domenica 30 gennaio 2011

Perché sono antiberlusconiano da sempre


Silvio Berlusconi è entrato nel mio mirino nell'estate del 1986, un quarto di secolo fa, quando presentò il Milan all'Arena di Milano con contorno di vallette, letterine, cantanti alla moda, saltimbanchi. Mancava la puttanona scosciata in groppa all'elefante e saremmo stati in pieno Super Bowl. Era l'inizio dell'americanizzazione del calcio e quella definitiva del nostro Paese. Scrissi per l'Europeo un pezzo intitolato "Un americano a Milano" che cominciava così: «O il calcio distruggerà Berlusconi o Berlusconi distruggerà il calcio» (Europeo, 2/8/1986). Naturalmente ha vinto lui, come sempre.

Era da pochi mesi presidente del Milan che disse: «Non capisco perché a San Siro debbano venire anche i tifosi delle altre squadre togliendo il posto ai nostri». Qui c'è già tutto Berlusconi. Un bambino goloso che vuole giocare solo lui con la palla, gli avversari, se ci sono, devono essere di pura parata a sua maggior gloria, se fanno il loro mestiere «remano contro».Un prepotente patologico. Del resto bastava vederlo giocare, come è capitato a me, sul campetto dei Salesiani di via Copernico a Milano: era alto come il nano Bagonghi, ma pretendeva di fare il centravanti e non passava mai la palla. Anche qui c'è tutto Berlusconi. Quando il Cavaliere afferma «Bisogna fare gioco di squadra» in realtà vuol dire che si deve giocare per lui. E chi non ci sta finisce fuori.

E venne il "caso Lentini", il giovane asso del Torino. Berlusconi lo voleva a tutti i costi e fece un'offerta di 40 miliardi. Il giocatore dichiarò pubblicamente che i soldi non erano tutto, che ci sono anche altri valori, sentimentali, affettivi, emotivi, che lui era nato a Torino, giocava nel Torino dall'età di otto anni e lì voleva restare. Allora Berlusconi portò l'offerta all'incredibile cifra di 64 miliardi e il giocatore, figlio di operai delle Banchigliette, cedette. Il Cavaliere aveva dimostrato al ragazzo e al vasto mondo giovanile che ruota intorno al calcio che i soldi, nella vita, sono tutto. Una sana pedagogia. Come in una sinistra favola gotica Lentini, psicologicamente disturbato dal cambiamento d'ambiente, ebbe uno stupido incidente d'auto e non servì mai al Milan. Lo stupro era stato inutile, come nella canzone di De Andrè, "Il Re fa rullare i tamburi", dove il Re, incapricciatosi della sposa del Marchese, gliela toglie con le lusinghe e la prepotenza, ma la Regina, celando la sua offesa, regala dei fiori alla rivale «e il profumo di quei fiori ha ucciso la Marchesa».

In quel periodo Berlusconi comprava giocatori dappertutto, sapendo di non poterli fare giocare, pur di toglierli alle altre squadre. Il nazionale De Napoli in due stagioni giocò sette minuti, Savicevic, che allora era il miglior giocatore del mondo dopo Maradona, rimase a palleggiare per due anni nel parco di Arcore (c'erano i tre olandesi ed esistevano ancora i limiti all'impiego degli stranieri). Nonostante abbia sempre in bocca la "lealtà" Berlusconi è un uomo profondamente, intimamente, sleale, antisportivo. Non è affatto vero che ami la competizione, il suo sogno è un mondo ecumenico, un cielo dove brilli una sola stella, la sua. È un uomo che non sa perdere. La grottesca e disgustosa sceneggiata di Marsiglia docet.

Si è servito del Milan come principale strumento pubblicitario della Fininvest («Il Milan vince perché adotta la filosofia della Fininvest»), snaturando completamente il senso, psicologico e sociale, del calcio. Perché uno va allo stadio per dimenticare, almeno per un paio d'ore, gli affanni quotidiani, i problemi economici e politici, non per ritrovarseli sul campo sotto forma di Fininvest o di Parmalat o di Fiat e, più tardi, di presidenza del Consiglio.

In fondo bastava il calcio per capirlo. In compenso Berlusconi non capisce nulla di calcio. Voleva introdurre il "time out" come nel basket per eliminare i "tempi morti". Ma quando si sta per tirare un calcio d'angolo o una punizione, e in area succede di tutto perché i giocatori, attaccanti e difensori, cercano di trovare la posizione migliore, è un "tempo morto" quello?

Ebbi un momento di parziale resipiscenza nel 1994 quando Berlusconi si presentò alle elezioni. L'uomo continuava a non piacermi per nulla, per la sua mitologia del "vincente", per il suo egoriferimento, per l'incapacità di capire che esistono anche gli altri. Però era la prima volta che un imprenditore aveva il coraggio di metterci la faccia (il coraggio a Berlusconi non è mai mancato), invece di nascondersi dietro prestanome come facevano gli Agnelli. Così al posto di demonizzarlo da "Cavaliere nero", come faceva anzitempo la sinistra, scrissi per l'Europeo un articolo in cui dicevo sostanzialmente: vediamolo alla prova.

Ma venne il famoso "avviso di garanzia" del 1994, appena diventato presidente del Consiglio. Non era grave l' "avviso di garanzia", che è un istituto a difesa dell'indagato. Gravissima, e premonitrice, fu la risposta che Berlusconi diede a un cronista che gli chiedeva che cosa sarebbe successo se alla fine del procedimento ci fosse stata una sentenza sfavorevole: «Sarebbe una sentenza eversiva». Ed invece eversiva era proprio quella risposta, perché voleva dire che il presidente del Consiglio non accettava le leggi e le Istituzioni del suo Paese. E infatti arrivò la stagione delle leggi "ad personam" e "ad personas", le Cirami, le Cirielli, la norma suicida (per l'Italia) sulle rogatorie, i Lodi Maccanico, i Lodi Schifani, i Lodi Alfano, il "processo breve", cioè impossibile, il "legittimo impedimento" e la costante, capillare e devastante delegittimazione della magistratura italiana. Berlusconi, in questi anni, ha dimostrato di non avere nessun senso di essere classe dirigente. Una classe dirigente consapevole di sé e del suo ruolo non delegittima le Istituzioni perché sono le sue Istituzioni e dalla loro dissoluzione e dall'anarchia ha tutto da perdere mentre chi non ne fa parte da perdere, per dirla con Marx, «ha solo le proprie catene» (e infatti né Andreotti né Forlani, che saranno stati quello che saranno stati ma questa consapevolezza ce l'avevano, non hanno mai accusato la Magistratura di "complotto").

Una delle principali, se non la principale, responsabilità di Silvio Berlusconi è di aver tolto al popolo italiano quel poco di senso della legalità che ancora gli rimaneva. E in ogni caso, al di là di ogni considerazione giuridica e politica, ciò che io sento come profondamente e intimamente lesivo della mia dignità di uomo è che ci sia qualcuno che pretende di non sottomettersi alle leggi che io invece, come tutti gli altri, devo rispettare, relegandomi a cittadino di serie B, in una orwelliana "fattoria degli animali" dove «tutti gli animali sono uguali ma ce ne sono alcuni più uguali degli altri». Se Berlusconi avesse frequentato di più la strada e i bar avrebbe capito, a cazzotti, che certe pretese da "superiority/inferiority complex" era meglio che se le rimettesse in tasca.

Faccio grazia delle infinite gaffes di quest'uomo che oscilla perennemente fra il comico e il tragico. Racconterò un solo episodio. Ero in Corsica e leggevo Corse Matin che si occupa principalmente di fatti locali, dà alla Francia una sola pagina e alle vicende internazionali ancora meno. Ma quando Berlusconi all'assemblea di Strasburgo diede del "kapò" al capogruppo socialdemocratico Shultz, anche Corse Matin titolò in prima pagina «Derapage de monsier Berlusconi a Strasburgo».

Il Berlusconi di questi ultimi, stanchi, giorni, mi fa pena e quasi tenerezza. La mia impressione è che, nonostante le sue sette ville, più quella alle Bermude (sarebbe stato meglio "il triangolo delle Bermude"), i suoi jet personali, i suoi elicotteri, le sue scorte feudali, le sue ricchezze, dominato com'è dal suo demone, il "fare per il fare", non abbia avuto il tempo per godersi la vita e cerchi di recuperare in finale di partita. Queste storie delle ragazze sono un segno di senilità e non sarò certo io a giudicarlo. Anzi su queste storie di mutanda, che scatenano le "suorine di sinistra", l'ho sempre difeso sul Fatto. Anche se fa una certa impressione che un uomo col suo potere e con i suoi soldi debba ridursi a bazzicare dei semicessi come la D'Addario, dovendole, per soprammercato, anche farsele pagare. Berlusconi, nonostante tutto il consenso popolare, e spesso la piaggeria dei saprofiti che lo circondano, è un uomo solo. E vale, credo, quello che scrissi sull'Europeo all'epoca del "caso Lentini" in un articolo intitolato: «Ma Berlusconi resta sempre un poveretto».

