venerdì 4 dicembre 2009

Il traditore Fini lascia orfana la destra del Pdl

Finì. Il sostantivo, rivelatosi senza sostanza, mutò in verbo. Finì il leader della destra italiana, l’alleato di Berlusconi e forse il suo più popolare successore, finì il patto con lui. Non ripeterò le cose che ha già scritto il Giornale e che ha già detto il popolo dei lettori e degli elettori. Sono cose che condivido e che non devo ripetere, avendole scritte già da qualche anno, quando quasi nessuno le diceva. Non mi pare il caso di ribadire l’abissale differenza tra il leader Berlusconi e lo speaker Fini. E non mi piace celebrare i divorzi, esaltarmi per le mattanze o invocare la chiusura rapida del rapporto tra lui e il Popolo della libertà. Le separazioni non si festeggiano. Sono atti dolorosi ma a volte necessari. Vorrei fare un passo in più e dire un’altra cosa: ora ci vuole qualcuno che rappresenti quel mondo di persone, di comunità, di valori, di sensibilità, di mentalità che un tempo si chiamava destra. Qualcuno che all’interno del Popolo della libertà - riconoscendo la leadership di Berlusconi come pienamente legittima, condivisa ed evidente, una leadership nei fatti, non ideologica - rappresenti autorevolmente all’interno di questo vasto mondo l’accentuazione di temi, ragioni e passioni che attengono ad una parte rilevante del centro-destra.

Lo dico per tre ragioni. La prima è che si tratta di dare una voce, una rappresentanza, un peso a un mondo che non può restare sottinteso e sottotraccia. L’importanza dell’identità nazionale, la difesa della nostra civiltà cristiana ed europea, il senso dello Stato e dello spirito pubblico, la memoria storica del nostro paese e la capacità di giudizio del nostro passato non succube delle vulgate culturali dominanti, il senso religioso ma non clericale, il primato della famiglia, la rivoluzione meritocratica e la preferenza comunitaria. Tutto questo è perfettamente compreso dentro il popolo della libertà, pienamente inserito nel suo orizzonte; ma insieme a una visione liberale e liberista, laica e transnazionale, garantista e plurale. Il popolo della libertà ha ereditato anche i versanti del craxismo, della dc più moderata, dei laici, liberali e repubblicani, è un mondo composito, che nel suo complesso, si riconosce tutto nel leader Berlusconi. Ma è necessario che sia visibile e audace quella componente di un vero e moderno conservatorismo, che Fini ha disatteso e tradito. Perché i tradimenti di Fini, lo sapete bene, sono due, o forse ventidue. Uno, vistoso, è nei confronti di Berlusconi, del governo e dell’alleanza con lui. Ma l’altro, sostanzioso, è rispetto a ogni tipo di destra. Non solo quella classica, non solo quella missina, non solo quella conservatrice e tradizionalista, ma anche quella che difende i valori religiosi e nazionali, e parlo di destre europee in corso, come quella di Sarkozy che affrontò la sua battaglia politica ed elettorale partendo dall’idea di rovesciare il ’68 ancora vivo nelle viscere francesi. O anche inglese, tedesca, spagnola. Non può gemellarsi con Aznar e poi assumere posizioni più vicine a Zapatero che ad Alianza popular. Smettetela voi del fan club di Fini, e mi riferisco soprattutto alla stampa, perché Fini è l’unico che abbia finora unito Corriere della sera, Repubblica, ma anche Stampa e Sole-24 ore, di definire quella di Fini «la destra moderna». Giudicatela come volete, ma quella di Fini non si può definire in quel modo. È altra roba, che può piacere a gente che proviene dal mondo radical, forse liberal, comunque più di sinistra. Un piacere che non muta in consenso. E in democrazia non si può fare politica prescindendo dal consenso dei popoli e dagli orientamenti culturali nella vita reale del paese.

Seconda ragione. In politica non esistono i vuoti e non si può pensare di amputare il Popolo della libertà senza pensare a niente e nessuno che possa colmare quell’arto fantasma ma reale, profondo e diffuso. Berlusconi non può colmare tutti gli spazi e le altrui carenze, caricarsi di tutte le defezioni; perfino gli imperi prevedevano al loro interno diversità e costellazioni, seppure armoniose, e così duravano nel tempo e sopravvivevano a tutto e a tutti. Ogni perdita deve essere bilanciata da una conquista, ogni defaillance da un rilancio. I vuoti sono pericolosi ed è necessario anche a Berlusconi che qualcuno bilanci la presenza forte della Lega.

E qui sorge la terza ragione. È necessario rifondare e rinnovare una componente comunitaria e nazionale dentro il Popolo della libertà anche per tutelare il bipolarismo. Cresce l’idea, che personalmente coltivo da lungo tempo, che oggi la garanzia del bipolarismo sia la presenza di Berlusconi, perché le due coalizioni in campo sono in suo nome, pro e contro di lui. E ci sono partiti, come quello dipietrista, che perderebbero la loro ragion d’essere senza di lui. La manifestazione del 5, che il mio salumiere chiama il No-bidè (No B. day), ne è una prova ulteriore. Perché il nostro paese riesce a reggere il bipolarismo, ma non il bipartitismo assoluto, e Bossi e Di Pietro lo confermano. Ma se si vuole tutelare il bipolarismo occorre far crescere le diversità dentro e non fuori del bipolarismo. Renderle compatibili, sinergiche, leali. Il contrario di quel che hanno fatto Gianfrego e Pierfrego, per intenderci, per riferirci appunto a Fini e Casini. È necessario trovare qualcuno che sieda degnamente alla destra del padre.

