lunedì 10 settembre 2012

Ma è stata la democrazia a rivalutare il fascismo


"Fascista!" ha urlato Bersani a Beppe Grillo. Sembra essere tornati agli anni ’70 quando chi non si "dichiarava, laico, democratico e antifascista" era di per sè un fascista. Usare il termine "fascista" come insulto e strumento di lotta politica nell’anno di grazie 2012 non solo è un "non sense" è ridicolo. Evidentemente nella generazione dei Bersani, scatta ancora un riflesso, pavloviano dovuto all’età (a un Matteo Renzi, sindaco di Firenze, che di anni ne ha 37 e che pure è un Ds, non verrebbe mai in mente da dare del "fascista" a chichessia) e alla lunga militanza del Pci, che rischia di dare ragione a Berlusconi quando diceva che gli ex comunisti, nonostante tutti i cambi di sigle, erano rimasti, nel fondo della loro animuccia, comunisti. 

Ma io vorrei spostare la questione su un altro piano. Alla luce dell’esperienza storica di quest’ultima secolo, "fascista" ebbe un’idea di Stato e di Nazione e cercò di attuarla con coerenza. Non fu solo treni che arrivavano in orario. L’Iri nel dopo guerra democratico diventò un indegno carrozzone, partitocratico, ma quando venne creato, nel 1931, fu un’intelligente risposta alla crisi del 1929 e infatti l’Italia non ne subì i contraccolpi se non marginalmente. Alberto Beneduce, che oltre all’Iri diresse altri importanti Istituti pubblici, fu uno straordinario "grand commis" che godette sempre di un’amplissima autonomia (la leggenda vuole che fosse il solo a poter di "no" a Mussolini). Le prime leggi a tutela dei beni culturali e artistici sono del ’39, come quelle ambientali e paesaggistiche, mentre dal ’42 ogni comune dovette dotarsi di un piano regolatore. Le bonifiche in Agro Pontino e in Maremma furono un modello di organizzazione anche se al prezzo dello spostamento forzoso, vagamente staliniano, di migliaia di contadini veneti. Mussolini aveva pronto anche un piano di frantumazione e redistribuzione del latifondo in Sicilia, cosa che ovviamente non piaceva ai baroni nè alla mafia (che il fascismo, col prefetto Mori, fu il solo a combattere seriamente). E i baroni e la mafia aprirono l’isola agli angloamericani, peccato d’origine le cui conseguenze, come si può ben vedere, scontiamo ancora oggi.

Il fascismo esercitò una censura sulla stampa feroce e stupida con esiti, spesso, esilaranti, ma in campo culturale ci fu sempre una certa libertà. L’architettura fascista può piacere o meno ma, a differenza di quella d’oggi, ha uno stile e in quegli anni fummo i primi nel design industriale (una vivacità culturale che la coraggiosa mostra milanese "Annitrenta" del 1982 osò mostrare per la prima volta). Anche l’idea della valorizzazione dell’agricoltura e di una ragionevole autarchia alimentare non era sbagliata, anzi è estremamente attuale. Certo poi ci sono gli orrori: il carcere di Gramsci ("dobbiamo impedire a questo cervello di funzionare per almeno vent’anni") l’omicidio Matteotti, quello dei Rosselli, il criminale uso dell’iprite in Abissinia, le leggi razziali. E l’errore fatale: entrare in guerra impreparati, Mussolini, che da maestro era diventato succube di Hitler, credeva che i tedeschi avrebbero vinto la guerra in quattro e quattr’otto ("ci basteranno poche centinaia di morti per sederci al tavolo della pace"). Questo riluttante cinismo gli italiani l’avrebbero pagato carissimo. Ma oggi dopo gli ultimi quarant’anni di Italia repubblicana, dobbiamo ammettere, con amarezza, che è stata la democrazia a rivalutare il fascismo.

(di Massimo Fini)

Il transfert psicoanalitico del Pdl


Matteo Renzi non è uno statista. Almeno per ora. Forse lo diventerà. Ma non è neppure un guastatore, per quanto la sua fama sia legata all’idea di rottamare il vertice del Pd. È semplicemente un giovane politico che ha capito, diversamente da tanti altri, a destra come a sinistra, che il tempo delle oligarchie è finito, i cittadini vorrebbero partecipare maggiormente alla vita pubblica stupidamente negatagli dagli apparati, il rinnovamento generazionale marcia di pari passo con l’evoluzione tecnologica e con le aspirazioni di un nuovo protagonismo da parte di quanti vorrebbero impegnarsi politicamente senza passare sotto le forche caudine del servilismo. Non sono grandi idee, ma nella palude partitocratica appaiono addirittura rivoluzionarie. Perciò Renzi piace trasversalmente. E, di conseguenza, preoccupa chi riteneva di tenerlo al guinzaglio fin da quando manifestò la sua eterodossia diventando prima presidente della Provincia e poi sindaco di Firenze. Non saprei dire se ha governato bene o male, da quel che sembra pare che se la sia cavata egregiamente. Adesso aspira a concorrere alle primarie e a battere i vecchi mandarini del Pd. Se dovesse farcela e se la legge elettorale dovesse permetterglielo (in un sistema proporzionale la candidatura a premier non ha senso, come si sa) guiderebbe il centrosinistra alla conquista di Palazzo Chigi. Operazione tutt’altro che impossibile a giudicare dai tremiti che percorrono la nomenklatura del Pd. Ma se anche non dovesse riuscire nell’intento, Renzi di fatto ha già vinto la sfida con Bersani e con gli oligarchi i quali, demonizzandolo, hanno dimostrato di tenere più al loro potere che al necessario cambiamento politico dando, in tal modo, ragione al giovane competitore che la sua battaglia ha inteso farla nel partito, osservando le regole e producendosi in un leale confronto. 