(di Massimo Fini)

L'immagine delle Istituzioni

In un video dello scorso settembre il presidente della Camera disse che se la casa di Montecarlo, venduta dal suo partito, fosse risultata appartenere al fratello della sua compagna, non avrebbe esitato a dimettersi. Qualcuno sostiene che quella circostanza si è verificata e che Gianfranco Fini deve rinunciare al suo incarico. Altri, fra cui l'interessato, ribattono che lo farà soltanto se il fatto sarà confermato dalla magistratura italiana. Corriamo il rischio di impelagarci in una situazione in cui le sorti di una delle maggiori cariche istituzionali italiane dipendono da fattori estranei alle esigenze della vita politica nazionale: le carte provenienti da una minuscola isola dei Caraibi, non universalmente nota per la sua impeccabile reputazione amministrativa, o il calendario giudiziario di Procure che dovranno inquisire, interrogare, nominare esperti e chiedere rogatorie internazionali. Non è il modo migliore per affrontare la questione.

Fini ha formulato idee e programmi che hanno suscitato interesse e consensi in una parte del Parlamento e del Paese, ha creato un partito ed è passato all'opposizione. Quando i suoi vecchi compagni del Pdl hanno sostenuto che il nuovo ruolo è incompatibile con le sue funzioni istituzionali, Fini ha risposto che sarebbe stato capace di essere contemporaneamente leader politico e scrupoloso presidente della Camera. Ho avuto qualche dubbio e ho pensato che certi sdoppiamenti sono da evitare. Ma i regolamenti parlamentari non permettevano di obbligarlo alle dimissioni e la prova di una promessa dipende, dopo tutto, dal modo in cui è mantenuta.

Da allora il rebus italiano, come lo chiamava Cecilia Kin, una intellettuale russa innamorata dell'Italia, è diventato ancora più imbrogliato. Il premier è inquisito per uno scandalo che ha fatto il giro del mondo, ma resta al suo posto ed è sostenuto da una coalizione che è ancora maggioranza. La lunga marcia verso il federalismo si scontra con difficoltà che potrebbero provocare la fine della legislatura. L'ombra delle elezioni anticipate incombe sul quadro politico e chiama in causa il ruolo decisivo del capo dello Stato. La Corte costituzionale è stata costretta a decidere se e quando il presidente debba andare in tribunale per difendersi. Tutte le maggiori istituzioni sono costrette a uscire dai loro binari per affrontare ostacoli imprevisti. Mai come ora l'Italia ha avuto bisogno di persone che non siano protagoniste di un duro scontro politico e reggano con forza il timone delle regole e delle procedure. Queste persone sono soprattutto il presidente della Repubblica e i presidenti delle Camere: un terzetto che deve poter richiamare i contendenti alle regole del gioco. Fini dovrebbe chiedersi se le circostanze gli consentano di esercitare questa funzione nel miglior modo possibile. Non metto in discussione le sue capacità e le sue intenzioni, ma osservo che ogni sua decisione istituzionale, nelle prossime settimane, potrebbe diventare ragione o pretesto di sospetti e accuse.

Il calendario dei lavori, la durata dei dibattiti, il diritto di parola di un deputato, persino i tempi di una interrogazione: tutto ciò che rappresenta il lavoro quotidiano di un presidente della Camera potrebbe trasformarsi in materia di contestazione e complicare ulteriormente la situazione politica. Il problema non è la proprietà della casa di Montecarlo. Il vero problema è se la casa Italia, in queste condizioni, possa essere decorosamente amministrata nell'interesse di coloro che la abitano.

(di Sergio Romano)

Al sommo scrittore querulo


Tutto quello che non ti dico quando ci vediamo, caro Roberto, tutto quello che metto tra parentesi per la leggerezza del volersi bene e il piacere di vedersi al ristorante o tra gli uffici e le scale di via Sicilia, alla Mondadori, te lo metto per iscritto adesso. E ti chiedo: perché, tu che non somigli a nessuno, vuoi assomigliare ai tuoi lettori? Guai se Georges Simenon, che è un genio, risultasse identico ai viaggiatori negli scompartimenti, i suoi lettori. Sarebbe solo un disturbato incapace di vedere la propria vita. Magari sarebbe in grado di uccidere. Ma non di scrivere e di scappare via da quel mondo: “Sono partito – così confessò – proprio per non commettere quei delitti di cui mi sarei volentieri macchiato se fossi rimasto in provincia”. Guai, dunque, se Carmelo Bene somigliasse agli astanti dispersi nei teatri, tutti orfani della sua voce, sarebbe macchietta, un pernacchio nasale e perciò sarebbe pensato, non de-pensato. Guai se un Baudelaire potesse essere scambiato con tutti i suicidi, gli allunati e i malati di poesia, guai, infine, se perfino una Raffaella Carrà si specchiasse in tutte le checche scatenate nel ballo del tuca tuca. Sarebbe solo una megera senza talento, non più un monumento pop. Sono i Moccia che, in quella discesa agli inferi che è l’identificazione, vanno ad assomigliare ai loro lettori. S’identificano al punto di mettersi il cappello di Qui, Quo, Qua a cinquanta anni suonati. E così anche la Parodi, quella dei ricettari di cucina, se vogliamo usare il parametro delle vendite sterminate e milionarie.

Ecco, a maggior ragione se si è star del pop system internazionale bisogna garantirsi il pathos della distanza. Te lo spiegò, se non ricordo male, Salman Rushdie: “Una vita dura, la nostra. Se poi non ci ammazzano finisce che ci odiano tutti”. E tu e Salman Rushdie ne avete di ironia e distacco per sapere affrontare una vita disgraziata perché blindata. Quello è un dio della grande scrittura, tu pure, e però col cavolo che Rushdie s’identifica con i suoi lettori: dispensa grazia, non testimonianza. Capii di che legno è fatta quella scopa quando, al Centenario della Mondadori, a Milano, io che sono saraceno, me lo trovai accanto e quella distanza ravvicinata, fresco com’ero della salat della sera, l’essere arrivato così vicino, mi sembrò di essere io la famosa falla nella sicurezza. Un po’ come le escort che entrano ad Arcore, ecco. Non sanno proprio proteggerlo, mi dissi, anche con una sola forchettata sul dito un poco di Paradiso me lo prendo di sicuro. Ma non divaghiamo. Questo per significare quanto accessibile sia per ogni passerotto lieve di fatwa la capoccia del più tonitruante monumento.

Torniamo a bomba e perciò, Roberto caro, mi ripeto, anzi, ti chiedo: non cercare di assomigliare ai tuoi lettori. Non lasciarti sedurre dall’orgia degli innumerevoli. Perché l’impostura è la dea delle folle. Deve esserci qualcosa nell’aria, una sorta di diossina del pensiero banale se poi capita, come mi è capitato, di vedere in un vagone della metropolitana una ragazza e un libro. Una che nel 1966 avrebbe avuto l’“Antologia di Spoon River” tra le dita, nel 1974 le pagine con le canzoni di Bob Dylan, nel 1988 o ancora più avanti i “Figli della mezzanotte” di Rushdie e, invece, qualche mese fa, una ragazza come quella, bella, una ragazza che si merita sogni e poesia, una ragazza il cui sangue è incanto, se ne stava immersa nella lettura di un saggio di Chiarelettere, un libro sui conti della famiglia Moratti. Ecco, caro Roberto, forse per questo l’Italia che non ha più grandezze, che non conosce né il Tasso ma neppure Guglielmo Marconi, diventa periferia, un quartiere di rancorosi che, se solo potessero, farebbero peggio di quelli che vogliono impiccare. Come può appassionare mai un brogliaccio giudiziario sui soldi della famiglia Moratti? Un mistero del marketing, forse. Deve essere il famoso target applicato alla poiesis che trasforma le ragazze in graziose comarelle dell’indignazione.

