domenica 3 luglio 2011

Un Cav. che decade ma non cade


Solo perché è ricco assai non decade Silvio Berlusconi. E non perché ieri ha celebrato il suo congresso di gemmazione. Dalle spine di un disastro politico è nata la leadership del simpatico e spedito Angelino Alfano, rosa purissima tra pungenti roveti ma Berlusconi, malgrado le rovine di una stagione altrimenti solida di rappresentanza parlamentare, non crolla perché ancora oggi può dispensare dindini.

Seppure rabbioso in quel suo dragare Montecitorio – in quel suo cercare fino all’altrieri i mangiapane assenti al voto, quelli che “prendono lo stipendio e non lavorano”, colpevoli nell’aver mandato sotto il governo – lui è sempre quello che appena può mette mano al portafoglio. Figurarsi cosa possono essere per lui degli elicotteri. Se ne porta almeno una dozzina in tasca.

Il Cavaliere, infatti, non è esattamente un morto appeso a un destino. Il Cavaliere, agli occhi dei suoi vicinissimi, è solo una cassaforte che cammina. Questo sovversivo che tanto ci piace, questo smoderato fatto leader dei moderati, non è poi uno tenuto in piedi da una nomenclatura. Non ha un gruppo, un clan o un “cerchio magico”. Non ha neppure una corte né cortigiani, ha forse pochi amici, messi ai margini dell’estremo circo dei gironi infernali e se nessuno dei Fedele Confalonieri o dei Marcello Dell’Utri può più prenderselo sotto braccio, fosse solo per leggere e cantare, al Cavaliere resta la compagnia di ladri d’anime e di succhiapozzi perché, infine, non è neanche più un carro da dove scendere. Vincente o perdente che sia, di fatto, è egualmente solvibile. Non è, ovviamente, per tutti così: il nostro amico Angiolino (per dirla con Paolo Conte), ci mette di suo la liberalità di una strana avventura, e perciò auguri ma il Cavaliere è una ghiotta occasione perfino per i suoi acerrimi nemici: cosa sarebbe tutta la pubblicistica giustizialista, il messianismo televisivo dei Michele Santoro e l’antipolitica di un Beppe Grillo senza di lui?

Ed è solo uno da soccorrere e da abbracciare stretto tanto da sfilargli il contante. A maggior ragione nel perdurare del tramonto. E così come certi miliardari malati si fanno ancora più prodighi nel pagarsi farmaci e terapie, tanto da tentarle tutte, anche con maghi e fattucchiere, così il nostro – eroe di una singolarità tutta italiana, con una punta studentesca, quella del suo sorriso – accresce la propria disponibilità illudendosi in politica di prendersi questo e quello. E tutti quelli che se la ridono perché un altro eroe a noi caro, Mimmo Scilipoti, era sì alla Camera quel giorno, ma a quella dei Lord, dovrebbero saperlo che sono ben altri “gli irresponsabili”, quelli dell’altra gamba del traballante tavolo della maggioranza. Traballante, ben intesi, perché sovraccarico di danari il benedetto tavolo. Traballante per menar le danze nell’imbuto di un turbinio fatto di interessi, carriere, vanità e quella continua fabbrica di scontenti che è il governare.

E poi dice che non è un generoso il Cavaliere, disposto a svenarsi, il Cavaliere. Se si pensa che, perfino alla vigilia del voto del 14 dicembre scorso, oltre ai “Responsabili”, dovette risolvere un pari e patta anche con quei truffaldi che, fingendo di avere cospicue offerte politiche altrove – tra promessa e certezza – trattavano la propria fedeltà mettendogli sotto il naso la cambiale della lealtà a termine. Alle solite: un caso di sfacciata simonia. Con losco sotterfugio – questi signori – si guadagnavano l’indulgenza, ma sempre per campare inguattati dentro a una promessa.
E sono quelli che per amarlo fino all’ultimo momento hanno bisogno di soppesarne il guadagno baciandolo. E così, quest’uomo – del quale ancora oggi ammiriamo la sua sfida all’inosabile, ovvero la sua guerra all’establishment – è diventato rotondetto come un soldino moltiplicatore di infiniti soldini. E i suoi vicinissimi, che non hanno la spavalda follia dei fedelissimi, sono solo occhiuti ragionieri.

