo se ne andava per conto suo. Le lobbies multinazionali lo stavano divorando e inquinando, eppure noi non ce ne accorgevamo. La follìa dello sfruttamento e la cecità dell’iperprogressismo tecnologico facevano della terra un immenso deserto e lo chiamavano Libertà e Democrazia, mentre noialtri fascisti immaginari continuavamo ancora ad accapigliarci per stabilire se si dovesse stare con le Giacche Blu o con quelle Grige, con i garibaldini o con i Borboni, con D’Annunzio o con Mussolini, con il fascismo-”movimento” o con il fascismo-”regime”, con i falangisti o con i carlisti, con le SA o con le SS, con i “berretti verdi” o con Giap e Ho-Chi-Min, con il socialismo sionista dei kibbutzim o con il “socialismo arabo” di Nasser.

Ma è venuta poi l’alba livida del disincanto: e dopo di essa abbiamo perduto il diritto di  fingerci innocenti. Sono venuti i giorni in cui l’uva è miracolosamente sembrata infine matura per noialtri piccole volpi. Bastava camuffarsi solo un pochino, vendere appena qualche brandello dei nostri inutili sogni romantici et voilà: ecco che chi fino ad allora aveva sognato come massimo traguardo della sua vita un posticino di consigliere comunale si trovava sottosegretario; chi aveva sperato ardentemente di diventar segretario federale si trovava in Senato senza aver nemmeno capito bene come ci fosse arrivato; chi aveva gridato al miracolo perché i brandelli di lottizzazione di cui gli era toccato di godere lo avevano portato al livello di caposervizio, ora si vedeva fiondato dietro la scrivania di mogano e cristallo dei Direttori Megagalattici di Rete.

Ed è così che il Burattinaio di Arcore, comprandosi a un tanto al chilo il nostro intemerato rigore e la nostra specchiata onestà, ci ha aiutato a liberarci dai miti e dai sogni: prima Fiuggi, poi la disgregazione della solidarietà interna frammentata in una miriade di cosche e di nicchie, infine il Magnus Opus, il solve et coagula del Popolo delle Libertà dove tutte le vacche son bige e dove gli ex bravi ragazzi che per decenni si erano rifiutati di piegarsi al mito conformista della Resistenza  scoprivano lietamente il fascino di “quei bravi ragazzi venuti in Europa per darci la libertà” e applaudivano all’esportazione della democrazia nel Vicino Oriente, incuranti di quel po’ di “fuoco amico” e di “danni collaterali” che ciò poteva comportare. Qualcuno, più audace, si spinse oltre fino all’apologia dei libertarians statunitensi paragonati ai cavalieri medievali e alla lode della magna Europa liberal-liberista d’Oltreoceano proposta come esito della Tradizione da ex “reazionari cattolici” tutti d’un pezzo frettolosamente convertiti al Verbo theoconservative.

Potrei parlare, e con ottima cognizione di causa, di alcuni di voi: delle sue scivolate, dei suoi compromessi, delle sue furberie, della ventata di megalomania che lo ha preso nei mesi nei quali tutta Roma dal Gianicolo a Via Veneto e dalle terrazze ai salotti (altro che borgate, altro che Acca Larenzia!…) gli pareva sua e aveva telefoni e segretarie o sperava di averne a breve, dei suoi eroici furori ora che tutto è finito e che qualcuno si sta dimenticando che a parte le Uri nel Paradiso di Allah – che sia sempre benedetto il Suo Nome – nessuno può riconquistare la verginità perduta. Non lo farò, per un senso di pietas. Vi parlerò del caso che conosco meglio: il mio. Perché no? Per alcuni mesi, fra ’94 e ’95, ho accettato di rimettermi in pista dopo che, trent’anni prima, ero uscito dal MSI fiorentino e dalla Direzione Nazionale Giovanile, ero stato nella Giovane Europa di Jean Thiriart e avevo avuto la mia brava “primavera rossa”. Per breve tempo, allora, ho sperato che Irene Pivetti fosse davvero la nostra nuova Giovanna d’Arco e la nostra nuova Eva Perón; più tardi, ho sinceramente lavorato insieme con Marzio Tremaglia alla costruzione di un soggetto politico-culturale serio e credibile, e ancor oggi, quando ripenso ai suoi quarant’anni stroncati, mi pongo inutilmente seri problemi di teodicea; e sulla sua tomba, come su quella dell’indimenticabile fraterno amico Marco Tangheroni, ho deposto le mie cinque rose rosse, quelle che i falangisti dedicano aicamaradas fallecidos il ricordo delle Cinque Piaghe del Signore e delle cinque frecce di Ferdinando il Cattolico. Ci ho sperato, in quelle due ultime occasioni: l’amico Marco Tarchi, più giovane anagraficamente ma tanto più saggio e prudente di me sul piano caratteriale e tanto più rigoroso di me su quello intellettuale, mi aveva pur diffidato dal farmi illusioni. Aveva ragione lui.

