martedì 15 giugno 2010

Ci voleva la Lega per riscoprire la Patria


Il Tricolore languiva nelle canti­ne dell’oblio fino a quando qualcuno decise di denigrarlo e usarlo per scopi indegni e allo­ra riprese a sventolare nei no­stri cieli. Fratelli d’Italia era di­ventato un inno mimato solo nelle partite della Nazionale mentre i calciatori masticava­no i chewing gum, fino a quan­do qualcuno lo disprezzò e allo­ra si propose di cantarlo tutti, in ogni occasione ufficiale e perfino obbligatoriamente. Il Crocifisso calava giorno dopo giorno dai muri dei pubblici uffici, fino a quando qualcuno decise di offenderlo o addirittura di rimuoverlo per decreto. E allora si propose di difendere la sua pubblica affissione in casa e in Europa. Insomma, ci stavamo abituando a un’Italia incolore e multicolore, a un’Italia di figli unici e muti, senza fratelli e senza inno cantato, a un’Italia senza crocifisso; fino a che leghisti, filoislamici, atei e laicisti ci hanno stuzzicato a tal punto da resuscitare amor patrio e amor di Cristo. Quanti insospettabili patrioti e osservanti abbiamo scoperto per contrasto negli ultimi tempi.

Io me li ricordo i patrioti di oggi cosa dicevano fino a poco tempo fa e con che aria di ironico compatimento, se non di acida disapprovazione, guardavano ai fautori dell’amor patrio. Dicevano che la patria era un’anticaglia nell’epoca della globalizzazione e dell’internazionalismo, che era il rifugio dei mascalzoni o il privilegio di lorsignori, che il patriottismo era una maschera del nazionalismo se non del fascismo; che era retrò, stucchevole, oleografico oggi che c’è l’Europa il richiamo all’unità nazionale. E me li ricordo i difensori odierni dei crocefissi che fino a qualche tempo prima pensavano naturale e moderno e liberale lasciar scolorire pian pianino quei segni di fede dalle aule pubbliche. Erano considerati da loro segni confessionali di un’Italia ormai superata e ancora clericale. Poi, improvvisamente, è bastato qualche accenno di nemico e tutti lì a suonare l’allarme per la patria in pericolo, per l’unità nazionale minacciata dagli atroci padani e per l’Italia cattolica minacciata dai feroci saladini e dagli atroci ateocrati di estrazione massonica, tecno-euro-burocratica.

Dobbiamo dunque dir grazie a Bossi, Zaia e Calderoli, a qualche ayatollah del laicismo ateo o a qualche garante delle religioni altrui, se oggi si è riacceso qualche fuocherello per i simboli civili e religiosi della nostra tradizione. Siamo un Paese col motore a reazione, nel senso che abbiamo bisogno di reagire a qualcuno per riscoprire ciò che ci identifica e ci lega. Se ci minacciano una cosa a cui non tenevamo più, allora reagiamo e facciamo barricate per tutelarla come un bene prezioso; se nessuno ci minaccia siamo pronti a lasciarla languire e perfino morire.

Prendete le commemorazioni per l’Unità d’Italia. Se non ci fosse stata qualche polemica leghista, sanfedista e papista e qualche sberleffo, chi si sarebbe occupato veramente delle sue celebrazioni? Se non avessero insultato o spernacchiato Garibaldi e i Savoia, ne avremmo parlato con un rinato, inatteso fervore? E se non avessero offeso, umiliato, la nostra religione, diffamando i papi, i vescovi e i preti sui temi del nazismo o della pedofilia, qualcuno avrebbe difeso Cristo, la Croce e la Chiesa? Non so quanto potranno durare e lasciar tracce in profondità, un amor patrio e cristiano così relativi, occasionali e precari.

Ma capisco ormai una cosa: se vuoi ottenere una cosa in Italia devi eccitare il suo contrario. Se vuoi salvaguardare la poltrona a qualcuno devi dire che vogliono farlo fuori; e se vuoi impedire che qualcuno ottenga una poltrona lo devi dire in anticipo sui giornali per suscitare indignazione e veti incrociati: è quel che si chiama bruciare una candidatura. In un Paese di martiri presunti e di vittimisti veraci, per tenerti una cosa, una casa, un incarico, devi denunciare che stanno per togliertela: è capitato a tanti gay, immigrati, nomadi, ebrei, donne, che sono riusciti a salvarsi denunciando preventivamente una discriminazione ai loro danni. Sfratti, direzioni di istituti, incarichi di potere, premi sono stati bloccati in questo modo. Ma queste sono furbate, nel caso del tricolore, dell’inno e del crocifisso l’attacco c’era ma alla fine è stata una grazia. È quel che i filosofi chiamano eterogenesi dei fini, quando i risultati rovesciano le intenzioni. Oggi l’amor patrio è tenuto in vita da pochi leghisti, l’amor di Dio da pochi atei, l’amor della Chiesa da pochi anticlericali. Quanto potrà durare questo patriottismo per dispetto e per furbizia di marketing? Se il contrappasso è la legge invisibile del nostro Paese, aspetto con ansia che cessi la campagna contro i privilegi, i supercompensi, gli enti superflui; chissà che, finendo di denunciare gli abusi e gli sprechi, si cominci a tagliare sul serio. Se ami l’Italia prendila a botte.

