martedì 29 dicembre 2009

Gli amori generosi di d’Annunzio alla Capponcina

Dodici anni della sua “vita inimitabile” Gabriele d’Annunzio li trascorse sui colli intorno a Firenze, a Settignano, nella villa “La Capponcina”. Nel marzo 1898, il Vate, ebbro di amori e glorie, si era messo in cerca di uno spazio «claustrale» (si fa per dire...) che fungesse da «dimora serena» e da «fervida officina». E così aveva incaricato Benigno Palmerio, un veterinario abruzzese che viveva nella città gigliata, di trovargli «una villa signorile, lontana dai rumori della strada, collocata piuttosto in alto e nascosta il più possibile nel verde genuino della campagna».
Benigno ce la mise tutta per farlo contento. E alla fine la Capponcina, vecchia villa del ’400, appartenuta una volta alla famiglia dei Capponi, e allora di proprietà del marchese Giacinto Viviani della Robbia, divenne l’eletta dimora dell’Imaginifico. E Benigno il suo segretario-amministratore. Nonché «amico, confidente e confessore». E, ricordiamolo, medico dei suoi amati cani.
In seguito, si sarebbe fatto anche biografo-memorialista del Poeta, con questo libro che, edito da Vallecchi nel 1938, l’anno stesso della morte di d’Annunzio e sua, viene ora riproposto in anastatica dalle Lettere (Con d’Annunzio alla Capponcina, a cura di Marco Marchi, pp. 267, euro 32).
Che dire? Se è vero che ormai sappiamo tutto circa i fecondi anni fiorentini di d’Annunzio (nacquero allora “La Gioconda”, “La Gloria”, “Francesca da Rimini”, “La Gloria”, “La fiaccola sotto il moggio”, “ Più che l’amore”, “Fedra” e le “Laudi”), il libro di Palmerio vale comunque da devota testimonianza. Intendiamoci: il veterinario è intenzionato a offrire ai posteri un «documento», ma subisce il fascino del Vate. Così, se è vero che si impegna a registrarne le debolezze, ne mette soprattutto in risalto il «candore» e «l’ineguagliabile bontà». Sì, d’Annunzio ha le mani bucate ed è pieno di debiti, ma perché troppo generoso, specie con le sue donne.
Ma d’Annunzio, sin da quando, ventenne, aveva rapito e poi sposato la duchessina Maria Hardouin di Gallese (che gli avrebbe dato tre figli), poi sostituita dalla principessa sicula Maria Gravina (che gliene avrebbe dati due), a sua volta rimpiazzata con la Divina Eleonora Duse (che abitava a due passi dalla “Capponcina”, nell’altrettanto celebre “La Porziuncola”), a sua volta congedata per la marchesa Alessandra di Rudini (poi Suor Maria di Gesù, a espiazione delle dissolutezze), era stato o no un impenitente donnaiolo? E non lo sarebbe rimasto per sempre?
Il sin troppo benigno Benigno dice di no: «D’Annunzio non era affatto un gaudente, nel senso che comunemente si dà a questa parola. Egli amava l’amore; e la donna, le donne, non erano che il visibile e tangibile appoggio di questa sua più alta e più grande passione. Nella costante ricerca di un’anima nuova con cui confessarsi, e d’un corpo nuovo da godere, egli pagava di persona, di cuore, assai più di quanto troppo lontani e troppo sommari, e forse troppo ipocriti giudici poterono pensare e dire». Insomma, a ogni abbandono, chi soffriva davvero era lui, l’Orbo Veggente, orbato (in via provvisoria...) di un corpo e di un’anima.
(di Mario Bernardi Guardi)

martedì 22 dicembre 2009

Dall'Algeria alla Cina. Se il Vangelo fa paura


Non è facile dirsi cristiani nella Babele «global». La Santa Sede monitora i paesi dove la fede in Gesù è vietata o contrastata da jihadisti asiatici e africani, comunisti atei, fanatici indù o nazionalisti buddisti. Dalla Nigeria al Vietnam, dallo Yemen alla Cina, dall’Algeria all’Indonesia. Il Novecento è stato il secolo con il maggior numero di martiri cristiani e il terzo millennio si è aperto seguendo la stessa striscia di sangue. Ai tempi di Maometto lo Yemen era un regno cristiano che ospitava i musulmani in fuga dalla Mecca prima della conquista islamica. Ora gli yemeniti martirizzano i cristiani. Persecuzioni come in Sudan o divieti come in Afghanistan, una delle nazioni meno raggiunte dal Vangelo, composta da 70 popoli ma quasi nessuno conosce Cristo.

La cristianità assediata spazia dall’Algeria (dove il proselitismo è proibito e le minoranze non musulmane devono tenere un profilo basso), all’Arabia Saudita dove è lecito praticare solo l’Islam e i lavoratori stranieri (filippini e indiani) non possono riunirsi in un luogo pubblico per pregare e per leggere la Bibbia. Nell’Azerbaigian musulmano i cristiani sono addirittura considerati la «quinta colonna dei nemici russi e armeni»: la maggior parte delle città e dei villaggi azeri non sono mai stati evangelizzati. In Bangladesh i 18 tentativi di colpo di stato negli ultimi 25 anni sono sfociati nell’introduzione della Sharia e in discriminazioni tribali verso i cristiani come il divieto di usare l’acqua dei pozzi dei musulmani. In Bielorussia i testi religiosi sono censurati, in Cina tra i 70 milioni di cristiani le bibbie circolano clandestinamente, in Nord Corea è vietata qualunque forma di religione ad eccezione dell’ideologia atea «juche» (l’uomo deve redimere se stesso). Chi viene trovato con un Vangelo finisce in lager dai quali quasi nessuno esce vivo. A scuola i bambini vengono spronati alla delazione, anche dei loro genitori.

A Cuba cattolici e protestanti hanno il marchio governativo di «parassiti sociali». I fedeli sono imprigionati e le chiese distrutte. In Eritrea, ex colonia italiana, i missionari stranieri sono nel mirino dei fondamentalisti islamici, mentre in India gli indù radicali moltiplicano gli episodi di violenza indù contro i cristiani e molti stati hanno varato leggi «anti conversione». In Indonesia gruppi islamici hanno lanciato la «Jihad» distruggendo 700 chiese e uccidendo 9mila fedeli: il governo pianifica la migrazione di musulmani nelle aree tradizionalmente abitate dai cristiani. Ahmadinejad in Iran ha deciso di impedire le conversioni con misure rigide: le chiese non osano più accogliere gli (ex) musulmani per paura di spie e ritorsioni. In Iraq gli islamici che si ribellano all’occupazione anglo-americana prendono di mira i luoghi sacri dei cristiani. Risultato: un esodo di massa. Nelle Isole Comore esistono 780 moschee, ma nessuna chiesa, in Kuwait l’Islam è la religione di stato, solo i musulmani possono diventare cittadini, l’evangelizzazione è proibita. Il governo scoraggia il cristianesimo dando incentivi economici ai musulmani e acquista grandi quantità di Bibbie per poi bruciarle. In Libia la letteratura cristiana può entrare nel Paese solo segretamente, gli incontri religiosi sono monitorati dai servizi di sicurezza.

Alle Maldive i cristiani praticano i loro culti solo in privato, in Malesia il permesso di costruire nuove chiese non viene quasi mai accordato e in Marocco le missioni sono proibite, i convertiti subiscono l’allontanamento forzato dalle loro famiglie, la perdita del lavoro, la prigione. In Mauritania la liberta religiosa non esiste e la legge coranica impedisce ai cittadini di entrare nelle case dei non musulmani. Chi segue Gesù rischia la pena di morte. In Nigeria la maggioranza musulmana del nord nega i diritti civili ai cristiani, spesso picchiati e uccisi. La Siria, invece, non consente l’evangelizzazione aperta e per i missionari stranieri la residenza è impossibile. In Somalia la «Sharia» viene applicata da giudici auto costituiti: i non musulmani subiscono fustigazioni, lapidazioni e sono costretti a emigrare. Non va meglio con il nazionalismo buddista. Nello stato himalayano del Bhutan il cristianesimo è ufficialmente vietato dal 1969 e perseguitato dal ‘96: i cristiani non possono mandare i figli a scuola, ottenere un impiego governativo, creare un’azienda, tenere riunioni in casa. Vengono incarcerati, torturati e, se non rinnegano la fede, espulsi. Le autorità dello Sri Lanka associano il cristianesimo al colonialismo, agli stranieri. Chiese e credenti sono assediati dall’intolleranza buddista.

Usura, chiesto rinvio a giudizio per i vertici del Banco di Sardegna


Concorso in usura con l'aggravante dell'esercizio dell'attività bancaria. Sono raccolte nelle 363 pagine della relazione del perito Francesco Leo, uno dei massimi esperti in Italia di contenzioso bancario, le motivazioni che hanno portato il sostituto procuratore di Nuoro, Mariangela Passanisi, a chiedere il rinvio a giudizio di 11 persone, tra cui i vertici attuali e passati del Banco di Sardegna. Sotto inchiesta gli ultimi quattro presidenti dell'istituto di credito sardo (compreso quello attuale), due direttori di banca, due funzionari, un'impiegata e due avvocati dell'Ufficio recupero crediti del servizio legale dello stesso istituto: tutti devono difendersi, a vario titolo, dall'accusa di aver preteso da una coppia di pensionati interessi ritenuti usurai.

Gli indagati sono gli ex presidenti Lorenzo Idda, Antonio Maria Sassu e Ivano Spallanzani e l'attuale numero uno del Banco Franco Antonio Farina; due direttori di banca di Macomer, Giuseppe Secchi e Giuliano Tronci; un'impiegata di Macomer, Giuliana Faedda; due avvocati del servizio legale, Salvatore Angelo Sanna (responsabile dell'ufficio) e Franco Sanna (attuale amministratore delegato di Equitalia Sardegna); e due funzionari dell'Ufficio recupero crediti, Andrea Masia e Annamaria Pisanu. L'estate scorsa l'allora titolare dell'inchiesta, il pm Daniele Rosa, aveva depositato l'avviso di conclusione delle indagini preliminari, basate sugli accertamenti del nucleo di polizia tributaria della Guardia di Finanza e su una perizia realizzata dallo studio professionale Kipling s.a.s, uno dei più importanti in Italia nel settore dell'usura bancaria.

Le presunte vittime di quello che la Procura di Nuoro ipotizza come uno strozzinaggio, sono due pensionati di Bosa: Giovanni Maria Madeddu, commerciante di 78 anni, e sua moglie Giovanna Cadau. Dopo aver venduto una casa nel centro del paese e un terreno a due passi dal mare, per far fronte a un debito che sembrava non finire mai, i due coniugi hanno rischiato, prima dell'intervento della magistratura, di vedersi vendere all'asta l'ultimo bene rimasto, la casa dove hanno sempre vissuto.

