venerdì 9 ottobre 2009

Asor Rosa senza parole. Gli intellettuali tacciono? Non hanno niente da dire

Ma non vi sfiora il sospetto che «il grande silenzio» degli intellettuali sia dovuto al fatto che non hanno più niente da dire? Si celebra in quest’autunno il trentennale della loro decadenza e il ventennale della loro caduta, insieme al Muro di Berlino. Da quel tempo si narra del silenzio degli intellettuali e del loro isolamento. Il pensiero muore con la fine della modernità, celebrata da Lyotard e poi da Vattimo trent’anni fa. La storia svanisce con il Muro di Berlino, vale a dire un ventennio fa, come scrisse allora Fukuyama. Lungo il secolo è stato tutto un susseguirsi di cannibalismi: il libro sopraffatto dal giornale, il giornale dalla radio, la radio dalla tv, la tv da internet e via dicendo. E così il teatro sopraffatto dal cinema e il cinema dal video e dalla musica rock. Via via la cultura si è ritirata a vita privata e gli intellettuali si sono fatti marginali.

A celebrare la loro scomparsa è venuto un brontosauro degli intellettuali organici «destinato all’estinzione», come egli stesso dice: Alberto Asor Rosa in un libro intervista con Simonetta Fiori (Il grande silenzio, appunto, uscito da Laterza, pagg. 181, euro 12). Barone rosso, ideologo del Pci e del ’68, accusato poi di essere il grande vecchio delle Br, autorevole critico letterario. A suo merito opere come Scrittori e popolo nel 1964, ed altri scorci autobiografici più recenti, compresa una confessione di nichilismo & apocalissi. A suo demerito il ruolo di cattivo maestro dell’operaismo che non disdegna la violenza purché «progressiva» (lo ribadisce anche in questa intervista); che non si smuove da un comunismo utopistico e settario che potremmo definire aristocomunismo (un altro autorevole compagno è Luciano Canfora, un altro è Leone de Castris, aristocratico anche dal profilo genealogico), nutrito di uno sprezzante manicheismo. Noi ne parliamo lo stesso, perché a differenza di Asor Rosa e degli intellettuali come lui, crediamo alla civiltà del dialogo e preferiamo leggerlo e criticarlo, anziché ucciderlo col silenziatore (a proposito di grande silenzio... ). Invece Asor Rosa preferisce cancellare o demonizzare il nemico.

Cosa emerge in questa intervista-congedo? La tesi vetero-operaista e vistosamente infondata che l’intellettuale nasce con il capitalismo; il rimpianto aristocratico delle vecchie élite del passato e della saldatura tra oligarchie e intellettuali; l’assurdo alibi che i comunisti restarono stalinisti a causa delle censure fasciste (i comunisti furono devoti a Stalin fino alla sua morte e oltre, diversi anni dopo la caduta del fascismo); l’asservimento totale della cultura al Pci, con storie di incredibile obbedienza al Partito: «Se Togliatti indicava una strada bisognava seguirla. Senza discussioni». E ancora: dopo alcune sue timide obiezioni un alto dirigente comunista tuonò: «Ci vogliono i campi di concentramento!». E obbligandolo a candidarsi, fu detto al Barone Prof. Asor Rosa: «In questo partito un iscritto non discute i deliberati della direzione. Ubbidisci e basta!». E l’illustre professore ubbidisce e «scatta sull’attenti come una recluta». Il bello è che Asor Rosa rimpiange quell’epoca: «Almeno un certo ordine c’era». L’ho sentito dire anche a vecchi fascisti.

Ma che credibilità potevano avere questi intellettuali così arroganti all’università e con chi non la pensa come loro e così servili e acriticamente ubbidienti con il Partito? A proposito del fascismo, Asor Rosa accetta di passare, come egli stesso dice, per «il più agguerrito neo-revisionista» arrivando a riabilitare il fascismo rispetto a Berlusconi. «Da tutti i punti di vista il berlusconismo è peggio del fascismo»; il fascismo, dice, era almeno dentro una tradizione nazionale, aveva un rapporto stretto con il risorgimento. Il berlusconismo no, svuota le idee dell’avversario e nega tutto, Resistenza inclusa, facendola propria. E vi risparmio la solita analisi sulla dittatura populistica o la democrazia totalitaria, che corrompe dentro e distrugge fuori. Torna antifascista quando dice che dietro il fascista più onesto c’era l’olocausto (che però quel fascista ignorava); ma dimentica di dire che dietro il partigiano comunista più onesto c’erano i gulag e un sistema totalitario che il fascismo solo si sognava... Obiezione elementare, ma vera.

Infine Asor Rosa si attacca ai prof, alla scuola, ai libri di testo ritenendoli - credo con ragione - l’ultima Stalingrado del comunismo e dintorni (lui dice «l’ultimo baluardo»). Ma non senza ammettere che il progetto comunista e sessantottino è fallito: «La quantità ha soffocato la qualità», fu cancellato il merito. Parole sagge dopo un magistero dissennato.

