venerdì 31 dicembre 2010
Caso Battisti: lettera familiari Torregiani a governo, ora massima trasparenza
Con il 2010 è finito l'anno dell'escort e di Nichi
Alla Mignottocrazia preferisco la definizione etnico- paesaggistica di Zoccolandia, più ridente e più aderente a un paese in cui prostituirsi è mestiere diffuso non solo tra le donne. È finito l’anno di Italo Bocchino. Meteorite piovuto da una galassia lontana, l’asteroide ha assunto il nome del posto dove è precipitato, l’Italia, e l’accento del luogo in cui fu trovato, il Casertano. Fervono studi sull’origine del cognome. Nessuno sapeva a che titolo fosse divenuto il personaggio dell’anno. Il suddetto asteroide ha monopolizzato le telecamere più di Belen, imperversando dappertutto, incluse le previsioni del tempo. La gente disperata si era ridotta a rifugiarsi nella pubblicità per non vedere e sentire il Bocchino che sentenziava sulla vita e la morte di governi, premier, partiti e alleanze, giornali e giornalisti, appalti in Rai e subappalti in Campania. Si confida nell’inceneritore di Caserta. È finito pure l’anno del suo seguace, il Bocchino-dipendente Fini, un tempo leader di un partito e ora libero professionista con studio in Camera. È finito l’anno di Nichi Vendola, l’omo della provvidenza, protagonista assoluto della sinistra. Auguriamoci che sia lui il candidato premier per quattro ragioni.
1-riporterebbe in politica l’alfabeto delle passioni ideali, se non i contenuti almeno le parole che danno dignità alla politica. 2-Da rompiscatole doc dimostrerebbe che il Pd è una scatola vuota. 3-Sarebbe divertente come avversario, con le sue «affabulazioni» e la sua curiosa personalità ben delineata da Galli della Loggia e Checco Zalone. 4-Libererebbe la mia Puglia da un governatore che non amministra e lascia malgovernare. Perciò lo vogliamo a Roma. Non so perché, ma lo vedrei bene con i capelli della Polverini. Quei capelli a tendina, tipo Cleopatra der Tufello, gli addolcirebbero lo sguardo inquietante e la testa bombata. È finito l’anno di Napolitano che oggi rivolgerà gli auguri agli italiani. Tutto sommato nel 2010 si è comportato in modo dignitoso ed equilibrato. Non ha colpa se è portatore sano della sinistra presente, del comunismo passato e della vecchia partitocrazia. E ancora meno ha colpa personale se la sua inflessione e perfino il suo cognome evocano a molti la monnezza e la camorra.Lo vedo un po’ accasciato; sarà l’amor patrio ma mostra tutti i 150 anni dell’unità d’Italia.
È finito l’anno di Mauro Masi, l’uomo più impotente d’Italia. Un tempo il direttore generale della Rai era ritenuto l’uomo più potente d’Italia. Invece il povero Masi deve prendere ordini dall’azionista, cioè il Tesoro, dal premier e il suo governo, dal Parlamento, dalla Commissione di vigilanza Rai, da una marea di authority, sindacati e associazioni, dai suoi stessi dipendenti, da primedonne e magistrati che decidono chi mandare in onda e che programmi fare. Subisce i programmi di successo della Rai, è costretto a opporsi agli ascolti. Un suo provvedimento contro qualcuno si trasforma in gratifica, una sua censura equivale a una promozione, i suoi ordini vengono coglionati anche nel video della sua stessa azienda, la sinistra lo disconosce, ma anche il centrodestra fa finta di non conoscerlo. Un magistrato di buon cuore lo reintegri con l’anno nuovo nell’ufficio reclami della Rai. È finito l’anno di Lady Gaga, eletta star numero uno del pianeta. Nata in laboratorio da un accoppiamento a distanza tra Madonna e Michael Jackson, frutto di una miscela chimica tra ormoni pop e ovuli rock, la sua esistenza è incerta.
C’è chi la reputa uomo, chi trans, chi ermafrodita, chi un fumetto, una bambola fatta di vestiti assurdi con la suoneria custodita tra le scapole. L’italoamericana Stefani Joanne Angelina Germanotta cerca ad ogni costo la trasgressione. Il sesso è poco, ci vuole altro per violare i tabù, e così si accanisce su religione, infanzia e morte. Troppo scontato. Oggi la vera trasgressione è la tradizione. Suor Germanotta prenda i voti e usi il cilicio, preghi col rosario. Sarà quella la vera trasgressione, se lo farà di nascosto dal pubblico, magari a casa sua appena finirà quest’anno di celebrità mondiale.
È finito l’anno di Elton John neo-mamma. Tutti a congratularsi con la rock star e con suo marito per il figlio in provetta. Nessuno che abbia avuto il coraggio di indignarsi per la mortificazione della donna, ridotta ad animale sfruttato, anzi a macchina per sfornare figli e poi cederli al danaroso acquirente. Il dogma gay schiaccia anche i diritti della donna e la denuncia dello sfruttamento biologico dei ricchi sui poveri. A proposito di figli, meglio l’esempio delle 113 mamme francesi che qualche giorno fa sono andate a prendersi i rispettivi bambini adottivi, rimasti orfani per il terremoto di Haiti. Erano belle a vedersi quelle mamme raggianti che hanno dato un futuro a quei bambini.