(di Marcello Veneziani)

Globale o locale? La politica cerca una nuova identità

Alla caduta del Muro piansi d’emozione. Il Muro non era una frontiera. Le frontiere possono essere un luogo di scambio: filtrano, non fermano i flussi. Ma non ci sono scambi dove c’è un muro. Nei decenni il Muro di Berlino mi parve un’orribile cicatrice. Vederlo crollare fu una vera gioia, così come sentire i manifestanti delle due Germanie gridare in coro: Wir sind ein Volk! (Siamo un solo popolo!). Le delusioni vennero dopo.
Innanzitutto la riunificazione tedesca non fu superamento dei sistemi della Repubblica federale di Germania (Brd) e della Repubblica democratica tedesca (Ddr), ma assorbimento della Germania est nella Germania ovest. I tedeschi orientali divennero «occidentali». Passarono dalla Ddr, sotto influenza sovietica, alla Germania, sotto influenza «atlantica».
Annuncio dello sgretolarsi del sistema sovietico, la caduta del Muro di Berlino non segnò solo la fine del dopoguerra. Chiuse anche il XX secolo, il «secolo breve»: 1917-89 (la guerra del 1914 cambiò natura nel ’17, con la rivoluzione russa e l’entrata in guerra degli Stati Uniti). Più in generale, finì l’ampio vasto ciclo della modernità, cominciato dal Rinascimento. Dagli anni ’90 siamo nell’era postmoderna, non più nell’era degli Stati-nazione, ma in quella delle comunità, delle reti e dei grandi complessi continentali.
Troppo spesso si dimentica il contributo alla globalizzazione dato dalla fine dell’Urss. Ormai il pianeta è unificato, ma di un’unificazione dialettica, perché, in reazione al movimento principale, comporta un’altra frammentazione. Ma le frontiere non fermano più niente: né uomini, né merci, né comunicazioni, né tecnologie. I mercati finanziari agiscono in «tempo reale» da un capo all’altro della Terra. In un attimo le crisi locali diventano mondiali. La tecnoscienza s’estende ovunque. Il liberalismo e la logica del capitale dominano tutto, mentre l’ideologia dei diritti dell’uomo è la nuova religione civile. Un mondo di tal fatta non ha più nulla d’«esterno» (nel senso che, durante la Guerra fredda, il «mondo libero» era «esterno» al blocco sovietico). È ciò che Paul Virilio chiama globalitarismo.
Infine la caduta del Muro di Berlino estingue il Nomos della Terra risalente al 1945. In greco nomos è «legge», ma anche, in origine e in generale, «ripartizione, spartizione». Il Nomos della Terra descrive la disposizione generale dei rapporti di forza internazionali. Carl Schmitt distingue il susseguirsi di tre grandi Nomos della Terra: il primo va dalle origini alla scoperta del Nuovo Mondo; il secondo si confonde con l’ordine degli Stati-nazione nati dal trattato di Westfalia; il terzo scaturisce dalla fine della II guerra mondiale e si connette all’ordine binario (americano-sovietico) di Yalta. La nostra epoca d’incertezza e transizione - quanto lontana dalla fine della storia, annunciata da Francis Fukuyama! - ci fa chiedere: quale sarà il quarto Nomos della Terra? Avremo il mondo unipolare, consacrazione del potere planetario della potenza dominante, gli Stati Uniti d’America; o avremo il mondo multipolare - pluriversum, non universum -, dove i grandi complessi culturali e civili si manterranno diversi, agendo come poli regolatori della globalizzazione?
La questione del quarto Nomos della Terra pone però anche il problema della «quarta teoria politica». Il XVIII secolo vide nascere il liberalismo; il XIX, il socialismo; il XX, il fascismo. Nel XXI quale teoria politica nascerà? Oggi ogni grande ideologia che abbia formato la modernità è in crisi e, come ogni famiglia politica, cerca una nuova identità. La teoria politica del futuro combinerà e supererà, nel senso hegeliano del termine, le passate teorie. Tenterà di combinare libertà e giustizia sociale, lotta all’alienazione e volontà d’autonomia, senso della misura e affermazione di sé, valori disinteressati e «comune decenza» (common decency) di George Orwell. C’è una connessione fra globalizzazione, postmodernità, quarto Nomos della Terra e quarta teoria politica.

(di Alain de Benoist)

lunedì 30 novembre 2009

Se a scoprire il Nuovo mondo fossero stati gli antichi romani

Ognuno di noi, almeno una volta nella vita, avrà detto «Ah se non avessi fatto questo o quello le cose sarebbero andate diversamente»: se avessi dato una risposta invece di un’altra, se fossi partito un’ora prima o solo cinque minuti dopo, se avessi o non avessi incontrato quella persona, se fossi o non fossi entrato in quel luogo, se avessi o non avessi comprato quella cosa, se fossi arrivato in anticipo o in ritardo a un appuntamento, se mi fossi o non mi fossi fermato al semaforo, e così via. La nostra vita è determinata spessissimo non da unici e determinanti eventi, ma da una serie pressoché infinita di piccole scelte, una sola delle quali è sufficiente a decidere l’indirizzo della nostra esistenza: in una lunga sequenza del film Lo strano caso di Benjamin Button di David Fincher (2008) si assiste a una serie di minuti eventi che potevano e non potevano benissimo accadere, ma che una volta accaduti hanno come conclusione un incidente (un taxi investe una donna) che avrebbe potuto non verificarsi se solo uno dei precedenti fatti non si fosse a sua volta verificato interrompendo la catena (una telefonata, una scarpa slacciata, un semaforo rosso ecc.). Lo stesso accade in sintesi nel precedente Sliding Doors di Peter Howitt (1998), dove prendere o perdere una corsa della metropolitana cambia completamente l’esistenza della protagonista.