Chiudendo il libro, torno al titolo e dico: ma gli intellettuali non sono stati ridotti al silenzio. Sì, siamo in una società di massa, volgare e mercantile, dove le idee e la cultura non contano, le merci prevalgono sui pensieri, gli intellettuali sbiadiscono. Però, quella poderosa corazzata che ha esercitato l’egemonia, dal ’68 in poi, quali opere memorabili ha prodotto negli ultimi trent’anni? Poco o nulla. Eppure aveva in mano il potere editoriale e culturale. Ma non ricordo nessuna opera essenziale, nessun nuovo pensiero, nessuna grande fioritura. Tra le ultime opere notevoli, la dichiarazione di decesso del comunismo firmata da Lucio Colletti, comunista pentito, sul tramonto dell’ideologia. Poi il nulla. In filosofia, in letteratura, in cultura politica, in storia. Se qualcosa è emerso, oltre i ripescaggi del grande pensiero novecentesco, quasi tutto conservatore, reazionario e protofascista, è stato fuori e contro quell’egemonia della sinistra.
Da qui il sospetto che il grande silenzio degli intellettuali sia dovuto principalmente al fatto che non avevano più nulla da dire e quel poco che potevano dire, non hanno avuto il coraggio di dirlo. Ma gli intellettuali veri si misurano dalle opere, non dal potere che hanno. E obbediscono alla passione di verità, qualunque essa sia, non agli ordini del Partito. Perché poi, quando finisce il Partito, non sanno più cosa pensare e si limitano a inveire contro il primo Berlusconi che passa.

(di Marcello Veneziani)

domenica 4 ottobre 2009

sabato 3 ottobre 2009

Fazio, Serra e le marchette della sinistra

Ma sì, proviamo a non pagare più il canone Rai. E vediamo se qualcuno dei big di viale Mazzini sarà costretto a cambiare mestiere. Sino a oggi, in casa mia abbiamo continuato a pagarlo. Perché sono un legalitario, purtroppo. Non parcheggio in sosta vietata. Pago le tasse sino all’ultimo euro. Esigo la ricevuta fiscale. Volete che non dia un obolo per sfamare l’Equino Insaziabile?
Sono un vero fesso. Anche perché in Rai vedo troppe cose che non mi piacciono. E sulle quali non ho potere, pur essendo pure io un azionista. Occorre un esempio? No, non farò quello di “Annozero” by Michele Santoro. Farò il nome di Fabio Fazio e del suo programma “Che tempo che fa”.
Di mister Fazio da Savona mi è rimasta in mente una serata speciale. Me ne ero occupato più due anni fa, ma senza turbare la marmorea indifferenza di nessun sinistro. Era la domenica 13 maggio 2007, sotto il regime di Romano Prodi. Sulla Rete Tre andava in onda il programma faziesco che promuove libri e autori. Anche quella sera il libro non mancava. E fin qui niente di strano. Lo strano emergeva nello scoprire che l’autore dell’opera era un big della Rai: Antonio Caprarica, allora direttore di tutti i giornali radio.
La situazione era comica. Rete di sinistra. Conduttore di sinistra. Autore del libro pure lui di sinistra, diventato direttore Rai in quota Ds. Ho scritto comica, ma dovrei dire indecente. Un conflitto d’interessi sfacciato. Meglio ancora: una marchetta rossa. Fabbricata in casa, fra compagnucci che si strizzano l’occhio. Alla faccia della buona creanza.

Le ragioni dell’esclusione

Mister Fazio potrebbe ribattere: Pansa ce l’ha con me perché non l’ho mai invitato a presentare uno dei suoi libracci revisionisti. In parte è vero, sono uno degli eterni esclusi dal suo show. All’inizio, la faccenda mi seccava. Poi mi sono messo il cuore in pace, poiché ho visto che la mia carta stampata si vendeva lo stesso, e molto.
Tuttavia mi è rimasta una curiosità. Chi mi ha sempre escluso? Fazio o il suo autore più influente, Michele Serra? Tra un po’ di giorni l’Uomo di Savona ritornerà in onda. Il suo contratto è stato firmato, per il tenace interessamento del presidente della Rai, Paolo Garimberti. E Serra sarà di nuovo uno degli autori. Il più importante, essendo l’umorista ufficiale di “Repubblica” e dell’“Espresso”.
Lui è più inamovibile di Fazio. Lo vedremo all’opera, sempre con un compenso generoso, anche nelle quattro puntate di Gianni Morandi sulla Rete Uno. Il cantante di Monghidoro si produrrà in un pistolotto per ogni serata, imitando Adriano Celentano. C’è da giurare che i pistolotti glieli scriverà Serra, come aveva già fatto per il Molleggiato.
Possono sembrare piccole miserie da parrocchia televisiva. Ma non è così. In realtà sono la spia di un problema più generale: quello dei talk show politici della Rai. E della continua supremazia della sinistra su un centro-destra senza idee, pavido e inerte.
Vediamo come stanno le cose. “Porta a porta” di Bruno Vespa è un’eccezione alla regola. Lo sanno tutti che non milita a sinistra. E per questo sta sui santissimi ai compagni. Anche se la sua trasmissione è la più bipartisan nel pianeta della tivù pubblica.

