E poi c'è una scrittura che non si è mai 
privata di una dimensione onirica, si rappresenta pregevole e di 
grandissimo livello e accompagna l'elaborazione filosofica in maniera 
armoniosa ed equilibrata. Di tutto questo dà una visione d'insieme il 
volume di Heimo Schwilk Ernst Jünger. Una vita lunga un secolo (Effatà, 
pagg. 720, euro 22) che usufruisce di documenti di prima mano (l'autore 
ha frequentato Jünger e ne ha scritto molto) e ci dona un'inusuale 
corposità aneddotica.
Immaginatevi tutti i flashback. Un giovane che, diciottenne, scappa 
di casa e si arruola nella Legione straniera. Va in Francia e in 
Algeria. Ma ben presto si accorge che i ludi africani non hanno nulla di
 romantico o di esotico e quando, per le pressioni del padre presso il 
ministero degli Esteri tedesco, viene richiamato in patria, si sente 
quasi sollevato. Cambia molti istituti scolastici (e qui sembra di 
rivivere le vicende italiane di Papini e Prezzolini) con l'aggravante di
 un padre complice: «Nei colloqui a tavola all'ora di pranzo - scrive 
Schwilk - schernisce davanti ai figli i metodi d'insegnamento di allora 
\. Sicché la vera e propria formazione culturale e personale si svolge 
del tutto al di fuori della scuola \».
All'inizio Ernst non ama nemmeno la divisa militare, eppure va da 
volontario alla Prima guerra mondiale. Ferito quattordici volte, viene 
insignito della Croce di ferro di prima classe e poi della più alta 
onorificenza prussiana, l'ordine Pour le Mérite. Scelte apparentemente 
contraddittorie, ma il motivo è ravvisabile nell'anarchismo che, nel 
tempo delle mobilitazioni delle masse, del disvelamento di tutte le 
inquietudini della modernità e del peso sempre più ossessivo del 
disumano, acquista in lui un rinnovato valore di libertà: «Ernst 
apprezza e ama l'ordine e non gli manca il gusto di infrangerlo. \ I 
problemi disciplinari e le insufficienti prestazioni scolastiche ne sono
 la conseguenza».
Resta per qualche tempo nell'esercito, ma ormai la fama gli consente 
di vivere con la scrittura. Quando Nelle tempeste d'acciaio viene messo 
sul mercato, nell'ottobre del '20, diventa subito una rarità per 
collezionisti. Inizia a collaborare con riviste in cui confluiscono 
radicali di ogni risma. Sin da questa fase è impossibile inserirlo in un
 orientamento filosofico o politico, perché egli non affronta con 
altezzosità accademica le varie tematiche, ma le dipana anche attraverso
 il vissuto quotidiano e i romanzi letterari. Si ha la sensazione che, 
come ricorda Schwilk, dovunque fugga «rimane un originale e un 
solitario. La problematicità della sua esistenza è anche la causa prima 
di un coraggio temerario, che non conosce ansie né paure di fronte al 
pericolo della morte, e anzi sembra andarne in cerca. Come se la morte 
fosse l'unica possibilità di vincere il senso di colpa per poi tornare 
all'origine materna della vita».
Utilizza infatti lo strumento 
letterario per svelare l'altra faccia della civilizzazione che è la 
barbarie; quell'angoscia heideggeriana che lega la libertà alla 
questione della tecnica. Si convince che la ricerca ossessiva della 
perfezione e della sicurezza cui aspiriamo in ogni ambito della vita 
individuale e sociale svela un incremento del livello di paura rispetto 
al passato. Ne Al muro del tempo scriverà che le democrazie si 
trasformano e ci trasformano in modo occulto e questa lettura si evince 
anche dalla comprensione per certi versi profetica della crisi degli 
stati nazionali i quali, nel momento in cui cedono quote di potenza alla
 tecnica e all'idea di sicurezza e di prevenzione, capitolano al grande 
fratello planetario. I romanzi Eumeswil, Le api di vetro, Il problema di
 Aladino, Heliopolis ci parlano di questo. Jünger ha infatti compreso 
prima di tutti che la mobilitazione è passata dai campi di battaglia 
alle officine, e ben presto passerà a ogni ambito di lavoro.
