Sarebbe un grave errore quello di farsi prendere per mano dal «regista» che, dai contenitori della Commissione parlamentare P2, scarica, alla pubblica opinione, palate di fatti a getto continuo, perché poi, alla fine, si perda il filo di tutto. Polverone, per non capire più nulla.
Occorre non smarrirsi. Occorre rimanere attaccati all'essenziale e dell'essenziale chiedere, puntualmente e caparbiamente, ogni possibile chiarimento.
E cominciamo a disboscare.
La prima constatazione da fare è stabilire che non è vero nulla che, scoperti Gelli e la sua banda, le cose in Italia abbiano cominciato a marciare su binari diversi perlomeno puliti. Le cose, in Italia, anche dopo Gelli e con Spadolini, il presidente del Consiglio dei ministri dell'emergenza morale, sono continuate ad andare così come andavano ai tempi di Gelli. E tutti, chi consapevolmente, chi inconsciamente, si sono adeguati all'antico andazzo.
Vediamo di dare corpo a questa affermazione, cominciando dall'alto. È il maggio 1982. Il presidente della Repubblica riceve al Quirinale il gran maestro della massoneria, appena eletto, il repubblicano Armando Corona.
L'unico quotidiano a darne l'annuncio, per esteso e con evidenza, è "la Repubblica" di Scalfari-Caracciolo che così commenta:
«L'incontro di ieri ha avuto come tema principale il rinnovamento della massoneria, sempre più tesa a liberarsi di una pesante eredità: i guasti e le trame nelle quali si era dibattuta negli ultimi decenni, soprattutto per colpa dei gran maestri che si erano succeduti. Gamberini, Salpini e Battelli crearono e alimentarono il potere di Gelli, dando alla sua loggia segreta, la P2, tutti i crismi della legalità massonica. Pertini concludeva la "Repubblica" ha raccomandato a Corona di adoperarsi affinché i massoni italiani possano sempre più imboccare la via degli «ampi orizzonti», liberi da qualsiasi forma di segreto, sulla scia dell'esempio anglosassone».
Raccomandazioni inutili, perché la vicenda del banchiere Roberto Calvi ci dice che Armando Corona, e prima di essere nominato gran maestro e dopo che lo è diventato, ha continuato a gestire, nel segreto, e perfino a livello della Presidenza del Consiglio dei ministri, i guasti e le trame di cui prima si occupava Licio Gelli.
Infatti dalle «registrazioni» eseguite da Flavio Carboni, registrazioni ora all'ascolto dei commissari della P2, che apprendiamo che la sistemazione del "Corriere della Sera" (il grande pacco, per usare l'espressione di Calvi), fin dal gennaio 1982, cioè quando Armando Corona non era ancora stato eletto gran maestro della massoneria, «dipendeva tutta da lui, era tutta nelle sue mani».
È lo stesso Calvi a dire di avere spiegato la questione «ad Armandino», e di rimando il latitante, amico della malavita, Flavio Carboni, dice a Calvi: «Intanto Corona precisi il suo pensiero e le sue istruzioni, chiarisca la sua posizione perché è lui che si deve vedere con Spadolini».
E Flavio Carboni dà anche i particolari dell'incontro Corona-Spadolini: il mercoledì successivo (è da stabilire se a colazione o a cena), presenti altre due persone, una di queste Aristide Gunnella (l'amico di Di Cristina Giuseppe, il boss mafioso della droga, quando è stato ucciso aveva, in tasca assegni per tre miliardi di lire!).
È l'ipotesi del «grande pacco» da gestire e da spartire. E vengono fuori i nomi dei possibili acquirenti del "Corriere della Sera". Dice il banchiere: «Carlo non può uscire dal discorso "Corriere della Sera"».
È Carlo Caracciolo, l'editore, insieme con Scalfari, de "la Repubblica" e de "L'Espresso".
E Carboni, a questo punto della conversazione, sbotta: «E se vi dico che lunedì vedo Berlinguer?».
