giovedì 12 aprile 2012

Tremonti: dalla crisi si esce limitando il potere della finanza


Giulio Tremonti non ha bisogno di presentazioni. Per anni è stato il ministro dell’economia dei governi Berlusconi ed è stato parte integrante del gotha politico europeo e mondiale. Con la caduta, lo scorso autunno, dell’esecutivo guidato dal Cavaliere, Tremonti è temporaneamente uscito di scena per dedicarsi alla scrittura di Uscita di sicurezza il suo ultimo libro, edito da Rizzoli e pubblicato all’inizio dell’anno, nel quale fa il punto sulla terribile crisi economico-finanziaria in corso. Uscita di sicurezza è un durissimo atto di accusa contro il potere finanziario definito senza giri di parole un “fascismo bianco”, una nuova forma di dittatura che mina alle fondamenta la democrazia occidentale. Con Giulio Tremonti abbiamo parlato del contenuto del libro e delle proposte da lui presentate per superare questo difficile momento storico.

In Uscita di sicurezza l’aspetto che probabilmente colpisce di più il lettore è la denuncia della nascita in Europa di un nuovo tipo di dittatura: il fascismo finanziario. Si tratta di una “provocazione” per risvegliare le coscienze dei lettori o crede davvero che la democrazia occidentale sia in pericolo?

“Fino a poco tempo fa il capitalismo era combinato con le ragioni dei popoli e con lo Stato sociale. Negli ultimi anni è però avvenuta una mutazione che ha causato una caduta degli antichi valori su cui per secoli si è basato il nostro mondo. Nel mio libro cerco di fare capire la pericolosità di questa mutazione e la necessità di tornare ai vecchi principi”.

Ha scritto anche che la “la finanza all’ultimo stadio” si è messa “a governare in presa diretta facendo uso dei tecnici”. Questo vale anche per il governo tecnico italiano?

“Nel mio libro non ho mai usato la parola Italia. Come riferimento ho sempre usato il caso della Grecia”.

Come giudica il modo in cui i “tecnici” stanno affrontando la crisi?

“Quello che sta succedendo in queste ore conferma che ancora non siamo nella via di uscita giusta per superare la crisi. Dal 2008 in poi per descriverla ho sempre usato una immagine, quella dei videogames. E’ come essere dentro un gioco, arriva un mostro lo batti, ti rilassi e arriva un secondo mostro più grande del primo. Prima il sistema bancario salta e per salvarlo si usano i fondi degli Stati. Poi il sistema finanziario, salvato dagli Stati, attacca senza pietà i bilanci pubblici e allora si usano i soldi delle banche centrali, in Europa della Bce. Ma, come gli ultimi eventi stanno dimostrando, la calma dura poco e il sistema torna ad essere pericoloso come era prima”.

Cosa fare quindi per interrompere questo “videogame” da incubo?

“In primo luogo bisogna uscire dall’attuale sistema ovvero bisogna ridurre il potere della finanza e impedire ai signori banchieri di usare i risparmi dei cittadini per speculare. Così come è ora se la scommessa va bene guadagnano loro se va male perdono i cittadini. In secondo luogo bisogna avviare un grande programma di opere pubbliche europee finanziato attraverso l’emissione di Eurobond. Questa visione assomiglia a quanto fece l’America dopo la grande crisi del 1929 con il varo del New Deal”.

Perché pensa che una visione simile sia fattibile?

“Perché man mano che la crisi esce dal solo ambito finanziario ed entra nella vita delle famiglie le persone e la politica si risvegliano. Questo per esempio è quello che successe in America all’inizio degli anni ’30 e che molto probabilmente succederà presto anche in Europa”.

Fino ad ora però, come lei stesso scrive, la politica è stata sconfitta dalla finanza. Perché questo è successo?

“L’ultimo grande atto della politica fu alla fine degli anni ‘90 con la globalizzazione. Questo processo per tempi e per metodi fu deciso dalla parte ‘illuminata’ della politica che pensava ad un mondo diverso basato sull’ideologia del mercato. Con la globalizzazione il mercato ha preso il sopravvento perché è stato più forte, più ricco, perché ha avuto una ideologia. Con la globalizzazione gli Stati contano sempre di meno, i politici eletti negli Stati ancora di meno e invece il mercato globale coi suoi poteri, mezzi e figure domina su tutto”.

Lei è stato parte integrante del gotha politico mondiale. Più di uno potrebbe chiedersi perché non ha provato a cambiare le cose.

“In realtà, come posso dimostrare in tanti documenti ufficiali, ci ho provato ma non ci sono riuscito”.

Perché non ci è riuscito?

“Sono fenomeni che hanno una dimensione storica. Neanche il presidente Obama, che pure aveva chiari i problemi da affrontare, ci è riuscito. Ripeto però che adesso è ancora presto ma prima o poi i popoli capiranno che vengono impoveriti e umiliati dalle politiche attuali e reagiranno votando per chi propone politiche diverse”.

Come abbiamo visto prima, per uscire dalla crisi lei propone un piano di investimenti in opere pubbliche. L’Europa preferisce però fare l’opposto e proseguire con l’austerity. Quale è il suo giudizio in merito?