(di Marcello Veneziani)
mercoledì 29 dicembre 2010
Altro che Ruby, “donna Rachele” è vero feuilleton
La notizia parte dal “Giornale”. Le foto di Rachele e il link al sito di appuntamenti Escort.inn circolano già sul web. «Rachele, italiana, Escort in Reggio Emilia / Splendida escort, appena tornata a Reggio Emilia. Ciao sono Rachele Italiana, giovane, elegante, molto sexy e provocante, sono una modella pronta ad esaudire ogni tuo più particolare desiderio, posso riceverti o raggiungerti con un pò di preavviso. Sono esperta di feet job e sono una severa padrona e se lo vuoi anche con pioggia dorata e cioccolata. Chiamami ti aspetto per farti godere!!! Disponibile anche per cene e spettacoli hard di alto livello».
A conoscere le lingue e le perversioni, la signorina dimostra di avere talenti, fantasia e disponibilità, anche culinaria. Ma la rete vomita annunci di gran lunga più fantasiosi di quello della bella Rachele. Nessuna certezza sui fatti e neppure sull’identità della signorina, ma grande scoop per la testata che lo ha lanciato e gran bella pubblicità per la misteriosa e versatile Rachele.
Sui trent’anni, tacchi vertiginosi e pantaloni di pelle, e una gran voglia di chiacchierare: «Il presidente della Camera è stato con me tre volte, pagava 2mila euro per il mio silenzio». Si definisce “di destra” e proprio per questo ha scelto come nome d’arte quello della moglie di Mussolini. Il primo incontro a novembre 2009. Fini con l’auto blu e la scorta fuori ad aspettare (come Marrazzo), la cifra 500 euro ma la cifra arriva rapidamente a 2.000 (la stessa di Patrizia, garanzie sul residence escluse). Altri due appuntamenti a maggio e a settembre di quest’anno. Poi il silenzio. Anche le escort, come le formiche, si incazzano. Molto più delle formiche e con più tempismo. Sono cicale loro, mica hanno tempo da perdere. Rachele sull’onda del fango fa il surfing da professionista. Il filmato gira da mesi nel suk degli scandali, ma questo è di sicuro il momento giusto.
Le bombe meglio farle espodere a grappolo. Mesi di gigantografie dalla piantina della casa di Montecarlo, delle stigliature della cucina Scavolini e del citofono con su scritto con grafia incerta “Tulliani”, non sono bastati. Il leader ribelle, sconfitto in aula, deve essere definitivamente annichilito. Finti attentati e bombe del sesso dovrebbero bastare a fare terra bruciata.
“Libero” e “il Giornale” in trincea, Fini il bersaglio, ma in ballo c’è anche la guerra degli scoop di due giornali che si litigano copie, firme, e persino i direttori. Chi vincerà nella guerra delle copie? Chi conquisterà stabilmente il target di centrodestra, quella pancia del paese evocata così di frequente da ricordare i macellai di una volta? Scivoliamo via dalla macelleria e ci rifugiamo nel gossip da parrucchiere. Non vogliamo più sentire i colpi di mortaio. Un momento, sembrano aver cambiato direzione… stanno sparando a Fini o i direttori si stanno sparando tra di loro?
(di Cinzia Leone)
Destra maldestra una lite da sinistra
Il centrodestra è diviso come neanche il centrosinistra prodiano. I giornali d’area, litigano tra loro come organi di correnti in lotta. I direttori fanno quel walzer di poltrone che hanno sempre rinfacciato a quelli di sinistra - coiè chiunque non fosse berlusconiano - come De Bortoli & Mieli. La casta dei progressisti, dicevano. Ma il ballo di fine impero piace anche a loro.
L'egemonia culturale, ottenuta attraverso i potenti mezzi di distrazione di massa del Cavaliere, sembra lasciare in eredità infrastrutture in abbondanza - tv e derivati, spesso utilizzate anche dagli avversari - ma poche idee. Al governo, è incarnata dal peggior poeta più conosciuto in Italia - Sandro Bondi non ha la colpa crociana d’esser poeta, ma di aver votato all’amor cortigiano-politico una produzione lirica cui fa velo, in negativo, solo la sua malagestione ministeriale. Ma di fatto, l’egemonia oscilla tra l’agonia - di idee e contenuti - e l’euforia - dei costumi, o malcostumi. In questa terra desolata della destra al potere, per volare alto bisogna probabilmente aspettare il ritorno, quasi annunciato, di Giuliano Ferrara in tv. Teo-cabarettista, intellettuale che da sinistra è andato a destra e poi in alto, ma che ha nostalgia del ventre, intellettualmente a terra, della tv, dove si vincono le vere battaglie.
In occasione dell’uscita di “Cabaret Voltaire. L’islam, il Sacro e l’Occidente” due anni fa, Pietrangelo Buttafuoco parlava di una destra che assomigliava alla sinistra, ma in maniera senile. E non si riferiva all’età di Berlusconi, seppure si presti come metafora biecamente biologica, ma a quella destra, finiana e non solo, che tradiva la difesa della tradizione per un giro, preso all’ultimo, di trasgressione. Di fatto, imitava la sinistra nei suoi tic, faceva proprie le sue categorie, sdoganava - ad esempio con l’attivismo pop culture de Il secolo d’Italia e i libri di Luciano Lanna e Angelo Mellone. Togliattiano è stato il legame tra Fini e molti suoi intellettuali, almeno in una certa fase, quella bocchiniana: pifferai della rivoluzione farefuturista (non senza spunti originali, di vitalità e, in un certo senso, regalando reminescenze, si parva licet, della figura archetipica dell’intellettuale organico, Martinetti: e infatti, un comunista siciliano, italiano, come Elio Vittorini coniò il famoso motto degli intellettuali che non devono suonare il piffero).