In questa Italia del declinar berlusconiano nessuno glielo racconta il declino perché per conoscerla a fondo, Berlusconi non ci va in incognito per strada, ma se la fa raccontare. Si affida a ciò che gli raccontano e tutti quelli che se lo vogliono vicino per continuare a piluccare dall’imbuto raccontano solo quel che può rallegrarlo.
Ed è così che in questa Italia del berlusconismo compiuto ma in accanimento terapeutico non ci sono topi che se la filano via. Nessuno abbandona la nave che affonda perché la stiva, sebbene allagata, abbonda di formaggio. E questi fedelissimi sono un inedito antropologico. Non assomigliano agli autenticissimi seguaci di altre cadute e di altre decadenze perché questi non si schierano al fianco del proprio capo in virtù di un’estrema illusione o di una follia.

Non sono, insomma, i Dario Fo e i Giorgio Albertazzi arrivati all’adunata dell’ultima raffica a Salò. Non sono neppure come Alda D’Eusanio che corre ad Hammamet accecata di generosità perché da quei capi in disgrazia, poveri – poveri al punto di affermare quale rito l’appenderli per i piedi per non sentirne cadere nessun soldino – non c’è da scucire una sola lira o euro che dir si voglia. Quando Bettino Craxi è spiaggiato in Tunisia è un uomo finito. E così Benito Mussolini a Piazzale Loreto. Berlusconi, invece, malgrado la smobilitazione di tutta la sua stagione non finisce perché – ciclope con un occhio solo – vede solo chi gli sta davanti e che chiede, pretende e riscuote e non riesce ad accorgersi di quello che gli precipita a destra come a sinistra.

E’ come un palazzo scoronato, il Cavaliere. Destinato allo sbadiglio di un museo, con le stanze numerate come in un penitenziario o come in un convento (una per ogni coordinatore, più la cella nobile riservata al segretario), il Cavaliere è perciò pronto a un priorato e non alle sedizioni della politica.
Solo che non è il tempo dei voltagabbana questo, ma quello degli avvoltoi. Berlusconi che non ha la solitudine shakespeariana del tiranno, accigliato com’è adesso – abbottonandosi la giacca, aggiustandosi la cravatta, lisciandosi il mento raso – deve soccombere all’affollarsi della clientela giunta sotto casa sua perché non c’è una sartoria a disposizione di chi vuol cambiare casacca.

Tutti gli si accostano sebbene lo vedano già lebbroso. Anche chi lo considera “bollito” fuori da ogni riserbo. E tutte quelle ulcere – si chiamino Tremonti, Draghi, Casini e financo, per chi ne serbi ancora un ricordo, Fini – su quel suo corpo segnato dalle stanchezze, all’occorrenza del pronto accomodo, diventano belle pietre preziose degne del Sardanapalo.
Sembra che Berlusconi riviva quelle giornate di attesa nell’apnea del 1920 quando a un Duca d’Aosta immalinconito dall’immobilità dell’Italia appena ebbra del ricordo di Fiume e dei legionari, accarezzando l’idea di una repubblica proclamandosi presidente incontrò una sola obiezione, quella dell’aiutante di campo: “Altezza, per fare il Napoleone terzo, prima della presidenza della repubblica, bisogna aver fatto un po’ di carcere”. Ed egli soggiunse: “Questo non mi si confà”.

E non si confà a Berlusconi il ruolo di un Napoleone terzo. E, dunque, è fuori catalogo anche rispetto al “cesarismo”. Non vogliamo certo esagerare dicendo che i nostri studi marxiani franano di fronte al suo interessante caso perché il caso, per l’appunto, è assai speciale e poco arcitaliano. Qui, infatti, non si può fare il lungo viaggio attraverso il berlusconismo in un solo giorno. Qui non c’è un Ruggero Zangrandi che esce da villa Torlonia per entrare dritto a Botteghe oscure. Qui non ci sono le poesie mistiche e fascistissime di Pietro Ingrao perché qui – in questa Italia che si congeda dal berlusconismo – non c’è un fascismo che diventa comunismo.

