venerdì 6 marzo 2009

Il laboratorio etnico di Paestum: la città plebea

Aggirarsi tra i templi di Paestum non vuol dire fare del banale turismo. Significa toccare con gli occhi un capolavoro di antropologia culturale romana. L’identificazione tra Roma e l’Italia fu totale nel momento in cui la Repubblica, rompendo i ristretti confini originari, chiamò tutte le stirpi italiche a partecipare da protagoniste al disegno imperiale. A Paestum si capiscono bene le dinamiche che portarono i Romani a fondersi di nuovo prima con i Latini e poi con tutti gli Italici. Ma perché di nuovo? Perché queste genti non erano relitti etnici tra loro estranei e disposti a casaccio lungo la nostra penisola, ma agglomerati umani eredi in linea retta delle migrazioni indoeuropee. Rivoli di un unico fiume, che in ondate successive e fino al 1200 a.C., avevano popolato l’Europa meridionale.

A Paestum si è avuto l’incontro tra i Greci, quelli provenienti da Sibari che nel VI secolo fondarono la città dandole il nome di Posidonia, i Lucani, stirpe sannita che si impadronì di Paestum alla fine del V secolo chiamandola Paistom, e i Romani, che, dopo una guerra vittoriosa, occuparono la città un secolo dopo, la popolarono di migliaia di coloni, ne fecero un porto importante e la elevarono allo status di colonia latina, dotata di speciali diritti. Tra questi diritti, uno dei più rilevanti era quello che concerneva la libertà di contrarre legittimo matrimonio con donne romane: cosa sino ad allora proibita a chiunque non fosse di sangue latino.

Paestum, che è stata dunque prima greca, poi lucana e infine romana, è un esempio di come i sostrati razziali protostorici - ceppi villanoviani indigeni, contraddistinti dall’uso delle urne cinerarie - si fusero diluendosi facilmente nelle popolazioni dominanti calate da nord, soprattutto gruppi di guerrieri sanniti, oppure con genti osche, apule, picene e persino etrusche, che erano stanziate sul litorale tirrenico nella zona di Cuma. E, alla fine, con i Latini insediati nel Cilento come coloni e con gli stessi Romani. Questo ricompattamento etnico della diaspora indoeuropea sul nostro suolo è visibile con estrema chiarezza proprio a Paestum, tanto nella conformazione sociale, innestata su aristocrazie guerriere popolari, quanto nel pantheon religioso, che contava, accanto a figure maschili sovrane - l’Apollo greco, riconfermato nella fase lucana e in quella romana - anche figure femminili di straordinario significato. Il tutto, all’insegna della continuità e mai della rottura, a testimonianza del fatto che si trattava di popoli consanguinei.

A Paestum abbiamo, in questo senso, esempi eloquenti. A cominciare dalla statua marmorea di Hera, risalente alla fine del V secolo e proveniente dall’Heraion, edificio sacro eretto sulla sinistra del Sele a poca distanza dall’area urbana di Paestum. Rappresenta la dea assisa in trono in postura ieratica, recante in mano il melograno (simbolo di fertilità) e oggetti votivi (gioielli, profumi, vasi nuziali), che rimandano al ruolo sociale femminile di custode della stirpe, in quanto genitrice e padrona delle ricchezze domestiche. Si ha, in questo caso, il tratteggio di una femminilità pienamente nordica e regale - simile all’Atena o alla Minerva classiche -, molto lontana da quelle grossolane celebrazioni della fertilità femminile (vulve gigantesche, ventri spropositati) che erano tipiche della società indigena neolitica, di tipo “pelasgico”, legata alla Grande Madre. Questa Hera ci parla di un primordiale che non è solo bios, ma anche legge, non è natura cieca, ma ordine.

Un altro reperto emerso dal grande sito archeologico di Paestum è una tomba, detta “dello sciamano”, contenente i resti di uno strano personaggio il cui corredo funerario consiste solo di quattro fibule a chiudere la veste, secondo l’uso delle sepolture femminili. La figura silenica scolpita in bassorilievo sul coperchio tombale ci conferma trattarsi di un individuo di ruolo sacerdotale, uno sciamano appunto, personaggio dionisiaco del tutto congruo all’ambiente indoeuropeo e per nulla in contrasto con società gerarchiche e guerriere, come a volte si sostiene. Questo ci mostra, una volta di più, che i valori della femminilità legati alla catena ereditaria e quelli della gerarchia guerriera convivevano a medesimo titolo, come aspetti della società legata all’eroe e alla madre. Mosaici pavimentali con motivi geometrici a svastica, rinvenuti in case di Paestum, piatti con iscrizioni dionisiache, statuette di Hera Ilizia partoriente, si affiancano a stele dedicatorie a Giove (in greco, ma anche in osco) e a documenti virili, come i fregi d’armi o la bellissima corazza anatomica rinvenuta in una tomba a camera. Questo ci testimonia la convivenza a Paestum, sotto l’egida di Hera - divinità associata alla Venere Troiana, progenitrice di tutti i Latini -, di valori marziali e sciamanico-visionari, nella tipica associazione indoeuropea tra maschile e femminile.