Destra e sinistra sono categorie ormai geneticamente modificate, assi cartesiani un po’ sballati, già posti male con il socialismo mussoliniano, fino al trasformismo di Berlusconi, passando per il cerchiobottismo Dc e recenti anni di neo-qualunquismo vario – prima Lega, FI, Idv, Grillo… - ma sembrano, oggi, come scrisse Valerio Magrelli in una poesia adattata come proprio laico addio al Pd binettiano, due guanti uguali. Perché uno, a turno, viene rivoltato e, dunque, è del tutto identico all’altro. Per Magrelli e altri, il Pd assomigliava, come partito, al centro-destra. Per Buttafuoco è la destra occidentalista, anti-tradizionale, alla Fini, ad assomigliare alla sinistra.
In maniera senile. Dai risultati, non ultime le reciproche campagne Feltri vs. Sallusti, Belpietro vs. Fini, Sallusti vs. Belpietro, si direbbe che la senilità della destra è molto attiva. Ma forse per l’ e-lettorato, moderato e non amante delle risse, dello scissionismo del capello, potrebbe sembrare qualcosa di maldestro, più che destro. Come maldestra è la destra che dopo la sortita antiberlusconiana di Fini, lo smarcamento, assiste ad un attendismo che è quasi un riposizionamento fallito.
(di Luca Mastrantonio)
L'antiberlusconismo nasconde l'assenza di idee
Se l'operazione non dovesse riuscirgli, è probabile che se ne inventi una tutta nuova, lasciando l'evanescente Bersani al guinzaglio della vecchia nomenklatura. L'ex-segretario può contare su una settantina di parlamentari e su una vasta rete di supporter in tutt'Italia: la prospettiva inquieta i dirigenti del Pd i quali, per di più, sono scossi dalle iniziative dei "margheritini" di Fioroni e Marini e dai prodiani ulivisti doc. Sia gli uni che gli altri sono ad un passo dall'abbandono del Pd. I primi cercano sponde nel fronte moderato (non è escluso che qualcuno approdi addirittura alla corte del Cavaliere); i secondi non sanno bene dove collocarsi ma accusano il segretario di aver «perso il bandolo della matassa» e non gradiscono che «le decisioni vengono prese ovunque tranne che nelle sedi competenti».
Perciò Parisi, Barbi, Soliani, Santagata, La Forgia e qualcun altro si riservano «il diritto di decidere caso per caso sulla linea da tenere sui provvedimenti che arriveranno in Parlamento». Berlusconi, assistito dalla fortuna, incassa divertito. Bersani, oltretutto, non sa che pesci prendere. Se si avventura ad ipotizzare un'alleanza con Vendola e la sinistra estrema è certo di perdere consensi moderati; se, al contrario, corteggia Casini e l'inesistente, per adesso, Terzo Polo, sa che dovrà rinunciare ad una buona fetta di elettori post-comunisti: lo zoccolo duro, insomma. Mai come in questi frangenti ci viene di consigliargli la rilettura di Che fare? di Lenin, consapevoli che comunque non l'aiuterà. Sul fronte dipietrista gli scontri, cominciati oltre un anno fa con un'inchiesta corrosiva pubblicata da Micromega sulla questione morale nell'Italia dei Valori, si susseguono senza esclusione di colpi. Le recenti fuoriuscite dal partito di due deputati hanno attizzato i livori contro il leader molisano. Dal suo delfino Luigi De Magistris, spalleggiato dall'eurodeputata Sonia Alfano e dall'animatore della rivista che aprì il contenzioso, Paolo Flores d'Arcais, viene, infatti, additato come responsabile di tutti i mali che stanno minando le basi di un movimento che aveva fatto della moralità e della legalità i capisaldi della sua azione politica. In soldoni: i "dissidenti" non tollerano più che Di Pietro, custode della cassaforte del partito, continui ad essere il padre-padrone dell'Idv e gli imputano candidature a dir poco avventate posto che in pochi anni otto parlamentari hanno cambiato casacca.
L'ex-magistrato non è rimasto inerte e, privo del microfono che Santoro gli offre quasi ogni giovedì, ha replicato dal suo blog a De Magistris rinfacciandogli velleità golpiste; insomma gli ha detto chiaro e tondo che il suo posto non è a disposizione e la cessione non è all'ordine del giorno. Flores d'Arcais, non vola più tanto alto nei cieli della filosofia e, sceso dalla Repubblica di Platone tra la feccia di Romolo, ha fatto sapere a Di Pietro che il 74% dei lettori di Micromega, tutti giustizialisti di provata fede, ritiene che una grave questione morale nell'Idv esista. La telenovela andrà avanti chissà per quanto. Insomma, la coalizione sconfitta nel 2008, non soltanto risulta, con tutta evidenza, incapace di produrre una chiara proposta politica, ma è costretta a rimettere insieme i cocci per tentare di sopravvivere all'implosione che si è sviluppata al suo interno. Molte sono le cause di tale disastro, dalla gestione ai personalismi, dall'amalgama non riuscito nel Pd all'autoritarismo selvaggio nell'Idv. Ma ce n'è una che spiega il fallimento di questa sinistra: l'assoluta mancanza di idee nascosta, neppure tanto abilmente, dietro ad un antiberlusconismo ossessivo che le ha impedito di costruire un'alternativa. Con questi avversari, la navigazione del Cavaliere non sarà perigliosa come qualcuno, nello stesso centrodestra (ed oggi nella terra di nessuno), si augurava.
(di Gennaro Malgieri)
Querelano ma hanno ucciso la Destra
C’era una volta una destra piccina ma compatta, che però riduceva la più ampia e più variegata destra al piccolo mondo missino, animato dalla nostalgia e da un radicalismo politico, etico e ideologico tipico di chi vuol testimoniare un’idea e un’appartenenza, senza modificare la realtà. In quel tempo c’era una fiorente galassia di piccoli giornali, riviste, aree che si definivano di destra. Poi venne la mutazione necessaria e salutare in un partito di destra più ampio e meno retrospettivo, chiamato Alleanza nazionale. Un partito che non seppe darsi contenuti all’atto della svolta, ma compì un salto nel tempo e nel modo di pensare la politica. Il suo ruolo nell’ambito del centrodestra non fu mai egemone ma via via decrescente; fino a diventare quasi irrilevante sul piano politico, culturale e pratico. L’omologazione di An andò di pari passo con l’insofferenza crescente del suo leader verso Berlusconi, fino a remare contro (ricorderete le elezioni del 2006).