Specialissimo e complicatissimo caso. Non c’è una totalità da cui uscire per entrarsene in un’altra e l’accozzaglia non avrà alcuna amnistia, sarà tutto una Expositio super Apocalypsim e non sarà mai smaltita, piuttosto imbalsamata dalla ferocia del paragone proprio impari. Mussolini che vedeva ogni sera l’Italia come un giornale da fare e da impaginare, due o tre idee al giorno, per poi, la sera dopo, ricominciare è agli antipodi di un Berlusconi che, ogni giorno, si ritrova un’Italia in attesa di ereditarne l’impronta, fosse pure per un contravveleno, un antidoto ma quando poi si deve dare un successore o, un prosecutore, il Cavaliere gli è come quel tale, “Si filium habuero, facili me non utetur patre”, se avrò un figlio, facilmente non sarò suo padre.
Ferocissimo e assai dolente destino. E tutti quelli che, al mattino, si svegliano con la voglia di diventare berlusconiani della prima ora, tutte le sere se ne vanno a letto umiliati.
E’ l’ora dei bilanci, dunque, e la passione sfuma. “Voglio un partito degli onesti”, ha detto Alfano, “e non tutti lo sono”. Nella Summa theologica della politica tutti siamo peccatori e si fa dottrina solo di ciò che non è sfogo lirico o visionario ma di companatico, motivo per cui, alle solite: vince solo quello che fa uno sproposito di meno.

Ma forse è solo una faccenda di trasposizione dantesca. E non per via del contrappasso, ma per struttura e contenuto perché se non si cade, quantomeno ci si svela. Ed è apocalisse ciò che si dispiega in queste giornate del doloroso rio. Non c’è ministro che, in privato, non faccia spallucce per poi dire: “Dio mio, adesso anche le mani gli sudano”. Il mondo perbene del berlusconismo non avrà da presentarsi ai posteri con le eroiche angustie di una dinastia scomparsa. Un tempo lunghissimo è trascorso: guardavamo ancora Drive In quando lo incontrammo la prima volta. E chi gli vuol bene vive questa decadenza senza caduta con lo sgomento di un mancato rancore: tutto quello che si poteva fare non si farà mai. Né una Salerno-Reggio Calabria, né il Ponte di Messina, meno che mai meno tasse per tutti e giammai una classe dirigente in grado di raccoglierne valori che non siano i “pagherò”, le “cambiali” e “le liquidità”.

La vicenda di Emilio Fede in triangolazione con Lele Mora (e non in quel senso, di triangolo…) pare che non abbia insegnato nulla al Cavaliere e tutta la gens nova attorno a lui brulicata – sbucata come da un colpo di scena, quali topi intorno ad una sugnosa polla di ricco lardo – si scatena senza più freni quasi a replicare tutti i gironi danteschi. E così, dagli iracondi ai lussuriosi, dagli accidiosi ai violenti, dai golosi ai simoniaci di cui abbiamo detto appena sopra, mancano sempre all’appello i traditori ma solo perché trasfigurati in tutte le altre fraudolente virtù, avvitacchiati come sono al capo fattosi sempre più moneta sonante.

La più divertente delle storielle in tema d’ira è quella che vede protagonista un assai attivo parlamentare, telegenico e già collaboratore di un ministro, coautore con lui di libri dati in lettura al popolo e il ministro stesso. Succede che il deputato, non potendone più delle bizze del titolato di dicastero, gli prende il telefonino dalla scrivania e glielo frantuma sul muro. Quindi gli scaraventa sul pavimento il personal computer, quindi gli fa crollare lo schermo al plasma e, poi, tutto uno scagliare telecomandi, fascicoli e soprammobili. E tutto nel frattempo che gli agenti di scorta restano impietriti non potendo che assistere alla sfuriata, pronti a intervenire solo nel caso che tra gli oggetti volanti – a caso – venisse preso lo stesso ministro.

Tutto si placa quando il parlamentare, quale Attila dopo aver rasato per benino il prato, se ne va via soddisfatto ma per esplodere ancora quando, allo squillo del telefono, sente una voce: “Buongiorno onorevole, sono il maresciallo T. T., capo scorta del signor ministro”.

L’onorevole non può che ruggire: “Guardi che io non ho torto un solo capello al signor ministro, possono testimoniare i suoi uomini”. L’agrodolce di ogni decadenza, anche di quella che non cade, è sempre nell’avanspettacolo. E il capo scorta, infatti, risponde: “Guardi che io sto chiamando solo per congratularmi con lei, onorevole”.

E’ un peccato non mettere i nomi ma gli è che non vogliamo mettere in difficoltà la scorta. E neppure l’onorevole. Il ministro, invece, un poco sì, un poco di difficoltà se la merita, non fosse altro per l’umana commedia di chi sta in mezzo al tenebroso cerchio degli iracondi che si picchiano troncandosi co’ denti a brano a brano.

Non tocchiamo che solo sfiorandolo l’argomento della lussuria per abuso di letteratura sul tema. Un’amica che ci fa racconti su racconti intorno a quest’uomo, pur grande e geniale, quando s’immagina distesa e gemente sul lettone assai noto, per l’appunto racconta: “Quando s’è spogliato e dopo i risucchi di sbadigli mi dorme e russa e ha la tosse è solo un uomo del nostro livello. E io lo stringo a me, come per ritrovarlo snello, bello e insolente. E tale mi diventa”. Davvero?