“Faccio una premessa. Io sono abbastanza vecchio da ricordare il G7 e abbastanza giovane per aver visto il nuovo G20. La nascita di quest'ultimo riflette il cambiamento del mondo. Per l’Europa è finita l’età delle colonie e i vantaggi che questo potere comportava. Adesso contano tantissimo anche gli Stati che un tempo erano emergenti. Questo cambiamento fa sì che per l’Europa non sia più possibile che il deficit cresca più velocemente del prodotto interno lordo e rende necessario un maggiore controllo dei conti pubblici e quindi una revisione dello Stato sociale. Sottolineo però una revisione e non una eliminazione del Welfare State. Lo Stato sociale europeo è una cosa che dobbiamo conservare altrimenti si entra davvero nella barbarie che tanti grandi banchieri vogliono convinti che sia nel loro interesse. Perciò dobbiamo adattarlo perché è finita l’età delle colonie ma non possiamo distruggerlo”.

Torniamo un attimo alla ricetta per uscire dalla crisi: opere pubbliche. Perché sono così importanti?

“Nel XX secolo il motore della crescita è stata l’automobile. Era una cosa che sognavi di notte, che ti dava un modo diverso di esistere. E’ stata davvero un mito. L’auto ha portato tutto il resto: le strade, le autostrade, i viaggi, il turismo, ecc. La new economy o tante altre nuove scienze stanno dando moltissimo all’economia ma non sono l’equivalente dell’auto come mito di progresso e di successo. Per rilanciare davvero l’economia serve un rilancio delle grandi opere pubbliche come era nell’idea iniziale dell’Europa”.

Della green economy cosa pensa? Può essere un volano di sviluppo?

“Penso di sì. Penso che sia una cosa molto importante. Non abbiamo ancora tutti gli elementi definiti e condivisi ma certamente è un campo fondamentale su cui investire risorse pubbliche”.

(fonte: www.tiscali.it)

domenica 8 aprile 2012

lunedì 2 aprile 2012

Comunisti contro le banche. A Milano la furia degli zombie

Sabato pomeriggio: paesaggio milanese con zombie, fuorisciti dalle catacombe nonostante il sole splendente per trascinarsi berciando lungo le vie del centro. Partenza alle 14 da piazza Medaglie d’oro, si consiglia pranzo al sacco onde evitare l’acquisto dei terrificanti panini semoventi spacciati a pochi euro sui camion. I ferrivecchi sono al completo: sindacati di base, qualche bandiera di Rifondazione comunista, Comunisti italiani, Sinistra critica, una folta rappresentanza del Partito marxista-leninista italiano, quello che qualche anno fa esibiva una bandiera con Lenin, Mao, Marx et similia e lo slogan «Coi maestri vinceremo». Non potevano mancare i No Tav, calati dalla Val di Susa per un tranquillo weekend di teppismo. A un certo punto, compare anche un tale senza pantaloni e mutande, che passeggia tranquillo, puntualmente ripreso e sbattuto sul web.

In totale, qualche migliaio di persone inferocite con il governo Monti e intenzionate a «occupare Piazza Affari», simbolo del Grande Capitale Internazionale. Un tempo, siffatta compagnia circense sarebbe rimasta ai margini di un più grande corteo delle sinistre. Ora, senza il comune nemico Berlusconi, a sfilare ci sono soltanto i comunisti o quel che ne resta. Le tipologie umane sono essenzialmente due: i residuati bellici di epoche antiche, i Ribellosauri con capello rado e mal lavato, ostinati nei loro sandali a gridare nel megafono ritornelli contro il «padronato». E poi i giovani tipo centro sociale, con birra in mano, pantalone sfatto e maschera di V for Vendetta da esibire ai fotografi, per sentirsi un po’ americani come gli indignati di Occupy Wall Street. Tra le due categorie pare comune la scarsa dimestichezza con lo shampoo.

A tratti, come lampi dal passato, si manifestano Paolo Ferrero e Vittorio Agnoletto (un uomo, un flashback), alla disperata ricerca di una telecamera da aggredire o di un microfono a cui dichiarare. Risuonano le solite canzoni da battaglia dei 99 Posse, roba talmente antica che il gruppo nel frattempo è riuscito a cambiare idea e a separarsi. Tutt’intorno, il deserto. I negozianti calano le saracinesche come un velo pietoso, ed è divertente notare l’esercente tartassato dal Fisco che si blinda impaurito nella bottega mentre i ragazzotti con i rasta vogliono il «potere agli operai» e si lamentano delle tasse. Certo, se poi fosse un governo sovietico a imporle, a loro starebbe pure bene. Ma in questo caso ce l’hanno con gli squali della finanza. Alcune istanze sarebbero perfino condivisibili, solo che a fianco dei coretti contro il «governo golpista» e la crisi che viene fatta pagare ai poveri cristi, i manifestanti offrono anche qualche soluzione. Per esempio che il socialismo reale salverebbe l’Italia. Oppure che «i padroni» devono essere appesi a testa in giù, possibilmente a piazzale Loreto.

Numerosi i bandieroni con falce e martello, un tizio con il passamontagna che avrà sì e no 17 anni dipinge su un muro un’immagine di Marx con la scritta «Modello tedesco». Il corteo si era inaugurato con proclami minacciosi, guardandosi in giro s’intravedeva qualche grugno apparentemente ben disposto a spaccare tutto. Il rischio c’era, visto che in mattinata due pullman provenienti da Napoli e contenenti mazze, spranghe e altri indispensabili utensili da guerriglia erano stati fermati al casello di Melegnano. Alla fine, nessuna violenza, per fortuna. Soltanto i consueti e fastidiosi vandalismi, che qualcuno dovrà poi ripulire. Scritte sulle banche, adesivi appiccicati sui cartelli stradali, il tentativo di appiccare un incendio alla filiale Unicredit a Porta Romana. Un paio di volonterosi si sono imbarcati nell’ardua impresa di costruire un muretto davanti a una Bnl: probabilmente trattavasi del primo lavoro manuale in vita loro.