Ma la caratteristica sociale di Paestum, sancita dalla legislazione romana, fu quella di essere città “plebea”. Il che non significa schiavile, ma popolare. Come si sa, a Roma esisteva anche un’aristocrazia plebea, e il termine non rimanda a condizioni di subalternità di classe, ma piuttosto a differenziazione di rango. Paestum romana fu “plebea” in quanto comunitaria e non oligarchica, una società retta dal blocco storico costituito dalla nobilitas nata dalla fusione dei vertici della plebe latina con le antiche aristocrazie dominatrici nella fase lucana. Ne è prova la statua bronzea del Marsia ritrovata nel Foro di Paestum: si tratta di un simbolo della libertas, copia dell’originale eretto a Roma nei pressi del Fico Ruminale, con ai piedi i ceppi infranti, a indicare l’evento storico dell’ottenimento, nel 351 a.C., del rango di censore da parte del primo plebeo romano, Marcio Rutilio. Evento che aprì le porte del consolato ai plebei e che fu antefatto della legge del 90 a.C., che estendeva la cittadinanza agli alleati latini di Roma, e infine a quella di Augusto, che la allargò all’intero popolo italico, dalle Alpi alla Sicilia. Il laboratorio etnico di Paestum consiste dunque nell’aver amalgamato stirpi italiche sul primo tronco ellenico locale e nell’aver fatto emergere un nuovo tipo d’élite comunitaria. Questa situazione, che riflette quella delle “guerre sociali” romane, permette di parlare di una gerarchia popolare. Una selezione dei migliori, tratti dall’intero bacino comunitario, costituito da un insieme di etnie italiche sorelle: Etruschi, Lucani, Osci, Latini, Romani.
Simboli di questo equilibrio sono il cittadino libero rappresentato dal Marsia e la Mater Matuta venerata nel “Tempio italico” quale divinità dell’eredità di sangue legata al primo mattino, cioè alle radici originarie. A Paestum noi guardiamo con emozione le imponenti rovine dei templi di Cerere e di Nettuno, percorriamo il Foro, ammiriamo l’anfiteatro, le porte, le fontane, i santuari, gli splendidi affreschi tombali. Ma non dimentichiamo che tutto questo fu creato da uomini in carne ed ossa, in ogni epoca risoluti a difendere la loro tradizione, la loro cultura e la loro identità di stirpe.

di Luca Leonello Rimbotti
(http://www.mirorenzaglia.org/)

Il comunismo sopravvive nelle coscienze borghesi

"In termini commerciali non si può certo dire che la cultura sta male". Pietrangelo Buttafuoco snocciola un po' di dati, racconta di un’inchiesta che sta portando avanti per Panorama e, con entusiasmo, enumera i dati di una cultura che, in piena crisi ha fatto segnare incassi su tutti fronti.
Ma, se va davvero tutto bene, perché fior fiore di intellettuali gridano alla morte della cultura?
"Perché, evidentemente, non si sentono bene con loro stessi. Laddove c’è la possibilità di organizzare un’offerta culturale, i risultati si vedono. Me ne rendo conto con la mia terra: la Sicilia potrebbe diventare ancora più forte nell’ambito di un’offerta di servizio sfruttando la capacità culturale legata alla propria identità e alla propria storia. Proprio in questi giorni in cui Baricco ha scatenato il dibattito sui fondi ai teatri, si sono registrate 150mila presenze nella stagione dell’Istituto nazionale del dramma antico. Al Nord è lo stesso. Non dimentichiamo i ripetuti successi incassati da festival come quello di Mantova."
Quindi: niente crisi della cultura?
"Di morte della cultura possiamo parlare solo quando ci troviamo davanti all’aspetto conformistico e appecoronamento che non si preoccupa mai di fare una ricerca critica e stanare l’originalità e la genialità. E proprio alla genialità dovremmo dare un po’ di più spazio proprio quest’anno che corre il centenario del Futurismo. Bisogna favorire e fortificare il genio nella creazione, nell’invenzione e nella ricerca."
L’anno scorso si è celebrato il quarantennale del ’68. La sinistra ha sfoggiato una certa nostalgia di quel modo di fare cultura. Eppure a una certa fetta di italiani non dice più nulla.
"Non dice più nulla. Però il ’68 è l’ideologia della gerontocrazia italiana. In Italia il potere non ha mai avuto un radicamento spirituale: la baggianata della Resistenza e della Costituzione non può costituire seriamente una nervatura di identità, ma la ha determinata il Sessantotto attraverso sfumature cosmopolite, fascinazioni edonistiche, sollazzi e ricreazioni che partecipavano allo Spirito del tempo. Proprio questa ideologia regge, ancora oggi, le sorti di un Paese tutto sommato periferico come l’Italia che non fa altro che scimmiottare quello che, altrove, è solo una moda culturale."
Ma cos’è questo benedetto Sessantotto?
"Quello del ’68 è un tabù stupido e ridicolo. Non solo ha determinato lo sfascio dello stile e della capacità morale della elite, ma ha anche distrutto la conoscenza e la gnoseologia. La sola cosa che ci ricorderà il ’68 è stata la guerra al nozionismo: una ridicola guerra alla poesia a memoria! Tutti sappiamo che, se solo togli una virgola al Padre nostro, può cambiare l’intero senso della preghiera. E', però, un atteggiamento e uno schema che appartiene a una tribù residuale, inutile e perduta della vecchia, vecchissima elite italiana."
Da anni la sinistra ha una sorta di predominio sulla cultura. Per quale motivo?
"E continuerà ad averlo ancora. In Italia, sicuramente. Potrà esserci ancora per cent’anni Berlusconi e il berlusconismo, ma il fonte battesimale della legittimità sociale sarà sempre nelle mani della sinistra."
Colpa della Destra o degli italiani in genere?
"Beh, gli italiani hanno un istinto conformista dal momento che hanno sempre dovuto lottare fra due anime, entrambe romantiche e irrequiete. C’è però da dire che la sinistra ha saputo interpretare lo spirito guelfo degli italiani, quest’idea di sentirsi confortati all’interno di una chiesa. Per esempio, il berlusconismo è più una deriva anarchica sia in termini di lavori sia in termini di estetica. Quando poi si tratta di andare a fare le cose sul serio – di andare cioè a dare un imput di sigillo sulle cose – il rutto di sinistra prevale sempre e comunque. Basti pensare a quella che è la sua rappresentazione più efficace: nel modello televisivo è sempre un’anima di sinistra a dettare legge. In Rai c’è il Fabio Fazio è il santo totale di omologazione e conformismo che fa sentire bene le persone, le accomoda e le accoglie."
Quanto ha a che fare la perdita del Sacro con questa crisi di valori?
"Tantissimo. Proprio in questo, la destra fa il lavoro sporco della sinistra. Se quest’ultima lavora sulla propria aspirazione sovversiva, quello che invece sovverte veramente è uno schema egemonico-politico di destra dove il Sacro viene, di volta in volta, sempre più allontanato o circoscritto a una sorta di parodia. Tutte quelle espressioni forti e potenti delle identità culturali vengono – appunto – confinate in una sorta di parodia."
Un esempio?
"L’ultima parodia è stata coniare il termine 'radici giudaico-cristiane', neologismo che né Friedrich Nietzsche né Karl Marx né Hegel né, tanto meno, Tomaso d’Aquino avrebbero mai formulato. Nessuno tra i giganti dell’identità europea l’aveva mai immaginato: l’unica, vera storia che ci riguarda e ci identifica è quella greco-romana. Sia il cattolicesimo sia l’islam si affermano – ognuno nella propria area geografica – grazie al radicamento nella cultura greca."
A fronte di questa grave perdita possiamo parlare di morte della cultura occidentale?
"C’è la morte della spiritualità: è una cosa diversa. In termini commerciali, invece, è tutta vita allegra: gli unici a sorridere sono gli editori e i manager intellettuali. Diverso per quanto riguarda il radicamento spirituale. Se, nel 2009, si mettono mille persone in una chiesa ad ascoltare la predica di Mastro Eckhart non capiscono nulla. Nel XII secolo lo avrebbero capito perfettamente."
La caduta del muro di Berlino, invece, significa per molti la fine di questa egemonia culturale da parte della sinistra. Insomma, un’apertura al nuovo, una sorta di rinascita. Ha davvero questo significato?
"In realtà non credo che l’89 possa dire anche qualcosa all’Occidente. Quella del comunismo è una storia che si è infiltrata nella nostra stessa identità. Non riusciremo mai ad avere la consapevolezza di quello che è stato il comunismo. In questo prevale la straordinaria capacità di mobilitazione intellettuale e culturale del comunismo stesso che è riuscito a sopravvivere alla sua stessa morte transimulandosi nelle coscienze della borghesia occidentale. I 100 milioni di perseguitati in settant’anni di comunismo in Unione sovietica resteranno, nell’eternità, un dettaglio di cui nessuno si dovrà preoccupare. Il fatto che ne stiamo parlando ora sappiamo che cade nel discorso e fra cinque minuti sarà già dimenticata."
Si può quindi parlare di globalizzazione culturale?
"No. Tutto il contrario. Le sorprese dello spirito sono sempre in agguato. Il fatto stesso che gli indiani siano riusciti ad acquistare la Jaguar e la Rover, i due marchi dei loro ex colonizzatori, dimostra che non solo lo spirito soffia dove vuole, ma organizza anche delle sorprese inaspettate. E, quindi, quell’aberrante sogno utopistico del mondo ridotto a uno – così come lo immaginava Francis Fukuyama o qualsiasi altro stratega del Pentagono americano – non avrà mai compimento . Nel mondo ci saranno sempre angoli in cui aprire un McDonald’s correrà il serio rischio di trovarsi deserto."