Se questo accade nella vita di ognuno di noi, figuriamoci quel che accade nella complessa trama della Storia: basta che una piccolissima decisione, parola, fatto non avvenga o avvenga in un modo diverso perché le cose possano andare diversamente. E Se la storia fosse andata diversamente è proprio il titolo dato nel 1999 dal Corbaccio per la traduzione della prima storica antologia di questo tipo (What if? del 1931) da me curata e che ha fatto scoprire in Italia ai lettori e ai critici non specialisti l’esistenza di un particolare genere di narrativa, la storia alternativa o anche ipotetica o anche controfattuale, che ha però anche un nome più altisonante: ucronia (non-tempo, come utopia è non-luogo) coniato nel 1859 da Charles Renouvier, un filosofo francese totalmente inviso a Benedetto Croce e invece apprezzatissimo da un anticrociano come Adriano Tilgher.

Il perché è presto detto: l’ucronia mette in discussione il fine predeterminato della Storia, il suo avere uno scopo intrinseco (e in ogni caso positivo), un suo finalismo imperscrutabile, l’accettazione dunque del Fatto Compiuto inteso come il leibniziano «migliore dei mondi possibili». Se invece un piccolissimo evento (un «sì» o un «no», l’aver girato a destra o a sinistra, l’aver detto una parola interpretata male eccetera) può modificare radicalmente il corso della Storia con la «S» maiuscola, non vuol dire altro che questa ineluttabilità intrinseca della Storia medesima non esiste, ed essa non può essere più in quanto Fatto Compiuto un feticcio da adorare secondo la filosofia hegeliano-marxista.

Ora, nell’ultimo decennio la storia alternativa ha avuto in Italia un’ampia diffusione con romanzi e antologie, specie se ambientata nel Bel Paese: troppo gustoso poter cambiare le nostre vicende nazionali, molto lontane e molto vicine, per non essere allettati dall’idea. Ma scrivere storia alternativa non è così semplice come può sembrare d’acchitto: per non cadere nella faciloneria o nella demagogia, nel grottesco o nel ridicolo non si può andare a ruota libera, ma occorre invece (non paia un controsenso) seguire da presso la Storia, quella vera, per poi allontanarsene in modo verosimile: la ricostruzione dell’ambiente e di personaggi «veri» è essenziale: le assurdità fanno altrimenti cadere miseramente la trama.

Uno degli autori italiani che con maggiori risultati si è dedicato a questo genere è Mario Farneti il quale, partendo da un suo racconto del 1999 ha sviluppato una trilogia di romanzi (Occidente, 2001; Attacco all’Occidente, 2003; Nuovo Impero d’Occidente, 2006, tutti editi dalla Nord) che in milleduecento pagine complessive riscrive la storia italiana e occidentale dal 1972 al 2012 con l’Italia che non è entrata nel secondo conflitto mondiale ed è diventata la nazione egemone come oggi sono gli Stati Uniti. Ora Farneti torna in libreria con il primo romanzo di una diversa trilogia: Imperium Solis (Nord, pagg. 454, euro 18,60) che abbandona la contemporaneità e porta il lettore nell’antico mondo mediterraneo del IV secolo d.C. quando, durante la battaglia di Ctesifonte (26 giugno del 363), s’infranse il sogno imperiale di Flavio Claudio Giuliano ucciso nel corso di una battaglia contro i Parti, in una desertica piana dell’attuale Irak. Questo ci dice la Storia, mentre nell’ucronia di Mario Farneti l’imperatore Giuliano non muore, viene creduto (e si fa credere) morto e intraprende una vera e propria missione divina: andar lì dove il Sol Invictus di cui è devoto va a concludere il suo splendente tragitto giornaliero. Egli parte dunque verso l’Estremo Occidente con le sue navi e le sue legioni, ma anche con i suoi sacerdoti, filosofi, scienziati, geografi e storici, per approdare sulle sponde della leggendaria, immensa isola di Meropide. Si troverà al cospetto di quelle che mille e cento anni dopo Cristoforo Colombo chiamerà le Indie Occidentali, che ovviamente acquisirà all’Impero di Roma facendo prendere alla Storia del mondo in generale e dell’Europa in particolare un corso diverso, come anche si vedrà nei romanzi che seguiranno.

La trama che Farneti, bravissimo in ciò, offre al lettore non è ovviamente così lineare: anzi è molto complessa, ricca di trovate, colpi di scena, personaggi maggiori e minori che appaiono e scompaiono, nonché di veri tour de force linguistici con originalissime soluzioni. In Imperium Solis si mescolano avventura e storia, religione e magia, ipotesi plausibili anche se improbabili ma non impossibili, al punto che ci si chiede perché in fondo gli eventi non siano andati effettivamente come Farneti ce li racconta. Inoltre, alcune dettagliate cartine ci aiutano a capire gli spostamenti, certe volte frenetici, dei principali personaggi nel Vecchio e Nuovo Mondo.

Non mancano l’ironia e l’autoironia quando l’autore legge in filigrana la Storia reale e il lettore avveduto, accorgendosene, non potrà che sorprendersi. Magari penserà in alcuni momenti che si tratti di esagerazioni, ma è sufficiente andare a controllare la conclusiva «Nota dell’Autore» per rendersi conto che molti particolari che pensava totali invenzioni in realtà hanno punti di riferimento storici o scientifici ben saldi. Spesso sconosciuti o inaspettati, ma documentatissimi. Infatti solo una vasta opera di informazione, come dimostra la bibliografia del romanzo, poteva evitare clamorosi errori.