L’avanzata degli zombie prosegue, ululante, fino all’agognata Piazza Affari, circondata da una nube di agenti in tenuta anti sommossa (e supponiamo dotati, vista l’occasione, di paletti di frassino, aglio e pallottole d’argento). Un valsusino, in piazza Cordusio, domanda spaesato: «È questa Piazza Affari?». Poi si accorge che i compagni stanno proseguendo. Giunti sul posto, fanno gridare dal palco improvvisato Alberto Perino dei No Tav, il quale conferma di aver partecipato perché il governo Monti è nemico del suo movimento (come tutti gli altri governi, secondo lui, dunque un corteo vale l’altro). Seguono altri oratori, ma la folla s’avvia a disperdersi. Giusto il tempo di comprare una birra al baracchino apposito e farsi rifilare uno dei tanti giornali disponibili, tra cui Lotta continua - nuova edizione (titolo lungo come un articolo: «Solo il conflitto potrà spazzarli via. La fase due facciamola noi!»), Il Bolscevico, La Comune... Infine, gli zombie sciamano via lenti, solo un po’ più brilli di quando sono arrivati. A pochi passi di distanza, in piazza del Duomo e via Torino, i vivi fanno shopping. Dopo tutto, è una bella giornata di sole.

(di Francesco Borgonovo)

Dalle rovine della tecnica rinascerà l’età dello spirito


A leggerlo con gli occhi miopi del presente, L'operaio di Ernst Jünger sembra la grandiosa metafora dell'avvento dei tecnici al potere. Anzi il Tecnico stesso sembra l'Operaio in loden, versione estrema della borghesia che si è fatta globale e immateriale come la finanza rispetto all'epoca dell'oro e del decoro. Ma più in profondità, lo sguardo profetico di Jünger è rivolto a un'epoca planetaria dominata dalla tecnica, che ha un esito a sorpresa rispetto alle sue premesse: la tecnica «spiritualizza la terra». Dopo gli dei, dopo il monoteismo, verrà lo Spirito, signore dell'Età dell'acquario, che appare attraverso i sogni e agisce mediante la magia. Lo spirito verrà tramite la tecnica, scrive Jünger, nel suo linguaggio oracolare, a volte allusivo, in alcuni tratti reticente, ed esoterico. Dopo la catastrofe e in fondo al tunnel del nichilismo il suo pensiero intuitivo scorge una luce inattesa. Non la luce di un nuovo umanesimo, come pensavano da differenti postazioni i suoi contemporanei Maritain e Gentile, Bloch e Sartre. Ma un disumanesimo integrale, una sorta di superamento dell'umano e non in una dimensione sovrumana, alla Nietzsche, ma compiutamente inumana, geologica e spirituale. In questa chiave, l'Operaio è un nuovo titano, quasi una figura mitologica, della razza di Anteo, Atlante e Prometeo, che mobilita il mondo tramite la tecnica, che è il suo linguaggio.

L'operaio di Jünger - o Milite del lavoro, come preferivano tradurre Delio Cantimori e anche Julius Evola - compie 80 anni e per l'occasione esce finalmente in Italia Maxima-Minima (Guanda, pagg. 124, euro 12), un libro breve e intenso che fu la prosecuzione dell'opera jüngeriana del '32 a 32 anni di distanza, nel 1964. Quando dirigevo da ragazzo una casa editrice, negli anni Ottanta, tentai temerariamente di farlo tradurre in Italia; ma alla Buchmesse, la Fiera del libro di Francoforte, l'agente letterario di Klett Cotta, l'editore tedesco, mi disse che quest'opera era già opzionata in Italia. Ci sono voluti quasi trent'anni per vederla alla luce ora, a cura e con la postfazione di Alessandra Jadicicco. Un'opera oracolare di minima loquacità e massima densità, in cui si avverte il respiro della grandezza, dove l'eco dell'Operaio si mescola all'eco dello Stato mondiale, Le forbici, Al muro del tempo e altre opere jüngeriane del suo personale «Nuovo Testamento», come egli stesso diceva.

La tesi metafisica è quella: dalla Macchina, per inattese vie, sorgerà lo Spirito; il Mito, il Gioco, la Geologia e l'Astrologia lo porteranno a compimento. Ma dalla Tecnica sorge anche il nemico: laddove il tecnico «conquisti il governo politico, se non dittatoriale, grava la peggiore delle minacce». Il condensato deteriore della tecnica è l'automatismo, che è il peggiore degli autoritarismi, un dispotismo che uccide la libertà alla radice. E qui Ernst Jünger ritrova suo fratello Friedrich Georg che alla Perfezione della tecnica e all'avvento degli automi aveva dedicato un lucido saggio, degno del suo germano (tradotto in Italia dal Settimo Sigillo nel 2000). La tesi metapolitica di Jünger è invece l'avvento auspicato dello Stato planetario, dopo l'unificazione del mondo compiuta dalla Tecnica, di cui scriveva negli stessi anni in Italia anche Ugo Spirito. Dopo la patria il mondo intero sarà amato come «Terra Natia».

Destra e sinistra, rivoluzione e conservazione, sono per Jünger braccia di uno stesso corpo. Ma il politico, rispetto a questi fenomeni grandiosi, è inadeguato, si occupa dell'ovvio dei popoli, si cura del successo e dell'attualità, non si sporge nell'avvenire e, a differenza dell'artista, non dispone di uno sguardo ulteriore.