Assunta Almirante: su "L'Europeo" invenzioni e bugie

"Invenzioni vere e proprie, bugie grandi come il firmamento". Assunta Almirante non ci sta e in una dichiarazione all'ADNKRONOS dice di non credere alle parole che 'L'Europeo' in edicola domani attribuisce al marito Giorgio. Innanzi tutto un discorso di metodo, vale a dire i dubbi sulla richiesta al giornalista Daniele Protti di spegnere il registratore prima di parlare del futuro a medio lungo termine del Msi: "ho vissuto 44 anni con Giorgio - dice donna Assunta- e non era uomo da fare confidenze e oltre tutto aveva pochi amici intimi e nemmeno parlamentari". Quindi il discorso sui contenuti: "per prima cosa questo non e' il suo linguaggio, non usava parolacce. E poi non poteva parlare cosi' del suo partito, lui che lo amava piu' della sua famiglia, che pure amava tantissimo, lui che aveva visto morire della gente per il partito. Era, questo si', per un'apertura generale e infatti dall'Msi fece la destra nazionale". La conclusioni di donna Assunta Almirante non ammettono repliche: "Non si possono tirare fuori queste cose, ho la certezza matematica che Giorgio non abbia pronunciato queste parole. Invenzioni vere e proprie, bugie grandi come il firmamento. Devono stare molto attenti, altrimenti parlo io".