Le rivolgiamo la domanda mostrandoci curiosi, ma solo per cortesia, in omaggio alla sua gioiosa vocazione di filosofa. E lei, soddisfatta, risponde: “E’ tutta una faccenda di psicologia”. Insomma, la rilasciatezza dei costumi è pittoresca, non tragica – “Amore e Psiche” dice ancora la dolce amica – e Berlusconi non decade perché è ricco ed è anche così che si compra l’opinione sbagliata che s’è fatta di se stesso: e il danno è che non si va più in là del poter finalmente cadere e andare. E che il caso resta padrone della famosa cassaforte. Quella che cammina.

(di Pietrangelo Buttafuoco)

giovedì 30 giugno 2011

L'Italia, il Paese dove a comandar è un signor "Nessuno"


Luigi Bisignani, allora oscuro cronista dell’Ansa, comparve all’onor del mondo quando nel 1981 il suo nome fu trovato fra i quasi mille iscritti alla Loggia P2 di Licio Gelli. Un peccato, anche se non innocente, di gioventù (aveva 27 anni), perché sono sempre stato convinto che la P2 fosse un’associazione a delinquere solo nei suoi vertici (Gelli, Ortolani, Calvi e Tassan Din) mentre per il resto si trattava, per lo più, di una framassoneria di stracciaculi per fare carriera alla svelta.

Dieci anni dopo troviamo però Bisignani in una vicenda che non è framassonica o paramafiosa ma penale. Divenuto nel frattempo capo delle relazioni esterne del Gruppo Ferruzzi (Raul Gardini/Sam) è colto con le mani nel sacco nella supertangente Enimont («la madre di tutte le tangenti») e condannato a due anni e otto mesi di reclusione. Una brillante carriera spezzata. Mi stupii quindi quando lo rividi ricomparire nella cosiddetta «Tangentopoli 2» ascoltatissimo consigliere di Lorenzo Necci, l’amministratore delegato delle Ferrovie, la più grande azienda di Stato italiana, poi condannato per vari reati. Pensavo infatti che nei confronti di tipetti alla Bisignani scattasse una sorta di sanzione sociale e che almeno nella Pubblica amministrazione nessuno volesse averci a che fare. Invece Bisignani era sempre lì, più riverito che mai, ricevuto in tutte le case che contano.

La settimana scorsa ho aperto il giornale e ho letto: «Ricatti, arrestato Bisignani». Arieccolo. Se la cosiddetta «P4» sia un’associazione a delinquere lo giudicherà la magistratura, ma mi ha colpito la definizione che di Luigi Bisignani ha dato il Gip di Napoli: «Ascoltato consigliere dei vertici delle più importanti aziende controllate dallo Stato, di ministri della repubblica, sottosegretari e alti dirigenti statali... un personaggio più che inserito in tutti gli ambienti istituzionali con forti collegamenti con i servizi di sicurezza».

«È amico di tutti» ha detto Gianni Letta, per giustificarsi. Ma proprio questa è la cosa grave. Altro che «sanzione sociale». Questa non opera per le mele marce, inserite in tutti i gangli dello Stato, con un crescendo impressionante negli ultimi trent’anni, che si annusano, si fiutano, si riconoscono e si cooptano, ma per quelle sane, temutissime perché non sono ricattabili. Vade retro Satana. È con i Bisignani che ci si intende.

L’Italia è davvero uno strano Paese. Nel 1981 scoprimmo che il vero burattinaio non stava né a Roma né a Milano né a Torino ma a Castiglion Fibocchi, non abitava i Palazzi della politica, era un modesto dirigente della Permaflex oltre che uomo volgarissimo e di un’ignoranza quasi comica (Angelo Rizzoli mi raccontava che «manager» lo pronunciava «managè» e, piccandosi di parlar francese, diceva «debals» al posto di «debacle»). Si chiamava Licio Gelli. Chi era costui? Gli italiani non ne avevano mai sentito parlare. Ma quelli che contano sapevano benissimo chi fosse e quanto potesse. Tutti. Se è vero che persino Indro Montanelli sentì il bisogno di andare in pellegrinaggio da lui all’hotel Excelsior di Roma, dove teneva base. Oggi, 2011, scopriamo che chi determina i presidenti e gli amministratori dei grandi Enti di Stato, decide chi deve dirigere la Rai, influenza ministri e sottosegretari più che Silvio Berlusconi è un signor Nessuno, noto alle cronache solo per squallide vicende giudiziarie, di nome Luigi Bisignani.