Non mi pento tuttavia di quegli esperimenti, come non mi pento delle sperimentazioni culturali tentate con Renato Besana e con Beppe Tagliente (il “Toson d’Oro” di Fermo”) e dell’avventura di Identità Europea avviata con Adolfo Morganti e che ancora continua, per quanto in quel contesto mi sia autodegradato a semplice iscritto. Non ho nulla da rinnegare, nulla di cui vergognarmi, nulla per la quale debba fingere miserabili amnesie. Sono stato petit commis d’état come consigliere di amministrazione RAI voluto dalla Pivetti e come consigliere di amministrazione di Cinecittà scelto da Veltroni per quanto sapesse benissimo che io ero (parole sue) “di un’altra parrocchia” rispetto alla propria. Ho lavorato con coscienza, con onestà: posso affermarlo serenamente, ed è innegabile che ne sia uscito a testa alta. Eppure il potere, che logora soprattutto chi non ce l’ha, logora tuttavia sempre e profondamente chi lo detiene, sia pure in modesta se non minima misura. Ho fatto correttamente quel che potevo e dovevo. Ho anche cercato di cambiare qualche piccola cosa: e lì ho fallito, o il mio successo non è stato né incisivo né duraturo quanto sarebbe stato necessario.

Ci sono tanti modi di perdere la verginità, cari camerati. Per amore, per passione, per paura, per tornaconto, per leggerezza, per avidità, per ebbrezza o per qualche stato di coscienza alterata,  per vanità, per desiderio carnale, per gioco, per curiosità, per illusione, per violenza propria, per violenza altrui. Ma, una volta perdutala, indietro non si torna (come diceva Lui). Ormai la via dell’Eden e quella dell’Agartha sono smarrite, l’incanto si è rotto: e chi poi in un modo o nell’altro è stato anche solo qualche settimana sulla stessa barca degli Scajola e dei “Trota”, delle Carfagna e delle Santanché, dei Cicchitto e dei Verdini, chi magari entro certi limiti e fino a un certo punto senza nemmeno rendersene conto ha retto il sacco ai ladri e ai corrotti (nel nome di che cosa? Dell’anticomunismo? Della diga contro il fondamentalismo islamico?) non potrebbe più tornare a Itaca nemmeno se davvero lo volesse con tutte le forze. Non entra nella reggia del divino Ulisse chi odora anche alla lontana di bunga bunga.

Quanto a me, poi, ho molta simpatia per il re della piccola sassosa isola vicina a Cefalonia, per l’Orditore d’Inganni che ha parlato con i morti e che ha molto sofferto, Ma non dimentico che egli è anche l’inventore del cavallo che ha conquistato la mia prima vera patria interiore. Voi, cari camerati, vi sentite ancora e nonostante tutto dalla parte di chi ha perduto la  seconda guerra mondiale, e qualcuno di voi sostiene di aver in fondo perduto anche la prima : io, invece, le ho perse tutte. E qualcuna irreversibilmente: a dirne una, avrei preferito di gran lunga (e datemi pure del filomusulmano) barattare la vittoria del 1571 con la sconfitta del 1588, veder le galee di Juan de Austria e del doge Venier colare a picco nelle acque azzurre di Lepanto pur di assistere poi al  trionfo dei galeoni della Invencible Armada sui plumbei flutti dell’Atlantico, là presso alle coste inglesi.  Lepanto non ha cambiato il corso della storia: il prevalere di Filippo II su Elisabetta avrebbe forse potuto. Così come forse lo avrebbe cambiato la vittoria di Antonio su Ottaviano nel limpido specchio marino di Azio, poco più di  un millennio e mezzo prima di Lepanto. Ne abbiamo perdute, di occasioni; ne abbiamo avute, di scalogne: ma che nessun nipotino di Hegel venga fuori, per piacere, a parlarmi di senso della storia, di occulti eppur necessari disegni immanenti. L’Imponderabile paretiano, quello sì: ma esso altro non è se non quel che i maghi di Faraone, dinanzi alla verga serpentina di Mosè, definivano ezbà Elohim, il dito di Dio…