mercoledì 4 marzo 2009

E Papa Pacelli ordinò: salvate gli ebrei nel monastero

Pacelli "ordinò" ai conventi romani di accogliere gli ebrei perseguitati dai nazisti. Il Vaticano lo ha sempre sostenuto. Ora c'è anche un documento che - ha annunciato ieri la Radio Vaticana - uscito dagli archivi di una congregazione religiosa romana, lo attesta "nero su bianco". Nel suo genere, quasi un colpo di scena. L'ennesimo su uno dei più discussi pontefici del secolo passato, accusato di essere stato in "silenzio" di fronte alle deportazioni degli ebrei romani, secondo una tesi lanciata in una rappresentazione teatrale del 1963, "Il Vicario", circa 20 anni dopo la fine della seconda guerra mondiale. Tesi sempre respinta dalle autorità pontificie, unitamente a organizzazioni ebraiche internazionali e, persino, da figure come Golda Meier, la prima donna premier dello Stato di Israele.
La pubblicazione di questo nuovo documento servirà a sgomberare definitivamente le ombre su Pio XII anche in vista dell pellegrinaggio papale in Terra Santa? Oltretevere ci sperano vivamente. E non è un caso che la notizia sia stata diffusa dalla Radio Vaticana. La lettera è datata novembre 1943 e fa parte del "Memoriale delle religiose agostiniane del monastero dei Santissimi quattro coronati di Roma". "Il Santo Padre - vi si legge - vuol salvare i suoi figli, anche gli ebrei, e ordina che nei monasteri si dia ospitalità a questi perseguitati". In calce alla lettera c'è un elenco di 24 ebrei segnalati alle suore per essere ospitati nel convento "per aderire - si sottolinea nell'appunto - al desiderio del Sommo Pontefice".
E' "una rara testimonianza", ha commentato all'emittente pontificia padre Peter Gumpel, gesuita e autorevole storico, relatore per la causa di beatificazione di Pio XII. Lettere analoghe - assicura il religioso - furono fatte recapitare dalla Curia vaticana in tanti altri monasteri dentro e fuori Roma, con l'intento di salvare il maggior numero possibile di vite umane, a partire dagli ebrei. "Si tratta di un documento che io stesso ho ottenuto dalle suore agostiniane - rileva padre Gumpel - un documento scritto, per questo importante. Non è l'unica testimonianza che abbiamo in tal senso. Ci sono numerose testimonianze orali, non solo di suore, sacerdoti, ma pure di altri, ma mancano spesso dichiarazioni contemporanee scritte e questo ha dato occasioni ad alcuni - che continuano ad attaccare Pio XII - di contestare e di dire che 'non ci sono documenti che lui abbia mai fatto qualche cosa durante la retata degli ebrei romani il 16 ottobre 1942'. Questa è una totale falsità. L'unica cosa da rilevare è che in tempi di persecuzioni e in situazioni come allora si vivevano a Roma, una persona prudente non metteva molte cose 'nero su bianco', perché c'era il pericolo che queste cadessero nelle mani dei nemici e poi si prendessero misure ancora più ostili verso la Chiesa cattolica".
"L'opera di salvataggio di Pio XII, attestata d'altronde anche da molte fonti ebraiche stesse - prosegue il postulatore - fu fatta attraverso messaggeri personali e sacerdoti, che venivano inviati a varie istituzioni e case cattoliche qui, a Roma, università, seminari, parrocchie, conventi di suore, case di religiosi, sempre con il messaggio: 'Aprite le vostre porte a tutti i perseguitati dai nazisti', ciò che valeva in primo luogo, naturalmente, per gli ebrei".
"Esistono altri due documenti scritti - rivela ancora il gesuita - ; uno fu inviato al vescovo di Assisi, monsignor Nicolini, che lo fece vedere al suo collaboratore, il reverendo Brugnazzi; tutti e due furono poi decorati dallo Yad Vashem come 'giusti tra i gentili'. Qui a Roma abbiamo invece ormai questo documento della cronaca delle suore agostiniane di clausura. Ripeto: è un'ulteriore conferma che può essere utile nei confronti di coloro che persistentemente vogliono denigrare Pio XII e con ciò attaccare la Chiesa cattolica".
Un documento, dunque, che potrà accelerare anche la causa di canonizzazione di papa Pacelli? "Spero di sì - risponde padre Gumpel - la causa di canonizzazione di Pio XII ha avuto l'ultimo verdetto in data 9 maggio 2007, in cui 13 tra cardinali e vescovi che costituiscono il tribunale più alto della congregazione delle Cause dei santi, all'unanimità si sono pronunciati positivamente a favore delle virtù di papa Pio XII. Attendiamo tutt'ora la firma del decreto da parte di Sua Santità Benedetto XVI".

L'egemonia della sinistra e la schiavitù psicologica della destra

La cultura e' di destra o di sinistra? Quale delle due parti politiche ne detiene l'egemonia? Su questi interrogativi in questi giorni e' nuovamente esplosa la polemica tra gli intellettuali appartenenti alle diverse aree ideologiche. ''La sinistra ha ancora l'egemonia sulla cultura e ce l'ha a maggior ragione quando al governo c'e' la destra'', afferma all'ADNKRONOS il giornalista e scrittore Pietrangelo Buttafuoco intervenendo nel dibattito.
''Quelli di sinistra sono stati piu' furbi, piu' attrezzati, piu' professionali. La destra ha visto frantumarsi i sogni della cultura teo-con, la grande tradizione cristiana risulta sempre piu' marginale e minoritaria, in questo panorama i cosiddetti canali dell'egemonia restano solo quelli a sinistra - spiega Buttafuoco - prova ne sia che tutto cio' che contribuisce a formare l'opinione pubblica, come le grandi industrie, la Rai a perfino le tv di Berlusconi, fino ai giornali o all'editoria e' inequivocabilmente legato sempre a quello che resta il grande carrozzone che una volta definivamo veltroniano. E a maggior ragione lo restera' ancora''.
''Sono dell'idea - continua lo scrittore - che l'incarico fa la competenza. L'italia e' un paese per vecchi. Se pensiamo che alla commissione di vigilanza Rai hanno dovuto, con tutto il rispetto, affidarsi ad una figura veneranda, non avevano a disposizione nessun giovani. La maggior parte dei direttori di giornali e' gente che sicuramente non lascera' il passo ai giovani se non fra venti anni quando questi giovani ne avranno cinquanta. Il ricambio non ci sara' mai. Mentre invece la sinistra in questo, nel potere dell'immaginario della fascinazione mantiene forte quell'egemonia perche' innanzitutto ha ridotto in una sorta di schiavitu' psicologica la destra, ma anche il mondo della finanza e dell'industria. L'Italia e' un paese di periferia, dove tutto arriva in ritardo, aggiornare e sistemare il bagaglio culturale di questa nazione e' una fatica improba''.