(di Massimo Fini)

Razza e nazismo, ecco il Céline maledetto

Da tempo ormai sappiamo, sulla base di documenti, di ricerche d’archivio, di riscontri incrociati, di epistolari rimasti a lungo sepolti, che la qualifica di «collaboratore», per Louis-Ferdinand Céline (1894-1961), era pertinente. Céline «collaborò», non si limitò a scrivere qualche lettera ai giornali: rivendicò l’aver capito prima degli altri il disastro che si preparava per il suo Paese; rivendicò l’aver chiesto un’alleanza franco-tedesca; rivendicò la necessità di uno scontro all’ultimo sangue contro bolscevismo e democrazie liberali; rivendicò una linea di condotta recisa contro gli ebrei; auspicò una Francia razzialmente pura, nordica, separata geograficamente dal suo Sud meticcio e mediterraneo... Scelse con attenzione i giornali dove far apparire le sue provocazioni, ne seguì la pubblicazione, se n’ebbe a male quando qualche frase troppo forte gli venne tagliata, polemizzò aspramente.

Fra il 1941 e il 1944 scrisse una trentina di lettere, oggi per la prima volta tradotte in Italia, compresa quella relativa alla separazione geografico-razziale della Francia già ricordata, e che non venne pubblicata perché ritenuta «eccessiva» dalla direzione di Je suis partout; rilasciò una dozzina di interviste, ripubblicò i suoi pamphlet, partecipò a conferenze, tenne contatti con le autorità tedesche. E però aveva qualche fondamento di verità la sua linea di difesa del «non aver collaborato». Perché non fu nel libro paga di giornali o movimenti, perché la critica militante nazista trovava troppo nichilista il suo pensiero, perché in sedute conviviali più o meno pubbliche la sua vena esplodeva sinistra, prefigurando scenari catastrofici e rese di conti epocali, perché si adoperò per salvare qualche vita e omise di denunciare qualche gollista poco smaliziato, e perché alla fine sembrò che con i tedeschi avesse fornicato solo lui.

Cantore, di parte, di un continente messo a ferro e a fuoco in un epocale regolamento di conti, sotto le mentite spoglie del cronista Céline racconta la fine di un’idea di Europa cui ha creduto e per la quale si è battuto: razziale, antidemocratica, panica e pagana, anti-moderna e mitica.

Scrittore anti-materialista, Céline cercò di combattere il materialismo usando uno strumento, la razza, altrettanto materiale e, come tale, incapace di cogliere differenze di valori e di sensibilità. L’ideale ariano che egli propugna, l’abbiamo visto, fino a voler dividere la Francia in due, una suralgerina, l’altra nordica, e che altri si incaricheranno di mettere bestialmente in pratica, si trasformerà in beffa allorché, dopo essere stato imprigionato in Danimarca, si troverà a scrivere: «Merda agli ariani. Durante 17 mesi di cella non un solo dannato fottuto dei 500 milioni di ariani d’Europa ha emesso un gridolino in mia difesa. Tutti i miei guardiani erano ariani!».

Quando si predica la purezza c’è sempre qualcuno che si crede più puro di te. L’ebreo, nell’allucinazione celiniana, finisce però col perdere un’identità razziale precisa, finisce con il trasformarsi in un simbolo: ebreo è il clero bretone, ebreo il conte di Parigi, ebreo è Maurras, ebreo il Papa, ebrei i re di Francia, ebrei gli atei, ebreo Pétain. Gli ebrei sono tutti, anche Céline.... È l’opposto di quell’«uomo nuovo», di quel «barbaro ritrovato» di cui si fa alfiere... Ma dietro al razzismo c’è anche una questione di stile, come la lettera su Marcel Proust alla Révolution nationale di Lucien Combelle, del febbraio 1943, mette bene in evidenza: «Lo stile Proust? È semplicissimo. Talmudico.