Nel Pdl, purtroppo, una tale condizione non si è realizzata e tra chi ha deciso di traslocare altrove invece di battersi coerentemente e chi ha accettato lo squagliamento di tesseramenti, congressi e primarie, improvvisamente ritenuti inutili, si è realizzato il vuoto perfetto. Perciò tanti pidiellini guardano a Renzi come a uno loro: un transfert psicoanalitico che testimonia l’aspirazione impossibile a essere ciò che non si è o a stare dove non si può. La politica vive di queste schizofrenie e quando viene fuori chi è in grado di evidenziarle si ha come una rivelazione che avvilisce più che consolare. 

Indipendentemente dalle appartenenze, infatti, le oligarchie del Pd e del Pdl sono letteralmente, e per motivi chiaramente diversi, soggiogate dal fenomeno Renzi. Entrambe lo vedono come un «alieno»: l’una perché ne teme l’impatto innovatore da cui può derivare il pensionamento di buona parte del suo vertice; l’altra perché vorrebbe averne uno (magari senza traumi) in grado di rompere il bozzolo dal quale veder volare finalmente una farfalla. In mancanza di meglio i berlusconiani devono accontentarsi di assistere al raro spettacolo del piccolo amministratore che sfida il segretario del partito, al di là delle liturgie congressuali precotte, ed esaltando così la pratica della democrazia diretta a cui ideologicamente, se non ricordo male, erano un tempo affezionati. Ma non è detto che un processo imitativo nelle file del Pdl non si metta in moto. E se dovesse accadere l’apparato monarchico di via dell’Umiltà e di Palazzo Grazioli come si comporterebbe? Asseconderebbe le velleità di qualche lucido folle finalmente consapevole che il centrodestra lo si può rimodellare e farlo rivivere soltanto a patto di parlare direttamente alla gente, di scendere in mezzo al popolo, di farsi largo tra cortigiani e ciambellani guadagnando finalmente il proscenio? Per come si sono messe le cose ho i miei dubbi. 

Credo che il vertice del Pdl si specchierebbe in quello del Pd vivendo le medesime ambasce che oggi neppure intravede esaltando Renzi come se fosse uno dei suoi, tessendone le lodi perché ha sfidato Bersani, lodandone il coraggio fino a trovarlo «eccitante» per essersi messo contro tutti come un guerriero che a mani nude sfida una potente armata. A parte il fatto che la presunta armata è in rotta da tempo, Renzi ha colto il lato debole della nomenklatura del suo partito - che vede in pericolo gli organigrammi già elaborati in vista della vittoria di primavera - nel legame che si logorato con l’elettorato. Lui intende rinsaldarlo. E a nulla vale l’accusa di inesperienza rivoltagli da D’Alema, né l’interrogatorio a cui vorrebbero sottoporlo analisti politici come Antonio Polito: il suo editoriale di ieri sul Corriere della sera, nel quale chiede conto a un semplice candidato alle primarie di rispondere a tutto (o quasi) è sul tavolo della politica italiana ed europea, è prezioso per comprendere che cosa ha smosso Renzi rivolgendosi ai militanti del Pd senza intermediazioni o protettori. 

Il sindaco di Firenze per adesso non deve offrire ricette economiche e monetarie per uscire dalla crisi: a questo ci pensa Draghi, né fornire indicazioni per la crescita di cui si sta occupando Monti. Il compito che si è prefisso è quello di costruire un modo nuovo per rinnovare i partiti, consapevole, come lo sono tutti cittadini, che essi sono morti o, nella migliore delle ipotesi, narcotizzati, a cominciare dal suo. E ritiene, come chiunque, tranne gli oligarchi probabilmente, che una democrazia senza partiti è destinata a deperire. Dunque, o si ristrutturano con il concorso popolare o la Repubblica dovrà ancora far ricorso ai tecnocrati, mettersi nelle mani di chi non viene votato per risolvere le questioni più gravi. Ma guardateli come sono ridotti e poi riflettete se è Renzi l’alieno o non lo sono coloro che lo guardano con sospetta ammirazione o con crescente preoccupazione: parlano un linguaggio incomprensibile, almanaccano di alleanze improbabili, giocano con la legge elettorale come se fosse una partita di burraco, già si accapigliano sul prossimo presidente della Repubblica e ipotizzano addirittura le date di scioglimento delle Camere e loro successive convocazioni valutando se convenga lasciare a Napolitano l’incarico di conferire il mandato di formare il nuovo governo o al suo successore. Incredibile, ma è così. Perciò, comunque vada, Renzi ha già vinto. E non soltanto contro gli oligarchi del Pd.

(di Gennaro Malgieri)

mercoledì 5 settembre 2012

Addio al repubblichino romanziere


È morto Ugo Franzolin, giornalista e scrittore, nato a Correzzola l’8 ottobre 1920, autore di numerosi libri, tutti sugli anni della giovinezza, sulla sua esperienza di soldato in Africa e sui mesi della Repubblica sociale italiana, trascorsi con la X Mas come corrispondente di guerra. Il suo libro più noto è quel “I Giorni di El Alamein”, basato sui suoi ricordi personali di sopravvissuto, pubblicato nel 1966, che gli valse un elzeviro laudativo di Indro Montanelli.

Franzolin amava ripetere di essere «morto il 25 aprile 1945», quando venne arrestato e rinchiuso nel carcere di San Vittore, a Milano, accusato di collaborazionismo con i tedeschi. Lo scrittore è venuto a mancare in una casa di cura a Grottaferrata, in provincia di Roma, dove era costretto dalle sue condizioni di salute, e fino all’ultimo ha lavorato ad un nuovo libro, dedicato alla sua esperienza di scrittore. La morte lo ha colto quando gli mancava un solo capitolo alla conclusione.