L’imitazione di Vespa

Giovanni Floris, con “Ballarò”, cerca di imitare Vespa. Ma non gli riesce. A emergere, ogni volta, è il suo imprinting di oppositore accanito. Chi lo accusa di essere troppo tenero nei confronti del cavalier Berlusconi è chiaro che non lo vede mai.
Di “Annozero” sappiamo tutto. Ho sempre ammirato Michele Santoro e sono stato più volte suo ospite, persino quando lavorava per la Mediaset del Caimano. Oggi il suo show mi annoia, perché so già quel che racconterà, e passo subito ad altro. Però ammiro Michele più di prima, per l’esempio che offre: un uomo solo può imporsi a quel mostro impotente che è Mamma Rai.
Un altro show rosso lo fa tutti i giorni Corradino Mineo su “Rai News 24”. La mattina presto, Mineo va in onda sulla Rete Tre. La sua lettura dei giornali e il colloquio con l’invitato di turno hanno il profumo della vecchia sinistra. Il Pci è morto. Ma gli orfani, ancorché invecchiati, tengono duro. E grazie alla Rai continuano la loro annosa militanza.
Proprio Mineo ci offre la prova che in Rai esiste una catena di complice amicizia tra i programmi rossi. Ieri mattina, lunedì 28 settembre, Corradino già ribatteva, allarmato, alla proposta di non pagare il canone. E soprattutto difendeva con ardore la puntata di “Annozero”. Come se Santoro fosse il suo capo corrente.

Il motto di Nenni

A questo punto, il problema vero non è: canone sì, canone no. La questione è un’altra e riguarda il centro-destra. Ecco un’area politica accusata di aver schiavizzato la Rai e di imporre la volontà del Caimano. In realtà, non è cosi. Con il risultato che la mitica egemonia della cultura comunista, post-comunista o di sinistra continua a imperare.
Dichiaro che la faccenda non mi riguarda. Grazie al cielo, esiste la carta stampata. A cominciare dai quotidiani. È vero che le tante sinistre ne sfornano ben nove ogni mattina. Tanto da indurre il sospetto che il vecchio motto di Pietro Nenni, a proposito dello scarto fra le piazze dei comizi e i risultati elettorali, andrebbe aggiornato così: “Edicole piene, urne vuote”. Ma è il complesso dei giornali a garantire il pluralismo e la libertà d’informazione.

Vecchio bar di provincia


Tuttavia la questione dovrebbe riguardare la cultura di centro-destra. Quest’area urla, strepita, accusa, ma lascia fare. Sta al governo, però si comporta come un’opposizione parolaia e impotente. È mai possibile che non sia capace di creare un suo programma Rai dedicato al dibattito politico? Che ci stanno a fare i tanti intellettuali e/o esperti che ronzano attorno al Cavaliere? Forse si fanno le pippe, si sarebbe risposto nel mio vecchio bar di provincia.
Ma farsi le pippe, per poi piangere sul predominio di Santoro, di Fazio e compagni, non serve a niente. O forse serve soltanto a coltivare la pia illusione che spetti alle tivù di proprietà del Caimano tenere in equilibrio il mercato dell’informazione televisiva. Sì, cari amici azzurri, bianchi, grigi ed ex neri: pippatevi pure. In attesa che tutti cantino “Marchetta rossa la trionferà”.

(di Giampaolo Pansa)

La destra non sa liberarsi dei suoi antichi complessi

Ci si chiede perché con un governo di centro-destra, malgrado lo sforzo di pochi e l’oggettivo fallimento politico del Pd e dei neo-post comunisti, la cultura vincente sia sempre quella di sinistra (giornali, tivù, libri, mostre del cinema).

Sarebbe semplicistico rispondere che non bisogna comportarsi come gli avversari (il tema è l’egemonia), e che va imposto il metodo sovrano del pluralismo, ma l’interpretazione di Libero (con gli articoli, nei giorni scorsi, di Francesco Borgonovo e Gennaro Malgieri) induce a riflessioni serie.

Il premier Silvio Berlusconi sta offrendo un “modello italiano” ben preciso: l’incontro tra il decisionismo, la governabilità (il presidenzialismo di fatto), e l’autobiografia della nazione, la concezione del cittadino “fai-da-te”, la meritocrazia e la legalità; una sorta di “modernizzazione identitaria”, che si esprime nelle varie riforme che finora sono state avviate (dalla scuola alla pubblica amministrazione, al mercato del lavoro).

Ebbene: esiste una nuova e moderna cultura di destra, capace di intercettarne, descriverne la portata, fissarne la mission? Esiste un lavoro serio da parte delle Fondazioni, vicine al PdL in grado di studiare e comunicare l’esperienza di Palazzo Chigi?

La risposta è sconsolante.

Ci dividiamo ancora tra i “professionisti dell’identità”, che hanno dell’identità una visione statica, testimoniale, museale; e “i rinnegati dell’identità”, i profeti dell’amnesia, che negano il valore e l’orgoglio di una tradizione di appartenenza.

In Europa i filoni cattolici, laici-liberali, conservatori e riformatori nazionali primeggiano, solo da noi sono sfondi astratti per convegni inutili. E dell’attualizzazione delle idee (l’unica via giusta tra chi nega e chi ingessa le identità), nemmeno a parlarne.

Come se non bastasse, troppi intellettuali e penne brillanti stanno reiterando uno sport autolesionista da anni Settanta. Si chiama playstation delle idee.