Pensa, dunque, se uno dovesse veramente identificarsi con i propri lettori, tutti quei disturbati che trovano anche il tempo di scrivere ai propri giornali o, peggio, sul Web. Pensa: i famosi utenti del Web. Sono quelli che commentano, quelli che postano, quelli che linkano, quelli che però sono discesi tutti per i rami dalla libera uscita delle latrine. Sono sempre quelli, e sono gli stessi, che nella notte dei tempi scrivevano sul muro del cesso “Viva la Fica” e, adesso, aggiornati ai tempi nuovi, “Culo offresi”.
Ecco, Roberto caro, tu poi lo sai come sono fatti i lettori, specie quelli del Web, quelli che si eccitano quando dai voce a tutti i capitoli – siano i brogli alle primarie del Pd a Napoli, sia, come dici, la salvaguardia della memoria, ovvero le tue trasmissioni. Ogni tua minima sfiatatella diventa bum! e a vedere il sito di Repubblica, che sembra la casamicciola degli onesti, pare non ci voglia niente a raddrizzare le gambe ai cani. La coscienza civile fa tutto facile ma tu lo sai, in tutta onestà, quella cruda, in tutto cinismo, quello smagliante, che Napoli e ’mbroglio sono la stessa cosa. Sono sinonimi. Io sono cresciuto con la santa anima di Pinuccio Tatarella che nei momenti difficili alzava gli occhi al cielo e pregava: “’Mbroglio, aiutami tu”. Non si può chiedere a Napoli di dimettersi da Napoli. Sarebbe un doppio imbroglio. Anche a Milano li fanno gli imbrogli. Solo che non li chiamano così. Trovarli a Napoli è un luogo comune che neppure l’alto tribunale della scrittura, la tua, può cancellare. E poi, che cosa te ne fotte a te del Partito democratico se non sei il Partito democratico? Se proprio vuoi sporcare la tua santità, e non sarebbe male, insozzala col genio e il genio è quello che non si fa mai trovare dove gli altri pensano di beccarlo, fai di te stesso un politico e però rischia, fai il nuovo Gabriele D’Annunzio, porta tutto il sangue dei pazzi a Casal di Principe, fanne la nuova Fiume, diventa Comandante e Poeta, fatti bombardare da tutti i Cagoia e non incensare dai soliti babbioni. E poi metti tutta la Napoli possibile dentro Napoli e non cavartela facendo il regista di un magistrato, il dott. Cantone, che giustamente vuole fare solo il suo lavoro e non il successore di Antonio Bassolino. In Sicilia, sai, abbiamo un proverbio magnifico: “A Napoli fanno gli imbrogli e a Palermo li sbrogliano”. Qualcosa vorrà dire.

Ecco, caro Roberto, tu non puoi essere “un militante appassionato”, tu non hai sfasciato un monolite d’indifferenza sulla macchina di morte e miserabile vita di Casal di Principe per diventare quello che, oplà, dirà così e cosà, e anche le motivazioni che hai dato per la tua decisione di pubblicare con Feltrinelli i copioni delle tue puntate in tivù con Fabio Fazio, sono entrate in un registro da “signora mia”. Hai parlato di “salvaguardia della memoria”, manco si trattasse di chissà quale lavacro di martirio a rischio oblio. Più di cento milioni di cristiani sono stati sterminati in soli settanta anni di potere sovietico (grazie a Putin abbiamo questa notizia di cui non se ne strafotte nessuno in occidente), non è stato manco Stalin ad ammazzarne, anzi, piuttosto quello buono, Kruscev, non se ne strafotte nessuno di questa storia, accuratamente censurata dalla Sacra Città del Vaticano e tu te ne vieni con la “salvaguardia della memoria” delle tue orazioni civili fatte in coppia con Fabio Fazio a “Vieni via con me” che, con tutto il rispetto per la storia della televisione, non stiamo parlando certo di “Rischiatutto”?

Ecco, caro Roberto, io vorrei svegliarti al destino della tua giovinezza, della tua disobbedienza, del tuo coraggio, del genio savianeo che riesce a discernere, anche con gli occhi dei tuoi ragazzi più sinceri, ovvero gli uomini della scorta, un’Italia (qualora ci fosse) carica di energia e non di cloroformio narcisista. Io vorrei che la tua natura furbacchiona facesse la tara e perciò voglio sperare che sia solo per un sommo disprezzo della beota natura democratica, con il gusto di vedere l’effetto che fa che tu, a quelli che stanno dalla parte del Bene, a quelli che si sentono l’Italia migliore, butti l’osso di una stupidata, quella della solidarietà in forma di dedica ai pm di Milano che indagano sulle meste mutande di Silvio Berlusconi. Magistrati, sia chiaro, che stanno facendo il loro dovere con grande dispendio intorno al pelo inteso come pilu ma non sono certo a rischio di essere isolati, pensa un po’, o di perdere la vita. Manco fossero, insomma, a Gela o nella tua Scampia, tra le ammazzatine vere e non, invece, come sono, a Milano, in un’inchiesta di zoccole e niente più. Quella che tu chiami “macchina del fango”, accusare la Boccassini, come ha fatto il Giornale, di aver baciato un uomo più di trenta anni fa, un suo uomo, fosse pure di sinistra, non è stata solo una caduta di stile ma il tipico rutto di destra che, ahimè, qualifica la destra e non infanga la Boccassini. Il bacio resta pur sempre un apostrofo rosa, non un festino. Lo capiscono perfino i lettori.

Un po’ di spirito sovversivo, caro Roberto, non ti farebbe male. Tu non puoi metterti in coda dietro un Vito Mancuso e fare la Casta Diva sull’odiata proprietà Mondadori. Se sei collega di catalogo con Silvio Berlusconi in persona, visto che ha fatto stampare un suo libro con tanto di corredo fotografico presso Mondadori, non è uno stridente contrasto perché è solo Italia quella che si distende ai tuoi piedi. Anche nel tuo film, “Gomorra”, qualche comparsa risultava reclutata dalla camorra, pensa se fosse successo in un qualsiasi cinepanettone di produzione Medusa, si sarebbe scritto, magari chiedendo un tuo commento: la camorra investe nei film di Natale. Ecco, vedi?, anche io sto precipitando nel luogo comune, ma è che a forza di abbassare il livello l’acqua si stagna sempre.

Ma tu, caro Roberto, resta fiero e orgoglioso di essere seguito dal grande pubblico ma in privato, per favore, facciamocela una grassa risata su questa gara di solidarietà che ti sostiene, specie quella degli scrittori, tutti tuoi odiatori, gente che vorrebbe sgozzarti più di quanto non voglia fare Sandokan, il casalese, tanta è l’invidia ma che però, per obbligo di conformismo, fa tutto il ciripiripì di complimenti e forza Roberto di qua e forza Roberto di là. E ancora stanno a fare marameo allo strummolo.
Tu che non somigli a nessuno come puoi consentire a te stesso di assomigliare ai tuoi lettori, compresi quelli che vanno a ruota, per sentito dire, e non per consapevolezza critica? Tu che non somigli a nessuno hai solo l’obbligo di assomigliare alla tua opera, ai tuoi libri, alla letteratura che ti rende speciale e divo. Un divo impegnato, ovvio, come un Camus, un Sartre, un Gide o come un Aldo Busi. Tutta gente che sa spiegare per avere studiato tanto e che se deve parlare del bunga bunga lo fa in forza del “Satiricon”, per parlare dunque alla scrittura, e non ai fan rintanati nelle latrine del Web con un colpo di scena, quella dedica, suvvia, così stupida, buona al più di un Loris Mazzetti e non certo di un Leonardo Sciascia.

Appunto, a proposito: Leonardo Sciascia. Tu lo sai perché ne abbiamo parlato ed è un tema che bussa alle tue spalle, quello della continuità tra lui e te in tema di analisi del potere, di letteratura e potere, di denuncia e potere. E di mafia. Sono passati tanti anni e tu oggi hai quella vita blindata che lui, per sua fortuna, non ebbe mai. Visse, lavorò e morì nella sua Racalmuto e il danno che fece ai don, agli zii, ai capi mafia, con i suoi “Candide”, con la sua “Civetta” e con i suoi “Todo Modo” furono danni grandi notificati non solo alla mafietta agreste ma al cuore nudo del potere che, in forza di una grande lingua, Sciascia seppe disossare e svelare in tutte le sue epifanie: da quella pretesca a quella parlamentare, da quella finanziaria a quella, scivolosa, del conformismo erto a sigillo del giustizialismo, quello che – per dirla con Emanuele Macaluso – faceva sovrapporre alla bilancia della giustizia i famosi “occhiali di Cavour”, ovvero, le manette.
Siccome l’essenza di ogni lingua è il lapsus, al momento potrei dirti che non so perché ho evocato Sciascia in questo mio colloquio muto con te ma siccome ho le corna lunghe del paraculo, faccio a paraculo, paraculo e mezzo e tutto quello che non ti ho ancora detto, te lo racconto adesso perché, in assenza di Sciascia, solo tu mi puoi dare una risposta. Ecco: come devo fare io che sono siciliano, io che ho le scuole, io che lavoro dove lavori anche tu, tra le patrie lettere della pubblicistica, come devo fare – appunto – adesso che ho un amico in carcere? Lo hanno preso in una retata più di tre mesi fa, a Catania. Accusa grave: concorso esterno in associazione mafiosa. Io so per certo che è vittima della mafia, non certo un complice e ho capito che, come minimo, lo terranno in vincoli fino alla celebrazione del processo, almeno due anni.