(di Marcello Veneziani)

domenica 13 giugno 2010

La "Cristianofobia" e la tiepidezza dell'Occidente

“Cristianofobia“ in un Occidente sempre più secolarizzato? “Cristianicidio“ in un Islam sempre più fanatizzato? Neologismi di attualità drammatica, approssimandosi i funerali a Milano del vescovo cappuccino assassinato in Turchia. Sono in molti a non credere nella tesi dello squilibrato, visti anche i precedenti di omicidi di cristiani, attribuiti dalle autorità locali a pazzoidi fuori controllo. A questa sorta di noncuranza islamica, si accosta quella dell’Occidente, pronto a indignarsi e a manifestare nelle piazze per ogni buona causa, vera o presunta che sia, ma che qui sembra aver messo la sordina alle proteste. La nostra indignazione è, semmai, per la minaccia al benessere di pesci ed uccelli nell’inquinato Golfo del Messico, più che per i credenti nel Vangelo martirizzati in Asia e in Africa. Eppure, statistiche irrefutabili mostrano che il cristianesimo è di gran lunga la religione più perseguitata nel mondo. A dar la caccia al battezzato non ci sono solo i soliti musulmani –o, almeno, le loro frange estremiste- ma in prima fila stanno anche gli induisti che, nel mito liberal, erano il paradigma della tolleranza nonviolenta. Non mancano casi di violenza sanguinaria anche da parte dei “pacifici“ buddisti, per non parlare delle mattanze cui volentieri si dedicano gli adepti delle vecchie e nuove religioni dell’Africa Nera.

Perché tanto odio e perché tanta rimozione da parte nostra, davanti a quello che talvolta assume il volto terribile del massacro? Il credente scorge qui significati ultramondani, sulla scorta delle parole di Gesù: “Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi“. La possibilità del martirio fa parte di una prospettiva che ha le sue basi nel Vangelo stesso. Per dirla con Chesterton, il convertito: “Il nostro simbolo è la croce sul Golgota, non la villetta nei sobborghi verdi di Londra“.

Ma, al di là della lettura religiosa, quali fattori storici hanno creato e alimentano l’avversione per i cristiani? Per stare al caso che oggi più inquieta, quello musulmano, spesso non si considera che non in tempi remoti, bensì alla fine della seconda guerra mondiale, non vi era nessun Paese islamico che potesse dirsi indipendente. Tutti, senza alcuna eccezione, facevano parte di un impero coloniale europeo o erano sottoposti al suo protettorato. Il cristianesimo era, per un Islam frustrato e ridotto all’impotenza, la religione dei “padroni“: un paradosso, tra l’altro, per casi come la Francia o il Belgio, dove la classe politica dirigente era impegnata in patria nella lotta contro la Chiesa e nelle colonie ostacolava i missionari cattolici e spingeva per la creazione di logge massoniche. Ma un paradosso anche nell’impero britannico, dove si favoriva la Chiesa anglicana –questa “Camera dei Lords in preghiera“, com’era definita– che, più che il Vangelo, annunciava virtù civili, pregiudizi, eccentricità dell’establishement politico britannico. Ma erano distinzioni che furono cancellate nella propaganda per la decolonizzazione, dove il “tiranno europeo“ era identificato tout court con il cristiano. Nel caso del Medio Oriente, la situazione è stata molto aggravata dall’inserzione di Israele, sentita come una violenza: il grande padrino nordamericano dello stato ebraico si vanta di essere il paladino del cristianesimo biblico, vi è sorto addirittura il potente movimento dei “cristiani per il sionismo“ (Bush junior ne faceva parte), per il quale il ritorno degli ebrei in Palestina va favorito, come annuncio dell’apocalisse e del ritorno glorioso di Cristo. Così, l’avversione per Israele è diventata per le folle musulmane avversione per la fede nell’ebreo Gesù. Anche zone superstiti di tolleranza religiosa, come l’Iraq del laico Saddam, sono state avvelenate dalla violenta aggressione dei “cristiani“ americani.

Quanto a noi e alla nostra mancata mobilitazione: è indubbio che parte influente del media-system occidentale sta dalla parte di coloro che –come già i giacobini del 1793– vorrebbe “chiudere finalmente la parentesi cristiana“. Enjamber deux millénaires, scavalcare due millenni e ricominciare da capo, scrostandoci da dosso l’eredità funesta di quel Crocifisso che non a caso l’Unione Europea vuole togliere dai muri. Può una Unione così -che rifiuta persino l’evidenza storica, negando le sue radici cristiane- può forse indignarsi se, nel mondo, è scomoda la situazione di una credenza per la quale si auspica che non ci sia futuro? Un certo vittimismo cristiano lascia perplessi, come pure un complottismo un po’ paranoico: è indubbio, però, che al prevedibile aumento della violenza contro i credenti nel Vangelo non si accompagnerà un aumento della solidarietà nei Paesi stessi che di quella fede furono i privilegiati.

(di Vittorio Messori)

giovedì 10 giugno 2010

Tremonti vs Bersani? Tre a zero

Di solito non guardo Annozero. Michele Santoro è bravo, ma la sua trasmissione mi annoia. Nonostante la varietà degli ospiti, è troppo faziosa, si capisce sempre da che parte tira. E la parte è una sola: Silvio Berlusconi è come il colera, o ci ammazza lui o lo ammazziamo noi, in senso figurato s’intende. È la stessa solfa che sento suonare da tanti media. La conosco a memoria e mi ha stancato. Per questo, quando sta per cominciare il talk show di Michele, cambio canale.

Giovedì ho fatto un’eccezione. Sapevo che ad Annozero ci sarebbe stato un faccia a faccia fra due big: Giulio Tremonti, il ministro dell’Economia, e Pierluigi Bersani, il leader del Partito democratico. Me lo sono goduto dal primo minuto all’ultimo. Ed è stato come assistere a una partita di calcio. Conclusa con un risultato netto: la vittoria per tre a zero di Tremonti su Bersani.

Perché Tremonti ha vinto? Prima di tutto, perché giocava in casa. Nel senso che il campo di gioco era quello che lui conosce meglio: la crisi economica e finanziaria, con la manovra decisa dal governo.
In materia Bersani non è uno sprovveduto, lo so bene. Ma il segretario del Pd ha dei problemi a muoversi su quel terreno. E tra un istante ne parlerò. Pure Tremonti ha dei vincoli politici, però è stato bravo a fingere di non averne.