Anche per questo non aderì mai al nazismo nonostante i ponti d'oro 
fattigli da Goebbels. Tuttavia non si fece mancare neanche un'indiretta 
responsabilità nel più famoso attentato a Hitler. Era infatti a 
conoscenza dell'operazione Valchiria, tanto che in quelle ore 
drammatiche iniziò a figurare il suo nome tra i congiurati. Qualcuno 
disse che Hitler avesse ordinato di non toccarlo, ma intanto i gerarchi 
nazisti mandarono suo figlio Ernstel a morire a Carrara in prima linea. 
Il coinvolgimento non fu mai provato, e tutta la seconda parte di una 
vita ultracentenaria la trascorse a Wilflingen, nella foresteria del 
castello dei von Stauffenberg, e la cronaca di quei drammatici giorni 
fatta da Schwilk ce lo mostra timoroso per se stesso e per la sua 
famiglia e attento a far sparire carte di vario tipo.
Dagli anni Sessanta continua il suo percorso di ricerca esplorando 
strade parallele. Sperimenta le droghe, in particolare l'LSD, e poi 
dirige insieme a Mircea Eliade la rivista Antaios che si occupa di 
storia delle religioni. Cerca insomma il bosco in ogni modo: «Trovarsi 
soli di fronte alla propria finitezza è uno dei grandi incontri. Né dèi,
 né animali, ne sono partecipi». Si confronta con Carl Schmitt e Martin 
Heidegger non senza qualche chiosa puntuta a livello personale, ma 
questi scambi restano tra i punti più alti della produzione 
intellettuale del Novecento.
Intanto si è messo a studiare i 
coleotteri. La scelta è chiara. È convinto che il nostro tempo 
rappresenti una tappa di transizione fra due momenti della storia, come 
accadde al tempo di Eraclito: «Egli si trovava tra il Mito e la Storia. 
Noi invece ci troviamo in una fase ulteriore e transitoria dominata dal 
titanismo. Dobbiamo esplorare le profondità, introdurci negli 
interstizi». Quindi passa dallo stato mondiale alla caccia sottile. E 
così Wilflingen diventa il suo mondo. Morì cinque anni dopo il 
secondogenito Alexander che si era tolto la vita.
E poi c'è una scrittura che non si è mai 
privata di una dimensione onirica, si rappresenta pregevole e di 
grandissimo livello e accompagna l'elaborazione filosofica in maniera 
armoniosa ed equilibrata. Di tutto questo dà una visione d'insieme il 
volume di Heimo Schwilk Ernst Jünger. Una vita lunga un secolo (Effatà, 
pagg. 720, euro 22) che usufruisce di documenti di prima mano (l'autore 
ha frequentato Jünger e ne ha scritto molto) e ci dona un'inusuale 
corposità aneddotica.
Immaginatevi tutti i flashback. Un giovane che, diciottenne, scappa 
di casa e si arruola nella Legione straniera. Va in Francia e in 
Algeria. Ma ben presto si accorge che i ludi africani non hanno nulla di
 romantico o di esotico e quando, per le pressioni del padre presso il 
ministero degli Esteri tedesco, viene richiamato in patria, si sente 
quasi sollevato. Cambia molti istituti scolastici (e qui sembra di 
rivivere le vicende italiane di Papini e Prezzolini) con l'aggravante di
 un padre complice: «Nei colloqui a tavola all'ora di pranzo - scrive 
Schwilk - schernisce davanti ai figli i metodi d'insegnamento di allora 
\. Sicché la vera e propria formazione culturale e personale si svolge 
del tutto al di fuori della scuola \».
All'inizio Ernst non ama nemmeno la divisa militare, eppure va da 
volontario alla Prima guerra mondiale. Ferito quattordici volte, viene 
insignito della Croce di ferro di prima classe e poi della più alta 
onorificenza prussiana, l'ordine Pour le Mérite. Scelte apparentemente 
contraddittorie, ma il motivo è ravvisabile nell'anarchismo che, nel 
tempo delle mobilitazioni delle masse, del disvelamento di tutte le 
inquietudini della modernità e del peso sempre più ossessivo del 
disumano, acquista in lui un rinnovato valore di libertà: «Ernst 
apprezza e ama l'ordine e non gli manca il gusto di infrangerlo. \ I 
problemi disciplinari e le insufficienti prestazioni scolastiche ne sono
 la conseguenza».