Cosa devo fare, dunque? Lui che come me e come te viene dal sud, lui che a differenza di me e di te non fa testimonianza, non è società civile, ma un imprenditore, uno che dà lavoro nella muratura, come si deve difendere se i mafiosi gli fanno saltare i cantieri se non paga e lo stato lo sbatte in cella se paga? Non faccio il nome per pudore perché dalle parti nostre, lo sai, finire sul giornale è vergogna. E non faccio il nome perché chi deve sapere sa, ci sono le intercettazioni appunto, e tra le trascrizioni, lo immagino, c’è tutta la Sicilia vista dalla parte degli infedeli. Magari per inaugurare un capitolo d’antropologia: il cappuccio del Venerdì Santo, la scannata del porco, la mangiata in campagna e quelle feste, insomma, per soli uomini, dove trionfa una panza tanta e la lingua ancestrale della madre terra. C’è la solita Sicilia, la solita Italia vorrei dire, la solita Gomorra per capirci, insomma, c’è quella camurria che ai politici e agli imprenditori concede solo due inesorabili appuntamenti: o la galera o il fallimento. Per gli imprenditori, e mi ripeto su queste colonne, anche tutte e due gli appuntamenti. Io, ovviamente, non posso fare niente. Non ho che da raccontare a te una storia capitata a questo mio amico, una storia che lo vede punta di un iceberg dove gli imprenditori, a meno che facciano solo testimonianza invece di lavorare e produrre ricchezza, vivono la stagione di una sola generazione quando va bene, oppure scapparsene via, come fece Simenon, per non sporcarsi con la propria stessa vita al prezzo della famosa padella e della relativa, altrettanto famosa, brace. O ammazzati dalla mafia o sbattuti in cella dallo stato. Due anni di carcere prima del processo, dopo, per la maggior parte di loro – e la maggior parte, sottolineo – l’assoluzione. Con due anni in meno di vita. Con le aziende chiuse. E con i disoccupati per strada, magari pronti a diventare estorsori.

Ecco, chiudiamola qui, le cose tipo coscienza civile, impegno, denuncia o chissà che non mi si confanno. Non ho la faccia adatta. Anche perché traffico col Venerdì Santo e la scannata del porco, ma tu, caro Roberto, tu che la capisci la lingua ancestrale e la mangiata in campagna, tu che però sai parlare a tutti quelli dalle gote imporporate di sdegno e pudico rossore, se proprio hai voglia di sporcare la tua stessa santità, fatti finalmente bestemmia: in una delle tue orazioni civili, fagli fare – a tutti loro, a tutti i giusti, a quelli che se la guardano da lontano, la vita vera – quello che si chiama un esame di coscienza e mettili di fronte a un aborto giuridico che solo noi italiani, resi pazzi dall’ipocrisia, abbiamo potuto adottare: concorso esterno in associazione mafiosa. Quanto meno c’è un cortocircuito della logica e della lingua: come si fa a concorrere esternamente? O si è mafiosi o non si è. Non si scappa. O si è associati o niente. Ma tu ci pensi, Roberto, tu che vai a mettere in discussione il concorso esterno? Viste le vendite, avresti sempre gli scrittori dalla tua parte. E, per dirla con Sciascia, saresti finalmente dalla parte degli infedeli. La parte che è propria della libertà e della eresia.

(di Pietrangelo Buttafuoco)

venerdì 28 gennaio 2011

Mario Sironi, i tormenti di un fasciocomunista


Fascista, anzi anticonformista. Futurista, anzi metafisico. Glorioso, anzi tragico. Nazionalista, anzi europeo. A 50 anni dalla morte, Mario Sironi e la sua pittura restano questioni aperte. Recentemente, dal 14 al 17 gennaio, ha preso il via a Bergamo una mostra itinerante che, con 80 opere dal 1915 al ’61 prova nuovamente a celebrarne l’importanza storica e anche sotto il profilo di una visione del ruolo dell’artista nella società contemporanea. Sironi propugnava l’ideale di un’arte sociale, e per questo non amava le mostre, cui si dedicò quasi per necessità soltanto negli anni cupi del dopoguerra quando, ex repubblichino risparmiato dalla fucilazione per mano partigiana, si chiuse (e fu relegato) in un isolamento cosmico.

Allora i toni bituminosi dei suoi paesaggi urbani divennero ancor più bui e le volumetrie delle architetture più fantasmagoriche. «Io sono una vittima di una situazione politica che non mi riguarda che indirettamente; è la solita storia della mia vita ignorata e vilipesa dai capricci e dall’arroganza generale», scrive nel ’45. Un’autocommiserazione che sembra stridere con l’immagine dell’«artista di regime» che affrescava L’Italia tra le arti e le Scienze per l’Università di Roma e che eseguiva il fiero mosaico su La Giustizia tra la Legge e la Forza per il Palazzo di Giustizia di Milano.

Il regime appunto. Sironi ne animava l’iconografia o ne fu inconsapevole strumento? A leggere alcuni passi del suo «Manifesto della pittura murale» (’34) non sembrano esservi dubbi: «Il Fascismo è stile di vita, è la vita stessa degli italiani (...) e nello Stato Fascista l’arte viene ad avere una funzione educatrice, essa deve produrre l’etica del nostro tempo». La realtà era meno tetragona, anche se forse non al punto fino a cui si spinge Giovanni Testori quando, nel suo testo per l’antologica di Milano a Palazzo Reale nell’85, scrisse che «Sironi non era uomo da cedere alle lusinghe del Potere, una divinità menzognera, scandalosa e vile, cui egli non poteva prestare ascolto alcuno». Ma a quella «divinità» Sironi fu contiguo anche se, come sottolinea Claudio Spadoni, curatore della retrospettiva che da Bergamo è sbarcata a Bologna (in febbraio sarà a Genova e in marzo ad Arezzo, www.galleria56.it), non vanno dimenticate le accuse di cosmopolitismo e perfino di antifascismo mosse a Sironi in quegli stessi anni ricchi di imprese decorative e di arte monumentale: come se avesse rinnegato o stravolto la tradizione italiana. Così come non vanno dimenticate le critiche intrise di scherno mossegli nel ’33 da Farinacci sulle colonne di Regime Fascista a commento del monumentale affresco Le Opere e i giorni eseguito per la V Triennale.

La chiave dell’enigma sta forse proprio nel «Manifesto» pubblicato sul Popolo d’Italia firmato anche da Carrà, Campigli e Funi. «La pittura murale - scrive Sironi - è pittura sociale per eccellenza. Essa opera sull’immaginazione popolare più direttamente di qualunque altra forma di pittura». E ancora: «la funzione educatrice della pittura è soprattutto una questione di stile. Più che mediante il soggetto (concezione comunista), è mediante la suggestione dell’ambiente, mediante lo stile che l’arte riuscirà a dare un’impronta nuova all’anima popolare». In queste frasi cruciali del suo «Manifesto» pare evidente l’assenza di qualsiasi traccia ideologica, tanto che all’inciso «concezione comunista», oggi qualcuno potrebbe tranquillamente aggiungere: «e anche fascista». Come sottolinea Spadoni, «è certo che l’aspirazione di Sironi a un’opera che andasse oltre la misura, non semplicemente fisica, del quadro, della pittura di cavalletto, era maturata in lui molto prima degli anni ’30». Ovvero come naturale conseguenza di un altro suo manifesto del gennaio 1920 «contro tutti i ritorni in pittura», risposta al «ritorno al mestiere» propugnato dai «restauratori» della rivista Valori Plastici. Sironi, come precisa nel suo testo il nipote Andrea, «aspirava ad un’arte moderna pubblica che non comunicasse tra le pareti del salotto borghese a una ristrettissima cerchia di fruitori, ma alla collettività dalle pareti monumentali degli edifici pubblici».

(di Mimmo Di Marzio)

mercoledì 26 gennaio 2011

L’ultimo scoop dei media è la metafisica del lato B


Quando entrano in scena i grossi calibri, c’è sempre da imparare. Ha cominciato Piero Ostellino, discettando sul didietro sopra il quale, consapevolmente, siede la fortuna delle donne. Gli ha fatto seguito Giuliano Ferrara, che dello stesso ha dato una versione al maschile, ripresa da Montaigne. Ha chiuso il cerchio Adriano Sofri, nel nome di un evoluzionismo corretto dal marxismo, per il quale, pur discendendo come esseri umani dalle scimmie, quando queste vogliono volare alto è sempre quel fondo schiena che fanno vedere e, si sa, non è un bello spettacolo... Siamo insomma, con licenza parlando, alla metafisica del culo, ovvero alla eterogenesi delle natiche: si sa da dove si parte, ma non si sa dove si va a finire.

Dice Sofri che la citazione di Ostellino è inesatta, perché di quella fortuna il sesso femminile sarebbe inconsapevole: sono gli uomini a dare a essa una chiave di lettura consapevole e quindi maschilista. Avrà anche ragione, ma non ci giureremmo: ci sembra più maschilista l’idea che la donna sia semplicemente il riflesso del pensiero maschile di quella che le consente un uso ragionato del proprio corpo. Se Sofri pensa ancora che il maschio sia cacciatore e la femmina selvaggina, non è messo bene.

Intorno a Ostellino si è scatenato un putiferio corrieristico di cui il lettore sa già tutto. L’ex direttore del quotidiano di via Solferino ha risposto alle critiche da par suo, citando fra l’altro Machiavelli, gran demitizzatore della retorica e del moralismo. Già che ci siamo, vale la pena di ricordare quel passo delle Lettere in cui scriveva: «Et ogni dì siamo in casa di qualche fanciulla per rihavere le forze, et pure hieri stemo a vedere passare la processione in casa la Sandra di Pero; et così andiamo temporeggiando su queste universali felicità, godendoci questo resto della vita, che me la pare sognare». Oppure quest’altro: «La Barbera si trova costì: dove voi gli possiate far piacere, io ve la raccomando, perché la mi dà molto più da pensare che lo imperadore». Vi ricorda qualcuno? Se indovinate, vincete un abbonamento a Repubblica.