La miseria della politica propizia il dominio della tecnica (sembrano glosse al presente...). A rimorchio della politica va la giustizia che «segue la politica come gli avvoltoi le campagne degli eserciti». Dei, padri, autorità, eroi tramontano nell'era in cui la prosperità cresce con l'insicurezza.

Tocca all'outsider, che Jünger aveva battezzato già l'Anarca o il Ribelle, avvertire come un sismografo il tempo che verrà. «L'amarezza riguardo ai contemporanei è comprensibile in chi ha da dire cose immense».

Pensieri lucidi e affilati come lame si susseguono nella prosa asciutta e ad alta temperatura di Jünger; a volte sfiorano la storia, i popoli, le culture, le razze.

Precorrendo o incrociando le tesi della Scuola di Francoforte e di Herbert Marcuse in particolare, Jünger nota che la nuova schiavitù e la nuova alienazione non si concentrano più nel tempo della produzione, ma nel tempo libero.

La dipendenza si sposta dal lavoro al consumo. Jünger intuisce che la globalizzazione coinvolgerà non solo i popoli più avanzati, ma anche le società feudali e primitive, che rientreranno in pieno nel ciclo della tecnica: e ci pare di vedere le tigri asiatiche, la Cina, l'India e la Corea nel suo sguardo profetico.

Jünger critica la pur grandiosa morfologia della civiltà di Oswald Spengler e incontra invece il nichilismo attivo e poetico di Gottfried Benn e soprattutto il pensiero di Martin Heidegger, che a sua volta studia e fa studiare nei suoi seminari L'operaio e per altri sentieri raggiunge la stessa radura di Jüger, al di là dell'umano.

Ho letto in questi giorni, accanto a Jünger, gli appunti heideggeriani raccolti sotto il titolo La storia dell'Essere (Mariotti editore, pagg. 206, euro 22, a cura di Antonio Cimino) dove si respira in altre forme e linguaggi la stessa aria jüngeriana: il dominio planetario della tecnica, la rivoluzione conservatrice, il realismo eroico, il potere di cui i potenti sono esecutori e non dignitari, la guerra e la mobilitazione, la scomparsa dell'umano. E affiora esplicito il nome di Jünger. Sullo sfondo, come un'allusione che vuol restare in ombra, la tragedia della Germania e dell'Europa.

Quel che alla fine apre all'apocalittico Jünger uno spiraglio di luce nella notte è l'Amor fati, l'accettazione istintiva del destino. «Tutto ciò che accade è adorabile» scrive Jünger citando L´on Bloy. E una leggera euforia attraversa il paesaggio catastrofico, quasi una musica sorgiva tra le rovine e gli automi.

(di Marcello Veneziani)

martedì 27 marzo 2012

La resistenza accusata di genocidio


La malinconica profezia espressa da Piero Buscaroli nel suo bel libro, Dalla parte dei vinti (Mondadori) secondo la quale la memoria degli sconfitti del 1945 sarebbe stata per sempre condannata all’oblio non si avvererà.

Luis Moreno Ocampo, procuratore capo della Corte penale internazionale dell’Aia ha accolto la domanda che chiede l’apertura di un’inchiesta per la morte di Lodovico Tiramani (milite scelto della Guardia nazionale repubblicana) e di altri quattrocento appartenenti alla Repubblica sociale, trucidati dalle bande partigiane. L’ipotesi di reato è genocidio. Il Tribunale dell’Aia ha risposto così al figlio di Tiramani, Giuseppe, che, attraverso la consulenza del suo legale Michele Morenghi, ha chiesto l’apertura del procedimento tramite una memoria dove si sostiene che: «Mio padre fu prelevato nei pressi di casa sua a Rustigazzo nel piacentino nel luglio del ’44 da un gruppo partigiano della brigata Stella Rossa, fu processato e condannato a morte senza un giudice, senza un comandante partigiano e senza una sentenza a verbale. Fu fucilato poche ore dopo nei pressi del Monte Moria. Mia madre lo trovò crivellato di colpi. Io non voglio vendette, ho già perdonato tutti coloro che uccisero mio padre, abitavano nel mio paese e li ho conosciuti personalmente dopo la guerra. Chiedo sia fatta giustizia per il suo caso e per tutti gli altri combattenti della Repubblica sociale uccisi in quegli anni nel piacentino».

Luis Moreno Ocampo, procuratore capo della Corte penale internazionale dell’Aia ha accolto la domanda che chiede l’apertura di un’inchiesta per la morte di Lodovico Tiramani (milite scelto della Guardia nazionale repubblicana) e di altri quattrocento appartenenti alla Repubblica sociale, trucidati dalle bande partigiane. L’ipotesi di reato è genocidio. Il Tribunale dell’Aia ha risposto così al figlio di Tiramani, Giuseppe, che, attraverso la consulenza del suo legale Michele Morenghi, ha chiesto l’apertura del procedimento tramite una memoria dove si sostiene che: «Mio padre fu prelevato nei pressi di casa sua a Rustigazzo nel piacentino nel luglio del ’44 da un gruppo partigiano della brigata Stella Rossa, fu processato e condannato a morte senza un giudice, senza un comandante partigiano e senza una sentenza a verbale. Fu fucilato poche ore dopo nei pressi del Monte Moria. Mia madre lo trovò crivellato di colpi. Io non voglio vendette, ho già perdonato tutti coloro che uccisero mio padre, abitavano nel mio paese e li ho conosciuti personalmente dopo la guerra. Chiedo sia fatta giustizia per il suo caso e per tutti gli altri combattenti della Repubblica sociale uccisi in quegli anni nel piacentino».