Sono Mohamed, mi hanno rubato il Natale


Salve, sono Mohamed Venez-Janiì, bambino musulmano di anni dieci. Stamattina ero contento di andare a scuola perché dovevamo andare a vedere il presepe e a festeggiare con i canti di Natale. Invece stamattina la maestra ha detto che per rispetto nei miei confronti si resta in classe e non si festeggia Natale. Gesù Bambino è troppo offensivo per noi islamici, ha detto, la Madonna vergine, devota e madre, è un insulto ai diritti delle donne, i Re Magi sono tre offese alla Costituzione repubblicana, gli Angeli sono una presa in giro dei trans, il bue e l’asinello sono un’offesa ai diritti degli animali ridotti a termosifoni della grotta, e il panettone è un insulto consumista alla fame nel mondo. Ma il Natale tutto, ha detto, mortifica quelli come me, che non sono cristiani, ci offende e ci prende pure in giro perché ci riduce nel presepe a beduini, pastori e cammellieri. Ma la maestra non sa che per noi islamici beduini non è un’offesa, e nemmeno pastori e cammellieri. Mio zio è cammelliere e ha pure le capre e io da grande volevo fare il beduino. Comunque Natale non si festeggia per rispetto mio. La maestra della classe accanto, più furba, ha trasformato il Natale in festa della luce: io non lo so, perché vengo da lontano, ma forse a Natale si festeggia la santa natività dell’Enel. La maestra del piano di sotto, invece, non ha fatto festeggiare e ha spogliato l’albero di tutte le palle luminose perché quattro ladri hanno rubato l’insegna ad Auschwitz; ma non ho capito che c’entra con Gesù Bambino.
Non vi dico la rabbia che mi ha preso quando ci ha detto che non si andava più a cantare «Tu scendi dalle stelle» e non si mangiava più il panettone per rispetto di noi islamici. E non solo mi sono arrabbiato perché ci hanno tolto una bella mattinata di festeggiamenti, ma questa cosa che non si festeggia perché ci sono io musulmano mi ha fatto odiare per la prima volta da tutti i miei compagni di classe perché hanno capito che a causa mia e della mia famiglia non si festeggia Natale e non si canta ma si interroga e si fanno i compiti. Mi hanno preso per uno che piange e si arrabbia se gli altri festeggiano, non ama il Bambinello e detesta la Madonna come il Panettone. Dicono che vengo dalla Rabbia saudita. Non mi invitano più alle feste perché pensano che io sono contrario e gliela tiro. Vedono me, mia madre Fatima e mio padre Alì, come guastafeste e anche un poco terroristi. E invece non è vero: a me piace Natale e a casa mia di solito a Natale si mangia l’Agnellone perché pure per noi è una mezza festa, mi è simpatico il Bambinello, la gente intorno al presepe è tutta delle parti mie, non c’è nemmeno un personaggio padano o inglese. Tutti mediorientali come me. Salvo gli angeli che sono come le hostess degli aerei, vivono in cielo e non hanno una terra loro.
Questa storia che si deve rispettare me che sono islamico mi ha stufato. Il giorno prima della festa di tutti i santi, la mia maestra ha detto che non dobbiamo festeggiare perché si offendono non solo gli islamici, gli ebrei e i non credenti ma pure i protestanti. Poi, d’accordo con il capo d’istituto, ci ha riuniti tutti intorno alla cattedra e ha tolto dal muro il crocifisso. Ha detto che quel segno lì, sperduto sul muro a fianco alla lavagna, che non avevo mai notato, offendeva me e tutti quelli che come me non credono e non pregano per Cristo. A me è dispiaciuto vedere quel poveretto magro magro e già sofferente, pieno di sangue e con quei chiodi conficcati nelle mani e nei piedi, finire in una busta di plastica e andare chissà dove; raccolta differenziata, almeno spero. I miei amici dicevano: ma che ti ha fatto Gesù Cristo, che ha fatto alla tua famiglia? E io non sapevo cosa dire perché non mi aveva fatto niente, non mi offendeva affatto, mi faceva pena. Mio padre ne aveva parlato pure bene, diceva che era un profeta, comunque una brava persona. E non ce l’aveva con noi musulmani né tifava per gli americani anche perché quando c’era lui, non c’erano ancora né l’Islam né l’America.
Ma ora che la maestra ha tolto il crocifisso, l’albero, il presepe, la festa di Natale, i canti e le preghiere perché offendevano me, una mia amichetta ha detto: ma perché sei così incazzuso e ti offendi per ogni cosa che abbiamo e festeggiamo noi? Ma io non mi offendo affatto, è lei, la maestra, che dice così. Ho paura che ci toglieranno pure Pasqua perché offende noi musulmani. Ho paura che si inventeranno qualcosa per toglierci pure le vacanze dell’estate e diranno che non si fanno perché noi musulmani odiamo il mare e preferiamo il deserto. Bugia, a me piace il mare. Io non so perché voi italiani vi vergognate di fare le cose che avete sempre fatto, di far vedere agli altri le cose che vi piacciono da sempre; non volete farci capire che pure voi avete un dio, solo che lo chiamate e lo vedete in altro modo. Ho l’impressione che questa maestra - che legge la Repubblica ma siccome è pluralista, come dice lei, porta a volte in classe l’Unità, Il fatto e Il manifesto - trova la scusa che c’è in classe l’islamico ma è lei che non sopporta il Natale. Forse perché s’annoia, forse perché da bambina perdeva a tombola, forse perché il marito la trova racchia, o non so, perché detesta la Croce, il Papa e tutti i suoi dipendenti. A me il presepe piace; mi piace meno quel panzone vestito di rosso, Babbo Natale, che mi sembra un pagliaccio carico di vizi, pensa solo a ingrassare e a farci ingrassare e mi fa pure paura perché è travestito. Anzi una volta ho chiesto alla maestra come si dice di uno che ama i bambini? E lei mi ha detto «pedofilo». Babbo Natale allora è pedofilo. Perché non lo mettete in galera? Ma poi non dite che lo fate per rispetto del bambino islamico. Smettetela perché se andiamo avanti così, nessuno mi invita più a giocare insieme. Non avete capito che a forza di rispettarmi, mi state escludendo da ogni vostra festa. Comunque ora che non ci sente la maestra dico la parolaccia: Buon Natale.

(di Marcello Veneziani)

lunedì 21 dicembre 2009

Sulla canonizzazione di Pio XII ai non cattolici giova tacere


È evidente che questo non è, non può essere, un articolo obiettivo. Per la semplice ragione che nella questione del processo di canonizzazione di Eugenio Pacelli, papa Pio XII, nulla vi può essere di obiettivo. La faccenda riguarda esclusivamente la Chiesa e il mondo cattolico.

La canonizzazione è l'atto formale conclusivo, di natura canonica e liturgica, con il quale la Chiesa cattolica, dopo un'attenta escussione delle fonti e delle prove cui chiunque può liberamente accedere come testimone - una vera e propria inchiesta istruttoria - dichiara che qualcuno è con certezza nella Gloria di Dio, e come tale degno di venerazione in quanto, appunto, "santo": nel dichiarare un santo, secondo il dogma cattolico, la Chiesa è assistita da una speciale grazia dello Spirito Santo ed è pertanto infallibile. L'infallibilità è prerogativa eccezionale che la Chiesa rivendica a se stessa in pochissimi casi: quando il papa parla ex cathedra, quando il Sacro Collegio proclama un dogma, quando viene appunto canonizzato un santo e in genere - come si esprime il Concilio Vaticano II - "il collegio episcopale quando, in comunione con il vescovo di Roma, converge su una decisione definitiva in materia di fede e di morale".

Chi si professa cattolico, non può porre in dubbio l'infallibilità del papa e del collegio episcopale nei pochissimi casi in cui il dogma lo prescrive: e il dogma, al pari di un postulato matematico, è indimostrabile, indiscutibile e irrefutabile. Su ciò, bisogna essere molto chiari. I cattolici sono tenuti a rispettare il dogma: chi non lo fa, non può più dirsi cattolico; chi cattolico non è, non viene minimamente toccato dalla questione dogmatica, poiché egli legittimamente nel dogma non crede ed esso non lo riguarda.

La Chiesa italiana viene spesso accusata di "ingerenza" nelle questioni della società civile: e non si capisce perché, dal momento che sono i prelati, i sacerdoti e i fedeli appunto italiani, e in quanto cittadini, a discutere di cose italiane, come hanno il pieno diritto e il dovere civico di fare. Al contrario, non si capisce proprio con quale diritto dei non-cattolici - siano essi dei cittadini "laici", come si usa dire, o degli aderenti ad altre confessioni cristiane o ad altre fedi religiose - possano sentirsi in diritto d'interloquire sulla scelta dei santi cattolici, processo riguardante esclusivamente la Chiesa e che si svolge secondo princìpi e metodi che le sono propri ed esclusivi. Nel 1963 lo scrittore tedesco Rolf Hochhut mise in scena un dramma, Il vicario, nel quale - riprendendo accuse già formulate da Camus e da Mauriac - egli accusava duramente Pio XII di non essere intervenuto con sufficiente energia per impedire, o almeno per denunziare, il genocidio compiuto dai nazisti nei confronti degli ebrei durante la seconda guerra mondiale.

Al riguardo, le polemiche non sono mai cessate. Allora, essi furono sostenute in Italia da ambienti che non avevano mai digerito la ferma condanna, da parte di papa Pacelli, dell'ateismo comunista (che era coerente con la linea dell'enciclica Divini Redemptoris del suo predecessore Pio XI). Oggi, significativamente, il dramma di Hochhut e le vecchie polemiche contro il Pastor angelicus vengono riprese. Il Teatro Filodrammatico di Milano ha rimesso in scena Il vicario, e Hochhut si è fatto sentire per dichiarare che, se dovesse riscriverlo oggi, calcherebbe ancora di più la mano in quanto persuaso dell'"antisemitismo" del pontefice. La Chiesa, gli studiosi cattolici, l'opinione pubblica hanno parlato abbastanza di tutto questo. Non c'è più da dar ascolto a polemiche interessate, a voci in malafede, a dichiarazioni strumentali.

Ma la parola spetta solo agli organismi ecclesiali preposti all'esame dei fatti e delle prove: se essi riterranno infondato il parere di chi sostiene ancora che Pio XII non s'impegnò abbastanza in favore dei perseguitati, o che peggio ancora fu complice obiettivo della persecuzione, e riterranno quindi che anche in quel caso Pio XII esercitò "in grado eroico" le virtù cristiane, lo eleveranno alla Gloria degli Altari. Tale la prerogativa esclusiva e insindacabile della Chiesa. A quel punto, le proteste saranno solo un vano tentativo d'intimidazione e d'ingerenza; e chi protesterà sarà fuori dalla Chiesa. Non c'è altro da aggiungere.