Soru il pescecane democratico che ha divorato «l’Unità»

Fondato da un sardo, affondato da un sardo. Chiedo subito scusa a giornalisti e impiegati dell’Unità per il gioco di parole sulla drammatica parabola del loro giornale, ma il lungo percorso da Gramsci a Soru, primo e ultimo a guidare l’impresa, curiosamente entrambi isolani, spiega benissimo il senso dei tempi, dei modi, delle persone passate sotto la gloriosa testata. Purtroppo, la profonda differenza tra i due sardi sta deflagrando con effetti atomici proprio in queste ore. Se Gramsci aveva fondato l’Unità sulla spinta di grandissimi ideali, Soru la sta affossando sulla spinta dei personalissimi interessi di bottega. Per la verità, anch’egli quando la comprò fu presentato come una specie di nobilissimo missionario, pronto a mettersi una mano sul cuore e una sul portafoglio per salvare la gloria di un giornale storico. Le voci malevole che lo davano soltanto in cerca di consenso, di una pratica macchinetta elettorale per la corsa alla presidenza della Sardegna e addirittura dell’intero Pd, all’epoca furono zittite come basse insinuazioni. Ma a conti fatti, i dubbi stanno a zero. Soru getta la maschera: battuto impietosamente in Sardegna «dal figlio del commercialista di Berlusconi» (ItaliaOggi), non ha nemmeno aspettato di riassorbire le estese tumefazioni. Perché non si dica che Soru, l’imprenditore illuminato, ha preso l’Unità solo per biechi fini elettorali, eccolo presentare all’indomani della personale bancata questo piano di sviluppo: riduzione stipendi del 40 per cento, taglio dell’inserto satirico Emme (un delitto: è molto divertente, ndr), nuovi prepensionamenti (l’organico è di 80 giornalisti e 40 impiegati), chiusura di redazioni locali, riduzione delle pagine, sforbiciata sui compensi dei collaboratori. Ovviamente, i lavoratori hanno un’ampia possibilità di scelta: o accettano questo piano, oppure il padrone porta i libri in tribunale per chiudere. Prendere o lasciare. E per fortuna Soru è un imprenditore democratico, illuminato, progressista. Pensa se era solo un padrone.
Certo, sui numeri c’è poco da discutere. Nonostante le copie siano in aumento (punte giornaliere a 65mila), l’Unità ha disperato bisogno di denaro. Servirebbero subito 6 milioni di nuovo capitale. Ma l’impellenza della situazione non sembra impensierire l’Illuminato. Di tirare fuori quei soldi non se ne parla neppure. Si taglia brutalmente. O si chiude. Per questo banalissimo motivo, da oggi l’Unità è in sciopero. I lavoratori non sembrano aver pienamente compreso la manovra di rilancio del padrone. Intravedono lo spettro di un solo rilancio: dalla finestra.
A dure spese di una storica testata, si chiarisce almeno un punto fondamentale della nostra storia contemporanea: finalmente è tutto chiaro su Renato Soru. Chi è, cosa pensa, come fa. Fino alla memorabile tramvata, nemmeno un mese fa, sulla stessa Unità viene dipinto come una specie d’Arcangelo, lontanissimo per pensieri e opere dall’industriale cinico e spietato dell’iconografia italiana. Ma gli basta perdere. A urne ancora calde, stacca subito il telefono e abbassa le tapparelle. Come il ragazzino che ha perso due mani di Subbuteo, non vuole più parlare con nessuno. Uno sportivone. Che cosa poi mediti nell’astioso dopo-elezione è adesso chiaro a tutti quanti. Il gioco è finito male, il giocattolo gli sta un po’ sull’anima. L’Unità è una scocciatura. Si comincia con un altro gioco: il gioco della simpatica macelleria. È vero, lo fanno in tanti: ma gli altri sono padroni, lui è l’Illuminato. Non s’era detto così?
Fatalmente, riecheggiano sull’intera vicenda le parole pronunciate prima, e sottolineo prima, da Giovanni Valentini nell’intervista al nostro Francesco Cramer. Caso mai non fosse noto, Valentini è ex direttore dell’Espresso, nonché vice di Repubblica, nonchè infine direttore editoriale di Tiscali, l’azienda di Soru: per dire cioè che non è Emilio Fede. Eppure, dopo aver lavorato con e per Soru, Valentini così lo definisce: «È un piccolo padroncino sardo col solo obiettivo di fare denaro. Nulla di male, ma almeno non si spacci per uomo di sinistra. È iracondo, porta il dissenso a un passo dallo scontro fisico. L’ho visto maltrattare i suoi dipendenti in modo imbarazzante. Imbarazzante! Se lui è di sinistra, io - pugliese - sono austroungarico. Chi è Soru? È un pescecane travestito da spigola».
Ora il pescecane s’è tolto il costume da spigola e mostra le fauci al suo giornale. Sembrano lontanissimi, di un’altra epoca e di un altro pianeta, i tempi in cui dipingevano le sue giacche di velluto come inequivocabile segno di umanità. Tornano d’attualità tutti gli avvertimenti inascoltati. Giampaolo Pansa: «Soru è una vera, strepitosa carogna. Cattivo, scostante, autoritario, diffidente, con quell’accento da Brigata Sassari che fa tremare». Gavino Sanna, il pubblicitario che l’ha lasciato per incompatibilità ambientale: «In campagna elettorale Soru non porta la cravatta, ma un padrone vestito da servo è una vigliaccata verso la povera gente».
A questa letteratura pregressa, si aggiungono i commenti delle ultime ore. Giuliano Ferrara, solidale con i colleghi dell’Unità: «Neanche i cani rognosi subiscono simile trattamento». E Stefano Menichini, direttore di Europa, giornale della Margherita: «Soru? Devastante, irresponsabile, isterico».Per evidenti motivi, non è possibile conoscere l’opinione di Gramsci. Ma basta leggere le sue “Lettere dal carcere”, per avanzare un’ipotesi.

martedì 3 marzo 2009

Destra radicale o destra terminale?