Divenuto ormai un pallido clone di Forza Italia, incapace di bilanciare il ruolo della Lega, avvertendo un’imminente emorragia di consensi, An si sciolse come burro e confluì nel Pdl, metà soddisfatto e metà malvolentieri. Vinte le elezioni, incassati i dividendi e gli incarichi, a cominciare dalla presidenza della Camera, avviò la marcia contro Berlusconi.
Resto dell’idea che sia stato un errore l’estate scorsa non accogliere la critica di Fini all’inesistenza del Pdl: primo perché era motivata, secondo perché poteva essere l’occasione per rifare il Pdl; terzo, perché trasferiva la tensione dal governo al partito, arginando la bufera. Ma la storia non si fa con i se, e Fini ormai da troppo tempo non sopportava Berlusconi, sperava nei giudici e nello sfascio. La sua operazione ha avuto un sostegno mediatico senza precedenti, branchi di lupi si sono raggruppati per attaccare il governo: giornali, cortei, partiti, lobby, poteri. Però dopo la sconfitta del 14 dicembre i lupi si sono dispersi o sono rientrati nelle loro tane. E i fuoriusciti finiani hanno dovuto rinunciare pure al racconto consolatorio che stavano dando vita a una destra nuova, autonoma e moderna, perché sono finiti come una costola di quel che resta della vecchia dc, sotto la leadership di Casini, al fianco di Rutelli, La Malfa e Lombardo (baciamo le mani).
Certo, la polverizzazione della destra è avvenuta di pari passo con la mortificazione della sinistra. E tutto questo è accaduto per un paradosso: il passaggio dal bipolarismo al tentato bipartitismo ha prodotto la scomparsa della destra e della sinistra. Per la prima volta nessuna formazione politica in Parlamento si definisce apertamente di destra o di sinistra. Veltroni liquidò la sinistra, facendo nascere il P d e azzerando la sinistra. E Fini ha completato l’opera sull’altro versante, liquidando la destra in tre mosse: scioglie An, sfascia il Pdl e convoglia i residui del Fli nel terzo polo. Entrambi incolpano il berlusconismo del duplice omicidio, ma si tratta di due suicidi. Ora si pone un problema: fallito il Fli, cosa resta della destra in Italia? Vedo singoli, a volte rispettabili, politici che provengono da quella storia e fanno il loro mestiere. Vedo frammenti, piccole fondazioni che ricalcano gli ultimi scampoli delle vecchie correnti di An, ma non c’è un soggetto che le coordini, non un’area, non un giornale, una rivista, una fondazione, una cabina di regia che dentro il centrodestra costituisca il suo riferimento. Il nulla. Allora pongo alcune domande finali a i signori di destra, di vertice e di base, elettori inclusi. Vi sta bene così? Ritenete che la destra abbia ormai esaurito la sua missione storica e politica e che altre debbano essere oggi le fonti della politica e, se posso permettermi di sapere, quali? Preferite riconoscervi dentro un gran contenitore e poi ciascuno coltiva private predilezioni e civetterie? Siete in attesa vigile sotto coperta e aspettate di riaffiorare quando finirà questo ciclo e allora giocoforza da qualche punto fermo bisognerà partire? Rispondete a vostra scelta a solo una di queste domande. Qualunque sia la risposta sarà benvenuta, perché vorrà dire che nel frattempo non vi siete liquefatti o assiderati.
P.S. Per tornare a divertirci come all’inizio, ripenso al finto incontro del finto leader con una sedicente escort. La storia mi sembra finta per tante ragioni, ma per una sopra tutte: mai Fini andrebbe con una donna di nome Rachele. Il suo antifascismo gli impedirebbe di imitare il creatore del Male Assoluto.
(di Marcello Veneziani)
martedì 28 dicembre 2010
La disoccupazione? Colpa dei genitori
Nella media europea l’Italia ha pochi laureati e molti disoccupati laureati. Senza scomodare ancora le statistiche, è invece sotto gli occhi di tutti l’assenza di artigiani qualificati. In questi ultimi cinquant’anni, abbiamo avuto un grande sviluppo di impiego «astratto» e una perdita secca di lavoro «manuale». È il risultato di una visione culturale messa in atto dalla politica più vicina all’idea che lo sviluppo egualitario della società fosse la scelta giusta da perseguire attraverso lo studio universitario. La laurea diventa così, per molti genitori di umili origini, l’obiettivo che i propri figli avrebbero dovuto raggiungere per riscattare la povertà famigliare.
Quante volte nei miei anni di insegnamento mi sono sentito dire: «Abbiamo fatto tanti sacrifici che lei neppure se lo immagina, professore, per far studiare nostro figlio. E adesso che si è laureato - l’ha laureato lei, si ricorda? - è disoccupato da più di un anno. Ci aiuti: cosa dobbiamo fare?». E io non posso farci, purtroppo, niente.