Il Talmud è imbastito come i suoi romanzi, tortuoso, ad arabeschi, mosaico disordinato. Il genere senza capo né coda. Per quale verso prenderlo? Ma al fondo infinitamente tendenzioso, appassionatamente, ostinatamente. Un lavoro da bruco. Passa, viene, torna, riparte, non dimentica nulla, in apparenza incoerente, per noi che non siamo ebrei, ma riconoscibile per gli iniziati. Il bruco si lascia dietro, come Proust, una specie di tulle, di vernice, che prende, soffoca riduce e sbava tutto ciò che tocca - rosa o merda. Poesia proustiana. Quanto alla base dell’opera: conforme allo stile, alle origini, al semitismo: individuazione delle élites imputridite, nobiliari, mondane, invertiti eccetera, in vista del loro massacro. Epurazioni. Il bruco vi passa sopra, sbava, le fa lucenti. I carri armati e le mitragliatrici fanno il resto. Proust ha assolto il suo compito». Conclusione: nel 1943 l’autore della Recherche avrebbe applaudito la sconfitta tedesca a Stalingrado...

(di Stenio Solinas)

giovedì 23 giugno 2011

Gianfranco Fini ha fatto storia, ma non farà il futuro


Due giorni fa quando si è scontrato in aula con Fabrizio Cicchitto sembrava ritornato il Fini battagliero dell’ultimo anno ma quando il ringhioso capogruppo del Pdl, a fine seduta, gli ha stretto la mano si è capito che perfino l’abito del più risoluto avversario del Cavaliere ormai gli sta largo. Vale per lui la frase lapidaria che Thomas Fowler, l’anziano protagonista del romanzo di Graham Green, Un americano tranquillo, rivolge al suo ambiguo amico, l’idealista incendiario Alden Pyle: “Non ho mai conosciuto un uomo che aveva motivi migliori per tutti i guai che ha causato”.

Gianfranco Fini alla destra e al berlusconismo di guai ne ha causati tanti. Questo “italiano tranquillo” nasconde dentro di sé un furore iconoclasta che forse deriva dalle antiche contraddizioni familiari con quel nonno comunista a fianco del padre fervente repubblichino. Arrivato come Veltroni alla politica dal cinema, a lui avevano impedito a Bologna di vedere Berretti verdi con John Wayne mentre all’ex leader dei democrats avevano propinato dosi massicce di Kubrick, Gianfranco Fini si era fin da ragazzo instradato in una carriera sicura. Due vecchi lo avevano preso in custodia, ispirandolo e forse costringendolo ai passi decisivi. Giorgio Almirante che lo aveva imposto ai vertici del Msi come prova vivente dell’esistenza del prototipo del “camerata in doppio petto” lontano dalle nostalgie autobiografiche degli sconfitti di una volta, e Pinuccio Tatarella, il fantasioso ministro con le macchie di sugo sulla giacca, che lo aveva spinto a sciogliere l’Msi per fondare Alleanza nazionale. Ma né Almirante né Tatarella avevano compiuto il miracolo di far diventare candido l’anatroccolo nero. La trasformazione cromatica e mediatica l’ha compiuta Silvio Berlusconi scegliendolo come partner privilegiato di governo e affiancandolo a Pierferdinando Casini nella gara infinita per la propria successione.

Alla sua destra l’allievo di Almirante in rapida ascesa fa ingoiare molti bocconi amari come quando a Yad Vashem, nell’atmosfera raccolta del museo della Shoa, si fa ritrarre con la kippa in testa e pronuncia frasi definitive sul fascismo. L’opinione pubblica lo scopre e lo premia con sondaggi che clamorosamente lo mettono in testa a tutte le classifiche. Nel suo partito si dilaniano i colonnelli rampanti, entrano e escono a giorni alterni la Mussolini e la Santanchè, perfino il tosto Tremonti deve fare i conti con la sua durezza nel regolare i conti nella Casa della Libertà. Fini sembra incontenibile. Quando Berlusconi sale sul predellino imponendo lo scioglimento e l’annessione dei partiti alleati lui dapprima lo sfotte poi, a differenza di Casini che va per la sua strada, lo affianca liquidando la sua creatura che tutti danno ormai ai minimi storici elettorali. È l’ultimo miglio che lo separa dall’incoronazione. Fini ci crede e gli dà dentro cominciando a martellare l’antico alleato. Vede la vetta ma non si accorge del dirupo.

Si arriva così all’ultimo anno con la sfida aperta fra i due capi del centro-destra, quel “che fai, mi cacci?” che sembra l’inizio di una nuova storia e soprattutto l’accelerazione di una carriera. La rottura con Berlusconi lancia Fini nell’Olimpo della politica. È lui l’uomo nuovo, quello che può spingere al ritiro il vecchio tycoon e dimostrare l’irresolutezza delle vecchie opposizioni di sinistra. Attorno a lui si fa il vuoto dei colonnelli, in gran parte rimasti con Berlusconi, ma la guardia regia dei suoi sostenitori è piena di giovanotti rampanti, da Bocchino a Urso e a Ronchi, mentre sulla sua onda acquistano la ribalta giovani intellettuali di destra che piacciono alla sinistra, da Alessandro Campi a Filippo Rossi a Sofia Ventura la cui intemerata contro le veline di governo sembra aver provocato la reazione di Veronica Lario contro il dissoluto consorte.