L’arrivo degli antichi romani in America era stato descritto anche da romanzieri statunitensi, ma ne erano usciti romanzetti di poco spessore: con Imperium Solis ci troviamo invece di fronte a un vasto affresco, quasi onnicomprensivo, che tenendo conto delle specificità dei popoli all’epoca esistenti nel Nuovo Mondo e della specificità della gens romana, riesce a darci una storia leggibilissima e avventurosa, divertente e seria, affatto superficiale e ricca di spunti culturali che ci fanno riflettere.

(di Gianfranco de Turris)

I miti, fedeli compagni di solitudine


All’inizio degli anni Sessanta un sedicenne fragile e orgoglioso se ne andò in Inghilterra con lo scopo dichiarato di imparare la lingua e quello inconfessato di perdere la verginità. «Non aver ancora toccato una donna mi pesava intollerabilmente, come se il mio sangue fosse cemento appena impastato, e ogni giorno che passava si solidificasse sempre di più, minacciando che niente vi avrebbe più potuto aprire una breccia, far sgorgare ancora il liquido vitale». Se ne stava appoggiato al bancone dei pub, avendo di fronte due bicchieri di Martini, uno per sé e l’altro per l’eventuale ragazza che ne avesse ricambiato il sorriso. Consumava inutili serate in locali da ballo sordidi come solo sanno esserlo quelli della provincia inglese, si ostinava in pedinamenti notturni dietro volti e corpi su cui aveva fantasticato, sempre nell’attesa che l’imprevisto lavorasse per lui: la timidezza salvata dal Fato...
Ci sono adolescenze solitarie e sprezzanti, «pochi atteggiamenti auto-consolatori sono in realtà più tormentosi e infelici», alle quali la normalità è preclusa per troppa sete di assoluto. Vogliono troppo, pensano troppo, si illudono troppo. Fosse stato il sesso una semplice partita da sbrigare, un fatto tecnico come per la maggior parte dei suoi coetanei, quel sedicenne non sarebbe stato così infelice e così incapace. Ma lì dove gli altri vedevano un atto fisico o una tecnica, lui vedeva, confusamente certo, eppure in modo nitido, un mistero e una sacralità, un’ossessione poetica, una scintilla divina in grado di ancorarlo al Tutto, di dare un senso a un’esistenza altrimenti incomprensibile. «L’adolescenza è anche questo: un’incubatrice del destino, un magma di pura potenzialità e di desideri mutevoli: per questo le contraddizioni che la agitano sono le più lancinanti e le più dimenticate».
Alla fine il caso, ovvero il Fato, ebbe compassione, si incarnò in una insegnante ventitreenne e il risultato fu «una sensazione di liberazione, di sgretolamento e di ricostruzione, di energia che scorre, di sangue che schizza come aghi di pino in un vortice che si alza verso il culmine della gioia come la marea verso la luna, una certezza di continuità, di rinnovamento - di avere radici, di avere germogli - di vita, delle chiavi più segrete e più manifeste della vita; se avessi potuto fermare quell’attimo, mi sarebbe toccata un’eternità di piacere fisico e disincantato, travolgente e leggero, forse perfetto». Non so a quanti sia dato ricordare così la loro prima volta...
In questo «ritratto dell’artista da giovane» c’è tutto quello che poi Giuseppe Conte sarebbe diventato, il poeta e il romanziere, il mitografo e il viaggiatore: e non è un caso che Terre del mito (Longanesi, pagg. 329, euro 18,60), il suo nuovo libro, racconti una vocazione e un apprendistato, una scelta e in qualche modo una missione, l’eterna meraviglia di chi a ogni passo si accorge che c’è qualcosa da scoprire, qualcosa per cui vale la pena gioire, combattere e soffrire.
Conte è una figura anomala nel panorama letterario italiano: è uno scrittore «civile», termine preferibile all’usurato e ambiguo «impegnato», ma lo è in perfetta solitudine, senza rete di cordate intellettuali compiacenti; un narratore puro, ovvero un raccontatore di storie, ma con alle spalle il nocciolo duro di una concezione del mondo epica e tragica, un macinatore di chilometri e di continenti che ha però scelto di vivere in provincia. «Ci sono stati periodi in cui, dovunque avessi casa, non ci passavo più di due giorni la settimana», frutto forse «di una strana paura della stasi, dei muri di casa, della stessa continuità del vivere». Infine, e soprattutto, è un mistico fatto di carne.
Terre del mito è all’apparenza un libro di viaggi, ma «libro», ci ricorda Conte, «è in origine la “pellicola tra il legno e la scorza degli alberi”, si scriveva su di essa, prima della scoperta del papiro: dunque nella parola “libro” c’è il ricordo lontanissimo, confuso, della pioggia e del fuoco, delle radici e del cielo, dei venti e dei nidi degli uccelli, della luna e del sole, del buio e della luce». Così, Terre del mito è principalmente «un pozzo delle correnti di tutti i mari, vetrina cosmica, palazzo di Minosse, magazzino della scorta, torretta, fortezza, abbraccio, colpo di pugnale, carezza, clessidra e infinito». Che vada alle isole Aran o alle Orcadi, nell’India del sud o nel Nuovo Messico, il suo è sempre un mischiare l’alto e il basso, l’approfondimento e l’annotazione, la storia e la quotidianità, il ricordo e il presente, la gravitas e l’ironia...
Allo stesso modo, il mito che ne percorre le pagine non è solo o tanto una storia o una memoria, un’eco del passato o una passione intellettuale, ma una sorta di energia spirituale ancora viva in un mondo che sembra averla disintegrata o dimenticata. Di fronte alle rovine celtiche di Dùn Aengus, «una dimora barbarica e nuda», Conte ha la sensazione che «la divinità, il principio stesso della divinità è sempre giovane e insieme arcaico, carezzevole e insieme atroce. Ebbi per la prima volta la certezza che ci fu un tempo in cui noi, dal cuore della nostra angoscia nebbiosa di mortali, comunicavamo, avevamo commercio con gli dèi».
Come tutti i politeisti esuli in un mondo monoteista a loro estraneo e per molti versi ostile, Conte sa bene che ormai l’essenziale è invisibile agli occhi e l’unica strada percorribile è quella dell’ascolto: una specie di respiro cosmico da cui lasciarsi avvolgere. In India, dove la densità delle divinità è sterminata, ciò è a fatica forse ancora possibile, e uno spirito religioso può lì ancora cogliere il terreno privilegiato degli archetipi, del mito: il sacro nella sua dimensione notturna, laddove, decretata la morte di Dio e trasformata la religione in istituzione, ciò che altrimenti gli resta è disperazione e/o rassegnazione. Qualcosa del genere è avvertibile anche nelle riserve indiane del Nuovo Messico e non è un caso che il Conte ragazzo avesse nella sua camera una foto di Capo Giuseppe, dei Nez-Pércès, l’eroe di Seppellite il mio cuore a Wounded Knee, il sacerdote-guerriero che diceva: «La Terra e io siamo dello stesso parere». E non è sempre un caso se «quella foto c’è ancora. Non ho avuto niente di cui pentirmi al contrario di tanti miei coetanei che sembrano essersi neppure pentiti, ma dimenticati di aver idolatrato Stalin, Lenin, Mao, Ho Chi Min, Giap, Pol Pot, Castro e che devono aver passato la tarda giovinezza a portare ritratti in cantina».
Eppure, e lo dico da panteista superstite di un mondo greco-latino scomparso, ciò che più mi commuove nella queste di Terre del mito è l’amaro vagabondare del suo autore sulle tracce di Afrodite, in una Cipro devastata dall’edilizia selvaggia, l’incuria, il turismo colpevolmente straccione. Alla fine, nelle rovine di Paphos, la «Casa di Dioniso» gli offre due sbiadite iscrizioni in greco: Anche tu recita la prima, Abbi gioia, la seconda. Un saluto e un augurio. «Le ripeto a me stesso mentre seguo i custodi verso l’uscita, e rivedo il sole tramontante di là delle stoppie e del Faro; e mai come in questi momenti ho avvertito, della gioia la parte di struggimento doloroso e mortale». Sembra la chiusa del baudelariano Voyage à Cythère: «Dans ton île, ô Vénus! je n’ai trouvé debout/ Qu’un gibet symbolique où pendait mon image.../ - Ah! Seigneur! donnez-moi la force et le courage/ De contempler mon coeur et mon corps sans dégoût!». Soltanto chi mette il proprio cuore a nudo può farlo sanguinare senza timore.