In questo modo, il ministro dell’Economia ha saputo parlare con chiarezza. E mi ha fatto capire quattro cose essenziali, le uniche che il governo può fare e, soprattutto, deve fare. La prima è tentare di ridurre il nostro colossale debito pubblico. Poi salvare i depositi degli italiani nelle banche. Quindi difendere il valore dell’euro. E infine sostenere la cassa integrazione. Oggi come oggi, non è possibile fare altro.
Ho capito di meno quanto diceva Bersani. Non ho pregiudizi contro di lui. E meno che mai quelli acidi che gli ha scagliato addosso Carlo De Benedetti. Però il leader democratico non ha esposto la propria ricetta anticrisi con la stessa chiarezza di Tremonti. Ha parlato di sviluppo, di giovani senza lavoro, di tagli inutili fatti dal governo con l’accetta, di ceti deboli che non possono essere i soli a pagare. L’unica proposta che non ha osato esprimere in modo netto è l’aumento delle tasse per i redditi forti o ritenuti tali. Ma si capiva che a questo stava pensando.

La debolezza di Bersani è emersa quando ha rinfacciato a Tremonti, volendo rivolgersi soprattutto a Berlusconi, di aver strillato che tutto andava bene, che l’Italia non rischiava nulla, che bisognava dormire sonni tranquilli. Certo, è andata così. E il Cavaliere ha fatto la figura del cioccolataio. Ma ricordarlo a che cosa serve? E ha poco senso dire, come fa il Pd al centro-destra: riconoscete di aver avuto torto, di essere stati imprudenti, di aver venduto lucciole per lanterne, soltanto allora potremo metterci al tavolo con voi e trovare una via d’uscita dalla guerra fredda tra i due blocchi.
Tuttavia un’attenuante Bersani ce l’ha. Ha perso anche perché guida una squadra che, dal punto di vista della chiarezza progettuale, sembra la vecchia armata Brancaleone. Non abitando più a Roma, seguo le vicende della sinistra leggendo una dozzina di quotidiani. Il risultato è sconvolgente. Chi comanda nel Pd? Certo, Bersani è il segretario, ma a circondarlo c’è un gruppo dirigente pronto a scannarlo. Sto pensando a signori e signore come Veltroni, Franceschini, Marino, Bindi e il loro seguito. Un club che sta distruggendo il proprio partito. C’è da sperare che almeno D’Alema riesca a difendere il parroco e la parrocchia.
Anche a proposito della crisi, le ricette del Pd sono tante, forse troppe. Leggiamo opinioni radicalmente diverse. Ho l’impressione che Bersani non ne possa più di questa sarabanda. Quando Giulio, sornione, gli ha ricordato i nomi di due o tre democratici che non la pensano come lui, Pierluigi si è lasciato sfuggire un gesto di stizza, esclamando: “Lascia perdere, non nominarmi Tizio o Caio!”.

Come se non bastasse, Bersani è costretto ogni giorno ad alzare un muro sul fianco della sinistra radicale. L’implacabile Di Pietro va di continuo all’assalto del Pd, pur seguitando a proclamare la propria lealtà. Gli strali degli opinion maker anti-Caimano ormai si rivolgono anche contro Pierluigi. Persino i vignettisti se la prendono con lui. Venerdì 4 giugno, sul Fatto quotidiano, un grande disegnatore come Riccardo Mannelli lo ha fucilato con un ritratto al curaro. La faccia di Bersani era accompagnata da una didascalia che lo ribattezzava “Cacasonno”, ossia un leader che fa soltanto dormire. “E che parla anche a nome di Bertoldo e Bertoldino”.
Ma il dramma vero di Bersani è ancora un altro. Riguarda l’intera sinistra italiana, nelle sue diverse fazioni. E forse l’intera sinistra europea. La terribile bufera che ci avvolge l’ha paralizzata. La destra, nelle forme del centro-destra, tenta di arginare il caos, alza delle dighe, propone rimedi da lacrime e sangue. Anche se nessuno è in grado di dire quanto le difese serviranno. Però la destra si muove. Mentre la sinistra sta ferma, balbetta, propone vecchie ricette impossibili da applicare.

Ma per tornare al vincitore dello scontro ad Annozero, anche Tremonti un problema ce l’ha. Si chiama Berlusconi. Il Cavaliere odia le lacrime e il sangue. Vuole ottimismo, consumi, gioia di vivere, più libertà personali. Se potesse, farebbe a pezzi la manovra di Giulio. Adesso sembrano d’accordo su una grande riforma liberale, una deregulation destinata alle piccole imprese. Spero molto che non sia aria fritta.

(di Giampaolo Pansa)