Tuttavia Berlusconi non si fa mettere nell’angolo e reagisce con la clava delle rivelazioni giornalistiche sulla casa di Montecarlo e il rapace cognato del presidente della Camera. La conta parlamentare premia il Cavaliere, emerge nella società una nuova sinistra movimentista, il popolo di destra si divide e spesso si allontana dalla politica. Un anno dopo è tutto finito. Berlusconi ha pagato cara la scissione dei seguaci del presidente della Camera e iscriverà questo inizio d’estate del 2011 fra le date infauste della sua vita ma Fini, l’uomo che ha scosso l’albero, sembra infilato definitivamente nel cono d’ombra. Il suo partitino viaggia intorno al 3%, Urso e Ronchi se ne vogliono andare, gli intellettuali lo hanno lasciato, Bocchino continua a imperversare mentre il presidente della Camera guarda con nostalgia preventiva quell’aula che presiede consapevole che se non lo riporterà in Parlamento il Terzo Polo alle prossime elezioni, se dovrà contare sulle proprie forze, gli toccherà star fuori da tutto.

L’elenco dei suoi errori riempie i notiziari dei cronisti politici. Molti tornano a scoprire in lui quel mix di irresolutezza e di improvvisi furori che lo hanno trasformato in una scheggia impazzita della politica italiana. Senza più padrini ha fatto tutto da solo e si è fatto male. Il merito di aver infranto l’unanimismo dell’universo berlusconiano si accompagna alla colpa di aver diviso la sua gente. I “motivi migliori per tutti i guai che ha combinato” lo consegnano alla storia politica ma lo hanno cancellato dal futuro del paese. Forse quando nascerà una destra non berlusconiana si ricorderanno di lui. Chissa allora dove sarà.

(di Peppino Caldarola)

L'esile ponte tra Pound e Luciani


«Nei primi anni della mia presenza a Venezia, ho avuto modo di vedere, qualche volta, il poeta Ezra Pound fermo a metà del ponte dell’Accademia, appoggiato al parapetto che guarda verso San Marco. Un giorno lo incontrai ai piedi del ponte, mi vide, mi salutò togliendosi il cappello, lo salutai. Era pallido, magro, camminava come fosse estraneo e assente dalla realtà che lo circondava». Sono parole che Albino Luciani, papa Giovanni Paolo I, consegnò alla discrezione di padre Francesco Saverio Pancheri, al tempo in cui era patriarca di Venezia, tra il 1970 e il ’78. Al religioso, direttore del Messaggero di Sant’Antonio del quale era prezioso collaboratore, il cardinale Luciani confidò di conoscere il dramma vissuto da Pound, come uomo e letterato. E di certo aveva letto qualche pagina dei Cantos, se si sentiva interpellato da quel vecchio con la barba bianca, che sostava sul ponte assorto nei suoi pensieri, come se provenisse da un mondo lontano, messaggero del mistero e dell’ignoto. I due patriarchi, attraversandosi con lo sguardo per un istante durato l’eternità, specchiarono i loro animi l’uno nell’altro lasciandovi l’impronta di un interrogativo e, forse, di una risposta.

La testimonianza del pontefice che regnò soltanto 33 giorni, e che è passato alla storia come il «papa del sorriso», riapre la discussione sui rapporti tra l’autore dei Cantos e le religioni storiche, specie il cristianesimo. Rapporti non risolvibili in una frase a effetto, perché il poeta statunitense rifiutava ogni conclusione scontata nell’approccio alla fede. Innamorato di Confucio, Pound, figura di moderno profeta gettato come un ponte tra l’antichità dei classici e il nostro tempo, ha concluso la sua traversata nel deserto proprio in quella Venezia, cattolica e pagana, universale e intima, spirituale e secolare, che costituì per lui un’irresistibile richiamo giunto dai territori profondi dell’anima.