FASCISTI e FASCISMO

Ci sono i fascisti e il fascismo; sono termini complementari ma non identici.
I fascisti sono caratterizzati da vitalismo, mistica eroica, anarchismo ma con scelta del Capo, interventismo, solidarismo, trasgressione e disprezzo della vita conforme e comoda.
Il fascismo è fenomeno inclusivo volto a (e mosso da) sintesi.
Al fascismo partecipano i fascisti ma non solo i fascisti. Anche nella scelta dei ministri Mussolini non si limitava ai fascisti. Gli squadristi poi, ovvero i fascisti doc, espressero poche cariche di governo ma rimasero semmai nelle retrovie fungendo, però, da esempio, da pungolo e da deterrente per i politici.
Può esistere un fascismo senza fascisti? Non a lungo.
Possono esistere i fascisti senza il fascismo? Sì.

ORFANI DI MUSSOLINI

Dopo la sconfitta mondiale gli “orfani di Mussolini” hanno fatto opera di testimonianza (a prescindere dalle scelte di campo intese sempre come tattiche). Ma cosa volevano opporre alla democrazia e al comunismo? Da quest'indecisione parte la dicotomia che si fossilizza nelle categorie gentiliani/evoliani; ovvero da un lato abbiamo la concezione di un nuovo pragmatismo idealistico improntato su scelte sociali e nazionali, come la socializzazione, e dall'altro una mistica esistenziale che faceva dei neofascisti (o meglio di una presunta élite di neofascisti) degli uomini differenziati.
La dicotomia è meno secca di quanto ci appaia ex-post, perchè negli anni Sessanta (quando ancora ferveva una reale battaglia politica) troviamo gruppi che esprimono ambo le aspirazioni e che sono espressioni di entrambe queste polarità (Lotta di Popolo per esempio).

ANNI SETTANTA e JULIUS EVOLA

Gli anni Settanta segnano la sconfitta politica di tutte le scelte neofasciste, sia quelle partitiche (la grande destra, spazzata via, ripartirà solo dopo la fine del bipolarismo internazionale), sia quelle golpistiche, sia quelle movimentistiche stroncate, anche, dallo stesso Msi. I fascisti diventano così carne da macello senza alcuna protezione. Assistiamo alla ripetizione tragico/caricaturale della guerra civile e dell'epurazione. In risposta a questa condizone disperata si realizza un ancoraggio o radicamento (da cui il termine radicale) in una cultura mistica di stampo eroico e metafisico. Il vate è Evola. Ma lo stesso Evola è in qualche modo bicipite. Si rifà, difatti, alla Weltanschauung tedesca e in parte alla Mistica italiana e detta così le pagine migliori in opere quali “Cavalcare la tigre” (di sfondo nicciano) e “Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo”. Va riconosciuto a Freda il merito di aver colto l'essenziale ne “La dottrina aria di lotta e vittoria” che la Ar pubblicano.
Un anziano “vezzo” aristocratico del Barone e un comprensibilissimo pessimismo storico (s'immagini uno che passa dal frequentare Codreanu, Farinacci e Mussolini a ritrovarsi, paralizzato, in compagnia di Rauti) lo spingono ad allinearsi su concezioni reazionarie della storia che nulla, ma davvero nulla, hanno a che fare con il fascismo e neppure con il nazionalsocialismo. Responsabili di queste sbandate evoliane sono anche i suoi discepoli che gli chiedono un programma per le loro azioni fantasmagoriche. Alle quali, ovviamente, Evola non crede e pertanto si rifugia in un pessimismo politico diametralmente opposto al suo entusiasmo eroico/titanico di genere esistenziale. “Gli uomini e le rovine” attestano perfettamente questa duplicità di piani. “Orientamenti” e “Il fascismo visto da destra” vanno invece nella direzione dell'immobilismo e sono a mio avviso dannosi. Insomma da un lato Evola esprime una “radicalità” esistenziale, filosofica, metafisica, un rilancio eroico-guerriero, dall'altro si ancora ad un pessimismo immobilista di “destra”. La generazione che si radicalizzò su Evola, meritandosi la definizione dr, non sciolse mai queste questioni, si ancorò culturalmente, coscienziosamente e spiritualmente sulla metafisica esistenziale e fu questo che le permise, unica in assoluto, di vincere nella sconfitta. Perché non combatté per vincere ma per rispondere a un richiamo e per vincersi. Vincere se stessi non gli altri!
La “radicalità” non fu solo concettuale se è vero, come è vero, che tutti i principali esponenti delle formazioni di allora vissero sempre e comunque in modo frugale e spartano a differenza degli esponenti delle destre estreme delle generazioni successive. L'impersonalità o almeno la spersonalizzazione nella funzione, l'aderenza ad uno stile di vita unitario, intero, autentico, sono dati ascrivibili agli esponenti di punta di allora e non solo a quelli di punta.
Se la “radicalità” ebbe un valore essenziale e formò spiritualmente e caratterialmente le persone, la chiusura nella “destra” fu assai meno certa e condivisa visto che ci furono non poche tentazioni d'anarca e anche di movimentismo acceso e spregiudicato (si pensi a “La disintegrazione del sistema”). E visto che molte spinte universaliste, anti-imperialsite, terceriste e tanti rinnegamenti della categoria di destra maturano proprio in questo humus.