Ecco un ritratto dell’autore de “I giorni di El Alamein” scritto da Pietrangelo Buttafuoco per “Il Foglio” nel 1997

Roma. Camminano come camminano i vivi. E saluta al modo dei vivi. Passa una signora e si leva il cappello. Accenna un inchino. Ugo Franzolin che aveva diciannove anni quando, «marinaio e figlio della Serenissima», andò in Africa settentrionale, anche adesso che scrive romanzi, anche adesso che ha raccontato “I giorni di El Alamein” meritevoli di un elzeviro di Indro Montanelli, anche adesso che prende il caffè a via Del Lavatore, va in lungo e in largo per le strade contorte del centro con la mazzetta dei giornali sottobraccio e fa colazione con Aldo Giorleo, «il paracadutista», dice di essere solo «un morto, uno che è morto il 25 aprile 1945». Dice: «Lì finisce la mia storia». Il 26 aprile, arrestato e rinchiuso a San Vittore, «collaboratore con il tedesco invasore». Lui aveva creduto di combattere contro «un mondo che arrivava per sommergere la nostra vita e le nostre tradizioni». Aveva le idee chiare: «Ritenevo che il mio nemico fosse la V e la VIII Armata».

Cammina sollevando da terra i suoi pensieri. È un ragazzo che ha chiuso la sua partita a Salò. Oggi vive a Roma, ci arrivò inseguito dalla «Volante Rossa», che aveva «un fare che non ammetteva repliche». Una sera andò da lui Peppino Farina, partigiano liberale del CLN. Gli disse: «Vogliono farti fuori, salvati». Pino Fraschini, uno di Pavia, gli scrisse una lettera: «Trasferisciti a Roma, qui se ne fregano dei partigiani». Franzolin spesso incontra i suoi camerati, anche gli amici marinai tedeschi che lo vengono a trovare e anche quelli «che vincendo hanno perso». Tedeschi, fascisti e comunisti insieme guardano al mondo con un occhio che non è invecchiato, ma fermo a quello Zenit particolare della giovinezza: «II nostro ideologico s’è bloccato». E infatti non si fanno più la guerra. A lui e agli altri, anche «ai comunisti», l’età della Parietti e di Prodi evoca uno scenario «mediocre». Gli ex-combattenti della RSI sono una lobby di mutua rammemorazione. Tra loro, «luminari della scienza medica». Si prendono cura l’uno dell’altro. Discutono del mondo che va avanti senza di loro. Hanno parlato a lungo, per esempio, di Adriano Sofri: «Rispetto chiunque rischia per la propria idea» dice Franzolin. E gli ex di tutte le battaglie, infatti, si assomigliano sempre, quasi si annusano, si riconoscono nel lampo che portano dentro gli occhi. Come gli amici di Sofri, i camerati di Franzolin chiedono «il riconoscimento della dignità combattente».

Avendo ancora la divisa, sarebbe tale e quale Bepi Faliero, il soldato raccontato da Hugo Pratt, quello di Sirat al Bunduqiyyah, e cioè Eja eja alala, la Fiaba di Venezia, la storia di Hipazia e la Clavicola di Salomone. Inchiodata sul palmeto, «con quel deserto che arriva fino al mare», veglia immobile la sua luna di «figlio della Serenissima in terra calda». I cieli del Veneto, le passeggiate ai Colli, la campagna che abbaiava rotolando fino in Laguna. Venezia città dei mari: «Con noi altissime personalità del censo nobiliare: il conte Foscari, il figlio di Nazario Sauro, Urbano Rattazzi». Acque sulla sabbia. Tripoli, Bengasi, Tobruk, Marsa Matruk, i ragazzi dell’Afrika Korps. Vivere non è più vivere: «Nel bene e nel male abbiamo conosciuto dei giganti». L’universo di Franzolin è costellato di giovinezze, di «fratelli d’arma», di «giornate durissime» e di dolcezze fatte scivolare nei ricordi dell’infanzia: «il mio paese in Veneto, Villa del Bosco, e poi Viadana, vicino Mantova, sfiorata dal Po». E stato un amico di Osvaldo Valenti e Luisa Ferida, i due incolpevoli tenebrosi prestati a Salò, quel mondo strafottente di ex-combattenti portati dal destino per condividere sberleffo, eroismo e forse finzione. Marinetti ovviamente, Marco Ramperti, il poeta delle dive cinematografiche. Tanti gli attori: Walter Chiari, Giorgio Albertazzi, Enrico Maria Salerno, un ambiguo Dario Fo, e giustamente Ugo Tognazzi, fascistissimo Primo Arcovazzi, nel film di Luciano Salce, “Il Federale”. Arcovazzi, mani sui fianchi, fa un ritmato e marziale piegamento in basso, un-duè. Su e giù, su e giù come da esercitazione. A chi gli chiede , «cavalleria?», lui risponde: «No, coglioni sudati». A Franzolin piace una scena, quella del professore antifascista desideroso di un sospiro di tabacco che, pur di non fumarsi le sigarette regalate dagli americani, strappa la pagina de “l’Infinito” dal libro di Leopardi, arrotola e fuma paglia. «Tanto lo conosco a memoria», dice. Proprio come gli aveva insegnato l’Arcovazzi Primo. Ognuno insegna ciò che può. E spésso, i morti, insegnano ai vivi.

(di Pietrangelo Buttafuoco)

martedì 4 settembre 2012

Perché ad Alemanno una sconfitta a Roma fa meno paura dell’ignoto


Il problema di Gianni Alemanno è anche la sua piccola fortuna politica: nessuno al mondo pare sia disposto a candidarsi al suo posto per scalare il Campidoglio nel 2013. Tanto basta per concedere credibilità alla foto pubblicata ieri su Twitter – corredata dal motto dannunziano “hic manebimus optime” scolpito sulla sedia del sindaco di Roma ritratto di spalle, per fare il verso alla replica di Obama a Clint Eastwood – con la quale Alemanno ha smentito un articolo di Repubblica secondo il quale sarebbe stato nientemeno che Silvio Berlusconi a sollecitare garbatamente un suo passo indietro.
Alemanno ironizza sulla propria sfortuna e lo fa sapendo d’essere prigioniero d’un ruolo ingrato certificato da sondaggi che non lasciano spazio alle fantasticherie: la sfida con Nicola Zingaretti è perduta in partenza, si tratta semmai di guidare con ordine le truppe pidielline e limitare le perdite. Una soluzione alternativa non era immaginabile? Sì, ma è stata dissolta dal preannunciato ritorno del Cav. alla guida del centrodestra. Se Berlusconi avesse scelto per sé il ruolo di garante d’un cartello elettorale a trazione moderata da affidare ad Angelino Alfano (o chi per lui), recuperando alla causa il mondo centrista e qualche frattaglia montezemoliana, a quel punto sarebbe stato più facile fare di Roma un laboratorio di avanguardia post berlusconiana e reperire una candidatura extraterritoriale. La soluzione, se pure non priva d’incognite, avrebbe trovato nel sindaco in carica il primo sostenitore.