(di Stenio Solinas)

domenica 29 novembre 2009

Bin Laden, il rapporto del Senato: « Nel 2001 Usa a un passo dalla cattura»


Nel dicembre del 2001, Osama Bin Laden era accerchiato e le truppe americane «senza ombra di dubbio» erano vicine alle sua cattura. Il numero uno di Al Qaeda si trovava a Tora Bora, in Afghanistan, ma i vertici militari presero la decisione di non attaccare il suo rifugio con tutte le forze a disposizione. Lo rivela un rapporto commissionato dal Senato americano alla Commissione per gli Affari Internazionali dal titolo significativo: «How we failed to get bin Laden and Why it matters today» («Come abbiamo fallito a catturare Bin Laden e perché ciò è importante oggi»). Nel rapporto, pubblicato sul sito del Senato dove sarà presentato lunedì e il cui principale relatore è il senatore John Kerry, si legge che il fallimento nella cattura del leader di Al Qaida tre mesi dopo l'attacco alle Torri Gemelle ha avuto conseguenze terribili sulla lunga distanza e soprattutto ha posto le basi per l'attuale recrudescenza della guerriglia talebana in Afghanistan e per i conflitti interni che sconvolgono il Pakistan. Il dossier imputa all'allora segretario alla Difesa Donald Rumsfeld e all'ex comandante del Centcom, Tommy Franks, una decisione dalle conseguenze disastrose, con il riemergere dei talebani e con la Nato impantanata in Afghanistan dopo otto anni di guerra. Non è la prima volta che Kerry, candidato democratico alla presidenza nel 2004, parla della fallita cattura di Osama Bin Laden già nel 2001. Da anni, il senatore accusa l'amministrazione Bush di essersi fatta sfuggire il leader del terrore sulle montagne dell'Afghanistan, tre mesi dopo l'11 settembre.

Nell'introduzione del rapporto che sarà pubblicato lunedì, proprio alla vigilia dell'annuncio del presidente degli Stati Uniti Barack Obama sul «surge» necessario per «finire il lavoro» contro i talebani ed Al Qaeda, John Kerry, presidente della commissione Esteri del Senato, scrive: «Quando siamo andati in guerra meno di un mese dopo gli attacchi dell'11 settembre, l'obiettivo era quello di distruggere Al Qaeda e uccidere o catturare il suo leader, Osama Bin Laden e altri importanti personaggi. La nostra incapacità di concludere il lavoro alla fine del 2001 ha contribuito al conflitto di oggi che mette a rischio non solo le nostre truppe e quelle dei nostri alleati, ma la stabilità di una regione cruciale e instabile».