(di Franco Cardini)

sabato 19 dicembre 2009

La Croce contro la Svastica: il conflitto fra Terzo Reich e Vaticano


È di recente uscita il volume storico di Luciano Garibaldi «O la Croce o la Svastica. La vera storia dei rapporti tra la Chiesa e il nazismo». Si tratta dell’avvincente racconto, nel consueto stile del giornalista e storico, di un conflitto ideologico-politico durato dodici anni, tanti quanti ne trascorsero dalla presa del potere da parte di Hitler in Germania, per giungere alla fine della seconda guerra mondiale. Un conflitto del quale si sa poco, troppo spesso equivocato da false o incomplete ricostruzioni storiche, alle quali l’autore si è riproposto di porre fine.

Luciano Garibaldi, quali furono veramente i rapporti tra la Chiesa di Roma e il Terzo Reich?

Vengo subito al cuore del problema. Il primo febbraio 1933 Hitler prese il potere e s’impegnò a “proteggere fermamente il cristianesimo”. Ma ben presto rivelò le sue vere intenzioni. Una serie di soprusi e violenze ai danni della Chiesa cattolica spinse Pio XI a promulgare l’enciclica “Mit brennender Sorge”. L’assassinio del presidente dell’Azione Cattolica di Berlino, che si era dimostrato solidale con gli ebrei ed aveva pregato con loro, segnò l’inizio di un’autentica persecuzione: soppressione delle scuole cattoliche, chiusura della stampa confessionale, arresto dei suoi direttori, ondata di processi-farsa contro il clero. In Austria, dopo l’Anschluss, ovvero l’annessione al Terzo Reich, si giunse al saccheggio e all’incendio delle scuole cattoliche e del palazzo arcivescovile di Vienna.

Chi furono i prelati più attivi contro il regime nazista?

Un ruolo fondamentale fu svolto dal futuro Beato Clemens von Galen, vescovo di Muenster. Fu lui, assieme al vescovo di Berlino Konrad von Preysing, suo cugino primo, a schierare la Chiesa cattolica tedesca contro il nazismo e a dar vita ad una lotta senza quartiere contro Alfred Rosenberg e il suo “Mito del XX secolo”, il razzismo.

Quale fu il ruolo di Eugenio Pacelli, il futuro papa Pio XII, allora segretario di Stato, in quelle circostanze?

Furono ben settanta - anche se pochi lo sanno - le note di protesta del segretario di Stato Eugenio Pacelli al governo di Hitler. Conseguenza delle sue iniziative fu la esplicita accusa contro Pacelli, appena asceso al soglio pontificio, contenute nei rapporti segreti di Reinhard Heydrich, il promotore della “soluzione finale”, ai Gauleiter, i capi delle province tedesche: «è schierato a favore degli ebrei, è nemico mortale della Germania ed è complice delle potenze occidentali». Del resto, parole inequivocabili di condanna del nazismo sono contenute nei due radiomessaggi pronunciati dal Pontefice in occasione del Natale del 1941 e del Natale 1942. Ma già nel 1939, allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, con l’enciclica “Summi Pontificatus”, si era schierato apertamente in difesa degli ebrei. E quando era ancora segretario di Stato, aveva pubblicato alcuni articoli dedicati al nazismo su “L’Osservatore Romano”, in uno dei quali aveva scritto che il partito di Hitler non è “socialismo nazionale”, ma “terrorismo nazionale”.

Qualche episodio specifico e poco conosciuto?

In Germania, la lotta al nazismo partì dal pulpito di una chiesa di Colonia, allorché un famoso gesuita, padre Josef Spieker, esclamò: «La Germania ha un solo Führer, ed è Cristo!». Fu il primo religioso cattolico a finire in campo di concentramento. Riuscirà a salvarsi e a scrivere le sue memorie. Non così quattromila suoi confratelli, che nei Lager nazisti immoleranno le loro vite. Tale fu, infatti, il contributo di sangue che sacerdoti, suore e religiosi tedeschi dovettero pagare alla svastica.

È vero che Hitler ordinò di fare prigioniero il Papa e rinchiuderlo in una fortezza del Lieschtenstein, sull’esempio di quanto, un secolo e mezzo prima, aveva fatto Napoleone Buonaparte con Pio VI e Pio VII?

Sì, ed è un evento storico che ho accertato e raccontato io, per la prima volta, molti anni fa. Fu dopo la disfatta di Stalingrado che Hitler impartì al generale delle SS Karl Wolff l’ordine di predisporre l’arresto del Papa e il suo trasferimento nel Liechtenstein. «Il Vaticano», queste le sue parole, «è un covo di cospiratori contro l'Asse. Bisogna occuparlo, arrestare Pio XII e i suoi cardinali e sottoporli alla nostra autorità». Wolff prese tempo e tergiversò, finché il Führer si decise a rinunciare al progetto. Il generale lo aveva convinto del fatto che, dopo l’occupazione di Roma da parte dei tedeschi e lo stretto controllo esercitato sul Vaticano, non era più necessario eseguire il rapimento. Ma Wolff, che, dietro le pressanti richieste di molti cardinali, aveva fatto sospendere l’esecuzione di parecchie condanne a morte (il che gli varrà il proscioglimento a Norimberga), aveva un piano preciso: lanciare un ponte verso gli angloamericani. E il Papa fece da intermediario, agevolando la resa di un milione di uomini nelle mani degli Alleati.

Nel suo libro c’è anche un capitolo dedicato ai preti filonazisti.

Effettivamente, all’interno della Chiesa non mancarono punte di filonazismo. Un caso clamoroso fu quello di monsignor Alois Hudal, rettore del Collegio di Santa Maria dell’Anima di Roma, chiamato “il vescovo bruno”. Di antisemitismo fu accusato anche monsignor Jozef Tiso, divenuto presidente della Repubblica Slovacca dopo la conquista della Cecoslovacchia da parte della Wehrmacht e la divisione del Paese in due tronconi. Ma Hudal non ottenne mai il credito che si attendeva dalla Santa Sede, mentre Tiso fu declassato per ordine di Pio XII. Nel campo protestante, Ludwig Müller, autoproclamatosi Reichsbischof, “vescovo del Reich”, aveva dato vita alla Chiesa dei Deutsche Christen, il cui statuto contemplava l'Arierparagraph, il “paragrafo ariano” che prometteva guerra incondizionata agli ebrei. Punte di antisemitismo non si ebbero invece mai nei ranghi dei cattolici schierati con Hitler.

Ha anche dedicato un capitolo alle donne cattoliche tedesche che si opposero al nazismo.

In effetti, nella storia delle iniziative poste in atto dal mondo cattolico per attenuare le conseguenze della persecuzione antiebraica giganteggiano alcune figure femminili. Tra esse, Margarethe Sommer, animatrice della “Hilfswerk Berlin”, l’opera di soccorso agli ebrei fondata da monsignor Lichtenberg e sostenuta dal vescovo di Berlino, e Gertrud Luckner, infaticabile dirigente della Caritas e organizzatrice, a Friburgo, di un centro per favorire l’emigrazione clandestina degli ebrei verso la Svizzera. Egualmente luminose le storie di madre Matylda Getter, la suora polacca che salvò migliaia di ebrei, e della ungherese Margit Slachta, fattasi suora dopo essere stata, nel 1920, la prima donna eletta nel Parlamento di Budapest. Senza dimenticare Germaine Ribière, che a Parigi diede vita all’organizzazione “Amitié Chrétienne”.

Da chi, come lei, ha scritto un libro come «Operazione Walkiria», non ci si poteva non attendere un approfondimento sul ruolo avuto dalla Chiesa cattolica nell’attentato a Hitler del 20 luglio. Quali le novità in proposito?

In merito al complotto del 20 luglio, un dubbio non è mai stato risolto: è vero che il colonnello Von Stauffenberg, fervente cattolico e amico del vescovo di Berlino, prima di compiere l’attentato, andò da lui a confessarsi, ottenne l’assoluzione e si comunicò? Nelle mie pagine, ho cercato di chiarire l’enigma che da allora intriga gli storici e il popolo cristiano. E che va collegato con la durissima repressione che, dopo il fallito Putsch, colpì non solo gli ambienti militari, ma anche il mondo cattolico, con centinaia di sacerdoti e religiosi arrestati, impiccati o mandati a morire nei Lager.

Perché ancora in molti si ostinano a considerare Pio XII un Papa antisemita e filonazista?

Le calunnie hanno le gambe lunghe. Gli storici schierati a sinistra che - per vendicarsi dell’anticomunismo di Pio XII - sparsero fango sulla sua memoria, sono però positivamente contrastati da moltissimi ebrei, anche famosi, che si sono schierati in sua difesa: Albert Einstein, Golda Meir, Martin Gilbert, Michael Tagliacozzo, Gary Krupp, Elio Toaff, William Zuckermann. Nomi di altissimo prestigio che prima o poi, ne sono certo, riusciranno a convincere i loro correligionari facendo trionfare la verità.

venerdì 18 dicembre 2009

L’“inquinamento” di cui si tace a Copenhagen

I bombardamenti israeliani a Gaza del 2006 e del 2009 hanno lasciato sul terreno forticoncentrazioni di metalli tossici, che possono provocare nella popolazione leucemie, problemi di fertilità e gravi effetti sui nuovi nati, come malformazioni e patologie di origine genetica. Questi metalli sono in particolare tungsteno, mercurio, molibdeno, cadmio e cobalto.
E' il risultato di uno studio condotto da New Weapons Research Group (Nwrc), una commissione indipendente di scienziati basata in Italia che studia l'impiego delle armi non convenzionali e i loro effetti di medio periodo sui residenti delle aree in cui vengono utilizzate. Il gruppo di lavoro del Nwrc ha esaminato 4 crateri: due provocati dai bombardamenti del luglio 2006, uno nella città di Beit Hanoun e uno nel campo profughi di Jabalia, e due provocati da bombe sganciate nel gennaio 2009 a Tufah, sobborgo di Gaza City. Inoltre ha analizzato la polvere residua all'interno del guscio di una bomba (THS89D112-003 155mm M825E11) al fosforo bianco esplosa vicino all’ospedale di Al Wafa, nel gennaio 2009.Lo studio ha messo a confronto i livelli di concentrazione dei metalli rilevati nei crateri con quelli indicati in un rapporto sulla presenza di metalli nel suolo di Gaza, realizzato attraverso il campionamento di 170 luoghi, pubblicato nel 2005.
Le analisi hanno rilevato anomale concentrazioni di questi metalli nei crateri, indicando una contaminazione del suolo che, associata alle precarie condizioni di vita, in particolare nei campi profughi, espone la popolazione al rischio di venire in contatto con sostanze velenose per via cutanea, respiratoria e attraverso gli alimenti.
“Il nostro studio – spiega Paola Manduca, che insegna genetica all'università di Genova, portavoce del New Weapons Research Group – indica una presenza anomala di elementi tossici nel terreno. Occorre intervenire subito per limitare le conseguenze della contaminazione su persone, animali, e colture. Occorrono strategie di sostegno per le persone contaminate. Auspichiamo – aggiunge – che le indagini fino ad ora svolte dalla commissione Goldstone, voluta dalle Nazioni Unite, vadano oltre l’analisi del rispetto dei diritti umani, e prendano in considerazione e gli effetti sull’ambiente provocati dall'uso di varie tipologie di bombe e le ricadute sulla popolazione nel tempo. Una rapida raccolta di dati può essere realizzata secondo modalità che molti scienziati possono descrivere agevolmente e programmare”.