Una volta tramontata l’ipotesi, in primo piano sono rimaste le macerie di una sindacatura ormai impopolare, politicamente avviticchiata sul nulla e mediaticamente percepita come poco meno d’una calamità naturale. Fra queste rovine si aggira un Pdl solitario e ammaccato, incapace di triangolare con gli ex alleati e di pescare assi convincenti nella propria nomenclatura. In effetti le rilevazioni dei sondaggisti segnalano che, malgrado tutto, il nome di Alemanno avvicinerebbe un consenso maggiore rispetto a quello raggiungibile da Giorgia Meloni, Andrea Augello o Sveva Belviso. Di qui l’impasse sulla quale i dirigenti pidiellini hanno steso il manto pietoso delle primarie di centrodestra, costringendo gli osservatori ad almanaccare sulla consistenza di eventuali sfidanti. Sarà o no, per esempio, l’ex ministro Meloni capace di rompere a proprio vantaggio gli equilibri interni agli ex di An? Chi ne conosce le segrete aspirazioni risponde con il motteggio: “Giorgia è una ragazza sveglia. Chiedetele in via informale che cosa pensa di una sua possibile candidatura romana e minaccerà di citarvi in giudizio per danni”. A questo punto, in mancanza di vie d’uscita e vista anche la carenza di contenuti politici sui quali pronunciarsi, è anzitutto interesse di Alemanno tenere in vita un minimo d’incertezza sull’intero dossier.

Ma in fondo che cosa conviene davvero ad Alemanno? Il paesaggio politico nazionale è troppo vaporoso e cangiante per esporsi in prima fila nel tentativo di sostenere, oppure scongiurare apertamente, l’ultimo colpo di teatro berlusconiano. Se bene amministrata, una sconfitta contro Zingaretti (magari al secondo turno) lascerebbe ad Alemanno spazi di manovra per conservare alcune rendite nella Capitale, senza con ciò ostacolarne le chances di rientrare nel gioco più grande in una prospettiva nazionale grancoalizionista non del tutto improbabile. A ben vedere, questo è lo stesso ragionamento che agita i pensieri degli altri colonnelli aennini come Maurizio Gasparri e Ignazio La Russa. Loro vedono nell’attuale legge elettorale (il così detto porcellum), o in una che non le sia troppo dissimile, la chiave per conservare il controllo su una rappresentanza berlusconiana in Parlamento. Un blocco fedele con il quale navigare contro la corrente del Pd di governo, senza precludersi la scia dell’esperimento tecnocratico in corso. Perché in Italia i voti necessari (ma non sufficienti) li porta ancora il Cav., e a Roma Alemanno. Sarà anche pura strategia della sopravvivenza, ma è così.

(di Alessandro Giuli)

lunedì 3 settembre 2012

L'ipocrisia di chi lo osanna perché faceva il laico in tonaca


Il papa dei non credenti. Così è stato celebrato il Cardinal Martini dai giornali, dai telegiornali e dagli intellettuali. Salutandolo come capofila del cattolicesimo progressista, sono stati elencati i suoi principali meriti: istituì la cattedra dei non credenti, preferì rivolgersi ai pensanti piuttosto che ai credenti, si distinse dalla Chiesa aprendo all'eutanasia, al preservativo, alle coppie gay, agli atei, rifiutò la messa in latino e sostenne la necessità di «superare le tradizioni religiose». Un curriculum notevole per un intellettuale, con i suoi dubbi e le sue aperture; ma per un sacerdote, per un cardinale, per un uomo della Chiesa, può dirsi altrettanto? Certo, il Cardinal Martini non fu solo questo, fu anche un biblista insigne, una figura carismatica, si ritirò a Gerusalemme; ma la ragione per cui è stato osannato dai media è questa e l'ha ben riassunta un intervistato: «Non ragionava come un uomo della Chiesa, non sembrava un Cardinale». 

Ma è davvero un elogio non sembrare quel che si è, mimetizzare la propria missione, confondersi con il proprio tempo e tingersi dei suoi colori? E allora torno a domandare: ma è questo che chiediamo a un pastore, a un uomo di fede e di chiesa, di parlare come tutti gli altri, di assecondare lo spirito del tempo anziché invocare il tempo dello spirito? Non ci bastano e ci avanzano le tante cattedre di ateismo, di laicismo e di progressismo che ci sono in giro per chiedere che anche dentro la religione vi siano spazi e argomenti in favore dei non credenti e delle loro tesi? Siamo bombardati dai precetti laici della modernità miscredente e dai canoni del progresso; non avremmo piuttosto bisogno di qualcuno che ci rappresenti l'amore per il sacro, per la trascendenza e per la tradizione? E chi dovrebbe farlo se non un uomo della Chiesa, un Arcivescovo, un Sacerdote?  

É demolita ovunque l'Autorità e l'autorevolezza delle istituzioni, anche se poi al loro posto ci sono nuovi canoni obbligati, nuovi poteri dominanti a volte più dispotici e intolleranti degli altri: non si chiede oggi a chi rappresenta la religione di assumersi sulle spalle la croce di contravvenire a questi nuovi dispotismi nel nome perenne della Tradizione e della fede in Dio?