Ancora, il rapporto commissionato dal senatore Kerry, ex candidato democratico alla Casa Bianca nel 2004 contro George W. Bush e intitolato «Tora Bora rivista: come abbiamo fallito nel prendere Bin Laden e perché questo importa oggi» denuncia: «Rimuovere il leader di Al Qaeda dal campo di battaglia otto anni fa non avrebbe eliminato la minaccia estremista nel mondo. Ma le decisioni che hanno aperto la porta alla sua fuga in Pakistan hanno permesso a Bin Laden di emergere come potente figura simbolica che continua ad attrarre flussi costanti di denaro e ad ispirare fanatici nel mondo. Il fallimento nel completare il lavoro rappresenta un'opportunità persa che ha alterato per sempre il corso del conflitto in Afghanistan e il futuro del terrorismo internazionale». Il documento - basato anche su dati non classificati del governo e su interviste con partecipanti all'operazione - sostiene con certezza che il leader di Al Qaeda si nascondeva tra le montagne di Tora Bora in un momento in cui gli Stati Uniti avevano i mezzi più che sufficienti per dare avvio a un'operazione rapida con migliaia di uomini. «Osama Bin Laden era a portata di mano a Tora Bora - si legge nel rapporto - Accerchiato in uno dei posti più impervi della terra, lui e centinaia dei suoi uomini resistettero instancabilmente ai bombardamenti americani, quasi a 100 raid al giorno». Il leader di Al Qaeda «si aspettava di morire - rivela ancora il dossier - Le sue ultime volontá e il suo testamento scritti il 14 dicembre riflettevano il suo fatalismo. Diede istruzioni alle moglie di non risposarsi e chiedere scusa ai suoi figli per essersi dedicato al jihad».

"Gli ebrei sono un'invenzione del sionismo". Libro israeliano scatena bufera in Usa


Il diritto al ritorno degli ebrei in terra d’Israele? "Non esiste, visto che la diaspora ebraica è soltanto il frutto di una leggenda, creata dai sionisti a fini opportunistici". E’ la tesi, a dir poco incendiaria, sostenuta da “The invention of the Jewish people”, il nuovo libro di Shlomo Sand appena pubblicato in America, tra mille polemiche.

Docente di storia all’Università di Tel Aviv, Sand ha un curriculum vitae all’apparenza insospettabile. Nato in Austria nel 1946 da genitori polacchi sopravvissuti all’Olocausto, è emigrato in Israele nel 1948. Eppure il suo libro - uscito nel 2008 in Israele, dove è restato per mesi in cima alla lista dei best sellers – ha dovuto aspettare un anno prima di essere pubblicato in Usa, dalla casa editrice di sinistra Verso Books: l'unica disposta a "toccarlo".

La tesi principale del libro è che non esiste un popolo ebraico in quanto tale. Sand rispolvera una vecchia tesi elaborata da alcuni storici dell’ottocento, secondo cui gli ebrei ashkenaziti dell’Europa centro-orientale discenderebbero dai Cazari, una tribù turca che si convertì al giudaismo e nell’ ottavo secolo creò un impero nel Caucaso.

Sempre secondo Sand, nel 70 e nel 135 D.C. non si sarebbe verificato alcun esilio forzato del popolo ebraico dalla Palestina da parte dei Romani: gli ebrei si sarebbero diffusi in Europa, Nord Africa e in Asia attraverso il proselitismo e la conversione delle popolazioni locali.

Apriti cielo. “La missione del Professor Sand”, punta il dito il New York Times, “è screditare le basi storiche della pretesa della Terra Promessa da parte degli ebrei”.

Sand critica gli storici sionisti dal 19esimo secolo in poi che, secondo lui, avrebbero “nascosto queste verità”, alimentando “il mito di radici comuni per supportare la loro agenda nazionalista”.
Ma contro di lui si sono già scagliati alcuni dei massimi studiosi Usa. “La tesi cazara è pura fantasia”, punta il dito il Prof. Michael Terry, capo della sezione Ebraica della New York Public Library, “essa ha intrigato per anni storici e scrittori, ma finora gli esperti in materia l’hanno ripetutamente rigettata perchè le prove a sostegno della teoria sono inconcludenti e frammentarie”.

Secondo il Dr. Harry Oster, direttore del programma di Genetica Umana al Langone Medical Center della New York University, la discendenza dai cazari “non è supportata dagli studi genetici”.

Secondo Oster avrebbe invece fondamento un’altra delle tesi avanzate da Sand. E cioè che “i Palestinesi siano i discendenti degli ebrei che popolavano anticamente Israele, convertitisi poi all’ Islam”.

Nel 1918 David Ben Gurion e Yitzak Ben Tzvi avevano sposato questa tesi in un libro che sosteneva l’opportunità di un alleanza tra sionismo e nazionalismo arabo per supportarsi reciprocamente nelle rispettive lotte per l’indipendenza.