Uranio, due probabili casi in Sardegna


Solo tre giorni fa è stata diffusa la notizia di una nuova vittima dell'uranio impoverito: un militare pugliese di 29 anni morto dopo una missione in Somalia. Ora l'Associazione vittime uranio fa sapere che ci sono altri due casi probabili di contaminazione. Riguardano un militare e un ex militare, entrambi della provincia di Cagliari. «Un sottufficiale dei carabinieri di 45 anni - spiega il legale dell'associazione Bruno Ciarmoli - sta combattendo con un linfoma non Hodgkin che gli è stato diagnosticato al rientro da una missione in Bosnia nel 2001-2002. L'uomo ha presentato la domanda per il riconoscimento della causa di servizio nel 2004, ma non ha ancora ricevuto risposta. A un ex militare dell'Aeronautica di 32 anni nel 2003 è stato diagnosticato un linfoma di Hodgkin maligno alle vie respiratorie».

L'aviere aveva prestato servizio di leva nel 97/98 al poligono di Capo Teulada, dove ha svolto diverse mansioni nella polveriera, effettuando i servizi di guardia armata e sparando ai poligoni. «A febbraio-marzo '98 c'è stata una grande concentrazione di trasporto e deposito armi e munizioni presso tutta la base - ha raccontato all'associazione l'ex militare, oggi 32enne -. I militari venivano così a contatto con casse di munizioni abbandonate. I medici hanno supposto che la mia malattia può essere stata provocata dalle micropolveri inalate nel poligono».

giovedì 17 dicembre 2009

Perché non vado ad Annozero

Ieri (mercoledi n.d.r.) ho ricevuto il cortese invito della redazione di Annozero a partecipare alla puntata di domani (giovedì n.d.r.) dedicata ai fatti di Milano. Ho altrettanto gentilmente risposto di no. E la ragione è una sola: la presenza in quel programma di Marco Travaglio. Penso infatti sia giunta l'ora in cui anche chi di noi non ha fatto del moralismo una professione debba cominciare a sollevare qualche pregiudiziale morale. E io ne ho molte nei confronti di Travaglio.

La prima è che si tratta di un sedicente combattente per la libertà di infomazione che sta facendo una campagna di stampa il cui obiettivo dichiarato è la chiusura di un giornale, quello che dirigo (lui pensa che sia possibile, abrogando solo per noi i contributi all'editoria). Trovo la cosa moralmente ributtante.

Del resto Travaglio è lo stesso cattivo maestro che, citando un suo sodale, ha scritto l'altro giorno sul blog di Grillo un elogio dell'odio: «Chi l'ha detto che non posso odiare un uomo politico? Chi l'ha detto che non posso augurarmi che il Creatore se lo porti via al più presto?». Con uno così non vorrei mai trovarmi nella stessa stanza.
Tutto ciò sempre ammesso che Travaglio sia davvero e ancora un giornalista, visto che si esercita ormai apertamente nella fiction, recitando da attore testi le cui fonti le sa solo lui, ma ciò nonostante la tv pubblica lo paga sempre come giornalista. Evitare ogni contatto è dunque anche questione di deontologia professionale. In più c'è un problema di civiltà; lui non è una persona civile, vive di insulti, come quello che ha rivolto ieri ai giornalisti di Speciale Tg1: «Chiunque ha avuto lo stomaco di vedere quella merda di trasmissione...».
Io non credo, come ha detto ieri Cicchitto a Montecitorio, che Travaglio sia un «terrorista mediatico», perché paura non ne fa a nessuno. Ma un parassita mediatico certamente lo è. E, per dirla con Togliatti, sarebbe bene che nessun destriero offrisse più a questa cimice ospitalità nella sua criniera.

(di
Antonio Polito)

Una donna non può essere sacerdote. Dagli apostoli a Wojtyla, ecco perché


Caro Direttore, nei giorni scorsi se lo chiedeva in un articolo il collega Aldo Cazzullo, dispiaciuto dal rarefarsi dei candidati ai seminari, con l' abbandono di quei «presidi» anche sociali che sono le parrocchie. Scriveva, dunque: «Non capisco perché una donna non possa diventare sacerdote. Cosa le manca?

Quale motivazione teologica lo impedisce?». Domande che, in questi mesi, si sono poste altri, davanti al rientro nella Chiesa cattolica, dopo quasi mezzo millennio di separazione, di una parte consistente della Comunità anglicana. Due le motivazioni principali del «ritorno all' ovile»: l' ordinazione sacerdotale di omosessuali praticanti e, prima ancora, l' ordinazione di donne. Possibile, ci si è chiesto, che toccare, qui, il monopolio maschile possa costituire un tale scandalo da provocare rivolta anche tra cristiani «non papisti»?

Ebbene, sì: in una prospettiva di fede, il problema è radicalmente diverso da quello del matrimonio per i consacrati, problema di disciplina ecclesiale sul quale è possibile il dibattito, pur non dimenticando che non sono in gioco solo questioni di opportunità. Per l' ordinazione di donne, invece, siamo davanti a una sorta di intangibile «elemento costitutivo» della Chiesa non solo cattolica, ma anche ortodossa: in tutto l' Oriente greco e slavo la sola proposta di sacerdoti femmine provocherebbe prima stupore e poi, insistendo, sdegno o ilarità.

Il tema è così basilare che, nel suo debordante insegnamento, solo in due occasioni Giovanni Paolo II è sembrato fare appello, almeno nei toni, al carisma della infallibilità: è avvenuto sul rifiuto, sempre e comunque, di ogni legittimità dell' aborto; e sul rifiuto, appunto, del sacerdozio femminile. In effetti, nella Pentecoste del 1994, papa Wojtyla indirizzava una Lettera apostolica ai vescovi di tutto il mondo con il titolo «Ordinatio Sacerdotalis».

Un testo breve e secco che terminava con parole inequivocabili: «Al fine di togliere ogni dubbio su una questione di grande importanza, che attiene alla stessa divina costituzione della Chiesa, in virtù del mio ministero di confermare i fratelli, dichiaro che la Chiesa non ha in alcun modo la facoltà di conferire a donne l' ordinazione sacerdotale e che questa nostra sentenza deve essere tenuta in modo definitivo da tutti i fedeli della Chiesa». Potremmo dunque vedere, in un futuro indefinito, preti cattolici sposati (come nell' ortodossia i pope, ma non i vescovi) ma non vedremo mai, parola di Giovanni Paolo II, parroci donne. Ginofobia, tabù sessuali, maschilismo? Niente affatto, replicava il Papa: «Il fatto che Maria Santissima, Madre di Dio e della Chiesa, non abbia ricevuto la missione propria degli apostoli né il sacerdozio ministeriale, mostra chiaramente che la non ammissione delle donne all' ordinazione non può significare una loro minore dignità o una discriminazione... Il ruolo femminile nella vita e nella missione della Chiesa, pur non essendo legato al sacerdozio ministeriale, resta assolutamente necessario e insostituibile».

Così - lo dicevamo - Oriente e Occidente cristiani hanno creduto e praticato sin dagli inizi, tanto che la Tradizione indivisa, qui, non ha subito alcuna eccezione in duemila anni. Ma perché questa intransigenza? Si possono trovare, certo, motivi di convenienza e di opportunità, si può fare appello a una ricca simbologia. Ma, alla fine, ricorda papa Wojtyla, il motivo di fronte al quale il credente deve inchinarsi, è quello enunciato da Paolo VI, che pure allineò molti e non irrilevanti argomenti umani: «La ragione vera è che Cristo, dando alla Chiesa la sua fondamentale costituzione, seguita poi sempre dalla Tradizione, ha stabilito così». E Giovanni Paolo II confermava: «Nell' ammissione al servizio sacerdotale, la Chiesa ha riconosciuto come norma il modo di agire del suo Signore nella scelta di dodici uomini che ha posto a fondamento della sua Chiesa». E solo uomini scelsero quegli apostoli per loro successori, in una catena maschile che giunge sino a noi. La Chiesa cattolica è, a livello istituzionale, la sola, vera «monarchia assoluta» sopravvissuta.

Il Papa vi può tutto, vi è supremo legislatore, esecutore, giudice. Può tutto, tranne contraddire alla Scrittura e alla Tradizione, indiscussa e ininterrotta, che l' ha interpretata. Siamo davanti a uno dei casi in cui anche gli onnipotenti pontefici romani spalancano le braccia: «Anche se volessimo, non possumus. Così il Cristo ha stabilito e noi non siamo che suoi esecutori. Obbediamo a una rivelazione, non a una ideologia umana». Situazione, certo, comprensibile solo in una prospettiva di fede. Ma per dirla ancora con papa Wojtyla alla fine della sua Lettera apostolica: «I più grandi nel regno dei cieli non sono i preti, sono i santi». E di questi ultimi con nome femminile vi è abbondanza nel calendario cattolico. Come ricordò proprio quel Papa, tra i milioni di pellegrini di Lourdes pochi sanno il nome del parroco e forse nessuno quello del vescovo nel 1858. Ma tutti conoscono e venerano la piccola analfabeta che Maria scelse come sua portavoce e che la Chiesa, gestita da uomini, pose sugli altari, onorando questa «storia tra donne».

(di Vittorio Messori)

mercoledì 16 dicembre 2009

Freda: "Io colpevole? Ho attuato il mio credo"


In mezzo ai tanti misteri che avvolgono la storia delle stragi, secondo la Corte di Cassazione c’è almeno una certezza: l’eccidio di piazza Fontana fu organizzato da «un gruppo eversivo costituito a Padova nell’alveo di Ordine Nuovo» e «capitanato da Franco Freda e Giovanni Ventura». Così hanno scritto i giudici della Suprema Corte, nel 2005, nella sentenza che mandava assolti i neofascisti veneziani Carlo Maria Maggi e Delfo Zorzi. Freda e Ventura non sono però processabili in quanto «irrevocabilmente assolti dalla Corte d’assise d’appello di Bari», che li ha condannati solo per altre bombe sui treni. Franco Freda ha 68 anni: a Padova ha sede la sua casa editrice, le Edizioni di Ar. Nel catalogo libri di Hitler, Mussolini, Goebbels, Evola, Drieu La Rochelle, Nietzsche. All’inizio dell’anno prossimo sarà chiamato a testimoniare al processo per la strage di piazza della Loggia Brescia. Nel 2001, quando fu interrogato per piazza Fontana, quando gli fu rivolta la prima domanda esordì così: «Le chiedo scusa signore, lei chi è?». «Sono il pubblico ministero», fu la risposta. E lui: «La riverisco». Freda, che ha scontato 14 anni di carcere, concede molto di rado interviste. Quella che segue è stata effettuata con domande e risposte scritte.