E Montaigne? Fra le tantissime persone più intelligenti di me che conosco, Giuliano Ferrara è, con Alain de Benoist e Paolo Isotta, la più intelligente, e quindi l’utilizzo da lui fatto del principe del pensiero morale e libertino è stato perfetto: alto nella scelta del nome, terreno nella semplicità del voler dire che poi siamo un impasto di fango e di stelle. E quindi, certo: «Anche sul più alto trono del mondo, non siamo seduti che sul nostro culo». Ma vale la pena ricordare che il filosofo francese era anche un odiatore dell’austerità: «Fuggo la durezza dei costumi, avendo in sospetto ogni cipiglio arcigno. Io aborro uno spirito irritabile e triste, che scivola sopra ai piaceri della vita e si aggrappa e si pasce alle sventure. La peggiore delle mie azioni e qualità non mi sembra tanto brutta quanto trovo brutta e vile il non osare confessarla». Vi ricorda qualcuno? Se indovinante vincete un libro di Scalfari.

Montaigne è anche un antidoto eccellente sull’amore e la vecchiaia, che oggi vede tanti crociati della castità accanirsi sull’indecenza del sesso senile: sono gli stessi che hanno riempito sino al giorno prima le pagine dei giornali sulla vita che comincia a sessanta, ma no, a settanta, ma che dico, a ottant’anni e sulla bellezza della canizie fra le lenzuola, ma, si sa, il giornalismo è una bandiera che gira secondo il vento... Scriveva dunque Montaigne: «Certo, è giusto, come dicono, che il corpo non segua i suoi appetiti a danno dello spirito; ma perché non è altrettanto giusto che lo spirito non segua i suoi a danno del corpo? L’amore mi renderebbe la sobrietà, la grazia, la cura della mia persona, renderebbe più fermo il mio sembiante, in modo che le grinze della vecchiaia, queste grinze deformi e miserevoli, non venissero a corromperlo». Vi ricorda qualcuno? Se indovinate, vincete un viaggio con Santoro.

Scrive nel suo articolo Sofri che lui adesso sta «dalla parte delle scimmie. Gli uomini spinti troppo in alto, è ora che scendano». È un proposito nobile, ma anche se ogni scarrafone, secondo il proverbio napoletano, è bello per la propria madre, non è detto che ogni culo sia eguale all’altro, femminile o maschile che sia (preferiamo il primo, ma siamo per la libertà di pensiero). Sofri del resto è consapevole che la frase da lui citata del filosofo postmoderno Stefano Ricucci, «fare il frocio con il culo degli altri», abbia una sua pregnanza ideologico-politica e che quella, sempre da lui citata, di Ruby rubacuori, l’Ipazia del XXI secolo, «lei è la pupilla, io sono il culo», sia una metafora di alto valore. La cassazione in materia resta un romanzo di Patrick Grainville, già premio Goncourt, che si intitola Il paradiso degli uragani: «Dunque io ti saluto, o culo, mausoleo dei miei sospiri. Ti celebro nella tua innata bontà, la tua ebetudine, quella sfida di innocenza. Ma anche per le tue segrete malizie, bordello e barca pura. Io vi saluto o natiche, anfore colme d’oro, continenti separati e congiunti da profondi legami oceanici, galassie sorelle luminose». Un’opera d’arte della natura, non il didietro di un babuino.

(di Stenio Solinas)

Quel no-global sul "Secolo" era Julius Evola


La "Fondazione Julius Evola", guidata da Gianfranco de Turris, ha appena pubblicato a cura di Alberto Lombardo una raccolta di articoli del "maestro della Tradizione", originariamente pubblicati nel lungo intervallo di tempo 1930-1968 e parzialmente proposti nel 1983 col titolo (confermato) di Civiltà americana (Controcorrente, pp. 86, € 10). Come ricorda Lombardo, nel suo saggio introduttivo, si tratta di articoli evoliani che «riguardano principalmente gli sviluppi del costume nordamericano negli anni del secondo dopoguerra». Evola (per chi non lo conoscesse: artista Dada, teorico dell'"individuo assoluto", punto di riferimento del tradizionalismo europeo, ma soprattutto divulgatore fra i più importanti nel '900 delle dottrine spiritualiste), ha sempre riservato un'attenzione particolare a ciò che accadeva al di là dell'Atlantico, per tre motivi sostanziali: il primo riguardava l'avversione alla civiltà consumistica; il secondo riguardava le vicende politiche italiane (dunque patto Atlantico sì-patto Atlantico no…); il terzo (considerato, a volte, qualche passo al di qua del negativo), concerneva le tendenze culturali dell'Occidente e dunque quel che accadeva nel controverso ambito intellettuale, proprio all'interno del "mondo moderno". Nel primo caso l'avversione evoliana all'american way of life era abbastanza netta; nel secondo, la necessità di avere degli alleati (in politica) consigliò al pensatore di origini siciliane di tenere un atteggiamento prudente.

Da questo punto di vista, l'opinione fortemente antiamericana nata nei giovani su presunta influenza evoliana, oggi è completamente da riformulare. Nuovo e opportuno riferimento, a parte il libro curato da Lombardo, potrebbe essere anche il saggio evoliano del 1968, La gioventù, i Beats e gli anarchici di destra contenuto all'interno del libro L'arco e la clava. Un saggio nel quale Evola affronta il rapporto fra l'uomo di destra (o "anarchico di destra", formatosi cioè precedentemente sul suo libro cult Cavalcare la tigre) e i fenomeni di ribellione provenienti dagli Stati Uniti d'America. Ma andiamo con ordine. Fra gli articoli evoliani presentati da Lombardo, due sono stati pubblicati proprio sul nostro Secolo, il primo il 27 gennaio del 1953 e il secondo il 28 luglio del 1964. Il meno recente dei due ("Libertà dal bisogno", il titolo) è un pezzo di profonda critica di una certa mentalità utilitaristica americana (da questo punto di vista assai simile a quella di derivazione culturale marxista), secondo cui la meccanizzazione della società e la liberazione dell'uomo dal bisogno del lavoro materiale, condurranno presto o tardi all'edificazione di una società "felice". Lo si pensava negli anni '50 (già da prima e per qualche anno ancora), ma non sarà mai così. Evola scrive infatti che le «premesse vere per un'esistenza e una civiltà superiore sono sempre di carattere interno, dipendono cioè da quel che l'uomo - un dato tipo umano - è, spiritualmente, senza essere necessariamente legate alle circostanze esterne ambientali: proprio al contrario di come il marxismo la pensa». Oggi sembra pacifico, ieri lo era molto meno…

Evola ha ragione dunque, ma forse il taglio fortemente polemico dell'articolo (più avanti si dice che: «Questo qualcosa che manca e che, andando di questo passo, sempre mancherà all'uomo moderno, questo qualcosa senza di cui nessuna civiltà superiore potrà sorgere, non v'è "libertà atlantica" che potrà darlo…»), o magari le conoscenze o le ragioni "intellettuali" dell'autore di Rivolta contro il mondo moderno, non gli permettono di comprendere che anche una certa cultura americana aveva dentro di sé risorse capaci di offrire «soluzioni» in controtendenza rispetto alla civiltà unidimensionale di cui l'autore parlava con giusta ironia. E sia dal cotè conservatore sia da quello progressista.

Richard Drake professore di storia all'Università del Montana, rispondendo a due precise domande sul rapporto fra Evola e gli Stati Uniti (Il maestro della Tradizione, Controcorrente, 2008), ha avanzato alcune critiche circa l'antiamericanismo evoliano. «Per certi versi l'analisi evoliana degli Stati Uniti fu giusta e penetrante», dice Drake, «mi riferisco soprattutto al contenuto del suo libro L'arco e la clava. Evola capì molto bene i punti deboli dell'individualismo americano. I suoi commenti sulla letteratura americana della generazione "beat" sono ben fondati. Quando Evola scrive degli Stati Uniti, in veste di critico culturale, merita quasi sempre di essere letto. Ma non è tutto … Evola capì invece poco delle fonti della potenza americana, non solo della capacità produttiva del Paese, ma anche delle sue tradizioni religiose, che egli giudicò, appunto, come sistemi decisionali poco più che assurdi. In un classico come La democrazia in America, Alexis De Tocqueville segnalò queste tradizioni come la vera fonte dell'alto livello di fiducia del Paese in se stesso e della sua missione nel mondo. L'idea di Tocqueville rimane valida, oggi, anche e soprattutto quando queste tradizioni vengono macchiate… Ma Evola non vide nulla delle tesi di Tocqueville. Nella sua tendenza a giudicare gli Stati Uniti come un Paese storicamente invalido, Evola perdeva contatto con quel realismo che quasi sempre illuminava i suoi scritti culturali».