Comunque, da parte mia, non ho atteso certo la débacle della Monarchia di Spagna per avviare la mia carriera di avvocato di tutte le cause perse. E non ho atteso nemmeno la sconfitta di Serse a Salamina: per quanto ancor oggi pianga a calde lacrime sullo smacco inflitto al Gran Re da quattro rissosi chiacchieroni greci. Ho cominciato a perdere le guerre già da prima, fino da subito, molto da prima che il contadino teppista Romolo assassinasse il suo libero fratello, il pastore Remo (ci avete fatto caso, come diceva il grande Aldo Fabrizi, che la storia di Romolo e Remo somiglia paro paro a quella di Caino e di Abele, sempre col sedentario assassino e il nomade assassinato: e non vi dice vulla, tutto questo?). Ho cominciato a capire da che parte stare, e che stare da quella sarebbe stata la mia sempiterna condanna, fino da quando ho visto il mio signore ferito a morte, lordo di sangue e di fango, legato e trascinato attorno alle mura di Troia dal carro di un macellaio isterico destinato invece, lui, a diventare nei secoli l’eroe della Grecità e della Modernità, con tutti i brigantaggi e le fregature che da lì sono discesi. E ora che ho passato i settant’anni, sento di perdere di nuovo la mia guerra ogni volta che un piccolo afghano viene ammazzato “incidentalmente” dai Portatori di Libertà (… poi però la NATO si scusa del disagio arrecato…) nell’indifferenza dei borghesacci che finanziano con le loro tasse gli elicotteri e i droni assassini; ogni volta che un bambino del Sahel muore di sete o uno nigeriano di AIDS mentre da noi c’è chi nuota ogni mattina in una piscina olimpionica inquinando una quantità d’acqua che potrebbe bastare a placar la sete di cento villaggi.

Ho discettato abbastanza di Destra e di Sinistra; ho assistito a troppi onanismi intellettuali di mediocre qualità attraverso i quali si giustificavano di fatto la corruzione e l’ingiustizia. Ho vissuto la vita intera tra i libri: molto spesso, anche buoni libri. Ecco perché la vostra paccottiglia erudita, cari camerati, non m’interessa più. Nella vostra Itaca, non riuscirete nemmeno a riorganizzare un Campo Hobbit degno di questo nome. E intanto il mondo continuerà a bruciare senza di voi, ma nella vostra noncuranza e con la vostra complicità. Il vostro Ulisse tessitor d’inganni, cari camerati, non vale nemmeno un’unghia di madre Teresa di Calcutta. Da qualche parte, tra l’Africa e l’America latina, c’è gente che lavora per gli Ultimi della terra, che soffre con loro: quelli sono i veri Cavalieri, mentre molti di voi amano ancora perder tempo baloccandosi con i Neotemplari.

Ho molta, magari perfino troppa, stima, e molto, magari perfino troppo, affetto per molti di voi. Però, quando parlate  con  finta nostalgia di un Passato mai esistito e di un Futuro che non ci sarà mai e che in fondo non v’interessa, mi annoiate. Vi saluterò con affettuosa mestizia, mentre volgete le vostre prore verso Itaca. Cercatelo pure, il divino Ulisse tessitor d’inganni: ma vogliano gli dèi che ivi approdati non ci troviate invece, accampati tra quegli omerici scogli, il teschiuto Sallusti che si fa un drink con la siliconica Santanchè, o l’ohimè neocredente Ferrara che prende il sole con la signora dall’Olio all’ombra di un confortevole padiglione decorato stars and strips, o qualche neoconservatore immerso nell’esegesi di una dotta pagina di Léo Strauss (chi era costui?), o qualche adepto nostrano del nobile sodalizio lusitan-brasileiro “Tradiçao, Familia, Propriedade” che vi spiegherà con sussiego quale sia l’alta funzione sociale del latifondo accompagnando la sua lezione con appropriate citazioni tratte da Giovanni Calvino e travestite da Russell Kirk .Quello sarà il Club Méditerranée che meritate. Ma non invitatemici. Mi piace guardar il mare, ma il rullìo delle barche mi dà la nausea, il pesce non mi piace e non so nemmeno nuotare.

Lasciatemi ai sassi aridi della mia Troade, alle memorie del mio Ettore domatore di cavalli, al riflesso della pira ardente che ne ha disperso per sempre le ceneri nel cielo.

(di Franco Cardini - fonte: www.barbadillo.it)