Un conto è dialogare con i «gentili», come fa anche Ratzinger, un altro è sposare il loro punto di vista o scendere sul loro stesso terreno, fino a omologarsi, e rappresentare soltanto la versione religiosa all'interno dell'ateismo dominante. Non si tratta di barricarsi nella Chiesa degli anatemi e dell'integralismo e di ignorare il mondo e il nichilismo che avanza; si tratta di affrontare il mondo a viso aperto, testimoniando la passione di verità e non la priorità del dubbio, testimoniando l'amore per l'eterno e non solo per il proprio tempo. Una scelta spirituale che si incarna, e non una scelta intellettuale, o peggio ideologica, che si storicizza.Giunge a proposito la questione sollevata da Papa Ratzinger su Giuda. Secondo Benedetto XVI, Giuda tradì Gesù perché voleva spingere Cristo non a fondare una nuovo religione, ma un movimento politico ribelle contro l'impero romano. La lettura di Ratzinger lancia un forte messaggio al nostro tempo: chi riduce Gesù a un rivoluzionario e il cristianesimo a messaggio di redenzione politica e di riscatto sociale, tradisce Cristo come Giuda. Il ribelle zelota Giuda nega il valore religioso del cristianesimo e lo riduce a rivolta politica, attaccando l'impero romano ma non intaccando la religione ebraica. Viceversa, Cristo secondo Ratzinger non è avversario di Roma e non è un rivoluzionario, ma fonda una nuova religione, e dunque dissente dal sinedrio, che lo condanna al patibolo. 

Su la Repubblica Gustavo Zagrebelsky ha scritto un dotto excursus tra le interpretazioni di Giuda per sposare alla fine la tesi di don Primo Mazzolari di un Cristo ribelle, distruttore, liberatore e nemico del potere. Un Gesù giacobino, da popolo viola, «uno come noi», scrive il professore giustizialista. Uno come noi, è anche la parola d'ordine per elogiare il cardinal Martini dal punto di vista dei non credenti. Il Cristo di Mazzolari-Zagrebelsky è una versione opposta a quella di Ratzinger. E si sposa assai bene con l'elogio progressista di Martini. Peccato che il giurista non citi tra le interpretazioni di Giuda come esecutore del disegno divino quella di Giuseppe Berto (ripresa da scrittori cattolici come Mario Pomilio e Francesco Grisi): Giuda tradendo provoca la morte e la resurrezione di Cristo. Come in una vera eterogenesi dei fini - espressione del cattolico Augusto del Noce che però piace a Zagrebelskj - il tradimento di Giuda ha un movente politico ma produce un risultato escatologico: non provoca la ribellione degli zeloti ma la salvezza del mondo tramite il sacrificio di Cristo sulla Croce. Perché la promessa cristiana è la resurrezione, non la rivoluzione; è l'eternità, non il progresso. 

Post scriptum. A proposito di Crocifisso, avrete letto la profanazione di Ulrich Seidl alla Mostra del Cinema di Venezia. Una trovata miserabile, non solo perché offende i credenti e coloro che, pur non credenti, sono nati e cresciuti in una civiltà cristiana. Ma per due altre ragioni: la sua profanazione non ha nemmeno l'alibi di sfidare coraggiosamente un regime teocratico, ma infierisce contro una fede debole, soccombente, e su questo piano, inoffensiva. E poi non ha nemmeno il crisma dell'originalità, perché arriva dopo decenni di profanazioni spettacolari, dai film di Pasolini, che però erano almeno tormentati vangeli, alle esibizioni di Madonna, Lady Gaga e dei Soliti Idioti. Quel film rientra nello squallido conformismo della profanazione contro una fede inerme, come Colui che fu inchiodato sulla croce.

(di Marcello Veneziani)

Il Cardinale che preferiva gli applausi alla Chiesa


Vedendo il mare di sperticati elogi ed esaltazioni sbracate del cardinale Martini sui giornali di ieri, mi è venuto in mente il discorso della Montagna dove Gesù ammonì i suoi così:  “Guai quando tutti gli uomini diranno bene di voi” (Luca 6, 24-26). 

I veri discepoli di Gesù infatti sono segno di contraddizione: “Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo; poiché invece non siete del mondo (…) il mondo vi odia. Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi” (Gv 16, 18-20).

Poi Gesù indicò ai suoi discepoli questa beatitudine: “Beati voi quando gli uomini vi odieranno e quando vi metteranno al bando e v’insulteranno e respingeranno il vostro nome come scellerato, a causa del Figlio dell’uomo. Rallegratevi in quel giorno ed esultate, perché, ecco, la vostra ricompensa è grande nei cieli” (Luca 6,20-23).

Una cosa è certa, Martini è sempre stato portato in trionfo sui mass media di tutto il mondo, da decenni, e incensato specialmente su quelli più anticattolici e più ostili a Gesù Cristo e alla sua Chiesa.Che vorrà dire? Obiettate che non dipendeva dalla sua volontà? Ma i fatti dicono che Martini ha sempre cercato l’applauso del mondo, ha sempre carezzato il Potere (quello della mentalità dominante) per il verso del pelo, quello delle mode ideologiche dei giornali laicisti, ottenendo applausi ed encomi.

E’ stato un ospite assiduo e onorato dei salotti mediatici fino ai suoi ultimi giorni. O vi risulta che abbia rifiutato l’esaltazione strumentale dei media che per anni lo hanno acclamato come l’Antipapa, come il contraltare di Giovanni Paolo II e poi di Benedetto XVI?
A me non risulta. Eppure avrebbe potuto farlo con parole ferme e chiare come fece don Lorenzo Milani quando la stampa progressista e la sinistra intellettuale e politica diceva: “è dei nostri”.