Il secondo articolo scritto da Julius Evola per il Secolo ("Servilismi linguistici", il titolo), almeno per una parte è apprezzabilissimo, perché mette in "stato d'accusa" l'utilizzo degli americanismi nel nostro Paese anche a rischio di storpiare il significato delle frasi utilizzate; d'altra parte lo stesso Pier Paolo Pasolini, cui certe critiche alla società moderna possono essere affiancate a quelle evoliane (si pensi al consumismo sessuale), "accusava" in quegli anni la lingua italiana di essere diventata una lingua tecnica, piena di vocaboli che non c'entravano niente né coi costumi "nazionali" né con la tradizione letteraria. Andiamo però, velocemente, al saggio evoliano pubblicato nel 1968, in relazione al rapporto fra l'evolismo e il fenomeno della generazione "beat" dell'ultima metà del secolo. La base si partenza della protesta "beat" è perfettamente condivisa da Evola, il quale però giudica la prassi del "beat" come una reazione istintiva a un male "reale" (ma ricordiamo che anche Nietzsche partiva dalla valorizzazione dell'istinto), le "pratiche" "beat" vengono poi affiancate a quelle della "via della mano sinistra" di cui Evola ha scritto in Metafisica del sesso ma con un deficit di parte positiva (sappiamo che le spinte verso il "sacro" cui parla Evola coincidono solo in parte con le pratiche Zen). Certe strade fra evoliani e "beat" sono comuni, come potrebbero essere comuni le strade di dieci-cento-mille ribelli "nietzscheani" e "post-nietzscheani" insomma. Semplificando potremmo dire che il rapporto Evola-generazione beat (ovviamente parliamo dei suoi esponenti più teorici: Kerouac, Ferlinghetti o Gary Snyder...) è molto simile a quello fra Evola e Nietzsche, un rapporto che qui si gioca tutto sul rifiuto ragionato del benessere e dell'ottimismo, sulle istanze di libertà (dunque autenticamente libertarie) o, per utilizzare un linguaggio che strizza l'occhio alle pratiche orientali, di "liberazione".

È questo peraltro quello che intende Alberto Lombardo quando tratta, con obiettività, il rapporto anch'esso da approfondire fra Evola e le nuove istanze dei ctestatori della globalizzazione. «L'idea di un "Evola no global" sarebbe di per sé corretta», chiosa, ma il problema anche stavolta è quello di individuare i rappresentanti del pensiero e della prassi no-global. Ma quelli veri, però… Difficile che fra questi possano rientrare categorie non proprio "svantaggiate" colte da pulsioni "democratiche" legate all'acne giovanile. Né fra i no-global rientrano «personaggi di vario tipo che nei fine settimana, smessi gli abiti borghesi, si danno agli espropri proletari di Dvd o di pranzi a base di crostacei», scrive Lombardo. Escluso, ovviamente, il ricorso alla violenza, la questione si gioca e si giocherà dunque sul rapporto effettivo fra libertà (tutte "le" libertà) e rispetto verso i popoli e le minoranze. La demagogia è bene stia fuori dalla porta, naturalmente.

(di Marco Iacona - tratto da Il Secolo d’Italia del 25 gennaio 2011)

Legge sul negazionismo, non arrestiamo i pensieri

Ministro Alfano, lasci perdere il reato di negazionismo. Farebbe un dan­no alla libertà, alla verità e alla dignità di tutti coloro che patirono massacri, ebrei in testa. Ho sentito che ha istituito un gruppo per studiare un testo di legge. Si fermi, la legge sarebbe iniqua, avreb­be effetti peggiori del male che vuol col­pire e chiederanno di estenderla ad altri negazionismi. Un tunnel senza fine.

Le opinioni che negano la realtà stori­ca sono svariate, a volte avariate e diver­samente spregevoli; ma le opinioni non si puniscono col carcere. Primo, perché le parole si condannano con le parole, gli atti con gli atti. Secondo, perché pe­nalizzare le opinioni significa intimidi­re la ricerca storica che per sua natura è portata alla revisione dei fatti e dei giudi­zi. Terzo, perché creerebbe intorno agli ebrei un cordone sanitario di intoccabi­li­tà che è pericoloso perché rischia di ca­povolgersi nel suo rovescio. L’alone di immunità potrebbe scatenare desideri di infrangere il tabù, di violare l’inviola­bile e creare fanatismi di ritorno e anti­patie. Quarto, perché crea il principio dell’ereditarietà delle colpe e delle tra­gedie, con dolorose contabilità, e il rea­to di complicità ideologica, due mostri giuridici dagli effetti devastanti ed esten­sibili. Quinto, perché sarebbe ingiusto punire chi nega la Shoah e non punire chi nega altri massacri, precedenti o più recenti, di armeni e di kulaki, di russi e di cinesi, di vandeani e di indios, di giap­ponesi e di istriani, di colonizzati e di cri­stiani, e potrei a lungo continuare.

Non propongo di punire anche gli altri nega­zionismi, per carità, perché se affidia­mo pure il giudizio storico ai tribunali e se mettiamo storici e docenti sotto tu­tela del magistrato, oltre a uccidere la ricerca storica, avveleniamo la vita ci­vile e scolastica. E devitalizziamo la giusta indignazione, l’impulso a repli­care con argomenti di verità alle men­zogne. Niente discussioni, basta la de­nuncia; al posto nostro ci pensa il giu­dice. Capisco le ragioni di questa pro­posta e perfino le convenienze, ma la­sci stare. La storia fa troppe vittime nel suo corso per farne ancora, a bab­bomorto, 66 anni dopo.

(di Marcello Veneziani)

martedì 25 gennaio 2011

Primavalle, Giampaolo Mattei vuole incontrare Lollo


"Voglio incontrare Achille Lollo. Me lo deve. Lo deve alla mia famiglia. Lo deve a Stefano e Virgilio che sono morti. Abbiamo il diritto di sapere. Perchè quello che fino ad oggi è stato detto è solo una parte di verità. E lui lo sa". Lo dice Giampaolo Mattei, intervistato dal settimanale "Oggi". "Quella notte, – ricorda Mattei – in cortile, accanto al portoncino del palazzo, la polizia trovò un cartello con la firma di chi aveva appiccato l’incendio: »Brigata Tanas. Guerra di classe – Morte ai fascisti – La sede del MSI, Mattei e Schiavoncino colpiti dalla giustizia proletaria. Di questo vorrei parlare con Achille Lollo, di quella rivendicazione. E di quel nome, Schiavoncino".

"Una settimana prima, il 7 aprile credo, venne bruciata l’auto di Marcello Schiaoncin, un altro militante missino. C’era il suo nome nella rivendicazione. Ed erano in pochi a chiamarlo Schiavoncino. Dico a Lollo: c’è un burattinaio ancora senza un nome, qualcuno che vi ha usato come strumenti di morte. Tu devi dirmi chi è". Aggiunge Giampaolo Mattei: "Nel nuovo fascicolo sono finiti i nomi di tre dei militanti sfiorati e rimasti indenni nel primo processo, quelli di Paolo Gaeta, Diana Perrone ed Elisabetta Lecco. Ho letto che davanti ai magistrati Lollo si sarebbe avvalso della facoltà di non rispondere e il suo verbale secretato. Voglio incontrarlo. Forse sarà così vigliacco da guardami negli occhi e tacere. Forse avrà il coraggio di chiarire. Non mi interessa il perchè: non voglio giustificazioni assurde, non voglio sentimi dire che c’era l’antifascismo militante… Voglio la verità: qualcuno ha organizzato e io pretendo quel nome".

(Sin/Pn/Adnkronos)

C'era una volta un Re: amava pupe e sollazzi...



C'era una volta un Re che regnava a distanza su una repubblica di parti­ti, mafie e conventicole. Non voleva fare il premier o sporcarsi con la politica e il voto popolare; preferiva restare sempli­cemente il Padrone. Per lui le plebi puz­zavano, interessavano solo come consu­matori e sudditi, mica come cittadini ed elettori sovrani. Nessuno osava sparlare di lui e dei suoi prodotti che inondavano il Paese e mezzo mondo.

Il suo Paese fu disegnato a immagine e somiglianza dei suoi interessi. Il Re si oc­cupava di mezzi di comunicazione in va­ri sensi; anche lui aveva i suoi giocattoli per la ricreazione e lo sport. Faceva affari anche lui con i cattivi del pianeta e del Paese, ma nessuno fiatava. I suoi interessi aziendali e familiari con­dizionavano pesantemente il suo Paese che si caricava i suoi debiti, ma non intac­cava i suoi privilegi. Vendeva armi e pro­dotti ritenuti cancerogeni, ma non si po­teva dire in pubblico. Se i suoi prodotti erano peggiori di quelli della concorren­za nessuno osava pubblicare un’inchie­sta sulla loro qualità, anche perché i prin­cipali giornali per vie dirette e indirette erano controllati da lui; e gli altri erano condizionati da banche e pubblicità del suo gruppo o controllate. Dissero una volta a un giovane che fondò un settima­nale: sparla di tutti, attacca pure la mafia, ma non toccare lui e il suo regno. Finisci male, ti fanno chiudere.