Quella divisione sociale, che certa politica di sinistra pensava di superare facendo tutti dottori, non soltanto non è stata superata, ma è diventata molto più crudele di un tempo. Adesso abbiamo laureati, avvocati, ingegneri, architetti, che hanno buoni guadagni perché lavorano nello studio del padre; e poi abbiamo il gran numero di laureati disoccupati semplicemente perché sono figli di nessuno, di nessun professionista. Sono senza lavoro e, per di più, frustrati, delusi: forse ancor più delusi e frustrati i genitori rispetto ai figli con quel «pezzo di carta» che è costato tanto e che non serve a niente. Ovvio, la regola ha le sue eccezioni: per fortuna e per bravura c’è ancora chi, pur figlio di nessuno, riesce ad aprirsi la strada. Ma è una piccola minoranza.
D’altra parte, cosa dovrei dire a quei genitori sconsolati, talvolta - vi assicuro - disperati, che vengono a chiedermi aiuto? Dovrei spiegare che le lauree universitarie sono cose per disoccupati, quando nell’università sorgono come funghi le più allettanti (in apparenza) «offerte formative», che prevedono i più impensabili, fantasiosi e assolutamente inutili corsi accademici come, per esempio, quello sul «benessere dei cani e dei gatti» (giuro che è così)?
Il ministro della Pubblica istruzione sta facendo un po’ di repulisti in questi corsi di laurea velleitari che, comunque, non si dimentichi, non sono sorti per colpa di un destino cinico e baro, ma dalla testa dell’ex ministro della Pubblica istruzione, Luigi Berlinguer.
Finalmente, quello che con franchezza non riesce a dire il professore, lo dice adesso il ministro Sacconi. È stata sistematicamente distrutta la cultura del lavoro; è stato umiliato il lavoro dell’artigiano, quasi fosse un’attività per deficienti e, di conseguenza, è stata costruita un’impalcatura scolastica con cui si è azzerato il valore dello studio che preparava alla professione dell’artigiano. Politica e sindacato hanno meticolosamente costruito l’idea che il diritto allo studio fosse il diritto a laurearsi. Ottima la convinzione che la laurea diventasse un obiettivo per chiunque, ma deleteria la comunicazione sottostante a quella convinzione, e cioè che soltanto i laureati avrebbero potuto avere un lavoro dignitoso.
Naturalmente in questa trappola ideologica ci sono caduti per primi i genitori più sprovveduti, proprio quelli che più andavano difesi. I genitori, cioè, che sognavano per i propri figli una vita migliore della loro, proprio grazie al «pezzo di carta». Ma non soltanto loro sono stati ingannati dall’idea che solo la laurea potesse rappresentare un dignitoso punto d’arrivo scolastico per i propri figli.
Va cambiata una mentalità; solo una cultura politica che restituisca significato e valore sociale al lavoro artigianale può modificare quella mentalità. I genitori, a cui sta a cuore la sorte dei propri figli, devono essere aiutati a capire, attraverso iniziative politiche e sindacali nel mondo della scuola e del lavoro, che il «pezzo di carta» è oggi, sempre più spesso, un qualunque pezzo di carta.
(di Stefano Zecchi)
Parlato, Pennacchi e il fascismo: di "sinistra"
Anno nuovo è progresso?
Da circa tre secoli, anzi qualcosa di più, lo si è indicato ripetutamente: al punto che ormai tale traguardo è implicito. Un mondo migliore: di pace, di libertà, di fratellanza, di conquiste scientifiche, di benessere, di scienza, di ragione. Un tempo a questo lungo elenco di bellissime cose si aggiungeva l'uguaglianza: ma essa era troppo legata all'utopia giacobina prima, socialista e comunista poi. L'abbiamo perduta per strada. Dal momento che libertà ed uguaglianza non potevano essere scopi conseguibili insieme, abbiamo privilegiato la prima. Solo che anche così le cose non tornano. Se la libertà si fa assoluta per tutti e ciascuno, essa finisce con l'aggredire la fratellanza e con lo stabilire il regno del benessere dei pochi eletti - perché migliori, o solo perché più ricchi e più forti -, quindi del disagio per tutti gli altri.
E chi ha mai detto che scienza e ragione vadano, di per sé, d'accordo con libertà e fratellanza? E infine, come eliminare la contraddizione tra un mondo che dovrebbe procedere illimitatamente verso il miglioramento - anche nel senso dello sviluppo, alla faccia delle risorse che si esauriscono? - e il destino di ciascuno di noi, che inevitabilmente porta (nei casi più fortunati) all'invecchiamento, all'indebolimento, alla fine della vita? Si può conciliare l'ottimismo cosmico e universale con il pessimismo esistenziale, a meno che una ragione di tipo superiore, ad esempio religioso, non intervenga a far quadrare i conti?
Il punto è che l'idea di progresso illimitato punta anch'essa, implicitamente, a un fine: che può essere la "società senza classi" proposta da Marx o il raggiungimento del migliore dei mondi possibili e quindi l'amministrazione di un esistente liberale e liberistico secondo la visione - andata di gran moda una ventina di anni fa e poi rivelatasi effimera - di Francis Fukuyama. Ma tutti sanno che visioni del genere altro non sono se non laicizzazioni dell'idea ebraica e quindi cristiana della "fine dei tempi" e del "regno dei cieli".