Lui rispondeva  indignato: “Ma che dei vostri! Io sono un prete e basta!”. Quando cercavano di usarlo contro la Chiesa, lui ribatteva a brutto muso: “in che cosa la penso come voi? Ma in che cosa?”, “questa Chiesa è quella che possiede i sacramenti. L’assoluzione dei peccati non me la dà mica L’Espresso. E la comunione e la Messa me la danno loro? Devono rendersi conto che loro non sono nella condizione di poter giudicare e criticare queste cose. Non sono qualificati per dare giudizi”.

E ancora: “Io ci ho messo 22 anni per uscire dalla classe sociale che scrive e legge L’Espresso e Il Mondo. Devono snobbarmi, dire che sono ingenuo e demagogo, non onorarmi come uno di loro. Perché di loro non sono”, “l’unica cosa che importa è Dio, l’unico compito dell’uomo è stare ad adorare Dio, tutto il resto è sudiciume”.
Queste meravigliose parole di don Milani, avremmo voluto ascoltare dal cardinale, ma non le abbiamo mai sentite. Mai. Invece ne abbiamo sentite altre che hanno sconcertato e confuso noi semplici cattolici. Parole in cui egli faceva il controcanto puntuale all’insegnamento dei Papi e della Chiesa.

Tanto che ieri “Repubblica” si è potuta permettere di osannarlo così: “non aveva mai condannato l’eutanasia”, “dal dialogo con l’Islam al sì al preservativo”.
Tutto quello che le mode ideologiche imponevano trovava Martini dialogante e possibilista: “non è male che due persone, anche omosessuali, abbiano una stabilità e che lo Stato li favorisca”, aveva detto.

E’ del tutto legittimo – per chiunque – professare queste idee. Ma per un cardinale di Santa Romana Chiesa? Non c’è una contraddizione clamorosa? Cosa imporrebbe la lealtà?
Quando un cardinale afferma: “sarai felice di essere cattolico, e altrettanto felice che l’altro sia evangelico o musulmano” non proclama l’equivalenza di tutte le religioni?
Chi ricorda qualche vibrante pronunciamento di Martini che contraddiceva le idee “politically correct”? O chi ricorda un’ardente denuncia in difesa dei cristiani perseguitati?
Io non li ricordo. Preferiva chiacchierare con Scalfari e – sottolinea costui – “non ha mai fatto nulla per convertirmi”. Lo credo. Infatti Scalfari era entusiasta di sentirsi così assecondato nelle sue fisime filosofiche.

Nella seconda lettera a Timoteo, san Paolo – ingiungendo al discepolo di predicare la sana dottrina – profetizza: “Verranno giorni, infatti, in cui non si sopporterà più la sana dottrina, ma, per il prurito di udire qualcosa, gli uomini si circonderanno di maestri secondo le proprie voglie, rifiutando di dare ascolto alla verità, per volgersi alle favole” (Tm 4, 3-4).
Nella sua ultima intervista, critica con la Chiesa, Martini si è chiesto dove sono “uomini che ardono”, persone “che hanno fede come il centurione, entusiaste come Giovanni Battista, che osano il nuovo come Paolo, che sono fedeli come Maria di Magdala?”.

Evidentemente non ne vede fra i suoi adepti, ma nella Chiesa ce ne sono tantissimi. Peccato che lui li abbia tanto combattuti, in qualche caso perfino portandoli davanti al suo Tribunale ecclesiastico. Sì, questa è la tolleranza dei tolleranti.

Martini ha incredibilmente firmato la prefazione a un libro di Vito Mancuso che – scrive “Civiltà cattolica” – arriva “a negare o perlomeno svuotare di significato circa una dozzina di dogmi della Chiesa cattolica”.

Ma il cardinale incurante definì questo libro una “penetrazione coraggiosa” e si augurò che venisse “letto e meditato da tante persone” (del resto Mancuso definisce Martini “il mio padre spirituale”).
Dunque demolire i dogmi della fede non faceva insorgere Martini. Ma quando due giornalisti – in difesa della Chiesa – hanno criticato certi intellettuali cattoprogressisti, sono stati da Martini convocati davanti alla sua Inquisizione milanese e richiesti di abiura.
Che paradosso. L’unico caso, dopo il Concilio, di deferimento di laici cattolici all’Inquisizione per semplici tesi storiografiche porta la firma del cardinale progressista. “Il cardinale del dialogo”, come lo hanno chiamato Corriere e Repubblica.

I giornali sono ammirati per le sue massime. Devo confessare che io le trovo terribilmente banali . Per esempio: “emerge il bisogno di lotta e impegno, senza lasciarci prendere dal disfattismo”.
Sembra Napolitano. Grazie al cielo nella Chiesa ci sono tanti veri maestri di spiritualità e amore a Cristo. L’altro ritornello dei media è sull’erudizione biblica di Martini. Senz’altro vera.

Ma a volte il buon Dio mostra un certo umorismo. E proprio venerdì, il giorno del trapasso di Martini, la liturgia proponeva una Parola di Dio che sembra la demolizione dell’erudizione e della “Cattedra dei non credenti” voluta da Martini, dove pontificavano Cacciari e altri geni simili.
Scriveva dunque san Paolo che Cristo lo aveva mandato “ad annunciare il Vangelo, non con sapienza di parola, perché non venga resa vana la croce di Cristo. La parola della croce infatti è stoltezza per quelli che si perdono, ma per quelli che si salvano, ossia per noi, è potenza di Dio.

Sta scritto infatti: ‘Distruggerò la sapienza dei sapienti e annullerò l’intelligenza degli intelligenti’. Dov’è il sapiente? Dov’è il dotto? Dov’è il sottile ragionatore di questo mondo? Dio non ha forse dimostrato stolta la sapienza del mondo? Poiché… è piaciuto a Dio salvare i credenti con la stoltezza della predicazione… Infatti ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini” (1Cor 1, 17-25).