Il Padrone amava divertirsi in modo as­sai pesante: donnine, cocaina e tanto al­tro ancora. Ma nessuno mai vide una fo­to hard sui suoi sollazzi e le sue pupe, mai un’intercettazione sconveniente, mai un’inchiesta,mai un giudice che osò varcare i cancelli della sua sacra privacy. Quel che era servile omertà passava per sua signorile sobrietà. I direttori andava­no in ginocchio da lui, gli baciavano i pie­di e se sapevano dei giochini o di qualche brutta storia della sua famiglia, in pubbli­co mettevano a tacere e al suo cospetto facevano le fusa per compiacerlo. Di quel Re permane il devoto ricordo dei be­­neficiati e il pietoso silenzio di tutti. Auto­dafè. Per fortuna questa è una favola; quel Re, quei servi e quel Paese non sono mai esistiti...

(di Marcello Veneziani)

lunedì 24 gennaio 2011

Berlusconi è il destino dell'Occidente?


L’inquietudine che avvolge la scena politica italiana è divenuta come un denso banco di nebbia, di quelli che impediscono di scorgere non solo l’orizzonte ma anche ad un palmo dal naso.

Le squallide vicende riguardanti la vita del premier hanno preponderato in questi giorni sui giornali come da tempo non accadeva, oscurando qualunque altro evento degno di nota, di fatto rendendo una questione di puttane lo snodo entro cui si sviluppa l’intera vicenda politica italiana.

Su questa attenzione maniacale e a tratti perversa dell’opinione pubblica e dei giornali per la vita sessuale del premier, non è pleonastico annotare che i fatti raccontati vanno ben oltre la sola vicenda giudiziaria, ha un che di raccapricciante ma al contempo può essere utile per una breve analisi.

È venuto alla luce che i più accaniti tra i moralizzatori provengono dalle file del laicismo progressista post sessantottardo a dimostrazione della tesi più volte sostenuta della inevitabilità per il cristianesimo di divenire una religione secolare a sfondo sociale: in pratica il moralismo ateo è cristianesimo secolarizzato. Venuto meno il sostegno del sacro resta solo il vuoto idolo sociale da difendere a spada tratta, i nuovi vescovi provengono chi dall’intellighenzia chi dai rami del parlamento, associati dal comun denominatore dell’essere crociati laici della battaglia moralizzatrice.

Non è indipendente da ciò il vuoto tragico orfano dalle ideologie, crepate di vecchiaia senza aver lasciato eredi. Venute meno le grandiose costruzioni ideologiche da prima repubblica, quelle chiese oscene che furono comunismo e demo cristianesimo, il vacuo rimpiazzo è stato un giustizialismo moralista poco coerente con se stesso, chiesaiolo in quanto settario e anticlericale a un tempo, civilmente disobbediente ma filo costituzionale al midollo, amico della magistratura ma nemico giurato delle forze dell’ordine, poco incline al ragionamento culturale ma tanto amabilmente tracotante come nella miglior tradizione radical, liberal e obamiano, sempre che questo abbia un qualche significato, però ferocemente anti americano. Una disgustosa amalgama dei peggiori luoghi comuni di un pensiero debole senza casa, raccolto non in una comunità ma in individui unici, così da giungere al risultato ovvio di sostenere tesi logicamente ridicole pur di difendere battaglie, a loro vedere, ben importanti. Ma le forze sub razionali collettive hanno bisogno di un punto di sbocco, un nemico dichiarato, insomma un anticristo da maledire come causa di tutti i mali: identificarlo in Silvio Berlusconi è stato tanto semplice da essere banale.

Prima di mostrare come questo giustizialismo sia la nube di fumo che avviluppando le coscienze impedisce di vedere problemi radicali ben più gravi, è il caso di una incisiva quanto mediocre constatazione: il rifiuto di un azione politica contro Berlusconi demandando il compito della battaglia alla magistratura, in maniera strumentale sia ben chiaro nessuno qui pensa che questa sia deviata o manovrata, mostra che o la questione politica è di secondaria importanza, ergo che il Premier stia ben governando, o che sia impossibile per via politica sconfiggere questo Premier, ergo la maggioranza del Paese pensa che questo governo, sia vero o no, stia ben governando. Se le premesse del sillogismo si rivelassero corrette allora sarebbe logicamente concesso sostenere che non esiste opposizione politica ma un altro tipo di opposizione.

Perché, alla fine, quali sono le colpe più gravi che si rinfacciano a questo Premier? L’essere stato responsabile della volgarizzazione della massa, dell’istupidimento collettivo, della corruzione eletta a virtù, della destituzione della democrazia parlamentare. Credo sia folle credere che un uomo possa essere causa di ciò, irresponsabile diffondere l’idea che questo sia davvero.

La degenerazione effettiva imputata al premier non può essere una sua responsabilità per almeno due motivi: è iniziata ben prima della sua nascita, è un carattere proprio a tutto l’Occidente liberale.

Ciò che ingenuamente è mosso come capo d’accusa contro Berlusconi, non sarebbe altro che un movimento storico, un fatto di importanza epocale che comporta il fine dell’Occidente sino dalla sua nascita ovvero il Tramonto, in quanto ideologia laica, razionalista, fedele al progresso e agli sviluppi paralleli di etica e tecnica, ideologia tradita dagli esiti tragici che si manifestano in abbondanza: l’irrimediabile frattura tra sacro ed umano, l’omologazione planetaria ad un unico modello di sviluppo, il dominio di una tecnica impersonale, il carattere totale del lavoro, la devastazione ambientale, la fine degli stati nazionali e lo spostamento del potere dai suoi luoghi tradizionali verso le oligarchie finanziarie.

La fine di una civiltà non deve essere rintracciata in una qualche colpa recondita, errore di sorta o contingenza qualunque ma la si deve ricollegare al naturale corso degli eventi: possiamo vedere, sulle orme della morfologia spengleriana, una civiltà come un organismo che nasce, si sviluppa, vive la sua giovinezza, la maturità e infine la morte. Come ogni vecchiaia anche quella delle civiltà è tragica e segnata dal dolore, dall’insicurezza, dal timore diffuso. Che lo stato di cose ai nostri occhi risulti disgustoso non deve distrarre la vista dalla necessità del processo e dalla sua totalità: coinvolge tutto l’occidente. Non si deve interpretare tutto questo come una decadenza ma, ricordando Heidegger, come processo fondamentale della storia, sua legge destinale e logica interna. Una logica ineluttabile e intangibile, di portata epocale e sconvolgente, tale da poter identificare, in ultima analisi, tutto questo come il nichilismo destino dell’Occidente.

(di Nicola Piras - fonte: http://www.mirorenzaglia.org/)

Mughini: meglio Andreotti di Berlusconi

Dobbiamo presentarlo? Nome: Giampiero Mughini, catanese di origine ma romano d’elezione (benché, hàilui, juventino). Età: non ha importanza. Giornalista, scrittore, opinionista televisivo e cartaceo di umanità varia, politica, cultura, financo il calcio. Personalmente ne apprendemmo la sorte in anni lontani, quando produsse per Rai2 un documentario sul nostro ambiente “Nero è bello”. Un eretico, in definitiva, felice di esserlo. E, come sono spesso gli eretici, capace di vedere prima. Rileggetevi, per esempio, il suo Un disastro chiamato seconda repubblica (Mondadori, 2005). C’è già scritto tutto quello che sarebbe accaduto nei successivi 6 anni fino a oggi.

Benché “disastrosa”, è lecito parlare di Seconda repubblica?

Solo per comodità di linguaggio. Dopo Tangentopoli e dopo la caduta del muro di Berlino, in Italia scompaiono i partiti tradizionali, ne nascono altri – la Lega – altri si frantumano in mille partitini, altri cambiano semplicemente nome.

C’è anche il passaggio dal sistema elettorale proporzionale a quello maggioritario, con l’avvio del bipolarismo.

Guardi, non fosse nata per iniziativa di Silvio Berlusconi Forza Italia, il sistema sarebbe stato non bipolare o multipolare ma monopolare. Il Pds, nato per trasformazione dal vecchio Pci, sembrava destinato a una meravigliosa vittoria in solitaria. Si ricorda, vero, la “gioiosa macchina da guerra” capeggiata da Achille Occhetto? La “discesa in campo di Berlusconi”, che io non reputo affatto dettata dalla necessità esclusiva di salvare le sue imprese economiche, come più volte ipotizzato dai suoi oppositori, rappresentò un fatto nuovo che sconvolse le previsioni. Il partito che lui aveva approntato alla spiccia trionfò alle elezioni del 1994. Il fatto è che il vecchio elettorato, quello che, in precedenza, assegnava le sue preferenze alla Dc, al Psi, al Pli, al Pri, non si era rassegnata al fatto che i partiti per i quali aveva votato per cinquant’anni non esistessero più e converse il suo voto su Berlusconi e sul nuovo partito: Fi, appunto. La coalizione guidata da Occhetto, come disse qualcuno, partì da solo e riuscì ad arrivare secondo.

Però, oggi siamo alla frutta anche con Berlusconi.