Una Venezia che, proprio negli anni del suo crepuscolo (il poeta chiuse gli occhi nella Laguna, dove è tuttora sepolto, il 1° novembre 1972), era spronata dall’insegnamento di un vescovo che avvertiva in modo particolare la presenza della comunità degli artisti. In verità, la figura di Albino Luciani e quella di Ezra Pound possono apparire talmente lontane da troncare sul nascere ogni discussione. Eppure, il poeta e il futuro papa avevano in comune una idiosincrasia per i meccanismi perversi del potere finanziario: se l’uno tuonava nei suoi scritti contro l’usurocrazia, il sistema che produce denaro con il denaro, l’altro ingaggiava una solitaria battaglia di moralizzazione delle banche cattoliche che aveva come obiettivo un radicale ritorno alle origini, ovvero allo spirito mutualistico delle casse sorte per tesaurizzare i risparmi della povera gente, costruiti con il sudore.

È noto infatti che, fin da quando era vescovo di Vittorio Veneto, nel 1962, Luciani reagì con un coraggio che sarebbe piaciuto a Pound allo scandalo finanziario che si abbatté sulla sua diocesi. Due sacerdoti, implicati in speculazioni per quasi due miliardi di lire, vennero severamente rimproverati dal loro vescovo, il quale, pur non essendone affatto tenuto a norma di legge, decise di risarcire i truffati mettendo in vendita immobili e terreni della curia. Tuonò il futuro Giovanni Paolo I: «Nessuno deve lamentarsi di essere truffato nemmeno di un solo centesimo dalla Chiesa».
Che cosa, d’altro, accomunava Luciani e Pound? A unirli era anche l’amore per la letteratura.

Don Albino scrisse epistole immaginarie ai grandi del passato: tra essi, molti erano scrittori e poeti, come Chesterton, Peguy, Petrarca, Manzoni e Trilussa. Ma il porporato che non studiava da papa, e che si abbandonò totalmente alla volontà del Padre che lo aveva chiamato alla missione per lui umanamente inconcepibile di guidare il popolo di Dio, responsabilità immensa, insisteva su quella dottrina sociale cristiana che costituiva un architrave della terza via tra capitalismo e marxismo che anche l’autore dei Cantos vagheggiava. Tutto quanto l’insegnamento di Luciani culmina nella contestazione di un quel sistema nefasto che è il capitalismo senza regole e l’attaccamento dell’uomo al denaro. Addita anzi a esempio moralmente riprovevole una grande figura dickensiana, l’usuraio Scrooge.

Dunque, chiedo alla figlia di Pound, Mary de Rachewiltz, se suo padre può essere considerato un antesignano dei no global. "Sì e no. È vero che condividerebbe la rivolta contro la suprema mercificazione dell’uomo. Ma era assolutamente contrario alla violenza e noi abbiamo assistito a manifestazioni cruente".

E dell’incontro tra Pound e Luciani, che dice? «Non ne sono stata testimone diretta, ma penso che non fosse difficile che i due personaggi potessero accostarsi, a Venezia, che è un salotto. Pur senza frequentare i riti, mio padre entrava nelle chiese e aveva simpatia per le funzioni religiose condotte bene. Nei Cantos esorta alla preghiera, ma non nel senso ristretto, beghino. Diceva che se avesse potuto scegliere i propri santi, sarebbe stato cattolico. Di recente, ho saputo che anche il successore di Luciani, l’attuale patriarca Angelo Scola, ha citato una poesia di Pound in un suo intervento».

Mary de Rachewiltz conduce una sua battaglia contro l’utilizzo strumentale della figura del padre da parte di centri sociali antagonisti di estrema destra che si sono appropriati del suo nome. Scandisce: «Pound va letto come si legge Dante, cioè come un classico, e per comprenderlo bisogna partire dalla conoscenza della sua opera poetica, i Cantos. Mi dispiace per ragazzi in buona fede che si lasciano coinvolgere facendo dimostrazioni di tenore politico in nome di Pound». Si giunge al tasto dolente: all’autore dei Cantos, viene ancora oggi rimproverata la sua ammirazione verso Mussolini, che pagò duramente con i tredici anni di internamento al manicomio criminale Saint Elizabeth di Washington.

Riconosce la figlia: «Sì, è vero, ripose molte speranze nel Duce, ma alla fine dovette dolersene perché quella di Mussolini fu una rivoluzione mancata. Non per nulla, Pound consacrò l’ultima parte della sua vita al silenzio, il biblico tempus tacendi, che segue il tempus loquendi. Una forma, quasi, di penitenza, da osservarsi dopo che ci si è fatti trascinare dall’ira, come fanno i profeti. A me piace pensare che l’incontro con Luciani fosse avvenuto senza parole. Perché negli esseri superiori c’è una sensibilità superiore».

(di Roberto Festorazzi)