Per capire: riallacciate alcuni fili. Nel «gran pacco» ci sono: Armando Corona che, di intesa con il presidente del Consiglio, gestisce il tutto, il gruppo editoriale Caracciolo-Scalfari; Flavio Carboni (che registra), socio in affari con Caracciolo ma, come vedremo, socio in intrallazzi con Armando Corona e faccendiere di quella sinistra DC che, proprio in quei giorni, sta divisando di eleggere Ciriaco De Mita segretario nazionale.
Ecco precisati gli aspetti essenziali della vicenda, aspetti che non vanno assolutamente confusi nel polverone dei fatti che, come fuochi d'artificio, vengono fatti scoppiare in grembo alla Commissione P2, onde confondere le idee.
Ha ragione Tremaglia: siamo ad una guerra fra due bande. Ed io, ora, sto tratteggiando la fisionomia di una di queste bande non trascurando l'altra che non è meno maleodorante di questa.
L'identikit della banda, che voleva dare ad intendere agli italiani di- «moralizzare» la vita pubblica, pur avendo sempre gestito le proprie cose con i metodi di Gelli, spunta, inconfondibile, dall'ambiente di malaffare rappresentato da questo portaborse miliardario, Flavio Carboni, che si è fatto 60 miliardi nello spazio di tre anni.
Descrivere la vita di questo filibustiere del Palazzo è tratteggiare l'identikit di coloro che, molto peggio di lui, di lui si sono serviti, ritenendo di far fessi gli italiani con sbandierate moralizzazioni che altro non erano che azioni truffaldine.
La fortuna di Flavio Carboni si chiama l'accoppiata Corona-Caracciolo, ed è strettamente legata alle vicende dell'acquisto da parte dell'editoriale "L'Espresso", del quotidiano "La Nuova Sardegna".
L'editoriale "L'Espresso" (Caracciolo-Scalfari) acquista dalla SIR finanziaria, fra l'aprile e il dicembre 1980, la maggioranza delle azioni della "Nuova Sardegna". Al termine di una complessa, e tutt'altro che limpida vicenda di ripartizioni delle azioni della società editrice "Nuova Sardegna", si ha questa situazione: "L'Espresso" 52%; SOFINT S.p.A., 35%; Franco di Suni 5%, Edisar s.r.l. 4%; SIR finanziaria 4%.
Dietro questa ripartizione c'è l'inganno. Ed è un inganno che, innanzi tutto, colpisce, moralmente, il Consiglio Regionale della Sardegna che, nel dare corso alla vendita della "Nuova Sardegna", aveva stabilito condizioni tassative, una delle quali che l'acquirente avesse sì una quota rilevante della proprietà, ma non maggioritaria e che la rimanente fosse destinata, sotto la supervisione del Consiglio Regionale sardo, ad operatori economici dell'isola.
Ed invece si scopre che l'editoriale "L'Espresso" di Caracciolo-Scalfari e la SOFINT di Flavio Carboni-Pellicani Emilio hanno, rispettivamente, il 52 per cento e il 35 per cento.
Come è stato possibile?
Ce lo dice lo stesso Caracciolo che, nel difendersi dalle contestazioni di avere acquistato "La Nuova Sardegna" truffaldinamente, scrive, in data 10.7.1981, al presidente della SIR Finanziaria (Gianni Fogu), affermando che tutto quanto è stato fatto e perfezionato, «dietro il previsto accordo con il presidente del Consiglio regionale» e che «se lo ritiene può all'occorrenza, mettere a disposizione la relativa corrispondenza».
Chi era, al tempo dei fatti su menzionati, il presidente dei Consiglio regionale della Sardegna? Armando Corona, il nostro Armandino.
Le domande, a questo punto, sono più di una. Flavio Carboni, a cui Caracciolo con il benestare di Corona, concede il 35 per cento delle azioni della "Nuova Sardegna", è uomo che interessa al principe-editore, socio di Scalfari, o interessa ad Armandino Corona?
Se interessa quest'ultimo, la successiva domanda è d'obbligo: lo scambio perché Corona conceda, alle spalle e all'insaputa del Consiglio regionale della Sardegna, all'editoriale "L’Espresso" il 52 per cento, è quello che Caracciolo dia, a sua volta, a Flavio Carboni, braccio destro di Calvi, il 35 per cento delle azioni della "Nuova Sardegna"?
E perché? Forse perché Calvi, a sua volta, avrebbe appoggiato Armandino a salire sul trono di gran maestro della massoneria?