Il mero gusto della provocazione per andare sui giornali che contano (la stagione dei giochetti “Paperino è di sinistra e Topolino di destra”, non è ancora finita). Sport legittimo quando sconfinare era importante; ma infantile e controproducente oggi.

Esempio. Quando giornali come “Il Secolo d’Italia”, insistono, come hanno fatto in passato, su «Che Guevara è nostro», «Zucchero è un amico», il film «Fascisti su Marte» è positivo; oppure quando il giornale on line della Fondazione FareFuturo, spesso più finiano di Fini, si lancia in accostamenti pannelliani e ultra ludici; primo si indebolisce la cultura di destra, confermando il primato della cultura di sinistra; secondo, si diventa ascari del pensiero unico e del politicamente e culturalmente corretto.

Le ragioni? Psico-politiche: mistica del ghetto e complesso di inferiorità culturale. Quella “sindrome da legittimazione”, serva sciocca della “sindrome di Voltaire” della sinistra, che si ritiene l’incarnazione religiosa del bene. Una sinistra che da anni non esprime più nulla o ricette ideologiche superate.

Solidarietà, infine, al direttore dell’Altro, Piero Sansonetti, accusato dai suoi redattori di flirtare con i fascisti del 2000. Debole però, la risposta del direttore: non si dialoga con gli avversari, perché diversi, ghettizzati, emarginati; ma per costruire un’Italia nuova, con valori comuni e memoria condivisa. Facendo tutti un salto di qualità.

Conclusione: Dio salvi la destra che si fa dare i voti dalla sinistra, facendo la destra come vuole la sinistra, o la destra estetica, immaginaria del “sottovuotospinto”.

(di Fabio Torriero)

venerdì 2 ottobre 2009

E i libertini di "Repubblica" esaltano banche e celibato

Erano orgogliosamente libertini, lo spirito licenzioso dei Lumi e quelle cose lì, l’erotismo alla Diderot, le monache finalmente in calore, il «divino marchese» e quindi Justine, Emmanuelle, l’Histoire d’O, la donna sessualmente libera e liberata, e ora sono tutti un «signora mia, ma che tempi, ma che vergogna, ma quelle povere ragazze seminude, che sconcio, che decadenza...». Editano riviste che sono un inno alla f... e però adesso mettono le mani avanti (e magari anche dietro), e dicono che no, la loro è la f... democratica, progressista, quella che gestisce la propria sessualità... Scrivono articolesse sui settimanali che hanno le natiche femminili in copertina e ogni pretesto è buono per illustrare con un nudo di donna anche i terremoti e le inondazioni, e però hanno la faccia come il culo di dire che basta, è ora di finirla con la mercificazione dell’altra metà del cielo... Hanno applaudito il trash «stracult», i Pierini scoreggioni e le Giovannone coscia lunga, i reality dove il buco della serratura era visto come l’irruzione della realtà nel mondo della finzione, la verità che finalmente si impone sullo schermo, e ora è tutto un rimpianto dei bei tempi dell’Approdo, quando la tele era in bianco e nero, c’era il maestro Manzi e A come agricoltura... E infatti, quante braccia strappate alla semina, quanti guasti ha fatto il voto politico e l’apertura indiscriminata nelle università...
Erano orgogliosamente anti-capitalisti, si mangiavano i padroni a colazione, i banchieri a pranzo, i poteri forti a cena, al massimo si commuovevano di fronte all’«utopia illuministica» di Olivetti, perché a quelli come loro garantiva comunque uno stipendio, stavano con Gasparazzo, il fumetto dell’operaio che puzzava di sano sudore proletario e ce li ritroviamo a difendere le banche, come se fossero l’opera pia di Don Guanella, contro le nequizie dei Tremonti-bond: un attentato, una voglia punitiva nei confronti di chi fa fruttare il denaro dei poveri risparmiatori. Le banche, i banchieri, capite, vittime del sistema, «l’élite che resiste» (ma dai, ma fai il bravo), poveri bersagli di una congiura che vorrebbe loro male, loro che al primo imprenditore che chiede un finanziamento, al primo impiegato che vuole accendere un mutuo, lo invitano a cena, gli regalano una macchina, gli presentano la figlia...
È uno strano mondo quello che ruota intorno alla galassia editoriale di cui Repubblica è la stella fissa: un mondo di saltimbanchi del pensiero che hanno tre cattedre e venti collaborazioni, macinano premi, libri e incarichi, vanno in televisione, ma gridano al regime, sentono lo stivale chiodato alla porta, imprecano contro la dittatura strisciante mentre imbottigliano il vino dei propri vigneti («poche bottiglie, solo per gli amici») e chiedono il condono edilizio per il dammuso che hanno restaurato fuori legge. Un mondo di famiglie allargate, pluri matrimoni e pluri divorzi, lo scaffale delle pellicole hardcore ben fornito, perché, si sa, «l’erotismo non è pornografia», ma che si lamenta della decadenza dei costumi: «Un vecchio, pensa un po’, con una ragazza» che potrebbe essere sua nipote»... E certo «Lolita è un capolavoro e come è vero quell’amore senile»...
È curioso come i nemici del moralismo piccolo-borghese, gli adepti del «famiglie io vi odio», i teorici delle mille unioni possibili, uomo-donna, donna-donna, uomo-uomo e di ogni altra ipotetica terza via, si ritrovino uniti nell’esecrazione sessuale: le veline in convento, i festini al rogo, i brachettoni al posto delle gonne, la Controriforma fatta dai laici, prima di morire dovevamo vedere anche questo... È curiosa questa passione per la finanza invisibile, per l’economia globalizzata, la Borsa e la Banca con la b maiuscola, fatta da chi applaude Michael Moore quando racconta le nequizie di Wall Street. Gli americani sono sempre gli altri.
È sorprendente questo coro intellettuale in cui spiccano le voci di direttori e grandi firme che si inorgoglivano se, alle sei della mattina, al telefono venivano buttati giù dal letto dall’Avvocato o dall’Ingegnere (ma che cazzo di vita facevano, gli uni e gli altri?), ma attutivano la mancanza di sonno scorazzando sui loro panfili, aerei e elicotteri... Naturalmente hanno la schiena dritta, si spezzano ma non si piegano (non si spiegano con se stessi, più che altro) e danno del servo, del prezzolato e del killer all’avversario di turno, che sempre naturalmente non è un essere umano, ma un verme, un cane avrebbe detto il Sartre che taceva sugli orrori del comunismo per non far piangere la classe operaia... È una sorta di antifascismo alla puttanesca, una Nuova Resistenza in cachemire, l’Aventino andando in barca alle Eolie. Aveva ragione Marx: quando la storia si ripete, dalla tragedia si passa alla farsa.