Freda, la Cassazione ha scritto che «il giudizio circa la responsabilità di Freda e Ventura in ordine alla strage di piazza Fontana non può che essere uno: la risposta è positiva».

«Nel corso di procedura penale che seguivo all’università di Padova, mi veniva insegnato che il giudicato aveva una specie di valore-efficacia sacramentale. Io sono stato condannato a quindici anni per aver guidato una sodalità eversiva, il Gruppo di Ar: lo riconosco come mio titolo d’onore. Sono stato invece assolto per la strage di piazza Fontana da due corti di assise del popolo italiano. E ora, in una dialettica giudiziaria in cui sono necessariamente assente perché coperto dal giudicato, un minuscolo scriba intende, in modo surrettizio, vergognosamente spregiativo del sacramentum rei iudicatae, insinuare dichiarazioni sulla mia colpevolezza? Sottolineando questo non reclamo l’insurrezione dei garantisti. Mi limito a far notare l’aberrazione dello stesso diritto che dovrebbe governare le istituzioni della democrazia».

La sua casa editrice, le Edizioni di Ar, ha pubblicato un libro che si intitola «Piazza Fontana: una vendetta ideologica». Qual è la tesi?

«Nell’intenzione della sua autrice il testo mira ad applicare le categorie della morale nietzscheana al processo politico per piazza Fontana, riconnettendo il fatto cruento, e la sua proiezione nella polemica processuale, alla dinamica di quella guerra civile e politica cominciata con l’8 settembre ’43».

Lei ritiene verosimile la tesi oggi più accreditata, e cioè che nel corso della Guerra Fredda gli Stati Uniti si siano serviti della collaborazione di uomini dei servizi segreti italiani per creare una strategia della tensione che evitasse il pericolo di uno spostamento a sinistra dell’asse politico italiano?

«Suvvia! Questa Italia coloniale che si prende tanto sul serio da ritenere di essere campo di battaglia a stelle e strisce!»

Crede verosimile che in questa strategia ci sia stata una collaborazione del mondo neofascista italiano?

«Si riferisce a quel “mondo” che oggi occupa alcuni ministeri nel governo attuale? Non crede che costoro, più che efferati, siano degli innocenti? Nel senso napoletano del termine...»

Secondo molti magistrati la sua militanza politica non si è limitata a diffondere idee ed opinioni, ma anche a compiere atti eversivi.

«Ossia questi minustrati mi rimproverano di aver “predicato bene e razzolato bene”?... Entro i limiti umani di un miliziano, la mia milizia politica ha cercato di attuare ciò che il sentimento del mondo in cui mi riconosco suggeriva».

Lei non ha mai fatto mistero delle sue idee, vicine al fascismo e al nazionalsocialismo. È ancora di quelle opinioni, o ritiene che appartengano a una fase storica superata?

«È insano cercare nei rivoli ciò che si può attingere dalla fonte": così ammonisce Boccaccio. La fonte cui ho inteso volgermi è altra dai fascismi, intemporale. Ma confermo la mia personale venerazione nei confronti del Fuehrer e del Duce».

Dottor Freda, posso chiederle, se vota, per chi vota?

«Porre questa domanda a me, ostile alla democrazia? Lei è persona garbata: perché questa provocazione oscena?»

Se dovesse dire qualcosa ai parenti delle vittime di quella strage, che cosa direbbe?

«Il rispetto mi pare debba comporsi di silenzio, di pudore, di riserbo, di discrezione».

Secondo lei chi ha messo la bomba in piazza Fontana?

«Il “secondo me” è un vezzo essenzialmente democratico. È il lievito di quel chiacchiericcio retorico, ipocrita e superficiale con cui ci si stordisce per non interrogare il mistero, per non farsi interrogare da esso».

Chi grida al tiranno legittima il "tirannicidio"

Al di là della campagna d’odio e d’insulti contro Berlusconi che ha l’alibi di essere reciproca, c’è un motivo preciso e unilaterale che basta da solo a legittimare la violenza contro il premier: è l’accusa, rivolta da Di Pietro, un pezzo di sinistra, varia stampa, tv e intellettuali, di essere un tiranno. D’ora in poi dev’essere chiara una cosa: chiunque definisce tirannide o regime fascista il governo di Berlusconi si assume la responsabilità politica e civile di mandante morale delle aggressioni subìte da Berlusconi e di ogni altro eventuale attentato.

Perché si sa che per abbattere il tiranno è ammesso anche il tirannicidio, lo dice anche la giurisprudenza liberale e democratica. In difesa della libertà e dei diritti umani si può anche uccidere il dittatore. Saddam docet. E se si giudica tiranno Berlusconi, se lo si definisce pubblicamente in questo modo, si legittima l’attentato contro di lui e si ritiene lecita ogni violenza pur di eliminare il despota. Se Berlusconi eguale Mussolini, poi, è possibile anche fare di Piazza Duomo un nuovo Piazzale Loreto perché è ammesso perfino il massacro e lo scempio del dittatore, secondo i medesimi civilissimi, democraticissimi e umanissimi signori. Ora torniamo al caso nostro, a Berlusconi.

L’evidenza della realtà smentisce che siamo anche vagamente in una dittatura. In una tirannide chi esprime queste accuse al tiranno viene infatti perseguitato, incarcerato, eliminato; invece assistiamo da svariato tempo a libere denunce televisive e giornalistiche di tirannide del governo Berlusconi senza alcun effetto nei confronti di chi lo denuncia, sia esso politico, giornalista o semplice cittadino. Persino i precedenti aggressori di Berlusconi non sono stati neanche ventiquattr’ore in carcere e chi lo ha aggredito verbalmente in tribunale ha ricevuto pure il plauso della magistratura perché la sua critica aveva utilità sociale, con la lode aggiuntiva di averla pronunciata in tribunale. La smentita più evidente che siamo in una tirannide è l’incolumità assoluta di chi pronuncia questa dura accusa, il suo permanere indisturbato nel pieno esercizio del suo ruolo di oppositore, giornalista e ospite televisivo. Una tirannide, anche velata, non ammette il dissenso, soffoca le voci ostili, sopprime i suoi avversari.

Da noi invece coloro che dicono di trovarsi in una dittatura si presentano tranquillamente alle elezioni, aumentano perfino i loro consensi mentre perdura la presunta dittatura; esternano quotidianamente e con grande risonanza pubblica, camminano indisturbati per le strade, nessuna sopraffazione, manipolazione o pressione impedisce il libero esercizio della loro denuncia. Ora, dopo aver accusato il premier - oltre che mafioso, buffone, corrotto, erotomane e altro - di essere tiranno e dittatore fascista, e perfino coinvolto nelle stragi di mafia, sia ben chiaro a tutti che ogni atto violento troverà in questa accusa così palesemente falsa e tendenziosa, atta a turbare l’ordine pubblico, la sua origine e il suo mandante, politico, morale e culturale. Questo sia ben chiaro in modo particolare alla sinistra radicale, alla stampa e alla tv giacobina, ai delinquenti di facebook che inneggiano a quel criminale, ai dipietristi che parlano di dittatura fascista, alle rosybindi e a tutti coloro che usano simili espressioni per demonizzare e abbattere Berlusconi. Solo un irresponsabile può parlare di dittatura.

Lo scrivevamo già prima che accadesse il fattaccio, denunciando la settimana scorsa il clima; ma oggi c’è la dimostrazione evidente, le parole si sono fatte sangue. Così come solo una bestia idiota e feroce può dire davanti alla maschera di sangue di Berlusconi: non faccia la vittima. Bestia idiota perché nega l’evidenza atroce e sanguinosa della realtà, bestia feroce perché riesce a non provare neanche un filo di umana e cristiana pietà di fronte al viso tumefatto e insanguinato di una vittima della violenza e dell’odio. Ho letto articoli decisi nella condanna del gesto, in questi giorni, ma ho letto anche articoli ipocriti che velavano l’odio e quasi il compiacimento per l’accaduto con un’untuosa e affettata solidarietà; e ne ho letti perfino di spregevoli (per esempio quello di Alberto Statera su la Repubblica). Ora vorremmo un ritorno alla serietà, un ritorno al senso dello Stato, una presenza incisiva delle istituzioni e delle forze dell’ordine. Vorremmo che il governo governasse, punto e basta.

In piena sovranità, in piena legittimità, con un pieno mandato popolare, senza doversi perdere fra le trame e gli attentati giudiziari e stradali, parlamentari e istituzionali, di questi ultimi mesi. Un periodo di operoso silenzio e di tacito recupero della fiducia nell’azione del governo, delle istituzioni e delle forze dell’ordine. Un atto di responsabilità generale che isoli la violenza e non incoraggi la vendetta, con la certezza che entrambe sarebbero stroncate con la dovuta energia. Mi sono rifiutato di partecipare al programma Annozero di Santoro previsto sull’argomento. Da tempo rifuggo la tv rissosa e faziosa, rifiuto di partecipare a programmi fatti apposta per scannarsi (e mi sottraggo pure allo scemeggiare della tv fatua, che ogni tanto vuol darsi una tintura di impegno civile e culturale).

Non sono il burattino o il mastino di nessuno, e perciò non vado a eccitare le tifoserie o a farmi eccitare per inveire; e non amo nemmeno godermi in poltrona altri burattini e mastini all’opera. Vorrei che finisse nel nostro Paese il piacere della corrida tra umani, il gusto della rissa in video e in pubblico, vorrei che fossero disertate da attori e spettatori queste immonde sceneggiate, che cadessero in un nauseato silenzio. Vorrei tornare alla civiltà del pensare e dell’agire, allo stile e all’educazione, al rispetto e alle idee; una comitiva di profughi dall’Italia, senza permesso di soggiorno.

(di Marcello Veneziani)

"Crimini di guerra, arrestate la Livni". E' scontro diplomatico Israele-Londra


È diventata alla fine una grana diplomatica - con tanto di proteste ufficiali e minacce di conseguenze sulle relazioni bilaterali - la vicenda del mandato d’arresto emesso e poi ritirato da un giudice britannico nei confronti dell’ex ministro degli Esteri e attuale leader dell’opposizione centrista israeliana, Tzipi Livni.