Supposizione non vera? Allora è vera quest'altra, per cui Corona vuole Carboni nella proprietà della "Nuova Sardegna" perché i profitti delle sue cliniche sono investiti nelle pianificazioni urbanistiche di Flavio Carboni, pianificazioni che la "Nuova Sardegna", da sinistra, protegge con i suoi articoli?
Non è così? Allora, altra variante: Flavio Carboni fa comodo a Carlo Caracciolo, cioè è un prestanome, dietro il quale c'è il disegno editoriale, politico e industriale, che vede «insieme» la sinistra DC (in testa De Mita e l'attuale presidente della Giunta regionale sarda Angelo Roich), il gruppo editoriale Scalfari-Caracciolo, la «nuova destra» rappresentata da settori del PRI (Visentini - De Benedetti), tutti tesi e favorevoli all'intesa con il PCI?
Non lo si dimentichi: l'operazione dell'acquisto della "Nuova Sardegna", da parte di Caracciolo-Scalfari, avviene nel 1980, quando il PRI governa la Sardegna insieme col PCI.
Sono domande a cui si deve rispondere. Anche perché, sia Caracciolo, sia Armando Corona, interrogati dalla Commissione sull'informazione del Consiglio regionale sardo, circa il non rispetto dei patti nella vendita della "Nuova Sardegna", hanno dato risposte divergenti.
Dove sta la verità?
«Conosce De Mita? Sì. L'ho conosciuto due anni fa, all'epoca della sua nomina a vice segretario della DC. Me l'ha presentato un amico, di cui ho altissima stima, Angelo Roich (presidente della giunta regionale sarda - N.d.R.) una persona delle migliori, davvero inattaccabile sotto il profilo morale». (Parla l'allora latitante Flavio Carboni, "L'Espresso", 1.8.1982)
Fermiamoci un po’: De Mita. Quando intorno al 22 giugno u.s. (il cadavere di Calvi è ancora caldo) vengono pubblicate le notizie della partecipazione di De Mita a cene organizzate da Flavio Carboni, il capo ufficio-stampa del segretario nazionale della DC, Clemente Mastella, invia note irate in cui si dice che ciò è completamente falso, in quanto «De Mita aveva incontrato Carboni una sola volta, e per pochi minuti, di pomeriggio, in compagnia dell'editore Carlo Caracciolo».
«Corona ha anche raccontato ai commissari della P2 della cena, in casa Carboni, presenti il segretario nazionale della DC De Mita, l'editore Caracciolo, monsignor Hilary e l'uomo politico Roich. Alla cena -ha detto Corona- mi invitò Carboni, dicendomi che De Mita voleva conoscermi. De Mita, a quella cena -ha detto Corona- espose a grandi linee il discorso che avrebbe tenuto il giorno dopo al congresso del suo partito». ("Corriere della Sera", 30 luglio 1982)
Qui non ci sono dubbi. Le bugie vengono dette da De Mita. E che bugie! Ora c'è anche la testimonianza di Armandino Corona, ma di quella cena sono venute fuori le fotografie. Non solo. "L'Europeo" (12.7.1982) pubblica, in bella evidenza, una fotografia di De Mita che, a braccetto di uno sconosciuto, esce dal Palazzetto dello Sport dove si tenevano i lavori del congresso nazionale della DC. Il settimanale, nella didascalia, si limita a scrivere: «sotto, il segretario nazionale della DC, Ciriaco De Mita». Non una parola dei personaggio che ha sottobraccio.
Chi è costui? Un amico? Un delegato? L'autista? Un guardaspalle? Mistero.
Passa qualche giorno e l’Agenzia Repubblica (15.7.1982) riproducendo la foto de "L'Europeo", avverte: guardate signori, che l'uomo accanto a De Mita è I'...uomo del giorno, cioè il faccendiere sardo Flavio Carboni, sulle cui tracce sono puntate le polizie di tutta l'Europa e oltre.
"L'Europeo", credete voi, che accortosi di avere mancato il colpo, corregga il tiro dicendo nel numero successivo: guardate la foto l'abbiamo pubblicata noi, ed è vero, l'uomo sottobraccio a De Mita è proprio Flavio Carboni. È uno scandalo!