E il Vangelo era quello delle dieci vergini, dove Gesù – ribaltando i criteri mondani – proclama “sagge” quelle che hanno conservato la fede fino alla fine e “stolte” quelle che l’hanno perduta.
Spero che il cardinale abbia conservato la fede fino alla fine. Le esaltazioni di Scalfari, Dario Fo, “Il Manifesto”, Cacciari gli sono inutili davanti al Giudice dell’universo (se non saranno aggravanti).
Io, come insegna la Chiesa, farò dire delle messe e prenderò l’indulgenza perché il Signore abbia misericordia di lui. E’ la sola pietà di cui tutti noi peccatori abbiamo veramente bisogno. E’ il vero amore. Tutto il resto è vanità.

(di Antonio Socci)

E' sempre colpa dei talebani?


Il 28 agosto il Corriere della Sera titolava così un articolo di Guido Olimpio: “I talebani decapitano 17 persone a una festa da ballo”. Olimpio, che scrive da Washington, riprendeva notizie del Dipartimento di Stato americano.

I talebani, nella ricostruzione di Olimpio, avrebbero compiuto la strage perché, nel loro fanatico integralismo, non tollerano feste da ballo, tanto più se notturne o sull’onda di ritmi occidentali, come pare fosse quella. Poi nel corso delle ore e dei giorni successivi le notizie sono andate man mano mutando fino a diventare di segno opposto.

Prima il portavoce del governatore locale (la strage è avvenuta a Kaiaki, nel sud del Paese), Doud Armadi, precisava che le vittime non erano state decapitate, ma sgozzate, e questo naturalmente è un dettaglio. Poi, che l’operazione non aveva alcun intento moralizzatore, ma al contrario era una disputa tra due mullah talebani per contendersi delle donne. Nel frattempo Oari Yusuf Amadi, da anni il principale portavoce del Mullah Omar, considerato molto attendibile dagli stessi inviati occidentali, smentiva qualsiasi coinvolgimento talebano nella faccenda. Infine è saltato fuori che si è trattato di un regolamento di conti fra due capi tribali in funzione anti talebana. Scrive, dal campo, Fausto Biloslavo: “Con la ritirata degli occidentali diverse tribù si stanno riarmando per contrastare i talebani pronti a dilagare”.

Non riferisco questo episodio semplicemente per segnalare l’ennesima operazione di ‘disinformazia’ occidentale, per cui qualsiasi misfatto accada in Afghanistan è sempre colpa dei talebani, il che serve per giustificare una presenza militare che non ha più alcuna ragion d’essere, se mai ne ha avuta una, ma per dire quale disastro abbiamo combinato in quel Paese con la pretesa di aiutarlo a “trovare la via della civiltà” (la nostra).

Non solo lo abbiamo distrutto economicamente, socialmente, moralmente, non solo abbiamo contribuito a portare la produzione di oppio da zero, o quasi, cui l’aveva ridotta il Mullah Omar, al 93% di quella mondiale, ma stiamo riportando indietro l’orologio della storia afghana di una ventina di anni.

Nella loro strepitosa avanzata del ’94-’96 e poi al governo del Paese, i talebani di Omar avevano ottenuto, tra gli altri, questi risultati: 1) avevano cacciato dal Paese i più importanti ‘signori della guerra’ (Dostum, Heckmatyar, Ismail Khan) mafiosi, prepotenti, assassini e stupratori (rimaneva, rinchiuso nel Panshir, il solo Massud foraggiato da Iran e Russia); 2) avevano eliminato, con metodi spicci, le bande di predoni che infestavano il Paese; 3) avevano disarmato la popolazione e costretto i capi tribali, anch’essi privati delle armi, a uniformarsi a un’unica legge che sostituiva l’arbitrio dei potentati feudali, grandi e piccoli. Insomma avevano unificato l’Afghanistan e, per quanto possa sembrare paradossale, ne stavano eliminando la struttura feudale.

Con l’occupazione occidentale, l’Afghanistan è riprecipitato nel caos e, al ritiro delle truppe straniere, è pronto per una nuova guerra civile: fra i talebani, indeboliti da undici anni di eroica resistenza agli invasori, l’esercito del fantoccio Karzai che, per quanto pronto a sfaldarsi, è stato potentemente armato dagli americani, i vecchi ‘signori della guerra’ rimasti su piazza (Ismail Khan, Dostum e lo stesso Heckmatyar che per ora è alleato del Mullah Omar contro gli stranieri ma che, a partita riaperta, tornerà a giocare per conto suo) e i signorotti feudali a cui il Mullah aveva tagliato le unghie.

(di Massimo Fini)

sabato 1 settembre 2012

La catastrofe spagnola


La Spagna è ormai prossima a chiedere l’aiuto del fondo salva-stati perché non riesce più a rifinanziare da sola il proprio debito sul mercato. Non è più solo il settore bancario ad aver bisogno del sostegno esterno, ma le finanze pubbliche; gran parte dei “bonos” – i titoli di stato di Madrid – sono in scadenza a ottobre, e ci sono due mesi in cui il governo di Madrid negozierà le condizioni alle quali l’aiuto verrà prestato.

Come si è arrivati a questo punto? Solo quattro anni fa la Spagna era una delle economie più floride, ad alta crescita dell’Unione europea; ora si trova con un calo del Pil di 5 punti in meno di quattro anni e un tasso di disoccupazione più che raddoppiato (dall’8,3 al 21,7%), il più alto in Europa. Il caso spagnolo riassume meglio di altri errori e responsabilità, nazionali ed europee, che stanno portando a una spirale autodistruttiva.