Un provvedimento originato da una denuncia per crimini di guerra presentata da esponenti della comunità locale di origine araba in relazione all’offensiva "Piombo Fuso" dell’inverno scorso, e cui Israele ha reagito oggi a muso duro: chiedendo al governo di Sua Maestà azioni politiche contro «gli abusi giudiziari». Inizialmente smentito, l’ordine di cattura contro la Livni in realtà è stato in vigore. Almeno per qualche ora. Tanto da far saltare all’ultimo momento una sua visita in Gran Bretagna, dietro lo schermo di imprecisate «ragioni di calendario».

Un episodio imbarazzante e non inedito nei rapporti recenti fra i due Stati, che non poteva restare senza risposta dopo essere divenuto di dominio pubblico. E a cui il ministero degli Esteri israeliano ha in effetti replicato stamattina con un comunicato dai toni ruvidi, nel quale si rigetta l’iniziativa come «un atto cinico» e si chiede al governo di Gordon Brown di rispettare gli impegni presi per «mettere fine alla commedia degli errori» e «prevenire gli abusi giudiziari» ispirati da «elementi estremisti»: pena «un danno alle relazioni» bilaterali, ma anche al peso di Londra in Medio Oriente. Su questo punto l’avvertimento è stato esplicito: «Se i dirigenti israeliani non possono visitare la Gran Bretagna, questo rappresenta un ostacolo reale alla volontà di Londra di giocare un ruolo attivo nel processo di pace».

Un altro motivo di attrito fra i due Paesi è una recente direttiva del ministero britannico dell’Alimentazione in base alla quale i supermercati potranno distinguere sulle loro etichette tra «prodotti delle colonie israeliane» e «prodotti palestinesi», anzichè la generica dizione attuale di «prodotto in Cisgiordania». La mossa ha destato preoccupazione in Israele, che teme preluda ad un più vasto boicottaggio nel Regno Unito delle merci israeliane. Il mandato contro la Livni - decaduto solo nel momento in cui si è saputo che la leader di Kadima non si sarebbe fatta più viva sul suolo britannico, secondo quanto ha potuto appurare il "Guardian" - non è un fatto isolato. Nell’ottobre scorso era stato Moshe Yaalon - attuale ministro nel governo israeliano a guida di destra di Benyamin Netanyahu -a dover rinunciare a un viaggio a Londra per evitare guai a causa di accuse di crimini di guerra risalenti all’epoca in cui era stato capo di stato maggiore dell’esercito (2002-2005). Mentre una visita del ministro della difesa, Ehud Barak, è andata in porto solo dopo che un altro ordine di arresto era stato insabbiato in extremis.

Interpellata sull’accaduto, la stessa Livni ha affermato che le critiche a Israele sono legittime, ma ha difeso le ragioni di ’Piombo Fusò - ordinata quando era ministro degli Esteri - e ha contestato chi crede di poter «equiparare l’esercito israeliano ai terroristi». Scatenata quasi un anno fa dallo Stato ebraico in risposta ai razzi dei miliziani islamici di Hamas dalla Striscia di Gaza, l’operazione Piombo Fuso durò 22 giorni e si concluse il 18 gennaio 2009 con un bilancio di circa 1400 palestinesi uccisi. Un rapporto realizzato di recente per conto dell’Onu da una commissione coordinata dal giudice sudafricano Richard Goldtsone ha avanzato ipotesi di crimini di guerra e contro l’umanità nei riguardi d’Israele, in relazione al conflitto, oltre che nei confronti di Hamas per i lanci di razzi.

martedì 15 dicembre 2009

I banchieri? Un danno per la società "Vale di più l'operatore ecologico"


Vale più un addetto alle pulizie, soprattutto se in ospedale, che un banchiere. In più, il secondo crea anche problemi alla società. Sembra tanto l'affermazione fatta da un qualsiasi avventore di bar e invece è la conclusione della ricerca elaborata dal think tank della New economics foundation (Nef), un gruppo di 50 economisti famosi per aver portato nell'agenda del G7 e G8 temi quali quello del debito internazionale.

Il Nef ha calcolato il valore economico di sei diversi lavori, tre pagati molto bene e tre molto poco. Un'ora di lavoro di addetto alle pulizie in ospedale, ad esempio, crea dieci sterline di profitto per ogni sterlina di salario. Al contrario, per ogni sterlina guadagnata da un banchiere, ce ne sono sette perdute dalla comunità. I banchieri, conclude il Nef, prosciugano la società e causano danni all'economia globale. Non bastasse questo, valutano ancora gli economisti impegnati in un'etica della finanza, i banchieri sono i responsabili di campagne che creano insoddisfazione, infelicità e istigano al consumismo sfrenato.

"Abbiamo scelto un nuovo approccio per valutare il reale valore del lavoro - spiega il Nef nell'introduzione alla ricerca - . Siamo andati oltre la considerazione di quanto una professione viene valutata economicamente ed abbiamo verificato quanto chi la esercita contribuisce al benessere della società. I principi di valutazione ai quali ci siamo ispirati quantificano il valore sociale, ambientale ed economico del lavoro svolto dalle diverse figure".

Un altro esempio che illustra bene il punto di partenza del Nef è quello della comparazione tra un operatore ecologico e un fiscalista. Il primo contribuisce con il suo lavoro alla salute dell'ambiente grazie al riciclo delle immondizie, il secondo danneggia la società perché studia in che modo far versare ai contribuenti meno tasse.

"La nostra ricerca analizza nel dettaglio sei lavori diversi - si legge ancora nell'introduzione - scelti nel settore pubblico e privato tra quelli che meglio illustrano il problema. Tre di questi sono pagati poco (un addetto alle pulizie in ospedale, un operaio di un centro di recupero materiali di riciclo e un operatore dell'infanzia), mentre gli altri hanno stipendi molto alti (un banchiere della City, un dirigente pubblicitario e un consulente fiscale). Abbiamo esaminato il contributo sociale del loro valore e scoperto che i lavori pagati meno sono quelli più utili al benessere collettivo".

La ricerca, infine, smonta anche il mito della grande operosità di chi ha lavori ben retribuiti e di grande prestigio: chi guadagna di più, conclude il Nef, non lavora più duramente di chi è pagato poco e stipendi alti non corrispondono sempre a un grande talento. Eilis Lawlor, portavoce della Nef, ha voluto però precisare alla Bbc: "Il nostro studio vuole sottolineare un punto fondamentale e cioè che dovrebbe esserci una corrispondenza diretta tra quanto siamo pagati e il valore che il nostro lavoro genera per la società. Abbiamo trovato un modo per calcolarlo e questo strumento dovrebbe essere usato per determinare i compensi".

"Comunismo democratico? Una bugia da intellettuali"


Stéphane Courtois è un signore dalla grande barba e dall’occhio glauco che potrebbe ricordare la tipologia fisica del grande patriarca della russia contadina. E anche i suoi modi, quando s’infervora a spiegare, sono quelli di chi in una discussione di villaggio la spunterebbe, riportando la mucca a casa a buon prezzo. Ma in realtà le sue argomentazioni fluiscono in un dottissimo francese e sono quelle proprie di un professore dell’università Paris X-Nanterre.
E se il grande pubblico lo conosce soprattutto perché, con Il Libro nero del comunismo, è stato il primo a rompere il veto culturale sugli orrori d’Oltrecortina (dando numeri e cifre) la sua conoscenza e lo studio dei regimi del socialismo reale spaziano in tutti i settori di ricerca e non solo in quello della contabilità delle stragi. Ecco perché alla Fondazione Craxi a Milano il suo è l’intervento più atteso del convegno «A vent’anni dalla caduta del muro di Berlino: bilancio storico e mutamento dello scenario storico istituzionale». L’intervento s’intitola Il crollo del sistema comunista: dal 1956 a Gorbaciov e mette in luce i meccanismi perversi che hanno portato all’implosione del Patto di Varsavia. Meccanismi di fronte ai quali molti intellettuali occidentali si sono bendati gli occhi.

Professor Courtois, la storia del comunismo non è solo una storia di violenza, è anche la storia di un’utopia e di un grande inganno...

«Sì, l’illusione è stata prodotta, soprattutto in Occidente, da una pervasiva macchina di propaganda che è passata anche attraverso il consenso degli intellettuali...».

Come mai?

«È difficile dare una risposta. Io credo che il desiderio di potere negli intellettuali occidentali sia stato molto spesso più grande di quanto comunemente si creda. Il comunismo sembrava il vettore più adatto per avvicinarsi al potere, era un vettore specifico che dava l’illusione di poter operare una variazione totale della storia. Poi bisogna comunque distinguere tra chi ha avuto un ruolo solo ideologico e chi ha operato praticamente».

Lei nei suoi libri ha equiparato tutti i totalitarismi e quindi comunismo e fascismo. È per questo che testi curati da lei come Il Libro nero del comunismo sono stati duramente attaccati?

«Il mio libro è stato attaccato per tre ragioni: fornisce dei dati storici incontestabili che mostrano il versante criminale del sistema sovietico e comunista in generale; ha spaventato gli intellettuali perché ad alcuni è sembrato criticare l’idea stessa di rivoluzione; e poi perché ho scritto chiaramente che il comunismo ha la stessa valenza distruttiva del nazismo. Sono due totalitarismi simili, e in molti non mi hanno perdonato di averlo detto».

La Costituzione italiana rifiuta il fascismo. Non fa cenno però al comunismo. Dunque secondo lei non è compiutamente anti totalitaria?

«Siamo al cuore della manipolazione realizzata da Stalin a partire dal 1934. Stalin è riuscito in una manovra propagandistica in cui si creava l’amalgama perfetto tra democrazia e antifascismo e poi, con un salto logico, tra antifascismo e comunismo. È riuscito a far sembrare il comunismo democratico. È evidente che si tratta di un falso, ma costruito in maniera geniale. Stalin è intervenuto contro Franco in Spagna, ha prodotto, nel 1936, una costituzione che sulla carta è bellissima. In contemporanea stava già operando le peggiori delle purghe... Ma l’idea del comunismo democratico era stata già venduta».

Quindi la matrice totalitaria nel comunismo è stata inserita da Stalin?

«Io credo di no. In disaccordo con Hannah Arendt io sono convinto che la matrice totalitaria sia stata fabbricata da Lenin. Stalin ha semplicemente fatto in grande ciò che Lenin aveva iniziato a fare in piccolo. Lenin ha scelto di applicare solo quelle parti della dottrina di Marx che favorivano una presa del potere rapida e totale».

E sulla caduta del comunismo sovietico che cosa pensa? E della democratizzazione di Gorbaciov?