Eppure autorevoli testimoni di quella guerra fratricida, che si trasformò in tiro al piccione, sapevano. Sapevano e tacquero. Benedetto Croce, ad esempio. Dalla lettura dei Taccuini di guerra del vecchio filosofo, editi solo nel 2004, emerge con forza il timore che la guerra partigiana possa trasformarsi in una rivoluzione «comunistico-socialista», che, in breve, avrebbe consegnato l’Italia a un altro totalitarismo, forse più spietato, come andava dimostrando con abbacinante chiarezza la «liberazione» di Polonia, Ungheria e degli altri paesi danubiani e balcanici, operata dalle truppe sovietiche, coadiuvate dalle formazioni partigiane comuniste. La rivelazione della strage di Katyn, avvenuta da parte dell’Armata Rossa, tra marzo e maggio del 1940, confermava in Croce questo timore, quando anche in Italia si era appreso dell’«eccidio fatto dai russi di migliaia di ufficiali polacchi, che erano loro prigionieri». La minaccia di una sovietizzazione imposta con la violenza, scriveva il filosofo, si avvicinava anche al nostro paese. Era già attiva nelle regioni orientali esposte alle violenze delle «bande di Tito». La si scorgeva serpeggiare nella gestione dell’epurazione antifascista delle strutture statali «maneggiata dai commissari comunisti» che tentavano di attuare «un’infiltrazione del comunismo», perpetrata «contro le garanzie statutarie, conto le disposizioni del codice, per modo che nessuno è più sicuro di non essere a capriccio fermato dalla polizia, messo in carcere, perquisito».

Tutto questo avveniva, in ossequio alla «rivoluzione vagheggiata e sperata». E sempre in ossequio a quel progetto eversivo, le regioni settentrionali dell’Italia, controllate dagli elementi estremisti del Cnl, divenivano il teatro di stragi di massa contro fascisti, ma più spesso contro vittime del tutto innocenti. L’8 agosto 1945 la famiglia Croce riceveva la visita di un conoscente «che ci ha commossi col racconto del fratello incolpevole, non compromesso col fascismo, ucciso con molti altri a furia di popolo a Bologna». Nella stessa pagina del diario, si annotava: «In quella città gli uccisi sono stati due migliaia e mezzo, tra questi trecentocinquanta non identificati».

Tra il vero antifascismo e resistenza si scavava, con questa testimonianza, un abisso profondo. Si alzava uno steccato, che soltanto la costruzione di una memoria contraffatta di quegli anni terribili ha potuto per molto tempo celare.

(di Eugenio Di Rienzo)

I partiti tirano a campare e preparano il dopo Monti

Nella stagione del sonno della politica, l’Italia si scopre guidata da un governo tecnico che sembra, al momento, apprezzare. Con la crisi economica sembra che ogni fiducia nei partiti, che appaiono inadeguati se non colpevoli, sia stata spazzata via. Una crisi senza ritorno? Può darsi, o forse no. Di sicuro è un periodo in cui i cambiamenti ribollono, e sarà importante capire dove andranno. Linkiesta ne ha parlato con Marco Tarchi, politologo, ordinario di Scienza politica all’Università di Firenze e ideologo della Nuova Destra, esperienza che finirà nel 1994.

Un’opinione politica: cosa pensa dell’operato del governo Monti? Sono in molti a definire la sua guida, più che tecnica, politica. Che significa?

Come è stato da più parti notato, nessun governo può prescindere da caratteristiche politiche, perché il suo operato deve riscuotere il consenso di un’istituzione politica fondamentale come il parlamento. Però il governo Monti è stato promosso da Napolitano, ed è riuscito ad ottenere la fiducia di una composita maggioranza parlamentare, perché viene percepito come “non politico”, e per lo stesso motivo – anzi, in questo caso perché gli si attribuisce connotati nettamente alternativi a quelli della politica professionale, e in un certo senso quindi “antipolitici” – ha finora ottenuto un gradimento elevato presso l’opinione pubblica. Gradimento che, però, è certamente destinato a scendere via via che l’esecutivo dovrà affrontare (e sciogliere) nodi che coinvolgono interessi configgenti, come già si vede nel caso della riforma del mercato del lavoro. Perché, usando i termini del tutto convenzionalmente, le soluzioni prospettate appaiono “di destra” e inevitabilmente dispiacciono “a sinistra”. In questo caso, il fatto di raccogliere personalità di provenienza non partitica non è sufficiente a proteggersi da dissensi e contestazioni. Anzi: in molti sedicenti tecnici, chi dissente scorge il profilo inquietante di interessi economici e/o finanziari tutt’altro che coincidenti con il presunto interesse generale o nazionale. Resta il fatto che io sono fra coloro che giudicano il varo del gabinetto presieduto da Monti il segno di una sconfitta della politica, che ormai da decenni è profondamente condizionata dall’economia ma sinora era riuscita a “salvare la faccia” della propria ipotetica indipendenza, o quantomeno autonomia, dai poteri che contano, e adesso mostra la sua sostanziale impotenza di fronte ad essi.

Forse proprio da queste discussioni emerge la difficoltà di distinguere la destra e la sinistra, e si ha l’impressione che le categorie siano superate. O è solo la difficoltà dei partiti a declinarle secondo i tempi nuovi?