sabato 28 novembre 2009

Evoluzionismo: tramonto di un'ipotesi


L’ultimo numero della rivista ultralaicista Micromega ha come bersaglio, in copertina e in numerosi articoli, Benedetto XVI e il suo Magistero. Ma uno degli articoli è una violenta requisitoria contro un convegno da me promosso al Consiglio nazionale delle ricerche lo scorso 23 febbraio sull’evoluzionismo. Per l’autore, Telmo Pievani, non solo è inconcepibile che qualcuno critichi l’evoluzionismo, ma è persino «mirabolante» che la critica sia promossa dal vicepresidente del Cnr.
Ciò che più colpisce non è la prevalenza degli aggettivi sui sostantivi e degli umori sulle ragioni, né le espressioni insultanti tipo «siamo il paese delle trasmissioni paranormali alla Voyager», ma la capacità di parlare di ciò che non si conosce. Pievani tenta per sette pagine di ridicolizzare un convegno internazionale senza peritarsi di leggerne gli atti, recentemente pubblicati da Cantagalli con il titolo L’evoluzionismo: tramonto di un’ipotesi. Dopo aver visto su un quotidiano un’ottima recensione di questo volume, è andato fuori dai gangheri e non ha fatto ciò che sarebbe stato ragionevole: acquistare una copia del libro e redigere una risposta argomentata. Avrebbe così scoperto che il libro collaziona non esternazioni fideistiche, bensì critiche di carattere scientifico, alle quali avrebbe così potuto provare a replicare in modo meno approssimativo e manicheo.
La principale caratteristica dei fanatici dell’evoluzionismo è parlare di ciò che non conoscono, a cominciare dalla stessa teoria dell’evoluzione che, 150 anni dopo l’apparizione dell’Origine della specie di Darwin, continua a essere una sorta di «oggetto scientifico non identificato». Così facendo, però, egli contraddice due volte il metodo scientifico. Prima di tutto perché la scienza non afferma verità ma vi si approssima per prove ed errori: epistemologicamente, qualunque tesi verrà tendenzialmente confutata o almeno corretta. E poi la modalità d’indagine con cui la scienza procede per raggiungere una conoscenza oggettiva e affidabile si basa sull’osservazione della realtà e sulla formulazione di un’ipotesi, verificata sperimentalmente. Ciò che non è il caso dell’evoluzionismo.
La legge della gravitazione universale di Newton può essere sperimentata ogni giorno. Gli esperimenti di Pasteur sui micro-organismi possono essere ripetuti ogni giorno. Per poter trarre leggi generali da un esperimento, esso deve poter essere realizzato, nelle stesse condizioni, da chiunque, in qualunque tempo e luogo. Quando un’ipotesi scientifica è inverificabile non può assumere la dignità di teoria. Ma quali esperimenti provano ciò che accadde nel passato: la pretesa evoluzione dalla materia alla vita, dal semplice al complesso? Il fatto che la materia complessa sia costituita da elementi più semplici non prova l’esistenza di un passaggio, nel tempo, dai secondi alla prima.
Per ovviare alla mancanza di una dimostrazione scientifica, l’evoluzionismo pretende di sostituire alla causalità, la casualità. Il «caso» diviene la «spiegazione» dell’inspiegabile. In questa prospettiva Pievani teorizza «che un evento altamente improbabile può realizzarsi in seguito a un’enorme quantità di tentativi nel corso di milioni o di miliardi di anni» (Creazione senza Dio, Einaudi, 2006). Ma il tempo non produce differenza: ciò che è impossibile sotto l’aspetto dei rapporti causa-effetto rimane tale per sempre. Anche le fantasie del caso hanno limiti invalicabili, che nella teoria della probabilità si chiamano «soglie di impossibilità» e rappresentano quei valori di probabilità al di sotto dei quali vi è la certezza che un evento casuale non si è mai verificato, né mai si verificherà. Il fatto che un evento molto improbabile possa teoricamente accadere, non significa che sia accaduto. Né ha valore immaginare lunghissimi tempi in cui «l’impossibile diviene possibile, il possibile probabile e il probabile virtualmente certo. Basta aspettare: il tempo compirà da solo il miracolo» (George Wald, L’origine della vita).
L’evoluzionismo, insomma, è una fantasiosa «storia» che presuppone a sua volta come verità indiscussa un principio filosofico, l’idea che tutto sia materia in continuo sviluppo. La teoria scientifica non si regge da sola: ha bisogno di quella filosofica per sopravvivere, e viceversa.
In questi giorni celebriamo i 20 anni dalla caduta del Muro di Berlino, e con esso di tanti miti: il «socialismo scientifico», la «dittatura del proletariato», il «progresso» indefinito della storia. Un solo totem sopravvive ancora: quello dell’evoluzionismo, un dogma che al socialismo di Engels e di Marx è, come noto, strettamente legato. Qual è la ragione per cui una teoria scientifica nata nell’Ottocento, come è quella darwiniana, è sopravvissuta al crollo dei miti ottocenteschi? Perché non possiamo non dirci darwinisti?, come recita un altro curioso titolo diffuso in questi giorni in libreria? La ragione è semplice. Il relativismo contemporaneo, secondo cui non esistono valori assoluti, ma tutto si trasforma, e nulla è stabile e permanente, ha il suo fondamento nella teoria evoluzionista. E oggi siamo passati dalla dittatura del proletariato alla dittatura del relativismo. Un esempio di questo totalitarismo scientista è proprio la pretesa di Pievani di tappare la bocca ai propri avversari, imponendo loro la «verità scientifica» per autorità, prassi di cui, anche nel fascicolo di Micromega, viene accusata la Chiesa.
Così facendo, Pievani dimostra l’utilità del libro e conferma la ragione per cui esso è nato, cioè evitare che l’evoluzionismo continui a essere imposto come dogma di fede, bollando i critici con epiteti spregiativi e, se necessario, colpendoli con l’epurazione. È questa infatti la nemmeno troppo larvata richiesta nei miei confronti di Pievani, scandalizzato che io ricopra «la carica di vicepresidente del Cnr». Il mondo scientifico nel XX secolo ha già conosciuto regimi in cui si è adottato questo sistema. Ma un pensatore laico e democratico non dovrebbe aborrire simili atteggiamenti?