martedì 8 giugno 2010

Negazionisti d'Italia

Sfatti gli italiani, non resta che negare l’esistenza dell’Italia. E così alla vigilia del 150° anniversario dell’Unità si fa largo una nuova vulgata anti risorgimentale. Una cosa a metà tra il negazionismo truculento alla Beppe Grillo – “L’Unità d’Italia? Non c’è mai stata perché non c’è mai stata l’Italia” – e la bravata facile da moviola televisiva del calciatore azzurro Claudio Marchisio, il quale avrebbe sfregiato l’inno declamando “schiava di Roma ladrona” (ma noi ancora ci illudiamo non sia vero). La Lega c’entra e non c’entra: dopotutto, per italianizzarla definitivamente, basterebbe che governasse un po’ più da Roma come fa Roberto Maroni e un po’ meno in periferia.
Né si può pensare che i negazionisti e i bravacci d’oggi siano il prodotto della pubblicistica anti unitaria più o meno clandestina. Chiaro che il Risorgimento non è stato un pranzo di gala, come non lo è stato il suo ultimo e trionfale atto (la Grande guerra) e come non potrebbe mai essere irenico e indolore alcun giro di ruota nella storia di una patria da riconquistare. Ma questo è già un tema molto alto e al limite della rarefazione, chiama in causa le rivoluzioni fallite su cui s’interrogarono Vincenzo Cuoco e Antonio Gramsci, evoca il senso di un percorso nazionale semmai da perfezionare, non certo da rimuovere come un tatuaggio malriuscito o da irridere con la battuta sconcia. Allora di che stiamo parlando, quando ci prendiamo in carico i beppegrillismi di ritorno e un certo analfabetismo anti patriottico?
Di un’inerzia selvaggia che ha preso domicilio nella terra di nessuno posta tra una retorica e l’altra. La retorica dell’antico, irrefutabile primato civile e morale dell’Italia e la retorica dell’autodenigrazione di cui siamo maestri cantori invincibili, ma che è pur sempre il lascito di una grandezza rimpianta. Tra questi fronti inconsciamente solidali è spuntata una striscia di sabbia, una bava desertica nella quale il pensiero abdica alla visceralità coatta. E’ qui che germogliano soltanto pulsioni istintuali, qui si obbedisce all’impersonalità più convenzionale, alla moda perfino. Ecco, la parola chiave è forse “moda”: Beppe Grillo e Claudio Marchisio (ma noi ancora ci illudiamo che lui sia innocente) credono forse di omaggiare un canone estetico, assecondano il disprezzo o la fraudolenza anti italiana che di questi tempi è così agevole indossare, si sentono in linea con i gusti del momento, con ciò che fa tendenza.
La rinuncia all’autonomia del giudizio fa sempre tendenza. E’ spiacevole. Ma non è un frutto italico, è un prodotto d’importazione. Uno scienziato pitagorico, Enrico Caporali, durante la Prima guerra mondiale esortava così: “L’indipendenza di una nazione ha la sua base nella indipendenza del pensiero che plasma il carattere e dirige la volontà. L’Italia (…) bisogna che rievochi la sua tradizione, che sviluppi il suo carattere, il suo genio originale Etrusco-Latino, ridiventando Maestra di Verità e di Giustizia. Amor ci mosse che ci fa parlare”. Questo è Dante, il resto è moda e passerà di moda.

(di Alessandro Giuli)

lunedì 7 giugno 2010

Ecco perché la speculazione attacca gli Stati


«Le grandi banche internazionali hanno ormai l'imperativo categorico di non comprare titoli di stato del Sud Europa. E questa non è una decisione dei singoli operatori, ma dei gestori dei rischi delle banche». Il trader di un istituto internazionale, anonimamente, sembra quasi giustificarsi: non posso più aumentare la mia esposizione sui titoli di stato spagnoli, greci, portoghesi e italiani – dice in sostanza –, perché non me lo permettono i risk manager. Dalla sua postazione di trading, tre computer davanti agli occhi e telefono sempre attivo, è un testimone oculare di quello che accade sul mercato. «Vedo vendite sui titoli di stato del Sud Europa in arrivo dalla Cina», afferma. «E vedo pochi compratori», aggiunge. «Ormai il mercato è così ingessato, che ad acquistare titoli italiani sono solo le banche italiane», conclude.

Sul mercato di tutta Europa (non solo in Italia) c'è la bufera. Ieri i BTp sono arrivati a offrire tassi d'interesse di 1,70 punti percentuali più alti rispetto ai Bund tedeschi. Questo significa che il Tesoro italiano, per trovare investitori disposti a comprare il suo debito, deve pagare tassi d'interesse quasi due punti percentuali più alti del Tesoro tedesco. Non si era mai visto dai tempi della vecchia lira. Ma cosa sta succedendo? Chi sta colpendo l'Europa? Se si pone questa domanda agli esperti, si ricevono decine di risposte diverse. Probabilmente c'è una tale concomitanza di fattori, che le spiegazioni di questa bufera sono tante. Per capirle, però, bisogna partire dalla causa: quello che accade ora è diretta conseguenza di una "bolla" che nessuno ha mai notato mentre si gonfiava. Quella dei titoli di stato.

Lo chiamavano rischio zero

I titoli di stato europei sono sempre stati considerati a zero rischio. Almeno dopo la nascita dell'euro. E così le banche li hanno sempre comprati a piene mani. Le stesse regole di «Basilea 2» hanno sempre incentivato gli acquisti, dato che i titoli di stato non comportano alcun sacrificio di capitale regolamentare. Insomma: se prestare soldi a imprese o famiglie per le banche è sempre stato un costo in termini di capitale, prestare soldi agli stati non lo è mai stato. Praticamente non ci sono mai stati limiti.

Nel 2009 gli acquisti hanno raggiunto l'apoteosi. Dato che la Bce prestava loro tutta la liquidità possibile e immaginabile al tasso fisso dell'1%, le banche hanno pensato bene di guadagnarci sopra. Come? Comprando titoli che avessero rendimenti più elevati dell'1% e che avessero "bassi" rischi: cioè i titoli di stato. Il giochino, chiamato carry trade, era semplice: prendevano in prestito soldi alla Bce pagando l'1% e li investivano in titoli con rendimenti maggiori. E per guadagnarci ancora di più, compravano a piene mani soprattutto i bond dei Paesi che allora offrivano rendimenti «interessanti» e che oggi – ironia delle sorte – le stesse banche chiamano Pigs. Maiali.

Se la pancia è troppo piena

Così hanno fatto indigestione. Secondo i calcoli di Rbs, oggi gli investitori internazionali hanno in portafoglio 1.418 miliardi di titoli di Stato di Grecia, Spagna, Portogallo, Irlanda e Italia. Il problema è nato quando la crisi della Grecia ha magicamente trasformato questa montagna di «rischio zero» in qualcosa di potenzialmente rischioso. E i motivi, effettivamente, ci sono. La Grecia, secondo i calcoli del Fondo monetario, passerà per esempio da un rapporto tra debito e Pil del 115% nel 2009 a una percentuale quasi del 150% nel 2013. Ovvio che gli investitori non ripongano grande fiducia nel suo salvataggio: come potrà la Grecia tornare a finanziarsi sul mercato nei prossimi anni, se la sua situazione sarà addirittura peggiorata? «Il mercato – spiega l'economista di Rbs Silvio Peruzzo – crede che nei prossimi anni il rischio di default sarà maggiore». Dalla Grecia, gli occhi si sono poi spostati sugli altri Paesi ritenuti più deboli. Facendo, nel panico, di tutta l'erba un fascio. Prima viene l'Irlanda. Poi il Portogallo. Poi la Spagna. E poi? Sebbene sia da tutti ritenuta più forte, nella lista c'è anche l'Italia. La sfiducia si autoalimenta col panico.