Lungi dal considerarle estinte, io da decenni considero destra e sinistra categorie utili soltanto se usate in termini convenzionali e relativi. Non vi scorgo, diversamente da Bobbio ed altri, alcuna essenza permanente di fondo. Credo poi che, anche quando le si utilizza come “segnalatori di posizione” su questa o quella questione – per dirla con Giovanni Sartori – ci si debba guardare dall’immaginare, con un eccessivo cedimento ai tipi ideali, che la maggioranza delle persone assuma coerentemente e costantemente atteggiamenti di destra, di sinistra o di centro in ogni campo. È vero il contrario: spesso si può essere più “a destra” di altri su un determinato tema – tanto per fare qualche esempio: su temi bioetici, di ordine pubblico, di politica internazionale, economici, di organizzazione della società… - e più “a sinistra” di quelle stesse persone su altri. Quando ci si attacca feticisticamente a queste etichette, è perché si ha timore di esercitare liberamente il proprio senso critico. Non stupisce, peraltro, che molte volte siano i partiti a sbandierarle. Dato che i residui di sistemi forti e coesi di credenze – le vituperate ideologie di un tempo – sono, nei programmi e nelle scelte pratiche dei partiti, sempre più sbiaditi, per ottenere un surplus di consensi dagli elettori è tuttora utile puntare su un elemento emotivo: il senso di appartenenza, di identificazione, ereditato da tradizioni familiari o dall’influenza del contesto locale. Non so quanto a lungo durerà questa situazione, ma la ritengo destinata a logorarsi sempre più, perché le grandi fratture socioculturali odierne – citiamone un paio (ma ce ne sono molte): quelle relative alle tematiche ambientali e ai dilemmi culturali e organizzativi proposti dalle società multietniche – non rispecchiano più il vecchio spartiacque sinistra/destra.

Non solo destra e sinistra, però. Anche i partiti non stanno bene. È la fine di un’epoca? Cosa dovrebbero fare in questa “pausa” i partiti per ritrovare voti e creare nuove idee?

Non siamo di fronte alla fine di un’epoca, ma a una seria crisi congiunturale. Non credo a quanti, ancora una volta, profetizzano il tramonto dei partiti, perché le democrazie rappresentative sono state strutturate in modo tale da farne il perno del rapporto fra sfere decisionali e cittadinanza, e non si è mai riusciti a sostituirli con altri soggetti. Movimenti e comitati possono catalizzare, caso per caso, umori ed attenzioni del pubblico, ma sono, per loro natura, instabili ed effimeri. I gruppi d’interesse trovano molto più conveniente agire per tramite di altri soggetti che assumendosi in prima persona il difficile compito di procacciarsi consensi. La democrazia continua e diretta, per via elettronica o referendaria, è, allo stato attuale delle cose, un’utopia. Gli esperimenti di “democrazia procedurale” sono suggestivi e possono facilitare la risoluzione di contrasti su talune politiche pubbliche, ma non penso possano andare oltre questo ambito. Quindi i partiti resteranno. Cosa potrebbero fare per rilanciarsi? Procedere ad un rinnovamento radicale del proprio modo di interpretare le funzioni che le leggi e le consuetudini assegnano loro. Il primo passo dovrebbe essere il concepire l’azione politica, per dirla con Max Weber, come una vocazione piuttosto che – come oggi è – come una (lucrosa) professione. Ma la vedo difficile, per cui ritengo che ancora a lungo la crisi dei partiti proseguirà.

Intanto, con Monti sono sparite anche le promesse di Berlusconi. Penso al federalismo, alla sperequazione tra nord e sud: tutto è stato cancellato dall’emergenza economica e della necessità della crescita. Più che il passaggio a uno stile più sobrio, ci sono linee di discontinuità più forti. O no?

Il clima di emergenza ha sempre l’effetto di rimescolare le carte in seno all’opinione pubblica, dettando un cambiamento netto di agenda. La caduta di Berlusconi – e in primo luogo lo scompaginamento del suo eterogeneo agglomerato politico-elettorale di sostegno, il Pdl – è stata determinata dall’improvvisa drammatizzazione della “sfiducia dei mercati” e della questione del debito pubblico – grave, ma invano denunciata per decenni da sparuti osservatori, solitamente fatti passare per Cassandre. In nome e per conto di questa urgenza si è affermata quella sorta di “stato di eccezione” che ha portato al governo Monti. Il resto non poteva che passare in secondo piano. Ma i quesiti irrisolti rimangono, e prima o poi sono destinati a ritornare a galla, a far riemergere consolidate divisione e a suscitarne di nuove.

Per molti, dopo Monti non ci sarà altra scelta se non un “terzo polo” moderato, fatto dai montiani di Pd e Pdl, insieme a Udc, Fli e altre forze centriste. Servirebbe a completare le riforme di questo governo ed evitare il collasso dell’economia. Funzionerebbe?

Non lo credo, ma non escludo che questo possa essere, nel breve periodo, lo sbocco di questa fase di “commissariamento” della politica. Ciò accadrà soprattutto se i sondaggi continueranno a lasciare gli attuali partiti, e le coalizioni che potrebbero formare, incerti sui risultati elettorali e sulla possibilità di formare governi sorretti da maggioranze almeno teoricamente solide. Credo però che, se si accedesse a questa sorta di “grande coalizione” di emergenza, la diffidenza degli elettori crescerebbe ancora e si aprirebbero spazi piuttosto vasti a forze di opposizioni nettamente connotate – non penso solo a Lega, Sel o Italia dei Valori, ma anche al movimento Cinque stelle di Grillo. Molti degli sviluppi futuri dipenderanno però anche dal sistema elettorale con cui verrà eletto il prossimo parlamento.

Esistono alternative a questo modello? Se sì, quali potrebbero essere, allo stato attuale delle cose?