DOPO GLI ANNI CALDI LA DESTRA BARRICATA

Dopo la fine degli anni di piombo e l'avvento del consociativismo, la questione irrisolta tra gentiliani ed evoliani si ripresenta in forma scaduta; da una parte ci sono quelli che cercano di partecipare ai fenomeni giovanili protestatari di stampo ecologista/neolaburista e dall'altra quelli che si rinchiudono in torri d'avorio. Tuttavia non essendoci guerra è difficile che ci sia metafisca della guerra ed è così che vengono recepiti più gli schemi reazionari e antipolitici di Evola che non quelli esistenziali.
Ciò svuota un mondo e ne riduce l'essenza ad atteggiamento.
Ne approfittano le culture esterne. La parte “pragmatica”, figlia degli individualismi democratizzanti che s'impadronirono in buona parte della linea-hobbit, si appiattisce verso le tesi della sinistra postmarxista o produce immaginari fantasy non immuni da tentazioni new age, la parte “intransigente”, chiusa in un'immobilità determinata anche dalla venuta meno dello scontro e ella sfuda, diviene permeabile agli integralismi reazionari. La destra barricata ha inizio. A differenza della destra radicale, questa è chiusa in un attendismo da “deserto dei tartari” e non cura più la propria formazione e la propria esperienza. Cristalli, concetti sclerotici e dogmi intervengono a imbandierare i fortini nel deserto mentre l'assenza di lotta e la recisione con le generazioni precedenti (quasi tutti morti o prigionieri) fa abbandonare la sfida intesa come realizzazione di sé.

IL MSI AL GOVERNO

La svolta del 1994, con il Msi al governo, segna un ulteriore passo avanti delle sacche estreme verso la destra terminale. Prive da tempo di radicamento, di ancoraggio, di continuità viva, esse si fanno catalizzatrici di ogni scontento di bassa lega, di ogni frustrazione e finiscono con l'imitare in peggio il Msi sia sul piano delle scelte (l'elettoralismo) che dell'assenza di selezione e di verifica.
Esse pensano, erroneamente, di poter catalizzare lo scontento di AN; ma ci sono tre equivoci di fondo che le avviano nel cul de sac.
Il primo equivoco riguarda il presunto tradimento degli elettori missini, un tradimento non vissuto come tale dalla maggioranza di essi.
Il secondo equivoco riguarda la qualità delle guide. Esse sono, solitamente, gli scarti e i trombati di An; alla destra di An non ci si qualifica con un + ma con un – sia come qualità che come capacità.
Il terzo equivoco sta nel materiale con cui si vorrebbe cementare qualcosa; il materiale è argilla. Non c'è nulla di “radicale” in questa destra, c'è molto di “destra” ma l'insieme di rancori, fallimenti, fastidi, acidità, sconforti, ne fanno la pessima copia di An. Una An che, d'altronde, le destre terminali inseguono senza cessa, posizionandosi ogni anno laddove An era posizionata due anni prima.
L'avvento del berlusconismo e la solidificazione della Lega danno il colpo di grazia alle ambizioni della destra terminale e alle sue prospettive.
E la destra terminale si avvita in ambizioni di portafoglio, di rimborso elettorale, in liti di boutique che nessuno di coloro che si formarono con il modello della destra radicale può capire o condividere o può non disprezzare.

LA PARABOLA DELLE DESTRE

Possiamo dire che la parabola dagli anni Sessanta agli anni Zero è stata la seguente:

Destra interventista
Destra radicale
Destra barricata
Destra terminale

FUTUR-ARDITI

Nel frattempo, per fortuna, il mondo si muove. La sclerosi e la mancanza di senso senso della destra terminale da una parte e l'alzata del piano d'intervento delle gerarchie di An (dunque meno coinvolte nel controllo ossessivo dell'apparato) dall'altro, hanno dinamizzato le basi e i quadri e aperto spazi alle relazioni trasversali e ai vasi comunicanti generando le condizioni per un nuovo cambiamento estese a tutti coloro che non hanno voluto aderire al riformismo alleanzino né all'esibizionismo alla sua destra. E' iniziato così a pullulare un insieme eterogeneo di realtà (individui e associazioni) che hanno cercato di rinnovare pescando comunque nel passato (reale però, non imbalsamato).
Le punte di diamante di questo processo sono le avanguardie futur/ardite e non-conformi, le quali, ricollegandosi con il modello fiumano e squadrista, hanno ripreso la mentalità originaria e, con esso, il gene esistenziale.
Non è, questa, una “destra radicale” ma ha una serie di legami con il radicalismo, vuoi per frequentazioni di qualche anziano, vuoi per una cultura ideal/politica.
Un elemento è a mio avviso molto significativo. Esse hanno scelto un modello culturale, esistenziale e comportamentale (lo squadrismo futur/ardito) che è una delle varianti del modello eroico. Lo hanno scelto come archetipo perché sono, comunque “radicali” o megio “radicate”.
Il Mito è quello che differenzia il fascismo dall'anarchismo che si orienta all'Utopia.
Il valore del mito come modello per l'azione su se stessi (nulla a che vedere con la mimesi, l'imitazione, la caricatura) è centrale. Ed è valido nella misura in cui il modello innova, produce una continuità che non sia formale ma essenziale. In cui produca qualcosa di attuale, di nuovo, che sia contemporaneamente antico ed eterno. E su questa linea a mio avviso le avanguardie futur/ardite ci stanno in pieno.

CONCLUSIONI

Per quanto mi concerne non sono mai stato fanatico della definizione “destra radicale”; come ho avuto modo di dire già in Tortuga, se proprio non si può fuoriuscire dalla categoria, ambirei a quella di “destra rivoluzionaria” definita da Zeev Sternhel.
Sono invece incondizionatamente “radicalista” dal punto di vista cultural/etico/esistenziale e penso che ci sia necessità di un ulteriore “radicamento” da parte delle frange propositive e vive.
Diciamo che ci si può benissimo ritrovare a destra ma non si deve assolutamente essere di destra; né come categoria, né come indole, né come mentalità. Lo scopo è un altro. ネ appunto inclusivo, sintetico, trasversale, unitario e trascendente.