Resta per qualche tempo nell'esercito, ma ormai la fama gli consente 
di vivere con la scrittura. Quando Nelle tempeste d'acciaio viene messo 
sul mercato, nell'ottobre del '20, diventa subito una rarità per 
collezionisti. Inizia a collaborare con riviste in cui confluiscono 
radicali di ogni risma. Sin da questa fase è impossibile inserirlo in un
 orientamento filosofico o politico, perché egli non affronta con 
altezzosità accademica le varie tematiche, ma le dipana anche attraverso
 il vissuto quotidiano e i romanzi letterari. Si ha la sensazione che, 
come ricorda Schwilk, dovunque fugga «rimane un originale e un 
solitario. La problematicità della sua esistenza è anche la causa prima 
di un coraggio temerario, che non conosce ansie né paure di fronte al 
pericolo della morte, e anzi sembra andarne in cerca. Come se la morte 
fosse l'unica possibilità di vincere il senso di colpa per poi tornare 
all'origine materna della vita».
Utilizza infatti lo strumento 
letterario per svelare l'altra faccia della civilizzazione che è la 
barbarie; quell'angoscia heideggeriana che lega la libertà alla 
questione della tecnica. Si convince che la ricerca ossessiva della 
perfezione e della sicurezza cui aspiriamo in ogni ambito della vita 
individuale e sociale svela un incremento del livello di paura rispetto 
al passato. Ne Al muro del tempo scriverà che le democrazie si 
trasformano e ci trasformano in modo occulto e questa lettura si evince 
anche dalla comprensione per certi versi profetica della crisi degli 
stati nazionali i quali, nel momento in cui cedono quote di potenza alla
 tecnica e all'idea di sicurezza e di prevenzione, capitolano al grande 
fratello planetario. I romanzi Eumeswil, Le api di vetro, Il problema di
 Aladino, Heliopolis ci parlano di questo. Jünger ha infatti compreso 
prima di tutti che la mobilitazione è passata dai campi di battaglia 
alle officine, e ben presto passerà a ogni ambito di lavoro.
Anche per questo non aderì mai al nazismo nonostante i ponti d'oro 
fattigli da Goebbels. Tuttavia non si fece mancare neanche un'indiretta 
responsabilità nel più famoso attentato a Hitler. Era infatti a 
conoscenza dell'operazione Valchiria, tanto che in quelle ore 
drammatiche iniziò a figurare il suo nome tra i congiurati. Qualcuno 
disse che Hitler avesse ordinato di non toccarlo, ma intanto i gerarchi 
nazisti mandarono suo figlio Ernstel a morire a Carrara in prima linea. 
Il coinvolgimento non fu mai provato, e tutta la seconda parte di una 
vita ultracentenaria la trascorse a Wilflingen, nella foresteria del 
castello dei von Stauffenberg, e la cronaca di quei drammatici giorni 
fatta da Schwilk ce lo mostra timoroso per se stesso e per la sua 
famiglia e attento a far sparire carte di vario tipo.
Dagli anni Sessanta continua il suo percorso di ricerca esplorando 
strade parallele. Sperimenta le droghe, in particolare l'LSD, e poi 
dirige insieme a Mircea Eliade la rivista Antaios che si occupa di 
storia delle religioni. Cerca insomma il bosco in ogni modo: «Trovarsi 
soli di fronte alla propria finitezza è uno dei grandi incontri. Né dèi,
 né animali, ne sono partecipi». Si confronta con Carl Schmitt e Martin 
Heidegger non senza qualche chiosa puntuta a livello personale, ma 
questi scambi restano tra i punti più alti della produzione 
intellettuale del Novecento.
Intanto si è messo a studiare i 
coleotteri. La scelta è chiara. È convinto che il nostro tempo 
rappresenti una tappa di transizione fra due momenti della storia, come 
accadde al tempo di Eraclito: «Egli si trovava tra il Mito e la Storia. 
Noi invece ci troviamo in una fase ulteriore e transitoria dominata dal 
titanismo. Dobbiamo esplorare le profondità, introdurci negli 
interstizi». Quindi passa dallo stato mondiale alla caccia sottile. E 
così Wilflingen diventa il suo mondo. Morì cinque anni dopo il 
secondogenito Alexander che si era tolto la vita.
(di Luigi Iannone)

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