«Innanzi tutto è mia convinzione che la causa principale della caduta del comunismo sia stata il fallimento della sua dottrina economica... Altre cause come lo scontro con gli Stati Uniti o il perdurare dei nazionalismi sotto la “crosta” sovietica hanno contribuito, ma non sono quella fondamentale... Quanto a Gorbaciov, credo che non avesse un’idea chiara del livello di crisi. Credo che la perestrojka e la glasnost fossero soprattutto degli strumenti. Voleva utilizzarli per battere all’interno della nomenklatura la fazione che si opponeva alla sua ascesa al potere. Quando però ha inserito alcune gocce di democratizzazione all’interno della macchina del partito, il sistema è imploso... Bisogna però riconoscergli che non ha fatto mai ricorso alla violenza. Si è rifiutato di sparare sulla gente. I cinesi invece l’hanno fatto».

Il comunismo dopo il crollo dell’Urss è un’ideologia definitivamente morta?

«L’ideologia marxista-leninista non ha un futuro, ma la volontà di una società egualitaria sì. È un’idea molto più antica di Marx... Dipende da come la si declina, ne vedremo forme nuove e poi vedremo vecchi intellettuali marxisti-leninisti o marxisti-maoisti che si riciclano. In Francia ne ho presenti alcuni... E anche Toni Negri ha un discreto successo...».

Parlando di continuità storiche... Esiste un filo rosso fra il totalitarismo comunista e il giacobinismo nato dalla rivoluzione francese?

«Sì. Credo che ci sia un preciso filo rosso tra la presa del potere di Robespierre e ciò che ha fatto Lenin in Russia. La differenza è però il diverso livello ideologico. Robespierre non aveva un’ideologia precisa, né una visione storica. L’altra grande differenza è che né Robespierre né i suoi erano dei professionisti della rivoluzione. Invece Lenin ha inventato il rivoluzionario di professione».

di Matteo Sacchi

sabato 12 dicembre 2009

Quella sovranità della moneta in mani private

Abbiamo ricominciato a tremare per le banche. Abbiamo ricominciato a tremare addirittura per gli Stati, a rischio di fallimento attraverso i debiti delle banche. Si è alzata anche, in questi frangenti, la voce di Mario Draghi con il suo memento ai governanti: attenzione al debito pubblico e a quello privato; dovete a tutti i costi farli diminuire. Giusto. Ma l’unico modo efficace per farli diminuire è finalmente riappropriarsene. Non è forse giunta l’ora, dopo tutto quanto abbiamo dovuto soffrire a causa delle incredibili malversazioni dei banchieri, di sottrarci al loro macroscopico potere? Per prima cosa informando con correttezza i cittadini di ciò che in grande maggioranza non sanno, ossia che non sono gli Stati i padroni del denaro che viene messo in circolazione in quanto hanno delegato pochi privati, azionisti delle banche centrali, a crearlo.
Sì, sembra perfino grottesca una cosa simile; uno scherzo surreale del quale ridere; ma è realtà. C’è stato un momento in cui alcuni ricchissimi banchieri hanno convinto gli Stati a cedere loro il diritto di fabbricare la moneta per poi prestargliela con tanto di interesse. È così che si è formato il debito pubblico: sono i soldi che ogni cittadino deve alla banca centrale del suo paese per ogni moneta che adopera. La Banca d’Italia non è per nulla la «Banca d’Italia», ossia la nostra, degli italiani, ma una banca privata, così come le altre Banche centrali inclusa quella Europea, che sono proprietà di grandi istituti di credito, pur traendo volutamente i popoli in inganno fregiandosi del nome dello Stato per il quale fabbricano il denaro.
Ha cominciato la Federal Reserve (che si chiama così ma che non ha nulla di «federale»), banca centrale americana, i cui azionisti sono alcune delle più famose banche del mondo quali la Rothschild Bank di Londra, la Warburg Bank di Berlino, la Goldman Sachs di New York e poche altre. Queste a loro volta sono anche azioniste di molte delle Banche centrali degli Stati europei e queste infine, con il sistema delle scatole cinesi, sono proprietarie della Banca centrale europea. Insomma il patrimonio finanziario del mondo è nelle mani di pochissimi privati ai quali è stato conferito per legge un potere sovranazionale, cosa di per sé illegittima negli Stati democratici ove la Costituzione afferma, come in quella italiana, che la sovranità appartiene al popolo.
Niente è segreto di quanto detto finora, anzi: è sufficiente cercare le voci adatte in internet per ottenere senza difficoltà le informazioni fondamentali sulla fabbricazione bancaria delle monete, sul cosiddetto «signoraggio», ossia sull’interesse che gli Stati pagano per avere «in prestito» dalle banche il denaro che adoperiamo e sulla sua assurda conseguenza: l’accumulo sempre crescente del debito pubblico dei singoli Stati. Anche la bibliografia è abbastanza nutrita e sono facilmente reperibili sia le traduzioni in italiano che i volumi specialistici di nostri autori. Tuttavia queste informazioni non circolano e sembra quasi che si sia formata, senza uno specifico divieto, una specie di congiura del silenzio.
È vero che le decisioni dei banchieri hanno per statuto diritto alla segretezza; ma sappiamo bene quale forza pubblicitaria di diffusione la segretezza aggiunga alle notizie. Probabilmente si tratta del timore per le terribili rappresaglie cui sono andati incontro in America quegli eroici politici che hanno tentato di far saltare l’accordo con le banche e di cui si parla come dei «caduti» per la moneta. Abraham Lincoln, John F. Kennedy, Robert Kennedy sono stati uccisi, infatti (questo collegamento causale naturalmente è senza prove) subito dopo aver firmato la legge che autorizzava lo Stato a produrre il dollaro in proprio.
Oggi, però, è indispensabile che i popoli guardino con determinazione e consapevolezza alla realtà del debito pubblico nelle sue vere cause in modo da indurre i governanti a riappropriarsi della sovranità monetaria prima che esso diventi inestinguibile. È questo il momento. Proprio perché i banchieri ci avvertono che il debito pubblico è troppo alto e deve rientrare, ma non è possibile farlo senza aumentare ancora le tasse oppure eliminare alcune delle più preziose garanzie sociali; proprio perché le banche hanno ricominciato a fallire (anche se in realtà non avevano affatto smesso) e ci portano al disastro; proprio perché è evidente che il sistema, così dichiaratamente patologico, è giunto alle sue estreme conseguenze, dobbiamo mettervi fine. In Italia non sarà difficile convincerne i governanti, visto che più volte è apparso chiaramente che la loro insofferenza per la situazione è quasi pari alla nostra.

Ora il suo destablishment può risvegliare l’Italia


Un rivoluzionario accerchiato da conservatori. È il presepe del nostro Paese al termine di un anno tempestoso. Un re rivoluzionario amato dal suo popolo che reagisce in modo feroce contro i poteri forti e inerti. Destablishment. Ovvero un leader contro l’establishment. Non so come andrà a finire, prevedo una tregua di Natale ma non intravedo ricomposizioni venture. Però vorrei tentare un’altra lettura, inconsueta e forse leggermente eversiva, della situazione. Approfittando della complicità del popolo sovrano, un intruso, quasi un folletto, uno scazzamuriello, si è infilato nel cuore delle istituzioni, in mezzo alla Casta dei politici di lungo corso, dei Magistrati, dei Tirannosauri e degli opinion makers del Paese. E mette a dura prova i codici del Politicamente Corretto, il Galateo delle ipocrisie, le Paralisi incrociate e le cerimoniose omertà. Dice quel che pensano gli italiani e questo è un bene e anche un male, per carità, un segno di libertà ma anche di irresponsabilità, non dico di no. Però il proposito non è di sfasciare ma di governare, non di distruggere ma di costruire, non di violare ma di rispettare il mandato democratico, di ridare fiducia a un Paese stanco, vecchio, annoiato, disperato; piegato su se stesso, senza prospettive, senza idee forti, senza vere élites. Un Paese spompato.

I Palazzi del Potere, le Occhiute Istituzioni, i Supremi Vigilanti, a volte muniti dei conforti religiosi di qualche catechista sull’orlo dell’ateismo, non reagiscono al declino italiano, all’inerzia con cui si perpetuano le classi dirigenti, all’assenza di riforme e di grandi opere, all’invasione di immigrati per resa, denatalità e stanchezza degli indigeni. Stanno lì impalati ad amministrare solo il loro potere e i suoi riti senz’anima in un Paese cadaverizzato, che non sembra entrato in Europa ma in obitorio. Usano paramenti sacri per travestire di autorevolezza il Vuoto che essi rappresentano. Impassibili di fronte al degrado della vita pubblica e privata, reagiscono in modo veemente solo alle pazzie dell’Intruso, riscoprono le energie solo per castigare il Bambino Rivoluzionario che si è infilato, col favore popolare, in Palazzo Chigi. Fermatelo, sparatelo, arrestatelo, fate qualcosa. Lo dicono i suoi avversari di ieri ma anche i suoi beneficiati di ieri, lo dicono i Gendarmi delle istituzioni e le comari della Repubblica. Eppure questo Paese altro che di elettrochoc avrebbe bisogno; una cura da cavallo più che da Cavaliere, un trauma per svegliarsi. Qui il Paese sta scemando, sfuma nella vecchiaia non solo anagrafica ma politica e civile, non vi dico poi che zombie rappresentano la cultura del Paese, impedendo che entri aria nuova. La creatività se n’è andata via da un pezzo dal Paese dei talenti; non c’è pane amore e fantasia ma una carica di livore nel grigiore di tanta mediocrità. La pizza trionfa nel mondo eccetto in Italia dove vincono il sushi e il kebab. La lingua italiana gode una stagione di rinascita internazionale mentre patisce una povertà senza precedenti in casa propria. Alla fine l’Italia sarà riprodotta dai giapponesi o a Las Vegas, andrà più la copia che l’originale. Ma questo, ai 40 marpioni che comandano in Italia, frega poco o punto. L’importante è cacciare Ali Babà. Ridurre il premier a venditore di tappeti volanti, se non a criminale; nel nome della serietà o forse della serialità: bisogna essere politici di serie, dire le stesse cose, non uscire mai dal protocollo e dal minuetto dei raggiri istituzionali. Quel che chiamano rispetto della Norma e rigetto dell’eccezione, è proprio questa serialità, questo rifiuto dell’eccellenza, questo conservatorismo della mediocrità che isola chi eccede dallo standard.

Da una vita difendo il senso dello Stato e il decoro delle istituzioni, l’amor patrio e il valore dell’italianità. Ma quando lo Stato è solo contrazione di statico, quando il decoro si riduce al coro monotono della finzione permanente, quando l’amor patrio è solo difesa della patria di lorsignori, ovvero della casta che domina e che lascia deperire l’italianità, allora preferisco lo strappo. Questo Paese è imbalsamato, ha bisogno di una scossa. Certo, non di una guerra incivile permanente, non di una caduta nel brigatismo rozzo e nell’eccitazione continua. Ma ha bisogno di una scossa. Riforme, messaggi, mobilitazioni, risvegli. Berlusconi esagera? È vero, esagera anche se non ricordo una caccia all’uomo paragonabile a quella che sta vivendo lui. Ma vi rendete conto che questo Paese rischia di prendersi la croce assurda di Mafiopoli, ovvero di accettare la nomea inverosimile di Paese dove regna la Mafia, pur di disarcionare il Cavaliere dal governo? C’è gente che è disposta a distruggere la credibilità del nostro Paese, il suo collante interno e la sua immagine esterna, pur di sovvertire l’esito del voto e mandarlo a casa, meglio se agli arresti domiciliari.