(di Roberto De Mattei - Vicepresidente Cnr)

venerdì 27 novembre 2009

L’autentica «destra divina»? Figlia di Pier Paolo Pasolini


Dov’è finita la destra? È ascesa in cielo e siede alla destra del Padre. Prima di chiamare la neuro per farmi ricoverare o accusare Fini di avermi fatto impazzire, mandate l’ambulanza a Parma dove vive Camillo Langone, che mi ha ispirato questo delirio. Langone ha scritto un succoso pamphlet dal titolo ghiotto e folle, Manifesto della destra divina (Vallecchi, pagg. 152, euro 12).
L’inventore moderno della destra divina è uno scrittore sui generis, con tessera Pci: Pier Paolo Pasolini. La destra divina di Pasolini non era una destra storica ma onirica, perché viveva nella dimensione del sogno. Stupido è dunque cercarla nella realtà. Ne parlai anni fa in un mio saggio, ripescando la sua poesia Saluto e Augurio, l’ultima prima di morire che Pasolini scrive quasi presago della sua morte, ed è dedicata a un giovane fascista. In quei versi in friulano Pasolini sciorina la sua destra divina, il suo amore disperato del passato e della tradizione ed esorta il giovane fascista a servire la destra divina attraverso un triplice comandamento: difendi, conserva, prega. La poesia di Pasolini, che si definiva «uno sgraziato reazionario», diventa il viatico del testo di Langone e il triplice imperativo pasoliniano campeggia sotto il titolo del suo libretto.
Ma, informo Camillo, l’inventore storico e mitico della destra divina è addirittura un Re normanno, Ruggero II Altavilla, che nel sud Italia coniò il mirabile motto: Dextera domini fecit virtutem, dextera domini exaltavit me. Traduco anche se è un latino trasparente: la destra del Signore fece la virtù, la destra del Signore mi esaltò. Insomma la destra divina ha quasi nove secoli, quella umana neanche tre, se partiamo dal Parlamento inglese o dalla Rivoluzione francese.
Langone non scrive un saggio politico e nemmeno teologico, naturalmente, e non riferisce la sua destra divina a Ratzinger, che pure Del Noce definì, quando era prefetto della Congregazione della Fede, il più alto esponente della cultura di destra. No, lui la declina in modo furbo e impolitico, nella vita, attraverso una serie di opposizioni che ripercorrono in versione intelligente gli stupidi antagonismi tra destra e sinistra che da Gaber in poi ci hanno perseguitato per anni: Abruzzo contro Patagonia, ovvero amore del vicino rispetto alle fughe esotiche; Amore rischioso contro sesso sicuro, insomma natura contro profilattici; e così via in una serie di antitesi: caccia/animalismo; confessione/ psicanalisi; culto/cultura; domenica/week end; durata/incostanza; gonna/pantalone; indissolubilità/divorzio; messe/mostre; muri/mondo aperto; onomastico/compleanno; presepe/albero; tabarro/Zara; trullo/grattacielo; ubbidienza/coscienza. Segue una breve guida ai libri, alla musica e ai film della destra divina.
Sono convinto che l’unica destra possibile oggi sia fuori della politica, nella vita di ogni giorno, nella profondità dell’anima dei popoli e delle persone, o nell’iperuranio dove riposano gli archetipi celesti. E sono convinto che sopravviva sotto falso nome, anche se più spesso mi assale il dubbio opposto che falso sia il nome di destra per definire questa sensibilità verso la tradizione.
Naturalmente molte delle cose che difende Langone sono oltraggi alla modernità e lamenti di un conservatore che loda il tempo andato. Ma si avverte pure la civetteria un po’ dandy del suo torcicollo, da esteta della tradizione che cerca di esser trendy vestendo fuori stagione. Conobbi Langone anni fa, mi aveva scritto che voleva conoscermi e mi colpì il suo presentarsi in modo del tutto inconsueto: come porno-cattolico e come nullafacente a carico di sua moglie. Lo convocai in un caffè di Bisceglie, perché lui era in vacanza natalizia a Trani ed ebbi conferma del suo perverso ma creativo tradizionalismo e del suo sfizioso catto-erotismo. Lo incoraggiai a scrivere e credo di avergli procurato qualche buona opportunità per esprimere la sua originale miscela. Pochi anni dopo spiccò il volo sui giornali, dove si reinventò come recensore di ristoranti, vini e messe, cantate e no. Non mancò di ficcarsi in alcuni pasticci per una patente e a volte criminale leggerezza di vivere e non curarsi degli effetti.
Ora plana con la sua leggerezza fertile e irresponsabile nel terreno sconnesso delle ideologie e si diverte a scrivere un vademecum sulla destra, in opposizione alla destra «opportunista e nichilista» di Fini e alle altre simildestre, borghesucce e futili. Per chi come me è autore pentito di libri come La cultura della destra, con tredici ristampe e trecento rimorsi, la destra di Langone è un tuffo nel passato morto e sepolto. Certo, la sua destra divina è eccentrica rispetto ai percorsi della cultura politica e non è proponibile come scelta attiva di un movimento; ma mi chiedo se abbia più senso chi si definisce ancora di destra e poi pretende di tesserare nel suo club neodestro Michael Jackson e Vasco Rossi, i matrimoni gay e le fecondazioni artificiali.
Rispetto a chi usa ancora l’ombrello protettivo della destra per bucarlo dall’interno e godere della pioggia che filtra, meglio chi preferisce intabarrarsi dentro un pastrano antico e affrontare il temporale con allegro fondamentalismo & minimalismo.

(di Marcello Veneziani)