La fuga

Appena si è iniziato a capire che il vento sui titoli di stato europei stava cambiando, ovviamente la speculazione ha cambiato verso: prima era di moda comprare, poi è diventato di moda vendere. E il gioco in questi casi è come nel West: il pistolero più veloce è quello che vince. È così iniziata la corsa ad alleggerire le posizioni sui titoli di stato. Chi per specularci, chi per prudenza, chi per coprirsi dai rischi. Chi per precise strategie d'investimento. «Io credo che sia partita prima la speculazione – spiega l'ex numero uno europeo di Lehman Riccardo Banchetti, oggi capo di Pactum Advisers –: sono stati gli hedge fund a rendersi conto per primi che c'era l'opportunità di far pagare agli stati gli errori del passato. Poi sono iniziate le vendite per motivi di copertura dei rischi».

Il resto è cronaca attuale. I risk manager delle banche internazionali hanno bloccato gli acquisti di titoli di stato e hanno ordinato la copertura dei rischi sul mercato dei credit default swap: ecco perché le quotazioni di queste polizze sono più allarmistiche di quelle dei bond. Gli investitori esteri (come i cinesi) hanno iniziato a vendere, anche per alleggerire le loro posizioni sull'euro. Tante banche retail li hanno seguiti, per prudenza. E la crisi si avvita. Così il mercato è diventato illiquido: le vendite sono ora forse minori, ma la volatilità è alle stelle. Basta una voce o una qualunque indiscrezione per far aumentare la bufera. Sarà un complotto, sarà panico, sarà speculazione: sta di fatto che i nodi di una bolla che nessuno voleva vedere stanno venendo al pettine.

(di Morya Longo)

domenica 6 giugno 2010

Santo subito

La Rai ha tagliato il numero di puntate, da quattro a due, che Roberto Saviano, con Fabio Fazio, avrebbe dovuto condurre sulla Rete 1. Le proteste sono state immediate e bipartisan. Hanno protestato il Pd e l’Idv. Sono partite interrogazioni parlamentari. Leoluca Orlando ha maltrattato Mauro Masi, direttore della Rai, che l’ha querelato. Ma non ha protestato solo la sinistra. Anche a destra si sono levate voci fortemente critiche contro l’azienda di Stato.

“Farefuturo”, la fondazione di Gianfranco Fini, ha usato parole forti e ha accusato la Rai di preferire “nani e ballerine” allo scrittore impegnato in prima linea contro la camorra. Il presidente della Camera è forse la personalità pubblica che più si è spesa negli ultimi tempi a tutela di Saviano.

Quando poche settimane fa Emilio Fede lo attaccò, un mese dopo le parole pesanti che sull’autore di Gomorra aveva scagliato Silvio Berlusconi che lo aveva accusato assieme agli autori della “Piovra” di aver danneggiato l’immagine internazionale dell’Italia, fu proprio Gianfranco Fini a riceverlo a Montecitorio per indicare in lui il campione della lotta contro la criminalità organizzata. Ed è proprio la difesa strenua di Saviano a sollevare sospetti su un ritorno giustizialista dell’ex capo di An nei circoli del Pdl più vicini al premier. Ma nella destra anche altre voci si sono levate a difesa dello scrittore casertano. Contro Fede ha scritto su Libero Filippo Facci, raccogliendo numerosi consensi.

C’è una destra che ama Saviano. A dicembre dello scorso anno, uno dei giornalisti più colti e inquieti di quell’area, Pierangelo Buttafuoco pubblicò su Panorama una lunga e bella intervista che fornì importanti squarci di luce sulla cultura dello scrittore e sulle sue passioni politiche. Riletta oggi spiega tante cose e tante simpatie. Malgrado i numerosi appelli aperti dal suo nome Saviano sostenne: «Io non sono un firmaiolo, non ho mai inteso la mia lotta come una lotta di parte». Dopo un elogio a Maroni («il miglior ministro degli Interni che abbiamo mai avuto») accomunò centro-sinistra e centro-destra nella critica di acquiescenza nei confronti del fenomeno mafioso. Del centro-sinistra disse che «ha responsabilità enormi nella collusione con le organizzazioni criminali. Le due regioni con più comuni sciolti per mafia sono Campania e Calabria. E chi le ha amministrate in questi ultimi 12 anni? Il centro-sinistra».

Da qui l’elogio di alcuni settori della destra: «È un errore far diventare la battaglia antimafia una battaglia di parte… Io ho sempre detto, ribadito e sottolineato l’impegno di tanti uomini della destra nella lotta alla mafia. Non solo uomini come Borsellino, ma anche militanti comuni». L’elogio di Borsellino e del giornalista di destra Alfano, ucciso dalle cosche, si aggiungeva a una riflessione più profonda attorno ai debiti culturali che Saviano aveva contratto con quell’area politica. La frase che fece più scalpore e che creò la suggestione di un Saviano uomo di destra fu un'altra: «Come scrittore mi sono formato su molti autori riconosciuti dalla cultura tradizionale e conservatrice, Ernst Junger, Ezra Pound, Louis Ferdinand Celine, Carl Schmidt. E non mi sogno di rinnegarlo. Leggo spesso persino Julius Evola». Queste frasi entusiasmarono la destra, soprattutto quella legata all’ex An, che lesse in quelle posizione un riconoscimento culturale e morale prezioso e coltivò la speranza, forse, in una più netto avvicinamento di Saviano.