Tra le dichiarazioni contro Berlusconi merita l’oscar del ridicolo quella del suo ex sodale e adottivo GianBruto Fini: Berlusconi chiarisca. Ma siamo scemi? Non era fin troppo chiaro quel che ha detto a Bonn? Semmai l’esortazione doveva essere opposta: non chiarisca troppo, si fermi a un linguaggio più paludato e diplomatico, renda oscuro il suo messaggio brutale, più conforme al burocratichese e al politichese. Mi auguro che i toni eccessivi siano gradualmente cancellati, che si torni al rispetto reciproco e alle buone maniere. Ma mi auguro che la spinta rivoluzionaria passi dal lessico esagerato alle opere. Che la rivoluzione cominci, e finiscano i proclami.

(di Marcello Veneziani)

martedì 8 dicembre 2009

Quell’odio civile che ci fa sembrare un Paese mafioso


Ora che il ciclone mafioso e violaceo si è abbattuto, si possono contare i danni. Due grandi vittime ha mietuto l’uragano ma nessuna delle due è Berlusconi, che anzi dalle piazzate mediatico-giudiziarie e dai pentiti è uscito rafforzato, psicologicamente ferito ma politicamente ed elettoralmente ringalluzzito. No, le due vittime, a cui se permettete tengo di più del premier, sono l’Italia nel mondo e l’Italia in casa sua, spaccata in due dall’odio civile. Non perdonerò mai a chi ha raccolto, enfatizzato, creduto o almeno usato le chiacchiere di Spatuzza, la gravissima responsabilità di aver fatto precipitare la considerazione dell’Italia nel mondo, la sua immagine e la sua credibilità. Già eravamo sulla brutta china da tanto tempo, e poi ancor più da quest’anno, dopo la Primavera di Noemi, l’Estate di Patrizia e l'Autunno di Spatuzza. Senza dire delle mezze stagioni dei Lodi, Mondadori e Alfano. Ora andiamo verso l’inverno, la quarta stagione, e mi preoccupano i cappotti e gli scheletri che affolleranno l’armadio Quattrostagioni del nostro Paese. Vista la progressione delle stagioni, dopo la mafia verrà il satanismo? Il logo mafia attecchisce che è una meraviglia nel mondo; basta citarlo, anche con un film, anche con un pettegolezzo, anche con l’ultimo e il meno credibile dei pentiti, e il mondo ne parla, fa copertina, lo riprende e lo rimbomba. Perché conferma uno storico e mitologico luogo comune sul nostro Paese e tutto un apparato di simboli e di liturgie: la mafia è uno dei marchi più riconosciuti nel pianeta, esportato ovunque dalla Russia alla Cina; e Camorra-Gomorra o per i buongustai del ruspante la ’ndrangheta, sono i marchi associati. Pochi magari ricordano che la sua reintroduzione a pieno regime in Italia, direi la sua legittimazione, non fu a livello locale ma avvenne a livello internazionale, con lo sbarco americano in Sicilia nel ’43; evento glorioso, per carità, ma con il sostegno indispensabile di Cosa nostra da Lucky Luciano in giù. Gli americani ci portarono la libertà ma ci restituirono anche la mafia, assente o sottotraccia negli anni del prefetto Mori e del fascismo.
Sarà difficile risalire la china di Paese mafioso, oltre che puttaniere e corrotto. Di questa fama dobbiamo essere tristemente grati a quanti, seguendo l’esempio di Tonino Di Pietro che comprò pagine sui giornali internazionali per sputtanare Berlusconi, sputtanando semplicemente l’Italia, hanno lavorato alla demolizione dell’immagine internazionale del Paese. Vorrei dire loro: anche l’odio più feroce e perfino più motivato verso un premier non potrà mai giustificare il danno inferto al Paese, agli italiani e ai rapporti internazionali.
Ma il primo, gravissimo danno internazionale si accoppia ad un secondo, gravissimo danno: ho vissuto da ragazzo gli anni di piombo, gli anni delle stragi, la lotta antifascista e anticomunista, il tempo del terrorismo e della caccia al fascista. Ma vi posso dire che non ho mai respirato come adesso un clima di odio generale. Sì, generale. Quello di allora era l’odio tra due minoranze militanti, e magari la ghettizzazione e la criminalizzazione di una; ma il corpaccione del Paese non era in fondo toccato fino a questi livelli. La grande maggioranza degli italiani, la borghesia, era temperata e prudente, nutriva dissensi ma sapeva trasferirli nella fiction dell’ideologia o del ricordo storico. Ma quando si tornava alla realtà, ci si poteva intendere sul resto. Ora invece l’odio attraversa l’intera società, si è fatto etnico e razziale, la razza dei berluscones; divide le cene e i salotti, gli autobus e i treni, insomma è un odio da passeggio e da diporto, da lavoro e da dopolavoro. Vi assicuro di aver visto inermi e rispettabili lettori del Giornale, trattati il giorno della manifestazione no-bidè (ricordo che devo la definizione al mio salumiere), come una cosca criminale. Mi hanno fermato un gruppo di lettori del Giornale, rispettabili professionisti, a passeggio per Campo de’ Fiori, romani e calabresi, e si sono avvicinati a me con fare guardingo, come si avvicinano i dissidenti in un regime autoritario. Il dato paradossale è che i clandestini in questione erano filogovernativi, stavano con la maggioranza degli elettori. Ma dovevano nascondersi. Mi hanno detto che hanno passato brutti momenti perché hanno acquistato il Giornale e vista la riprovazione dell’edicolante, hanno rafforzato la dose con Libero, aggravando così la loro posizione. Sono stati costretti a nasconderli, perché considerati provocatori da una turba di squisiti sprezzanti.
Un odio violaceo; in fondo il viola, che nella vita e nel calcio è un colore bello e nobile (lo dico anche da tifoso della Fiorentina), a teatro e in politica è un rosso andato a male, inacidito e un po’ jettatorio, un rosso bilioso, che si è fatto blu di rabbia. Ma non è la manifestazione il problema; è il clima che si respira, l’odio, le deposizioni spettacolo, i giornali usati come clavi e marchi identitari, come si usa con le mucche. Di tutto questo, certamente soffrirà l’agibilità politica del governo Berlusconi, ma il consenso - al contrario - non viene scalfito, semmai si rafforza. Tanto più che le parole di Spatuzza erano commentate dai fatti di due boss mafiosi arrestati e dalla considerazione, comune ma espressa anche dal capo dell’Antimafia, Grasso, che mai la mafia ha subito tanti colpi come ora, sotto la coppola, o la cupola governativa, di don Silvio Berlusconi.
Devo ammettere una cosa: a me consola poco sapere che il suo consenso è in crescita; mi preoccupa di più il crollo d’Italia, nell’immagine internazionale e nella guerra civile interna. Chi vota Berlusconi o peggio scrive per il Giornale, è trattato dai credenti violacei del potere mediatico-giudiziario - più appendice politica di sinistra - come un picciotto, un criminale, un affiliato a Cosa nostra. Trenta milioni di mafiosi abitano il nostro Paese, insieme a tre milioni di virtuosi; il resto mancia. Il Giornale è stato promosso dagli esimi colleghi in viola, dal manganello alla lupara. Chiudo il pezzo scritto con un computer a canne mozze. Baciamo le mani.

(di Marcello Veneziani)

domenica 6 dicembre 2009

venerdì 4 dicembre 2009

La denuncia della Caritas: peggiora la situazione dei palestinesi


In una dichiarazione in occasione della Giornata Internazionale di Solidarietà con il Popolo Palestinese, celebrata il 29 novembre, Caritas Gerusalemme ha fatto appello “ai Governi e alla comunità internazionale affinché compiano passi concreti che portino alla pace e alla stabilità in questa Terra”.

Allo stesso modo, esorta a lavorare “per la realizzazione delle risoluzioni delle Nazioni Unite, della legalità internazionale e della IV Convenzione di Ginevra, di modo che l'anelito a uno Stato palestinese sovrano non sia solo un sogno, ma comporti una vera speranza che si possa trasformare in realtà”.

Caritas Gerusalemme ricorda che “la situazione, che si deteriora giorno dopo giorno a Gaza e in Cisgiordania, richiede azioni immediate, sia sul campo che a livello di comunità internazionale, visto che nulla può giustificare la costante e continua sofferenza di uomini, donne e bambini innocenti”.

“E' ora della pace tra israeliani e palestinesi – afferma la nota –. Crediamo che porre fine all'occupazione e al conflitto per permettere a due Stati di vivere fianco a fianco sia avere una visione di pace, giustizia e riconciliazione tra i due popoli della Terra Santa, e che sia ancora possibile nonostante disperazione e scoraggiamento”.

Condizioni precarie nei Territori palestinesi

In occasione della Giornata Internazionale di Solidarietà con il Popolo Palestinese, la Caritas denuncia “lo sfollamento di migliaia di famiglie palestinesi”, che per più di 60 anni sono state private “del loro diritto inalienabile all'autodeterminazione”, e il fatto che lo Stato palestinese “non abbia ancora visto la luce”.

Al contempo, lamenta che in tutto questo tempo “la sofferenza e il dolore del popolo palestinese, e molti sforzi politici e altre iniziative, siano rimasti nel dimenticatoio, mentre la situazione nei Territori Palestinesi continua ad essere preoccupante”.

Caritas Gerusalemme condanna le gravi limitazioni imposte quotidianamente da Israele attraverso “il muro di separazione con più di 500 controlli militari e altre barriere fisiche, che continuano a frammentare la società palestinese a livello territoriale, economico, sociale e politico”.

Questa situazione, osserva, “non solo rappresenta una flagrante violazione del diritto internazionale, ma è anche un grande ostacolo al raggiungimento della pace e della riconciliazione”.

“Ci possiamo chiedere come possa esistere un processo di pace quando il tessuto della vita quotidiana è totalmente distrutto – osserva Caritas Gerusalemme –. Tra le loro risorse prosciugate, dove possono trovare i palestinesi la motivazione per un dialogo che permetta di trovare nuove vie per la pace?”.

“Siamo certi che la pace sia possibile, e per questo preghiamo il Dio di tutti perché porti pace, giustizia e riconciliazione a tutti i suoi figli in Terra Santa”, conclude la nota.