Per carità, il rizzoliano "L’Europeo" si guarda bene dal fare un discorso simile. E come se nulla fosse, riproduce (numero del 27.7.1982) sì la foto, ma senza De Mita, con la didascalia: «a destra il latitante Flavio Carboni, colpito da mandato di cattura dopo la scomparsa del banchiere Roberto Calvi».
E De Mita che è, affettuosamente, accanto? Scomparso.
Questa è la ...deontologia professionale di certi settimanali che vorrebbero raccontare agli italiani la bella favola della moralizzazione della vita pubblica!
È evidente: lo sterco accomuna tutti. E su tutti i versanti.
Comunque, per riassumere: la presidenza della Repubblica, antesignana nella moralizzazione della vita pubblica, riceve, con tutti gli onori, Armando Corona che, al momento dell'...uso non altro dimostra di essere, e nella migliore delle ipotesi, che un faccendiere (Pertini direbbe un giannizzero); la presidenza del Consiglio dei ministri, che ha fatto dell'emergenza morale la sua direttiva principale va a cena con il gran maestro onde stilare con lui la «strategia» per spartire il gran pacco, cioè il "Corriere della Sera"; il segretario nazionale della DC, appena eletto al grido «rinnoveremo moralmente la DC», va subito a cena con portaborse intriganti e amici della malavita; il gruppo Caracciolo-Scalfari, grondante moralizzazione da tutti i pori, si trova «dentro» tutte le porcherie; Vaticano e massoneria, all'ombra dei soldi, si incontrano, trattano e concludono, fra abbondanti e succose portate e libagioni. Il tutto in un confronto di faccendieri il migliore dei quali è amico della malavita, il peggiore della mafia e della camorra.
Questo è il quadro su cui cadono, come diversivo, i provvedimenti dell'austerità. Cancellare dalla memoria degli italiani porcherie e assassinii, per derubarli meglio. È la direttiva.
Già, dimenticavamo, e i comunisti? "l'Unità" (20.7.1982), fra l'altro, ha scritto quanto segue:
«Il gran maestro amico di affaristi che fanno affari con uno scambio mercantile con uomini politici, che organizzano registrazioni, ricatti e incursioni nelle correnti di partiti di governo; un gran maestro amico protettore e protetto da banchieri; un gran maestro amico di alti prelati ed editori di giornali; un gran maestro indifferentemente amico e socio di laici e cattolici, amici degli amici; un gran maestro che può far salire le scale della carriera a magistrati che saranno poi a lui devoti ed ubbidienti; un gran maestro che ha trovato mezzi e modi per sfasciare la giunta di sinistra in Sardegna e, vedi caso, viene poi eletto presidente della Regione un amico di Carboni a sua volta amico, suo; un gran maestro amico, confidente, consigliere del presidente del Consiglio. Ma non c'era in una loggia un altro personaggio che cominciò con questi metodi, con questo tipo di legami un'inarrestabile ascesa sino a sedersi sullo scanno massimo della P2? Non vorremmo che sciolta, per legge (e per chi ci crede) la P2, si vada via via costituendo la piramide di una P3».
Sì, è vero, le cose stanno così come "l'Unità" le descrive. C'è solo un piccolo, importante «particolare». È che fino a quando Armando Corona, il gran massone, è stato, in Sardegna e fuori, il più valido sostenitore dell'intesa con il PCI, tutto andava bene. Anzi benissimo. Anche gli affari di Corona, detto Armandino.
Appena il gran maestro, per giochi suoi e con mentalità tipicamente doppiogiochista «alla Licio Gelli», si è fatto regista di altre maggioranze, su Corona (e sui suoi affari) sono piovuti i fulmini del PCI.
Corona è quello che è. Ma anche il PCI è quello di sempre: non il moralizzatore, ma il ricattatore.
«Se stai con me, ti farò fare quello che vuoi, puoi rubare a piacimento. Se ti metti contro, grido "al ladro!"».
Ditemi voi, cari Lettori, se il PCI può davvero rinnovare la vita pubblica italiana!
(di Beppe Niccolai "Rosso e Nero" - Secolo d'Italia 6 agosto 1982)