In questo stesso periodo l’autore di Gomorra è stato tuttavia anche al centro della scena in tutte le battaglia antiberlusconiane, anche se l’autore ha sempre negato di avere pregiudiziali verso il premier, in cui si è trattato di difendere la Costituzione e la libertà di stampa dalle iniziative del presidente del Consiglio. Repubblica ne ha fatto un’icona. È stata la sua firma a dare l’avvio alle battaglie più clamorose che hanno raccolto centinaia di migliaia di adesioni. I movimenti di massa, a cominciare dal “popolo viola”, che hanno fronteggiato l’aggressività berlusconiana a lui si sono ispirati. Il Pd ha sognato più volte di portarlo dalla propria parte eleggendolo in parlamento o proponendogli la candidatura per la presidenza della Regione Campania. Forse era a lui che pensava Ezio Mauro, dopo le ultime elezioni, quando scrisse che il centro-sinistra avrebbe dovuto accantonare tutti i suoi leader per pensare a un “papa straniero”.

Saviano è riuscito a tenersi fuori da tutti i canti di sirene. Forse è oggi il personaggio pubblico che ha preso il posto di alcuni miti della lotta alla mafia come Giovanni Falcone. Tutto ciò dipende dalle cose che scrive, dalla nettezza e dal coraggio delle sue denunce, dalla sobrietà con cui accetta la difficile condizione di uomo costretto a difendersi dagli agguati di camorra, da questa faccia magra e severa, quasi sempre priva di sorriso che accompagna i suoi ragionamenti frasi limpidi e tranquilli anche nel momento della denuncia più bruciante. Anche a sinistra molti non lo amano. Un sociologo di chiara fama, Alessandro Dal Lago, ha scritto un libretto, che è piaciuto al manifesto, in cui critica il fenomeno Saviano e lo considera alla stregua di tante espressioni della cultura mediatica odierna.

La verità è che nessuno sa chi sia davvero Saviano. Sappiamo però che è il personaggio pubblico più trasversale che ci sia, nel consenso e nell’ostracismo. Forse esprime la voglia di tanta parte anche della gente comune di riconoscersi in personaggi-simbolo che rompano lo schema destra-sinistra. Saviano, in verità, non fa nulla per creare attorno a sé suggestioni di anti-politica. Il grillismo è la cosa che gli è più lontana. Vive persino con fastidio questa vasta popolarità che è anche il segno di una scelta di vita abituata a sfidare il pericolo. Oggi è l’italiano più famoso all’estero, ma anche il più odiato in patria per le amare verità che racconta. C’è un fenomeno attorno a lui che risulta inspiegabile agli apologeti e ai critici più incattiviti. Un fenomeno che, a differenza di quello che pensa Dal Lago, sta scavando in profondità ben oltre le sue dimensioni mediatiche.

(di Peppino Caldarola)

Appello alla destra: non spegnete Rai3. E non regalate martiri alla sinistra

Se rispettate la libertà ma soprattutto la vostra intelligenza, non tagliate dalla Rai Saviano, Fazio, la Dandini, Bertolino e chi volete voi. Non commettete questa ennesima sciocchezza. Non regalate alibi a nessuno né martiri alla causa o simboli a chi detestate. Entrate nell’ordine (penoso) delle idee che in Italia la libertà e la democrazia si traducono con spartizione della Rai e lottizzazione delle reti per aree politiche. E allora lasciate Raitre in mano alle opposizioni, alle sinistre e ai gendarmi dipietristi. E lasciate a loro persino di decidere se preferiscono accettare l’ingerenza dei giudici nel palinsesto e negli organigrammi e reintegrare Ruffini alla guida di Raitre o se tenersi Di Bella. Che si scornino tra loro, dipietristi e margherite, dalemiani e veltroniani. Masi intervenga solo se i programmi costano troppo e rendono poco, soprattutto in ascolti; o se qualcuno compie scorrettezze penalmente rilevanti. E basta.

Sì, è vero, li pagano anche con i nostri soldi, ma pretendete che tra le merci televisive esposte ce ne siano almeno alcune di vostro gradimento, anziché pensare di eliminare quelle che piacciono ad altri. Assodato che in Rai non ci possono essere programmi che hanno il consenso di tutti, nemmeno le previsioni meteo, accontentatevi di pretendere la vostra fetta.

Anzi, visto lo sciame sismico di Santoro, che dopo il movimento sussultorio per il costoso addio alla Rai è passato al movimento ondulatorio perché non si sa se resta o va via e ondeggia, è il momento buono per rispedirlo su Raitre. Non si può tradire l’identità di una rete offrendo un programma che cozza con la linea editoriale e diciamo pure politica di Raidue. E se s’indignano, prospettate loro la soluzione simmetrica: Paragone, Sallusti o Belpietro su Raitre in cambio di Santoro, Floris o chi volete voi su Raidue. Ci state? Sarebbero corpi estranei.

Raitre è loro, Raidue è vostra, Raiuno muta con i governi. È brutto ma è così. Lasciate che tornino su Raitre tutti i veri o presunti epurati: da Ruffini alla Guzzanti, da Luttazzi a Rossi, da Travaglio a Crozza, fino a Beppe Grillo. Che se la sbattano loro di dirimere la controversia di far coabitare Santoro e Floris come Ruffini e Di Bella, più la marea di comici. Scegliete voi, commissari politici di Raitre, o mandateli tutti in onda in una non-stop di direttori, conduttori, animatori, cortei, forche e cotillons. Libertà. Gli italiani sanno distinguere almeno il vino dall’aceto o dalla birra, e il vino rosso dal vino bianco; e sanno che su quella rete troveranno quei programmi con quella precisa linea, quei toni, quegli attacchi. Libertà, lasciate libertà. Se non credete che sia giusto, accontentatevi di pensare che è più conveniente, o meno dannoso, se preferite.