Di qui due considerazioni che vanno messe in risalto

LA PRIMA: una distanza siderale passa, mentalmente e comportamentalmente, tra la destra radicale di ieri e la destra terminale di oggi

LA SECONDA: le chances. Esse a mio avviso risiedono nello sposalizio (che spesso c'è) tra tre componenti: la “radicalità” (sul genere evoliano ma anche ricciano, mezzasomiano ecc), l'avanguardismo futur/ardito e una nuova concezione della politica che non credo possa discostarsi molto da quanto ho espresso in “Sorpasso Neuronico”.

Di Gabriele Adinolfi (www.norepoter.org)

domenica 1 marzo 2009

Al via in Danimarca un cimitero pagano per i fedeli di Odino


« Questo conosco per terzo: se ho grande urgenzadi incatenare i miei nemici,io spunto le lamedei miei avversari:non mordono più armi né bastoni. »
(Edda poetica - Hávamál - Il discorso di Hár CXLVIII)

Giunge da Odense, Funen, in Danimarca, la notizia che un’area del cimitero pubblico di ottocento metri quadri è stata recentemente destinata ai defunti della comunità pagana “Forn Sidr”. All’ombra di una enorme scultura raffigurante una nave vichinga, lunga ben diciotto metri, verranno seppelliti sotto il manto erboso, senza lapidi, tutti coloro che in vita continuano a ispirarsi agli antichi dei del Walhalla. Il cimitero sarà delimitato da alte pietre megalitiche sulle quali sarà possibile apporre targhe commemorative in memoria dei defunti che abbracciarono la fede pagana. Si tratta di un bizzarro progetto pilota, ma che già altre cittadine hanno richiesto per accontentare la presenza di seguaci di un neopaganesimo che evidentemente arruola molti più adepti di quanto si pensasse. Dunque il fascino dell’olimpo precristiano continua a trovare seguaci che, oltre a ritrovarsi in un comunità, hanno chiesto un riconoscimento formale allo stato che è effettivamente arrivato. È innegabile il fatto che il Odino e Thor, con tutta la simbologia derivante, germanica e non solo, da sempre producano una profonda suggestione a più livelli. Sorvolando sull’utilizzo del linguaggio delle rune negli anni Trenta, arrivando a tempi più moderni e meno cupi, come non ricordare i colora-tissimi fumetti della serie Il mitico Thor, uno degli eroi di maggiore successo della Marvel Comics Group, in cui il figlio di Odino veniva rappresentato in incredibili e avveniristiche avventure sempre in compagnia del suo inseparabile Mjolnir, il martello magico. Nel fumetto di Stan Lee Mjolnir venne forgiato da Eitri, un nano fabbro, e dai suoi fratelli per conto di Odino stesso dal nucleo di una stella. Il minerale utilizzato per la forgiatura fu l’Uru, la sostanza più dura del regno di Asgard che rese il martello praticamente indistruttibile. Mjolnir divenne l’arma più forte degli dèi nordici; anche se fossero state forgiate altre armi nessuna sarebbe stata potente come Mjolnir, che era stata benedetta dal potere di Odino. Il quale stabilì che colui che avesse alzato Mjolnir sarebbe divenuto erede al trono di Asgard. Chi vi riuscì fu suo figlio Thor che da allora porta sempre con sè il potente martello di Uru. Da allora sul martello erano incise le parole: «Chiunque impugni questo martello, se degno, possiederà il potere di Thor». E il dio del tuono nordico può persino volare tramite il martello lanciandolo verso la direzione desiderata e tenendosi ben saldo alla sua cinghia. Su di lui, nel 1988, fu realizzata anche una trilogia di film per la tv americana a conclusione della celebre serie di telefilm de L’incredibile Hulk. Il primo film della serie venne scritto e diretto da Nicholas Corea. Nella pellicola, ancora interpretata da Bill Bixby, alias il dottor Bruce Banner, e da Lou Ferrigno, il mitico culturista diventato famoso come Hulk, faceva la sua comparsa il personaggio di Thor impersonato dal colosso biondo Eric Allan Kramer. Qualche anno fa invece, precisamente nel 1999, uscì invece il libro Gli dei di Asgard di Harrison Henry (Editrice Nord, pp. 418, euro 4,37 euro) che inaugurava una serie di tre libri tutta incentrata sulle divinità nordiche, da Odino a Thor, in un incredibile e suggestivo intreccio tra lo storico e il fantastico: nel 865 dopo Cristo le Isole Britanniche sono una terra lacerata da rivalità, lotte e guerre fratricide, ma su tutti governa l’autorità della Chiesa. Potenti vescovi e alti prelati riempiono d’oro le cattedrali, lanciando scomuniche e minacce di dannazione eterna a tutti coloro che si oppongono al loro primato. Ma c’è chi non ha paura dei loro anatemi: è il fiero popolo dei Vichinghi, temuto in tutto il nord (e non solo). Essi seguono la Via degli Dèi di Asgard che reca come emblema il martello di Thor, e sono più che mai decisi a espandere le loro conoscenze e il loro potere, attraverso la conquista di nuove terre. Seguiranno altri due libri: Il martello e la croce e Il re e l’impero nei quali si racconterà fino alla conclusione l’interva vicenda del protagonista che arriverà a estendere il suo regno fino a Roma. Anche la musica non è rimasta indifferente alla simbologia nordica e un gruppo in particolare cavalca da tempo le suggestioni nordiche da quasi trent’anni mettendole in musica con risultati diversissimi: i Manowar, band heavy metal nata a New York nel 1980 dall’incontro tra il bassista del gruppo Joey DeMaio e il chitarrista Ross the Boss. Il nome del gruppo deriva da una contrazione di man of war letteralmente uomo di guerra e il simbolo della band è il mjolnir. I temi ricorrenti delle loro canzoni sono la mitologia, la guerra, la lealtà e l’onore e in più canzoni citano gli dèi di Asgard.

Di Ippolito Edmondo Ferrario (Il Secolo D'Italia)