(di Stenio Solinas)

Mi dimetto da giornalista. Non voglio essere collega dei finti martiri

Domani mi autosospendo dalla professione di giornalista. Perché domani la Federazione nazionale della stampa manifesterà per la libertà di stampa minacciata e io mi vergognerò di essere giornalista. Se mi chiederanno per strada che mestiere faccio, dirò il pescatore o lo scrittore, non certo il giornalista. Se il testimonial della stampa libera è la D’Addario, preferisco dirmi minatore. Mi vergogno innanzitutto per rispetto verso tutti coloro che hanno pagato di persona il duro prezzo della libertà, giornalisti inclusi. Quelli che davvero hanno sofferto sulla propria pelle la perdita della libertà e del diritto d’opinione.
Manifestare per la libertà di stampa contro il governo in un Paese dove i tre quarti della stampa sono contro il governo e continuano a esserlo più accaniti di prima, è prima di tutto un’offesa a chi ha pagato anche con la vita, in regimi veramente dispotici, la propria libertà di opinione. Mi vergogno per le vittime, per i giornali chiusi per censura, per i tanti che hanno dovuto umiliarsi per sopravvivere o si sono fatti ammazzare, anche ai nostri giorni, per raccontare la verità. Non vedo martiri, neppure alla lontana, nel nostro Paese tra i giornalisti de la Repubblica e de l’Unità, di Annozero e del Fatto, di Raitre o dell’Avvenire e nella Federazione della stampa. Immolarsi per la patria lo capisco, per la D’Addario no.
Mi vergogno poi per l’assurda minaccia alla stampa libera proveniente nientemeno che da un paio di querele con richiesta di risarcimento danni da parte del premier. Nessuna dittatura, cruda o strisciante, ha mai fatto ricorso a querele per zittire gli avversari, ricorrendo perfino ai malfamati giudici. Penso che Berlusconi abbia sbagliato a farlo, ma sul piano della strategia politica e comunicativa, non certo perché mette in pericolo la libertà di stampa.
E mi vergogno per la stridente, clamorosa disparità di giudizio che è tornata sotto gli occhi di tutti con la querela di Fini al Giornale, seguita da un plauso unanime da parte di coloro che scendono in piazza proprio per protestare contro l’uso delle querele da parte di chi ha incarichi istituzionali. Perfino la materia è la stessa, l’intreccio di pubblico e privato, le luci rosse.
Aggiungo a scanso di equivoci che reputo Fini, come D’Alema del resto, non personalmente coinvolti in storie a luci rosse, che riguardano semmai i loro entourage o le loro emanazioni periferiche. E comunque tra questi mi indignano più gli scandali sulla salute degli italiani che sulla salute sessuale dei politici. Per dirla tutta, reputo lo stesso Berlusconi responsabile sì di leggerezza e senso spiccato del piacere, ma non certo colpevole di istigazione alla prostituzione o reati affini. Comunque sbagliano a querelare, Berlusconi, Fini poi e D’Alema prima.
Mi vergogno poi di vedere accomunati in questa grottesca manifestazione vecchi comunisti che della libertà di stampa, ovunque hanno avuto un briciolo di potere, ne hanno fatto carne da porco; giornalisti che nei loro giornali cancellano chi non la pensa come loro, li condannano a morte civile; o se proprio non possono farne a meno, li trattano come criminali e venduti; giornali cattolici che vedono la libertà di stampa minacciata solo perché un giornale, guarda caso il nostro, ha pubblicato una notizia vera e imbarazzante sul loro ex direttore, e anziché difendere la persona circoscrivendo l’episodio deplorevole, preferiscono inveire, negare il fatto e accompagnarsi ad atei, abortisti, ammazzapreti, nemici della religione pur di vendicare l’omertà violata sul loro direttore; giornalisti che della libertà di stampa e della verità ne fanno polpetta avariata, ma gorgheggiano sulle medesime.
Questa manifestazione mi ricorda quella sulla libertà in pericolo quando chiuse per eccesso di costi e scarsità di lettori la Voce di Montanelli e tutti, dico tutti, compresi i tg di Stato, scesero a manifestare contro un dittatore che allora era all’opposizione...
Ma la verità fu che i lettori del Giornale rimasero liberamente fedeli al loro Giornale e al Montanelli di sempre, piuttosto che seguirlo in un’avventura plaudita dalle sinistre e improntata all’odio verso Berlusconi e i suoi alleati. Mai visto un coro che grida ad alta voce sulla libertà di stampa mutilata; di solito i dissidenti sono voci mozzate e disperse, usano i fogli clandestini e non i principali giornali e telegiornali; sono pochi e malridotti, non cori unanimi da stadio e ben pasciuti. Mai visto poi un coro che insorge contro un solo giornalista e il suo giornale, dico Feltri e il presente quotidiano, e vede in loro, più Libero, la stampa del regime.
Dev’essere un regime ridicolo quello che ha un solo giornale, o due al massimo, che non si pubblica come la gazzetta ufficiale e non arriva gratis o d’ufficio agli italiani ma è liberamente comprato ogni mattina da svariati lettori. Cento contro uno, e i cento accusano l’uno di essere conformista e l’altoparlante del regime. Né Kafka né Fantozzi arriverebbero mai a tanto.
Con la protesta di domani siamo al rovesciamento del significato di libertà e conformismo, di verità e ideologia. Un gioco al massacro o un becero gossip li chiamate libertà di stampa, una notizia vera o un’opinione schietta le chiamate killeraggio.
Se non toccasse anche noi e la maggioranza incolpevole degli italiani, vi meritereste un regime veramente autoritario, perché non riuscite a vivere nella libertà di stampa: a voi vanno bene o i veri despoti, che soffocano il dissenso nel nome di un’ideologia progressiva, o i melliflui sacrestani che addormentano la libertà di stampa, corrompono il dissenso, neutralizzano le voci scomode e nascondono sotto le tonache la verità. Siete clericali senza essere cattolici, siete comunisti senza odiare l’ingiustizia, siete giornalisti senza amare la verità e la libertà. Domani mi autosospendo come giornalista per non sentirmi collega vostro. Amo troppo la libertà di stampa e la verità per accettare l’abuso che ne fate. Non accetto di mandare la libertà a puttane.