Follia doppia sarebbe poi regalare Saviano al martirologio di sinistra, attraverso la censura o il mezzo taglio. Avete visto come Saviano viene attaccato anche da sinistra, sappiate distinguere in lui la scuderia di Repubblica dalle sue opinioni, spesso rispettabili; e la strumentalizzazione che ne fanno, spesso con il suo consenso, dai suoi testi che non pendono a sinistra. Non condannate il suo coraggio nel nome del teatrino che si ricama sopra, non cancellate la drammaticità delle sue denunce con lo sfruttamento commerciale e un po’ vanesio che Saviano stesso ne fa. Su di lui ripeto due obiezioni: non si può ridurre il sud intero a malavita e non si può rappresentare l’Italia nel mondo solo con le sue opere e i film tratti dai suoi libri. Nessuna censura, preferirei solo che Gomorra fosse proiettato a scopo educativo a Scampia o tra i casalesi, piuttosto che a Hollywood come unico ritratto italiano.

So bene che Saviano in video verrà usato in chiave antigovernativa, tramite l’untuoso precettore Fazio. Ma l’effetto si disinnesca se Saviano diventa un personaggio positivo anche per l’altra Italia, invitato anche su altre reti; se si ricordano alcune sue idee tutt’altro che sinistre e se si evita di farne un martire della Rai governativa, che così apparirebbe - per una perversa proprietà transitiva - il braccio armato della camorra. Sapete bene che sul piano politico il miglior argomento da opporre al savianesimo sono i fatti: dite quel che volete, teorizzate quel che vi pare, indignatevi pure, ma resta il fatto che in questi due anni si è colpita la camorra e la mafia come non era accaduto con nessuno dei precedenti governi: tra arresti, confische di beni, controllo di settori inquinati. È ancora poco, ma è tanto se lo paragonate ai precedenti. Lo dice pure Saviano.

La richiesta di cancellare dai palinsesti la carovana della sinistra televisiva non nasce da pulsione autoritaria ma infantile. Non c’è il furore giacobino che alberga dalla parte opposta, non c’è la negazione dell’avversario alla radice, il suo disprezzo integrale, tipico della sinistra illibertaria e dei suoi alleati questurini. Ma c’è dilettantismo ritorsivo, c’è infantilismo politico, con punte di rozzezza naive. C’è un’indole infantile che porta taluni a non voler sentire critiche, pur distorte, o chi prende in giro i suoi. E invece ci vorrebbe pazienza e saggezza, condita di piccola furbizia d’estrazione curiale, democristiana e volpino-liberale. Ma soprattutto ci vorrebbe una «destra» adulta che sappia accettare le critiche anche velenose e ingiuste, sappia circoscriverne la portata e misurare il modesto effetto che ne consegue, e sappia pensare in positivo rispondendo con i fatti o con opinioni opposte. Costruite programmi omeopatici su Raidue, chiamate chi volete voi, senza remore e timori, una volta accettati in video i telemilitanti della videosinistra. Via, siate più sicuri di voi e delle vostre idee, e fate anziché disfare, avanzate voi anziché fermare gli altri, procreate voi anziché curarvi degli aborti altrui. Su, non fate i bambini.

(di Marcello Veneziani)

sabato 5 giugno 2010

I silenzi e le ambiguità dell’onorevole Di Pietro


Non è vero che la stampa sia sempre cattiva con lui. Lo scorso 17 maggio Antonio Di Pietro era uscito dalla procura di Firenze dirigendosi con piglio sicuro verso piazza della Repubblica, dove troneggiava e fumava un finto reattore nucleare di cartapesta, propedeutico alla raccolta di firme dell’Italia dei valori per un referendum sul tema. Tra applausi, cori e foto ricordo con i suoi sostenitori, l’ex pubblico ministero si era definito un «teste d’accusa».

Di Pietro disse che aveva spontaneamente scelto di mettere a disposizione degli ex colleghi la sua esperienza di investigatore. I magistrati che seguono l’inchiesta sugli appalti per le Grandi Opere l’avevano convocato come persona informata sui fatti, invece, con tanto di apposito decreto di notifica. C’è differenza.

Quel giorno il dettaglio era diventato una nota a margine, le cose che contano in fondo sono altre. Un peccato veniale. Giocare con le parole, dire e non dire, abbellire la realtà, è tutto lecito. Solo che spesso Antonio Di Pietro trasforma le sue piccole furbizie in metodo. Non risponde, non del tutto almeno, oppure parla d’altro, evocando complotti e mandanti occulti. Altre volte, semplicemente, tace. E non si accorge che così facendo fa il gioco dei suoi detrattori, una legione sempre più numerosa. Vecchia storia, questa delle sparate che si mischiano a silenzi e a repliche invece puntuali. Ancora attuale, però. L’approccio mediatico rimane invariato nel corso del tempo, e non accenna a migliorare, dando così un indubbio contributo alla genesi di leggende metropolitane che riguardano anche su dettagli non proprio fondamentali nella complessa biografia dell’onorevole. Ad anni alterni torna fuori, tra dubbi e ironie, il suo personale tour de force per laurearsi in Legge alla Statale di Milano. La tesi venne discussa nel 1978, il giovane Di Pietro ci arrivò sostenendo 22 esami in 32 mesi, compresi «mattoni» quali diritto privato, pubblico, amministrativo. L’istituto di presidenza della facoltà confermò a suo tempo che tutto era in regola. Ma le illazioni, falsità di vario genere, sono proseguite, nel silenzio del diretto interessato, al quale basterebbe poco per mettere a cuccia i detrattori.