Per i nostri antichi padri - su una linea che dall'India e dalla Persia passa al mondo greco e quindi ellenistico-romano - le cose stavano altrimenti. Il cosmo era una specie di grande essere vivente ("macrocosmo", appunto): e, come quel piccolo universo ch'era l'essere umano ("microcosmo"), degenerava, invecchiava, moriva. Alla fine di ogni ciclo, si situava una catastrofe universale, un caos dal quale nasceva però un universo nuovo: e i cicli ricominciavano. Li abbiamo studiati a scuola: età dell'oro, età dell'argento, età del bronzo, età del ferro. D'altronde, in un universo retto dall'energia dei corpi celesti, dove a ogni stella corrispondeva sulla terra un minerale, una gemma, un fiore, una pianta, un animale. E l'uomo stesso, costituito dai quattro elementi naturali (terra, acqua, aria, fuoco) ma animato da un soffio vitale, poteva rinnovarsi e riacquistar forza, giovinezza e salute esattamente come il mondo, ogni volta che la rotazione di stelle e di pianeti lo riportavano sotto la costellazione che lo proteggeva. Nacque e si sviluppò così l'idea di un tempo "ciclico", nel quale non s'invecchia ma ci si rigenera. L'anno venne diviso in stagioni e organizzato secondo il rapporto tra la terra e la più grande stella dell'universo (o quella che si credeva tale): il sole, la cui forza cominciava a decrescere a ogni solstizio d'estate e giunta al minimo riprendeva a rafforzarsi a ogni solstizio d'inverno. I romani avevano posto il momento della fine dell'anno sotto il dominio contiguo di Saturno (il Chronos dei greci: il dio della distruzione, il tempo che tutto divora a cominciare dai suoi figli) e di Giano, il signore delle porte, il dio bifronte dell'inizio e della fine. Negli ultimi giorni di dicembre, si assecondava il feroce potere del vecchio Saturno: si distruggevano le scorte alimentari attraverso orge di cibo, si assecondava il caos cosmico invertendo l'ordine costituito anche nei rapporti umani. I servi diventavano padroni per un giorno, i signori li servivano. Si prendeva un bambino, la cosa più piccola e priva di potere al mondo, e lo si eleggeva "re per un giorno" porgendogli giocoso omaggio: ci si scambiavano dei doni augurali, in quanto si erano dissipati tutti i beni accumulati in un anno durante quelle "libertà di dicembre" e si aveva bisogno di reintegrare le ricchezze attraverso il tradizionale sistema dello scambio gratuito reciproco, il dono.
Il cristianesimo, affermatosi nel IV secolo - non dimentichiamolo - anche e soprattutto per volontà di alcuni imperatori che scelsero il Cristo, procedette tra IV e VI secolo (diciamo tra il regno di Teodosio e quello di Giustiniano, i due sovrani che organizzarono la nuova fede come "religione di stato" proibendo progressivamente le altre: anche con la forza), si guardò bene dall'abolire quell'equilibrio cosmico ed esistenziale fondato sul morire e sul rinascere, che del resto ricordava da vicino anche l'esperienza del Dio incarnato su questa terra. Recuperò quindi i Saturnalia romani inserendoli in un nuovo ciclo sacrale che aveva come termini il Natale di Gesù - fissato in Occidente in coincidenza con la grande festa solstiziale del Sol Comes Invictus - e l'Epifania, il momento del riconoscimento del Bambino come vero Dio, vero Re e vero Uomo, stabilito il 6 gennaio in coincidenza con quella che, in Egitto, e quindi in tutto il Mediterraneo, era la grande Festa delle Acque sacra alla dea Iside, molti connotati della sacralità della quale passarono alla Beata Vergine Maria. Fu un modo geniale di obliterare le tradizioni pagane e al tempo stesso di riassumerle ed ereditarle con pienezza, mutandone di senso e facendo delle feste pagane altrettanti momenti di attesa e di preveggenza della Verità cristiana.
Al centro del sistema di 13 giorni - e delle fatidiche "Dodici Notti": ricordate Shakespeare? - tra il natale e l'Epifania si trovavano le Calende di gennaio, stabilite ab antiquo e confermate dal calendario approvato da Giulio Cesare come giorno d'inizio del nuovo anno. Giano, da vecchio tornato bambino (il dio bifronte, appunto...), apriva le porte dell'anno nuovo, che trascorrendo attraverso al sequenza del rinnovarsi del passaggio delle costellazioni avrebbe rafforzato, non usurato, il ciclo della vita. Era una grande battaglia contro il tempo che usura, nel nome del Tempo che rinnova. Regali e consumo festivo del cibo avevano questo senso: erano la festa che allontanava il freddo, il male, la morte.
Oggi, nel nostro Occidente, sopravvive il guscio esteriore di quell'antica sostanza sacrale. Consumiamo, ma abbiamo perduto il senso di quel consumo e l'augurio profondo di vita che la consapevolezza di esso comportava. La festa si è disciolta nel "tempo libero" e ogni anno che passa ci avvicina malinconicamente alla fine di tutto. Il cristianesimo aveva salvato il nucleo vitale del paganesimo conservandolo per l'eternità: tornando pagani, ma senza l'ormai perduto senso del Sacro, sappiamo soltanto sprecare ricchezze e accumulare colesterolo. La notte di san Silvestro, il santo della fine e dell'inizio, è solo una notte in più, una tacca sul malinconico calendario della nostra esistenza che si spenge. Reagire? Bisognerebbe cominciare con la riconquista del senso simbolico riposto negli atti che eseguiamo, nei regali e negli auguri che ci scambiamo, nelle buone cose che mangiamo. Le lenticchie, si sa, portano soldi. Ma attenti a non buttar via la vita in cambio di un piatto di lenticchie. È già successo.
(di Franco Cardini)
lunedì 27 dicembre 2010
Uccidono i cristiani ma è l'Europa ad essere morta
Non sto vaneggiando per overdose di spumanti e panettoni. È stata diffusa in milioni di copie e in migliaia di scuole, in tutta Europa e forse anche nei Paesi islamici, l’agenda ufficiale dell’Europa, firmata della Commissione europea. Nel diario europeo, che mi è capitato di vedere, c’è traccia delle più estrose festività relative alle più minoritarie religioni, ma non c’è alcun riferimento alle festività antiche, canoniche e ufficiali della cristianità europea. Non si sa perché festeggiamo Natale e le altre festività religiose, nulla è accennato sull’agenda che ricordi la Natività, la Resurrezione e tutto il resto, nulla che segni in rosso una santa festività. Ma quale Natale, Pasqua, Epifania, diceva Totò, a cui evidentemente si ispira l’Unione Europea. L’ha fatto notare, protestando, il ministro degli Esteri Frattini, ma in questi giorni l’Unione europea è chiusa per inventario merci (non esistendo il Santo Natale) e dunque la protesta affonda nel vuoto vacanziero di questa vuota Europa.