Certo che esistono. Occorrerebbe però ricostituire partiti e/o coalizioni che abbiano culture politiche, programmi e prassi coesi e coerenti. Il che comporterebbe lo scioglimento e la rifusione di aggregati e sigle oggi esistenti, per l’ennesima volta dopo gli anni Ottanta. Non mi pare che ci troviamo di fronte a una simile possibilità. Un “tirare a campare”, per adesso, mi pare l’ipotesi più probabile.

E come si potrebbe costruire una politica più forte nel contesto globale e internazionale di oggi, in cui sembra che l’economia detti le leggi alla politica?

La questione è di amplissima portata. Per rispondere esaurientemente, bisognerebbe chiamare in causa gli elementi fondamentali dello “spirito del tempo” che è venuto formandosi nel secolo scorso, a seguito soprattutto delle due svolte epocali del 1945 e del 1989. Viviamo in un contesto, prima di tutto psicologico, che è ben descritto dalla teoria di Fukuyama sulla “fine della storia”, spesso mal interpretata. Si pensa che, per evitare ulteriori gravi conflitti mondiali, il mondo debba essere retto da un’unica regia e sulla base di un unico spartito, che è quello dettato dalla logica del capitalismo. In questo contesto, la subordinazione della politica all’economia è considerata, implicitamente o esplicitamente, un elemento di rassicurazione dal rischio di eccessivi conflitti. Agitando spauracchi e spettri – il nazionalismo, la xenofobia, l’autoritarismo… – e allineandosi dietro la bandiera dei diritti dell’uomo (che consente il sistematico ricorso alle maniere forti contro i riottosi, di volta in volta denunciati come flagelli dell’umanità) si cerca di mantenere indefinitamente uno status quo in cui la politica non può che essere ostaggio delle volontà dei poteri economici.

Chi intravede, tra i personaggi politici attuali, che può essere in grado di creare nuove forme politiche? Per molti, questo è il periodo di Casini e del cattolicesimo moderato. Lei è d’accordo?

Non esagererei. Che Casini possa creare “nuove forme politiche” mi sembra un’aspettativa spropositata. Già fatica a creare un Terzo polo che sia davvero tale, e se non avesse potuto profittare dell’occasione offertagli dal governo Monti, le tre o quattro componenti interne al suo progetto forse starebbero già andando in ordine sparso. Casini può avvalersi delle contingenze per espandere il suo ruolo e la consistenza elettorale dell’Udc, qualora il Pdl accentui l’attuale crisi; il che potrebbe anche promuoverlo a successore “politico” di Monti, ma la prospettiva è tutt’altro che certa. Di creatori di nuove forme politiche di governo, non ne vedo in giro. Forse qualcosa di più dinamico può apparire sul versante dell’opposizione: il già citato Movimento Cinque stelle ne è un esempio. Ma anche lì iniziano ad apparire sintomi disgregativi.

Che direzioni potrebbero avere i partiti della destra berlusconiana? Quali sono i temi portanti che possono ridisegnare un’identità nuova dopo l’uscita di scena di Berlusconi?

In tutta Europa, le destre che avanzano sono quelle che la vulgata comune definisce populiste. Ad alimentarle sono i timori e i problemi suscitati dalla difficoltà di far fronte alle conseguenze della globalizzazione, prima di tutto la trasformazione delle società in senso multietnico a causa dei forti flussi migratori, con gli interrogativi sull’opportunità o meno di adottare criteri multiculturali per assicurarne la governabilità. Dubito che gli eredi del Pdl si inoltreranno su questa strada. Resta loro aperta l’altra via: un conservatorismo moderato, sobrio nei modi e incerto nei contorni ideologici e programmatici – alla Sarkozy, alla Cameron, alla Merkel. Non so quanto sia atto ad incontrare il consenso diffuso degli italiani. Attendiamo e vedremo.

lunedì 26 marzo 2012

La destra prima della fiamma


La Biblioteca Scientifica della fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice ha pubblicato "La destra prima della fiamma" interessante saggio di Guido Jetti, dedicato alla storia del Partito fusionista italiano, la prima organizzazione politica di destra costituita in Italia dopo la crisi del fascismo.

La storia del Pfi ebbe inizio nel 1944 nella Bari occupata dagli angloamericani, città in cui Pietro Marengo, un ex combattente dotato di straordinaria attitudine al giornalismo, fondò e diffuse un foglio semi clandestino e cautamente postfascista, Il Manifesto.

Nelle dichiarate intenzioni di Marengo, Il Manifesto, uscito dalla clandestinità nell'aprile del 1945, doveva diventare "il giornale degli italiani che non hanno perduto la fiducia, che credono in una nuova Italia, non in una povera Italia".

Di qui la rivendicazione del nazionalismo professato dal partito di Corradini, Federzoni e Paolucci, "assorbito di malavoglia nei ranghi fascisti, dopo la marcia su Roma".

Marengo non risparmiava critiche al regime fascista e tuttavia chiedeva al governo di "perdonare con una larga, generosa, indimenticabile amnistia i fascisti. Perdonate tutti coloro che agirono in buona fede, tutti coloro che le esigenze della vita costrinsero a percorrere una strada che, senza Mussolini e la guerra, non avrebbero mai percorso".

In una fase storica segnata dagli eccessi dell'antifascismo, l'impresa giornalistica di Marengo riscosse uno straordinario successo nella società dei benpensanti. Il numero dei lettori fu talmente alto da suggerire la fondazione di un partito, il Partito fusionista italiano, che si costituì ufficialmente a Bari nell'aprile del 1946.