Nel decennio pre-crisi la Spagna cresceva ad un ritmo medio del 3-4% l’anno, creando circa 8 milioni di posti di lavoro, quasi la metà di tutta l’Ue. La popolazione aumentava del 15%. Il boom spagnolo aveva alcune peculiarità che lo rendevano potenzialmente vulnerabile: la crescita era concentrata in settori di beni non esportabili (servizi e settore immobiliare), con conseguente enorme disavanzo della bilancia commerciale. Un caso molto simile a quello degli Stati uniti. Anche in Spagna questo sviluppo si accompagnava a una crescente disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza e parallelamente a un’enorme disponibilità di finanziamento a basso costo, con tassi d’interesse minimi. Da un lato, aumentava l’indebitamento privato delle famiglie, che sosteneva il consumo e la domanda interna; dall’altro, si creavano posti di lavoro poco qualificati e temporanei, prevalentemente legati al settore delle costruzioni. Non è un caso che la Spagna avesse il più alto livello di abbandono scolastico d’Europa.

Nel momento in cui arriva la crisi finanziaria, con conseguente contrazione del settore immobiliare, la distruzione di posti di lavoro è la più rapida d’Europa: in pochi anni vanno in fumo oltre 2 milioni di posti di lavoro. La bolla immobiliare scoppia, le famiglie rimangono indebitate, il valore degli immobili inizia a scendere. Il rischio d’insolvenza si trasferisce dalle famiglie alle banche e da queste allo stato, che le sostiene. Le finanze pubbliche, fino a pochi anni fa fra le più virtuose di tutta la zona euro (debito sotto il 60% del Pil e addirittura avanzo di bilancio), precipitano in una situazione insostenibile. La bolla immobiliare del decennio pre-crisi e la disponibilità di credito a costi minimi hanno, fra le altre cose, sostenuto la domanda interna. L’insostenibilità del settore immobiliare come motore dell’economia era nota, e la Spagna stava raddoppiando gli investimenti pubblici in ricerca ed innovazione con l’idea di procedere a un graduale cambiamento di modello economico, capace di creare meno posti di lavoro di prima, ma più qualificati e soprattutto più sostenibili. I bassi tassi d’interesse sul debito pubblico permettevano allo stato di finanziare uno stato sociale generoso e di dotarsi delle più moderne infrastrutture d’Europa.

Un’economia di questo tipo, concentrata sui servizi e sui settori di beni non esportabili, con un grande disavanzo della bilancia commerciale, ha bisogno di una forte domanda interna per crescere. Nei periodi di crescita il circolo virtuoso si autoalimenta; nei periodi di crisi c’è bisogno che gli investimenti pubblici compensino i minori consumi privati. Se i settori che hanno spinto la crescita sono simili a quelli degli Stati Uniti, Washington ha potuto finora evitare il collasso perché ha il pieno controllo della propria politica monetaria, è la prima potenza economica mondiale, continua in ogni caso a pagare interessi minimi per rifinanziare il proprio debito, e ha applicato senza indugi una politica di stimolo di tipo keynesiano per far fronte alla crisi.

Proprio nel momento in cui l’economia spagnola aveva bisogno di un maggiore stimolo da parte del settore pubblico per compensare la contrazione della domanda interna, sono invece arrivate le misure di austerità imposte dall’esterno, ma sostenute con convinzione dal governo nazionale. Forte aumento dell’Iva, tagli alla spesa pubblica, licenziamenti dei dipendenti pubblici, riduzione dei sussidi per i disoccupati, del salario minimo, delle liquidazioni per chi è licenziato, “alleggerimento” della legislazione per la protezione del lavoro, depotenziamento del ruolo dei sindacati nella contrattazione collettiva, probabilmente abolizione dell’indicizzazione dei salari e delle pensioni, sono le iniziative suggerite dall’esterno e accolte dal governo di centro-destra di Mariano Rajoy. Esse hanno una caratteristica in comune: deprimere la domanda interna nella speranza di aumentare la produttività e rendere le esportazioni più competitive.

L’imposizione di politiche di austerità a un’economia di questo tipo, deprimendo la domanda interna, non può che avere effetti disastrosi. Si tratta di una “svalutazione interna” – visto che non esiste più una moneta nazionale che si possa svalutare – che punta a ridurre i costi delle produzioni, tagliando salari e stato sociale, con l’obiettivo di aumentare produttività e competitività delle esportazioni. Una politica moralmente inaccettabile e socialmente deleteria che, per di più, nel caso spagnolo non può funzionare. Questo approccio potrebbe al limite aver senso in economie a forte base manifatturiera e più concentrate nella produzione di beni esportabili, tipo Germania o Italia, che assomigliano più al modello cinese che a quello americano. Ma nel caso spagnolo l’austerità – imposta da Berlino, via Francoforte e Bruxelles – diventa del tutto inefficace e porta a un circolo vizioso dal quale non si vede via d’uscita.

Il governo socialista ha peccato di troppa prudenza e scarsa ambizione, evitando di disinnescare la bolla speculativa immobiliare prima che scoppiasse, temendo effetti negativi, che però si sono verificati lo stesso, in modo ancora più dirompente. L’ambizione di creare un nuovo modello economico, investendo in ricerca e innovazione, cercando di “attrarre cervelli” e sviluppando nuovi settori, è stata poi cancellata dai drastici tagli imposti dal governo popolare di Rajoy. I tagli accelerano la contrazione della domanda. La “svalutazione interna” non ha nessun effetto positivo sulla crescita. In pochi anni la Spagna perde quel patrimonio di competitività e di attrattività per gli investimenti esteri lentamente acquisito nei decenni precedenti grazie alla qualità dei servizi, pubblici e privati, delle infrastrutture e dello stato sociale.

Viene spontaneo chiedersi se tutto questo sia necessario. Solo la miope ostinazione ideologica neoliberista dominante nell’Europa di questi anni – o il non dichiarato obiettivo di far arretrare di vent’anni un paese che stava avvicinandosi troppo al “centro” dell’Europa – potrebbero spiegare l’imposizione di politiche che hanno devastato la Spagna. Solo la scarsa autonomia politica ed intellettuale dei dirigenti spagnoli – sia popolari che socialisti – può spiegare perché l’élite del paese abbia accettato di devastare l’economia nazionale. La catastrofe di Madrid, più che gli altri casi, resterà una macchia indelebile nelle politiche europee di questi anni.