Di Pietro, è un dovere ricordarlo, ha sempre vinto in tribunale, su questioni ben più importanti dei propri titoli di studio. «Non luogo a procedere», quindi prosciolto prima di un eventuale processo da accuse anche infamanti come quella di concussione, generata dall’inchiesta- monstre del Gico di Firenze. Quella brutta storia poggiava su un tema ricorrente della sua vita, il contrasto tra l’azione pubblica, del magistrato prima e del politico poi, con una condotta privata spesso pasticciata, non priva di ambiguità e zone d’ombra. A metterlo su quella graticola furono le sue relazioni con l’avvocato Giuseppe Lucibello e l’amico costruttore Antonio D’Adamo i quali a loro volta intrattenevano— questa era l’ipotesi di accusa—affari con il finanziere Pacini Battaglia. La rilevanza penale dell’intreccio era pari a zero, ma le personalità pubbliche non si giudicano solo dal proprio casellario giudiziale. Proprio per questo, l’alone di mistero che grava su alcuni punti della biografia dell’ex magistrato nuoce non solo a lui,ma anche alle sue opere. «Vogliono infangare Mani Pulite» ripete ogni qual volta vengono pubblicati articoli che riesumano i suoi molto presunti legami con i servizi segreti italiani e americani. Può essere. Ma certi silenzi, come quello sulla surreale vacanza alle Seychelles durante la quale l’allora neo magistrato scrisse un dossier di 172 pagine su Francesco Pazienza che poi finì nelle mani dei servizi segreti italiani, non aiutano. E neppure certe dimenticanze sui viaggi americani, ultimo in ordine di tempo quello fatto in compagnia dell’ex amico Mario Di Domenico. Dopo la recente pubblicazione di una sua foto che lo ritraeva con il dirigente del Sisde Bruno Contrada, il Corriere lo invitò a un confronto sul tema. Risposta non pervenuta. Sono dettagli, omissioni probabilmente ininfluenti. Ma portano ramoscelli da ardere a chi sostiene l’inverosimile tesi che Mani Pulite sia stata guidata a tavolino dall’intelligence Usa. Creano un danno ad una pagina importante della storia italiana, comunque la si giudichi, della quale Di Pietro è giustamente orgoglioso.

Possibile che i suoi ultimi impicci siano il frutto dei rancori di vecchi amici. Ma è lui a sceglierseli, i compagni di viaggio. E con molti di essi, da Elio Veltri a Di Domenico, finisce quasi sempre male, all’insegna della reciproca incomprensione. Nel primo caso si tratta di una querelle sui rimborsi elettorali delle Europee, che secondo Veltri sarebbero stati gestiti in modo privato. Nell’altro, l’accusa di un uso «non associativo» dei soldi del partito apre la strada a illazioni sulla passione immobiliare di Di Pietro, con proprietà che vanno da Curno alla Bulgaria. In questo campo l’attività è frenetica. Tra il 2002 e il 2008 l’ex pm ha speso 4 milioni di euro nella compravendita di nove case, tutte passate sotto l’ombrello della An.To.Cri. La sigla è l’acronimo di Anna, Toto e Cristiano, i suoi tre figli. Si tratta della società di famiglia, dalla quale Di Pietro, nella veste di presidente dell’Idv, ha preso in affitto alcuni immobili per conto del partito. Nulla di compromettente, lo ha stabilito una inchiesta della procura di Roma, che ha archiviato ogni denuncia. Ma anche qui, alcuni comportamenti, come l’acquisto di case tramite prestanome, o di immobili «proibiti» per legge ai parlamentari in carica, lasciano il fianco scoperto alle critiche di chi afferma che il paladino della questione morale dovrebbe agire con meno disinvoltura nei suoi interessi privati.

Paolo Flores D’Arcais sostiene da tempo che un certo modo di fare «democristiano» si sia impossessato del fondatore dell’Idv. Nel settembre 2009 Micromega, giornale diretto dal filosofo romano, pubblicò una inchiesta sul partito dell’ex magistrato. «C’è del marcio in Danimarca» era il titolo, e quel che seguiva era anche peggio. Il capostipite degli impresentabili, ovvero quel Sergio De Gregorio scelto da Di Pietro come capolista in Campania per le politiche del 2006, il voltafaccia con annesso passaggio al centrodestra fu velocissimo, veniva appena nominato. Acqua passata. Piuttosto, in 40 pagine di testo veniva fatta una radiografia completa sulla vena «inciucista e politicante» che permeava l’Idv, facendo nomi e cognomi dei riciclati presi a bordo. Dai transfughi dell’Udeur a quelli di Forza Italia, passando per il capo della Campania Nello Formisano, «che insieme all’ex dc potentino Felice Belisario ha riempito il partito delle mani pulite di faccendieri e arrivisti, in larga misura di provenienza democristiana». Una mazzata, che fece scalpore ma generò un dibattito che lo stesso Flores giudica «sterile e improduttivo ». E la promessa di chiarire tutto— dice in una intervista a La Stampa—si è rivelata una promessa da marinaio. Ci sono argomenti, pubblici e privati, che vengono lasciati cadere quando invece il primo a trarre beneficio da una maggiore chiarezza sarebbe proprio Di Pietro. Tanto più che quando si spiega, l’ex magistrato lo fa bene. All’inizio di quel 2009 per lui infausto, il suo nome spuntò nell’inchiesta napoletana su Global Service, il mega appalto dei servizi pubblici. Tra gli altri, era stato arrestato Mario Mautone, provveditore alle Opere Pubbliche della Campania che Di Pietro aveva chiamato a lavorare al ministero delle Infrastrutture da lui diretto. Numerose intercettazioni allegate agli atti dimostravano come il suo primogenito Cristiano, consigliere provinciale a Campobasso per l'Italia dei Valori, tentasse tramite Mautone di sistemare gli amici, e sembravano anche dare conto delle preoccupazioni del padre per tenerlo fuori dall’indagine, della quale risultava essere al corrente.

Di Pietro prese carta e penna, e scrisse un memoriale dettagliato, che diede ai magistrati e alle stampe. Le voci e i sussurri sul suo conto si zittirono immediatamente. In quell’occasione mostrò la sua faccia migliore, argomentando e spiegando. Rimasero solo le accuse di familismo spinto, e l’unico caduto sul campo fu Cristiano, costretto a dimettersi dal partito. Oggi è passato poco più di un anno, ma sembra un secolo. Secondo Di Pietro la pubblicazione dei verbali dell’architetto Zampolini va letta come «parte di una strategia eversiva» nei suoi confronti, decisa da «mandanti e beneficiari occulti». Colpa delle lobby, di una informazione schierata contro di lui. All’appello dell’invettiva mancano i giudici comunisti, ma con qualche allenamento possiamo arrivarci.