Nella vasta e fluida area occupata dai potenziali elettori di destra si muovevano intanto alcune personalità dotate di attitudini alla propaganda, di senso storico (Carlo Delcroix aveva insegnato loro che la politica non si fa contro la storia) e di esperienza organizzativa, quali Guglielmo Giannini, Pino Romualdi (nella foto n.d.r.), Franco De Agazio, Giovanni Tonelli, Emilio Patrissi, Alberto Giovannini.

Le elezioni comunali dell'ottobre 1946 dimostrarono che l'elettorato di destra possedeva i numeri necessari a condizionare e da correggere la Dc, un partito disturbato dalle suggestioni del progressismo.

Purtroppo le rivalità impedirono la costituzione di un'alleanza tra i movimenti della destra, avviando quella devastante macchina delle rivalità che spianò la strada all'affermazione dei partiti nostalgici, espressione di una destra destinato all'emarginazione. Una soluzione favorevole al desiderio democristiano di non avere efficaci concorrenti a destra. Desiderio appagato dal voto del 18 aprile del 1948 che segnò la frantumazione-contrazione della destra i tre liste, Blocco nazionale, Partito nazionale monarchico e Movimento sociale, che ottennero complessivamente 39 seggi contro i 305 della democrazia cristiana.

Il testo di Jetti costituisce un prezioso contributo all'accertamento degli errori all'origine del naufragio della destra politicante e dello scialo insensato dell'ingente eredità del Novecento italiano. L'insuccesso del partito di Pietro Marengo segna l'inizio dell'implosione e della conseguente metamorfosi liberale della destra italiano. Non tutto il male vien per nuocere, tuttavia: la parabola della falsa destra, ultimamente affondata nelle sabbie mobili della finanza iniziatica, suggerisce una riflessione sull'ideale fusionista - il ritorno del patriottismo alla radice cattolica - che fu anticipato da un collaboratore del Manifesto, Mario Giordano, il quale proclamava: "Isseremo la bandiera della Patria e accanto alzeremo la Croce, perché sulla nostra bandiera vi sia la luce di Dio nostro Signore".

(di Piero Vassallo)

Quei nostalgici che non si rassegnano al tramonto delle idee


Eccoli, i nostalgici. Dopo la guerra, finito il fascismo, un gruppo di ventenni che avevano appena sfiorato da ragazzi la Repubblica Sociale, si ritrovano in gruppi, cenacoli, riviste. Il Msi, per loro è troppo poco, è un partito, roba da parlamento, mentre loro vogliono essere un’aristocrazia, il fior fiore. Per esempio I figli del Sole. Un nome pagano, quasi esoterico, che scopre Julius Evola e Massimo Scaligero. Il loro leader è Enzo Erra, vi aderiscono Pino Rauti, Giano Accame, Fausto Gianfranceschi, Primo Siena. A fianco, in quel piccolo ma vivacissimo mondo, altre testate, altri ragazzi nostalgici sfidano il loro tempo: Piero Buscaroli, Silvio Vitale, Clemente Graziani, Gabriele Fergola, Vanni Teodorani, Roberto Melchionda, Fabio De Felice, Fausto Belfiori, Egidio Sterpa, Franco Petronio, Angelo Ruggiero e tanti altri. Di loro racconta la storia e le succinte biografie un libro-amarcord appena uscito di Sergio Pessot e Piero Vassallo, I figli del Sole (Novantico Editore, pagg. 280, euro 22).

Quel piccolo mondo in realtà è diviso in tre filoni culturali: quello sociale e nazionale che si richiama a Gentile, quello aristocratico-pagano che si richiama a Evola, quello cattolico tradizionale. A volte si accendono dispute anche furenti. A chi, come Mirko Tremaglia, all’epoca militante nella sinistra missina, ironizza sui figli del sole, Accame replica che loro invece, i fascio-sociali, sono «figli dell’intestino».

In questi stessi giorni, uno di loro, che vive ormai da decenni in Cile ma ha lasciato il cuore in Italia e in quell’Italia, Primo Siena, dedica un libro a La perestroika dell’ultimo Mussolini (Solfanelli, pagg. 282, euro 19). Arricchito da una prefazione di Giuseppe Parlato, il libro di Siena, oggi 85enne, ipotizza come si sarebbe evoluto il fascismo senza il trauma finale: dal cesarismo dittatoriale verso una democrazia organica. La linea di Salazar e Dollfuss e in parte di Franco. Fondatore nei primi anni ’50 di una rivista, Cantiere, e poi a fianco di Gaetano Rasi con Carattere, Siena cerca di unire la sua idea sociale, nazionale e cattolica.

Un altro libro nostalgico ci riporta a quegli anni: è Perché uccisero Mussolini e Claretta (Rubbettino, pagg. 216, euro 16) di Luciano Garibaldi e Franco Servello che nella sua ultima edizione riporta documenti rilevanti sulle omissioni e le responsabilità del Pci non solo nell’uccisione di Mussolini e della Petacci ma anche nella sparizione del cosiddetto oro di Dongo. Il libro ripercorre un’inchiesta che fece nell’immediato dopoguerra Franco De Agazio, zio di Servello, che fu ucciso per le sue scottanti indagini dalla Volante rossa nel 1947.

I figli del Sole, il sogno proibito dei nostalgici, il ricordo di De Agazio e di molti scrittori e giornalisti morti negli ultimi tempi (Accame, Erra, Gianfranceschi), l’estrema, tenace memoria degli ultimi testimoni. La Spoon River di una generazione fiera che non diventò classe dirigente politica ma si disperse in tanti rivoli, pur serbando una disperata coerenza.

(di Marcello Veneziani)