A ragion veduta possiamo perciò accusare l’Unione europea di negazionismo. L’Unione europea è un’associazione vigliacca di smemorati banchieri fondata sul negazionismo. Nel giro di poche ore, l’Unione europea ha infatti negato le festività cristiane e dunque la sua tradizione principale ancora viva da cui proviene e nel cui nome ha un calendario e un sistema di festività. Ed ha pure negato ai Paesi dolorosamente usciti dal comunismo il diritto di considerare i loro milioni di vittime sullo stesso piano delle vittime del nazismo. Come sapete, la Commissione europea ha negato che si possano equiparare gli stermini comunisti a quelli nazisti e possa dunque scattare anche per loro il reato di negazionismo. Pur avendo commesso «atti orrendi », i regimi del gulag, secondo la Commissione europea, «non hanno preso di mira minoranze etniche». E che vuol dire, sterminare i borghesi o i contadini è meglio che sterminare gli appartenenti a una razza? Uccidere chi non la pensa come te è un crimine meno efferato che uccidere chi è di un’altra razza? Tra le fosse di Katyn, le foibe e le camere a gas di Dachau, qual è la differenza etica, giuridica ed umana? Tra chi nega gli stermini di popolazioni civili di Paesi invasi dal comunismo e chi nega gli stermini etnici, qual è la differenza? È ideologica, signori, puramente ideologica. Come ideologica è la negazione delle tradizioni cristiane più popolari. Non parliamo infatti del dogma trinitario o di altri quesiti teologici, qui parliamo di Natale e Pasqua, avete presente? Alla base dell’Europa c’è un negazionismo vigliacco e bugiardo, che non è solo quello di negare alcuni colossali orrori per riconoscere e perseguirne degli altri; ma negare l’Europa stessa, la sua vita, il calendario che scandisce i suoi giorni, la sua realtà e la sua verità, la sua tradizione e la sua storia.
Il negazionismo dell’Unione europea è ancora più grave del negazionismo elevato a reato: perché non nega solo alcuni orrori, ma nega anche in positivo la storia, la provenienza, la vita europea. Del suo passato l’Unione resetta tutto, difende solo la memoria della Shoah, e poi cancella millenni di civiltà cristiana, millenni di natali e pasque, orrori del comunismo e di altre tirannidi. Che schifo. Io non ho ancora capito a che serve l’Unione europea fuori dall’ambito economico. Non è un soggetto politico che esprime posizioni unitarie, non ha un governo passato dal consenso del popolo europeo, la sua stessa unione non fu voluta o almeno ratificata da un referendum costitutivo del popolo sovrano. Non è un soggetto culturale e civile perché non fa nulla per affermare, difendere o valorizzare l’identità europea, anzi fa di tutto per negarla. Non ha una sua carta costituzionale dove declina le sue generalità storiche, le sue affinità ideali, i suoi principi, le sue provenienze civili e religiose. Non ha una sua politica estera unitaria o una strategia internazionale, e non si occupa di stragi dei cristiani, semmai si agita solo se c’è una donna condannata a morte per aver ucciso il marito in Iran.
Insomma, l’Europa non è mai nata e ha paura pure della sua ombra. Esiste solo un sistema monetario unico, un sistema di dazi e di regole, di banche e di finanziamenti. È un ente economico, un istituto per il commercio. Per questo l’Unione europea non esiste, abbiamo ancora la Cee, la Comunità economica europea. Anzi non sprechiamo la parola comunità per un consorzio economico, torniamo al Mec, Mercato europeo comune. L’Europa è un morto che cammina.
(di Marcello Veneziani)
Psicopatologia di Gianfranco Fini
È alto Gianfranco Fini, il martire, ma ha lisce le gote, dunque in sospetto di cosmesi, perché il pelo che dovrebbe tenere in faccia lo tiene dentro e sopra lo stomaco a fargli mucchio in rancore e vendetta. Apre e chiude la giacca, ipnotizza nella ripetizione del gesto i suoi interlocutori a Montecitorio e sibila: «Io sono un ka-mi-ka-ze. Mi faccio esplodere in mezzo a tutti voi. Io mi farò male, ma ne farò tanto a Ber-lu-sco-ni». Apre e chiude la giacca e gli altri, con tanto d’occhi, indietreggiano, mormorando: «È impazzito».
Il 15 dicembre, il giorno dopo la votazione alla Camera che assesta a Fini la sconfitta confermando, al contrario, la fiducia al governo Berlusconi, c’è il Corriere della sera che ripubblica una vignetta di Giannelli uscita a marzo: il 1°, precisamente. C’è disegnato Fini che dice del Cavaliere: «Quando non parla, non so come contrastarlo». Il famoso punto, questo. Lui e l’Altro in eterna guerra. E un ruolo istituzionale, quello ricoperto da Fini, sfregiato da ciò che è diventato un precedente: quello che verrà dopo di lui si sentirà in dovere di fare politica. Detta regole, tempi e procedure. Dallo scranno di Montecitorio invia bigliettini, telefona, dispone, decide. Fa l’arbitro allenatore. Uno dei suoi uomini migliori, Alessandro Campi, politologo, erede di Domenico Fisichella, glielo ha già scritto: «Dimettiti». Ma il Fini compiuto e cresciuto nella propria evoluzione di «tipo umano» l’aveva descritto, anni fa, Geminello Alvi, in un esercizio di fisiognomica e politica: «È un allenatore di pallacanestro».