(di Marcello Veneziani)

La destra si appiattisce per entrare nel salotto

Piacere a sinistra. Un tic inspiegabile della “nuova destra”. Di quella che ama le citazioni sui giornali progressisti; le adulazioni degli intellettuali ex-comunisti; gli inviti nei salotti dove solitamente si parla assai male del berlusconismo. Che brama accomodarsi nelle prime file ai convegni in cui si le si dà atto di aver negato se stessa e, dunque, sostanzialmente, di non esistere più. Una destra così, purtroppo, esiste e non lotta; si fa scudo di un’evoluzione che è sinonimo di abdicazione e sbiadisce in un dialogo con la sinistra che sarebbe meglio chiamare resa incondizionata.

Paradossale tutto ciò se si considera che proprio l’area progressista culturalmente è in disarmo, non produce idee, è piegata nella sua disperazione solipsistica e si nutre di sovvenzioni statali, quando va bene, per dimostrare di essere in vita con film mediocri, romanzetti dal corto respiro ruotanti attorno all’ombelico di autori scarsamente dotati, ospitate in rassegne pagate dagli enti pubblici di artisti dall’incerto presente e dall’oscuro passato. E si potrebbe seguitare. Anche per dire che assessori compiacenti offrono a lorsignori tutto il sostegno di cui abbisognano, dimenticando i contenuti e si producono nello spettacolarizzare eventi risibili.

Gli amministratori

Da amministratori “di destra” ci si sarebbe atteso qualcosa di più. Per esempio la ricerca di nuove leve intellettuali nelle cui mani mettere progetti di innovazione non legati a stereotipi culturali imbolsiti e rimasticati; sarebbe stato lecito aspettarsi l’apertura alle nuove frontiere dell’arte e della letteratura non soltanto europea ed americana; qualcuno ha ostato sperare feconde contaminazioni che mettessero in evidenza la centralità delle questioni religiose, identitarie, sovraniste, nazionali. Niente di tutto questo è capitato sotto i nostri occhi che, ad un certo punto, abbiamo preferito chiudere per non vedere. Ma non abbiamo potuto non sentire. Per esempio gli alti lai di registi in disarmo che reclamano ancora palcoscenici e schermi ottenendoli; le autocelebrazioni di scrittori che s’impancano a maestri del pensiero e vengono presi in considerazione da assessori e ministri; le invettive di saggisti rimasti ancorati a vecchie dispute sociologiche, filosofiche, antropologiche. A tutto questo mondo che esprime un pensiero unico fondato sul nulla, esemplificazione di un terrificante nichilismo intellettuale, ambienti sedicenti di destra regalano uno spazio che non meritano, soltanto per guadagnarsi qualche benemerenza ai loro occhi, come ha osservato Francesco Borgonovo ieri su queste colonne, rilevandone la sudditanza psicologica. Che cosa accade? Semplice. L’Italia profonda, quella che esprime valori “basici”, identità radicate, una percezione “tradizionalista” della realtà, che sostanzia la sua esistenza in un “comunitarismo” elementare, perfino inconsapevole, non è rappresentata culturalmente, mentre è maggioritaria politicamente. Una discrasia che crea, o meglio rinnova, la frattura profonda tra due Italie. E, naturalmente, riproduce un’egemonia soffice più che della cultura di sinistra o ad essa legata, di una cultura sottilmente nichilista le cui manifestazioni eloquenti sono il relativismo e l’appiattimento sulla modernità intesa come consumismo sfrenato, irrilevanza della dignità e della centralità della persona, violenza del linguaggio e dei gesti.

Una “rivoluzione culturale” di segno conservatore non può partire dalle istituzioni, ma queste dovrebbero sostenerla nell’unico modo possibile: darsi una linea di condotta tale da favorire il pluralismo delle idee e la circolazione di un pensiero critico capace di mettere in discussione le idee portanti della modernità appunto, come l’egualitarismo, il progressismo, il darwinismo sociale, il “socialismo morbido”, l’indifferentismo morale, il disordine spirituale. I meccani costruiti dall’industria culturale sono, nel loro insieme, la proiezione dell’incubo orwelliano della Fattoria degli animali: una concezione raggelante della vita e del mondo nella quale, nostro malgrado, siamo immersi e senza la prospettiva di uscirne a breve.

Tradizione rinnovata

Ci siamo chiesti tante volte negli ultimi decenni, sperimentando coniugazioni spesso ardite della modernità e con la tradizione, se una nuova civiltà poteva sorgere senza privarsi dei principi dell’antica. Guardandoci alle spalle continuiamo a crederlo, angosciati da un paradosso che ci opprime: come mai, se tutto questo è vero ed è possibile proiettarlo anche nella dimensione politica, è stata abbandonata dalla destra quell’armatura culturale conservatrice che avrebbe dovuto non soltanto preservarla, ma anche consentirle incursioni vittoriose nel campo avverso?

Restiamo appesi a questo interrogativo, mentre talvolta ci accade di “scoprire”che tra gli “infedeli”vagano come fantasmi adottati autori, pensatori, artisti che non hanno più patria e vengono esibiti, talvolta eccentricamente, come trofei per testimoniare apertura mentale e sapienza nel discernere in ciò che era proibito da quel che si può portare. La destra se lo beve questo salottiero anticonformismo, dimenticandolo sulle poltrone al momento di offrire la prossima rassegna a chi ha civettato con il sinistrismo più impresentabile fino al giorno prima, fino a quando non ha avuto l’accortezza di mettere sugli scaffali più alti della libreria i classici del marxismo e le opere complete di Lenin, Stalin e Kim Il Sung

(di Gennaro Malgieri)

giovedì 1 ottobre 2009

“L’altro”. Antifascismo tradito da Sansonetti & Co?

Il giornale si chiama L’Altro. Il direttore, Piero Sansonetti, dopo una stagione corsara e indipendente a Liberazione, ha inaugurato uno stile differente: non si fa solo il giornale della “parrocchietta” ma si prova a guardare cosa accade oltre i confini del proprio, rassicurante, orticello. Insistendo su questa linea, L’Altro ha dato voce ai nemici storici della sinistra antagonista e militante: i fascisti, post o neo che siano. Un’intervista con Graziano Cecchini, il fasciofuturista della Fontana di Trevi, un’altra con Gianluca Iannone, il capo di Casapound, e poi un articolo di Miro Renzaglia, che è andato a toccare il nervo scoperto della memoria, da condividere o no? Ne è scaturita una levata di scudi di cui si sono fatti interpreti due redattori, Claudio Marotta e Luciano Ummarino, che in una lettera (pubblicata domenica sul quotidiano) hanno sconfessato l’operato della direzione: «Questo giornale - è stata la loro sentenza - è troppo nero». I due sono entrati in sciopero perché «L’Altro è un giornale che strizza l’occhio ai fascisti del nuovo millennio». Possibile? Basta qualche intervista per mettere in crisi un valore come l’antifascismo che certa sinistra giudica granitico e inconfutabile? Evidentemente basta. Ma il disagio dei due “ribelli” non si limita a sconfessare le firme “nere” ospitate dal quotidiano di Sansonetti. È un po’ tutta la linea eterodossa seguita dalla testata a risultare indigeribile per i due custodi dell’ortodossia: «”Daje giù” a Repubblica, al manifesto, al Corriere, all’Unità, a Liberazione, al Fatto, a Santoro, a Ballarò, al Pd, a SeL, ai cibi biologici, a Rifondazione e l’elenco potrebbe continuare. Una campagna continua contro tutto e tutti che dà la misura della supponenza con cui in cinque mesi abbiamo dato vita a un giornale provinciale e gossiparo…».