Lui, ormai, costretto al ribaltamento di un destino (da numero due di Berlusconi a numero due, di fatto, di Pier Ferdinando Casini) fa dunque fronte agli «impedimenti dirimenti», questi: Fini che dichiara di non voler cedere lo scranno da presidente della Camera malgrado il suo conclamato ruolo da leader d’opposizione; il Cavaliere che rivela (per poi smentire, ma solo pro forma) come Fini sottobanco stringa accordi con i magistrati; Casini, infine, che prende l’iniziativa politica, fa accomodare allo stesso tavolo tutto il terzo polo, il Polo della nazione, ovvero Paolo Guzzanti con altri sparsi esponenti di varia titolarità e con gli uomini di Francesco Rutelli. E quando quest’ultimo è seduto di fronte a Fini, siccome in politica il simbolico proclama l’agnizione, sta succedendo che Casini sta mettendo di fronte due eredi di due diverse sconfitte irrimediabilmente costretti al ruolo di perdenti, con Fini ancor di più segnato fino a prossima scadenza. «La tempesta mi ha fatto naufrago in quest’isola di selvaggi, vedrò come sopravvivere, anzi come civilizzarli»: questo il commento scherzoso dell’intraprendente democristiano tornato in auge. E questa è la conseguente ermeneutica di cotanta agnizione: quale Robinson Crusoe, Casini ha fatto di Gianfranco Fini il proprio Venerdì in tanta isola di sopravvissuti.
Ma lui, ormai, forzato al cambiamento, ha da mettere ancora a frutto il lavorio che altri, Italo Bocchino soprattutto, hanno svolto su di lui. Ancora poco tempo fa Bocchino, accompagnato da Chiara Moroni, ha fatto incontrare il suo protetto con Carlo De Benedetti. Ancora nel giro delle feste, per la tombolata a Napoli, un Fini dalle gote sempre più lisce, accudito dalla smagliante Elisabetta Tulliani, ha esercitato quello stile appetibile all’antropologia degli ottimati marcando la differenza col berlusconismo: niente ragazze vistose, solo Babbo Natale. Masticando chewing-gum.
Lui, fatto nuovo da Bocchino che gli ha procurato il sarto e lo ha introdotto nei luoghi giusti, quelli che dovrebbero accoglierlo in extremis, spremerlo un tanto ancora perché tutto va bene purché trionfi il Ttb (Tutto tranne Berlusconi, copyright Giuliano Ferrara), è diventato uno strano animale di destra adatto al pubblico di quella sinistra sempre incapace di uscire dalla trappola obbligata del dover inghiottire sempre il male minore. Come l’avere adottato il piccolo farabutto in odio al grande farabutto. Aggrappati alle magagne decisamente troppo piccole, siano esse la casa di Monte-Carlo, il contratto in Rai per la suocera, fino allo stridente ruolo di presidente della Camera in eterno conflitto politico, la sinistra che s’è fatta scudo con Fini contro le gigantesche magagne del nemico assoluto, questo suo eroe di una destra così abbondantemente predicata da non avere però un linguaggio proprio l’ha spremuto a sufficienza.
Abbandonato dai grandi giornali e perfino dall’Unità che ne ha chiesto le dimissioni dalla presidenza della Camera, Fini che rilancia la propria telegenia pur con quelle cravatte sbagliate dicendo, e facendo cose che non avrebbe mai immaginato di dire e fare ancora un paio di anni fa, vive il dramma di una sua ristretta cerchia (Francesco Proietti Cosimi su tutti, suo inseparabile amico), pronta a restare un passo indietro. E non può precipitare nel baratro di una storia a tutti loro sconosciuta: dai matrimoni per gli omosessuali al testamento biologico, fino alla liberalizzazione delle droghe.
Fatto tutto nuovo da Bocchino, Fini, che da sempre ha avuto un mentore, un regista che lo guidasse in scena, e lo ebbe in principio con donna Assunta, dunque con Giorgio Almirante, quindi con Pinuccio Tatarella, infine con Maurizio Gasparri e Ignazio La Russa, passando poi con Giuliano Amato, lo stesso Giorgio Napolitano, per darsi adesso, mani e piedi, al capogruppo a Montecitorio del Fli che ha cancellato antiche antipatie portandolo fin dentro casa, facendolo amico di famiglia e di gioiosa comitiva, Fini fatto tutto glamour vive queste giornate difficili come un doppiatore maldestro costretto a dare voce a un copione malfatto. Abile divulgatore di concetti altrui, ascoltatore di estenuanti riunioni, fumatore da nevrosi più che di piacere, Fini che allena rischia una partita dove i giocatori, quando non si picchiano tra loro (toni accesi ci sono stati tra Fabio Granata e Silvano Moffa), se ne vanno.
Se n’è andato appunto Moffa e su quell’uomo, la cui tempra morale è indiscussa, Fini non può consolarsi immaginandoselo «corrotto» come un Domenico Scilipoti qualsiasi (che poi, lo Scilipoti, agopunturista, più che comprato è stato sedotto da Berlusconi. Il premier, convocandolo nel suo studio da premier, gli s’è mostrato offrendo il polso affetto dalla tendinite: «Solo Ella mi può dare sollievo». E quello, lo sventurato, lo punse).
Quella sua destra così tanto predicata, la destra tutto stile costituzionale e marche da bollo, lui proprio non la sa esprimere. Tutto questo sforzo, tutto un aprire e chiudere la giacca, per poi rispondere alle domande dei cronisti come risponderebbe Debora Serracchiani?
(di Pietrangelo Buttafuoco)