Sansonetti ha replicato spiegando che L’Altro è un giornale che non ha Noi come punto di riferimento: «L’altro è il nero, l’altro è il bianco, e soprattutto l’altro è anche il nemico del quale vogliamo sapere le ragioni e gli umori…». Della vicenda si parlerà stasera alle 21 durante un’assemblea dei redattori, ma dietro tutto questo grumo di incomprensioni si cela una questione spinosissima: in che modo la sinistra può ancora fare uso dell’antifascismo? Può ancora usarla come arma di scomunica, legittimando o delegittimando l’interlocutore a seconda della sua provenienza e della sua storia? Evidentemente, secondo il direttore de L’Altro, questo uso manicheo dell’antifascimo è destinato a scomparire. Infatti Sansonetti così conclude la sua lettera di risposta ai due dissidenti Marotta e Ummarino: «Se l’antifascismo è antiautoritarismo, credo che sia utile ancora, attualissimo. Se è solo un modo per chiamare la tradizione, e i nostri padri valorosi, a riempire un vuoto di valori e di idee, se cioè è solo ricordo, retorica, resistenzialità, ve lo dico francamente: credo che sia dannoso». Bando, dunque, alla sinistra nostalgica. Ma c’è da giurarci che il processo sarà lungo, e non indolore.

E proprio sulla nostalgia come humus vivificante di una politica “brutta” era incentrato l’intervento di Miro Renzaglia ospitato sabato scorso dall’Altro. Un articolo che era un invito a lasciar cadere tutte le pregiudiziali, a destra come a sinistra, per non essere più prigionieri di «gabbie comportamentali automaticamente pavloviane».

«Io sto con Nietzsche - scriveva Renzaglia - quando afferma: “La serenità, la buona coscienza, l’azione felice, la fiducia nel futuro - tutto ciò dipende, nei singoli come nel popolo (…) dal fatto che si sappia dimenticare al tempo giusto, tanto bene quanto si sa ricordare al tempo giusto…”. A me sembra che nei decenni appena scorsi abbiamo ricordato pure troppo, fino a fare delle nostre (rispettive e non condivisibili) memorie, un culto. Ne converrete: da qualsiasi punto di vista si voglia osservare questo culto, non è che i risultati siano stati particolarmente felici. Allora, rivolto la frittata chiedendo: e se, invece della memoria, provassimo a condividere l’oblio?».

Una strada certo tutta in salita non solo a sinistra ma anche a destra dove alberga sempre la tentazione del “complesso delle Termopili”, l’idea cioè di arroccarsi in difesa di un Ideale con la maiuscola assediato da nemici vecchi e nuovi ma comunque indispensabili per dare alla vita (politica) un senso che altrimento non avrebbe. È qualcosa che affligge non solo Sansonetti e la sua guida libertaria del giornale che ha fondato. Sul fronte del centrodestra ogni spiraglio di approfondimento, ogni tentativo di considerare superate le vecchie contrapposizioni ottocentesche, viene accolta (in buona o in malafede) come uno smottamento, un dirottamento, un “tradimento”. Lo stesso Gianfranco Fini non è stato accusato di travestirsi da “compagno”? La morale è che chi sceglie la via scomoda non del dialogo (perché anche il dialogo può tradursi in uno stanco rituale perpetuato in momenti di tregua al fine di portare avanti trattative sottobanco su pacchetti di nomine e privilegi) ma della metacognizione, cioè della coraggiosa riflessione sui propri strumenti cognitivi per capire quali di questi hanno ancora forza interpretativa e quali, invece, vanno archiviati perché inadatti alla comprensione della realtà, si mette in una condizione a rischio nella propria famiglia politica, si becca del presuntuoso, dell’arrivista, del traditore, del convertito, dell’apostata senza che mai si entri nel merito delle questioni poste.

Tuttavia, certi dibattiti appaiono ormai talmente urgenti che difficilmente la sinistra e la destra riusciranno a svicolare. Per la sinistra si tratta di approfondire appunto il senso dell’antifascismo come valore (e quando fioccano i distinguo, vuol dire che quel valore non è più così condiviso…), per la destra si tratta di riflettere sui limiti del populismo fatto di slogan e del bonapartismo nutrito di un culto della personalità a tratti macchiettistico.

Ma torniamo a L’Altro. La polemica in corso rimbalza anche sulla rete: la versione on line del giornale ospita vari commenti a riguardo. Per capire l’aria che tira, è illuminante il contributo di Zaczac, con il suo ritratto di quella che un tempo è stata la sinistra radicale: «Si tratta di un’area frammentata e sotto botta, dove vigono codici tribali e rancori personali, un magma di biografie frustrate, di burocrati senza scrivania, di intellettuali antichi come lo statuto albertino, di giovani pieni di testosterone e privi di idee. Un’umanità ferita e ringhiosetta che si aggira nei meandri periurbani del tempo che fu: case e casette del popolo, sezioni e sezioncine di partiti-atomo, indigeribili assemblee-fiume e chi più ne ha più ne metta. Mi auguro che l’Altro riesca a liberarsi prima o poi dal giogo di questi agonizzanti comitati di salute pubblica. In bocca al lupo». Non trascurabile il monito di Raffaele: «Che Casa Pound sia uno degli esperimenti politici più interessanti degli ultimi anni non ci sono dubbi. Se la sinistra non si libera della sindrome di Piazzale Loreto è destinata ad un’agonia nemmeno tanto lenta». Davvero non c’è molto da aggiungere.

(di Annalisa Terranova)