Semplicemente, gli uomini di quella che ho chiamato per comodità della “seconda repubblica” non sono all’altezza degli Andreotti e dei Craxi, tanto per fare degli esempi fra i tanti protagonisti della Prima repubblica. Prendiamo il caso ultimo di cui è stato chiamato adesso a rispondere Berlusconi. E’ molto meno che non le accuse rivolte ad Andreotti, di far parte del nucleo dirigente della mafia. E con tutto questo Andreotti non disse mai una volta che bisognava “punire” i magistrati che lo stavano accusando; si presentava puntualmente nell’aula del tribunale palermitano pronto a respingere, punto per punto, le obiezioni di accusa. Al di là della sua personale difesa, dimostrava di possedere il senso dello stato.

In questa ottica, però e se vogliamo, Craxi si è sottratto del tutto al confronto giudiziario ritirandosi in esilio.

Craxi, a differenza di Andreotti, non disponeva dell’immunità parlametare. Poteva essere arrestato da un momento all’altro e non era uomo, dal punto di vista simbolico e psicologico, da poter sopportare quello che riteneva un tale affronto. Avesse avuto il coraggio di rimanere in Italia, la storia politica di questo Pese sarebbe stata diversa. E comunque, si tratti di esilio o di “latitanza” come ripetono i suoi avversari, dell’esilio e nell’esilio Craxi è morto. Cosa diversa è quella di aggrapparsi a ogni pretesto giudiziario per sottrarsi al confronto frontale con i giudici e affidare al formidabile esercito mediatico che Berlusconi possiede, fra giornali e televisioni di proprietà, la propria difesa. E’ anche questo un segno dei tempi. E non mi sembra un segno positivo. Al tempo della sua caduta Craxi non ebbe un solo giornaletto che ne prendesse le difese. E comunque io non smetto di riconoscere a Berlusconi di essere stato un grande protagonista della vita pubblica di questi ultimi trent’anni, a cominciare dal fatto di avere inventato la televisione commerciale.

L’ho vista qualche mattina fa alla trasmissione Agorà. Su questi temi si è potuto confrontare liberamente con l’on. Daniela Santanché.

E’ difficilissimo confrontarsi con l’on. Santanché. Per lei, chiunque osi mettere in discussione la santità inopinabile del Capo di governo commette atto di lesa maestà, è un blasfemo e un infedele. E perciò assume quell’aria di leonessa che vuole sbranare tutti. In fatto di leonesse, ce ne sono molte che fanno più paura di lei.

Però, le “sciacquette senza arte né parte” se le poteva risparmiare, via…

L’ho detto delle ragazze che a gruppi di venti o trenta andavano alle cene di Arcore a mungere dal sovrano quanti più euro e favori potevano. Ragazze cui è difficile mettere assieme il pranzo e la cena. Premesso che tutti e tutte hanno il diritto di campare, non vedo come definirle altrimenti.

(fonte: http://www.mirorenzaglia.org/)

Il vecchio "nuovismo"


Non è stato un ritorno trionfale anche se ha dimostrato di essere di gran lunga il migliore dei «ragazzi di Berlinguer». Datogli atto di questo, a Walter Veltroni non si può riconoscere di più. L’ossessione antiberlusconiana che ha caratterizzato il suo discorso al Lingotto è risultata stucchevole perfino a chi berlusconiano non è stato mai. Così come il preteso «nuovismo» (e siamo sempre ai soliti stereotipi) del leader dei «modem» rapidamente è naufragato nel luogocomunismo già abbondantemente usurato ben prima che perdesse le elezioni del 2008. Che cosa ha detto, insomma? In breve. Berlusconi deve togliere il disturbo, senza indugi, ma senza neppure passare attraverso il responso elettorale, dimenticando di spiegare perché il premier dovrebbe fare harakiri, per Ruby forse? Poi ha auspicato la costituzione di un governo con tutte le forze che si oppongono al Cavaliere, da Vendola a Fini (è più facile che ci stia il secondo che il primo), salvo bocciare qualche minuto dopo la triste esperienza-ammucchiata dell’Unione, consapevole che una cosa è mettere insieme un cartello elettorale ed un’altra è dare vita ad un esecutivo coeso. Dettagli. Contraddizioni. Di questi tempi sono peli superflui: quelli più interessanti stanno altrove ... Dobbiamo ammettere che a Veltroni nulla è sfuggito. Ha detto anche che c’è bisogno di riformismo, ma non ha spiegato perché lo ha avversato. Ha ricordato che bisogna abbattere il debito pubblico, ma ha glissato sulla circostanza che Tremonti ci sta provando e per questo taglia come un boscaiolo dove può indignando lo stesso Veltroni. Ha reso noto di essersi convinto che i poteri del premier vanno rafforzati, ma non ha motivato perché quando si è posto il problema la sinistra è insorta ipotizzando derive plebiscitarie e tiranniche da fermare a tutti i costi.

Ha pure notificato che del federalismo non si può fare a meno, ma non ha chiarito perché il Pd ed il Terzo polo stanno ostacolando l’approvazione dei decreti attuativi. Cosucce, avrà pensato l’immaginifico Veltroni per il quale il suo partito può aspirare al primato politico però, guarda tu la scalogna, «il calo di fiducia nei confronti di Berlusconi non ha portato un aumento dei consensi nei confronti del Pd». Sarà stata colpa del «destino cinico e baro», come avrebbe detto il vecchio Saragat, ma non c’è verso di schiodare il Cavaliere da Palazzo Chigi, neppure con le zoccole, figurarsi con truppe residuali del Pci e della Dc. E allora, ha concluso l’ex-segretario che muore dalla voglia di rifare il segretario, per acquisire la fiducia che il Pd non ha «abbiamo bisogno di un progetto credibile di governo». Pare facile. Se non ci sono riusciti con la magistratura, i giornali, i saltafossi del centrodestra, le escort divinizzate e le piazze mobilitate a costruire il «progetto credibile», forse è il caso che cambino registro e si diano finalmente alla politica. Il moralismo non paga, come si è visto. E neppure le congiure di Palazzo. Veltroni che è un «vecchio ragazzo» sveglio e pure simpatico, lasci ai D’Alema, ai Bersani, ai Fassino, alle Bindi l’antiberlusconismo funzionale allo sconfittismo della sinistra (la sola ideologia praticata dai tempi della Bolognina) e cominci a ragionare sulle questioni all’ordine del giorno, dando ascolto magari a suoi compagni di partito come Alessandro Maran, vice-presidente del gruppo alla Camera, che ha stigmatizzato l’ossessione contro il premier come una delle cause del declino della sinistra o un «rottamatore» alla Renzi. Ne trarrà maggiori benefici di quelli che immagina cercando di compiacere, sia pure prendendone le distanze, dagli ammuffiti mandarini del Pd. Ne sarà capace? È difficile crederlo.

(di Gennaro Malgieri)

domenica 23 gennaio 2011

Quelle affinità elettive che lo legano a Drieu La Rochelle


Tecnica del colpo di Stato, di Curzio Malaparte, uscì in Francia nel 1931. Un anno dopo, in occasione del quindicesimo anniversario della Rivoluzione d’ottobre, Trotski si sentirà in dovere di contraddire pubblicamente il suo autore; vent’anni più tardi Ernesto Che Guevara porterà quel libro con sé durante l’avventura castrista e la successiva conquista del potere a Cuba.

Nel 1947, dal fondo della sua «prigione» danese, Louis-Ferdinand Céline risponde fra l’altro così all’offerta d’aiuto dello scrittore pratese: «Qui Kaputt è sulla bocca di tutti. Dell’élite che legge voglio dire, quella timorata di Dio per esempio, ma per la Danimarca è un trionfo. Ancora grazie, fraternamente». Blaise Cendrars, il romanziere monco e vagabondo idolo di tutte le avanguardie, andrà oltre: «Kaputt è un capolavoro, geniale e disgustoso. Anch’io credo che la civiltà sia fottuta. Per questo bisogna dire quello che abbiamo nel cuore. Altri parleranno dello stomaco». Sulla stessa lunghezza d’onda sarà l’anarco-pacifista Henry Miller: «Voi avete realmente compreso il significato recondito di queste guerre mondiali che sono appena all’inizio». Negli anni Ottanta del Novecento, in un saggio apparso su Vanity Fair, Bruce Chatwin accuserà Malaparte di snobismo, il che detto da lui suona involontariamente comico; più intelligentemente, agli inizi del nuovo millennio, Milan Kundera definirà l’autore di La pelle «un poeta, non uno scrittore impegnato. Con le sue parole fa male a se stesso e agli altri, chi parla è un uomo che soffre».

Se nell’arco di una vita, e post mortem, uno scrittore continua a far discutere e a far riflettere fuori dal suo Paese d’origine, vuol dire che la sua dimensione è internazionale e come tale va trattata. Nello scrivere questa monumentale e bellissima biografia, che non a caso esce in Francia (Malaparte. Vies et lègendes), ricca di annotazioni psicologiche e che senza fare sconti di sorta restituisce in pieno il carattere del biografato, Maurizio Serra fa giustizia di quel provincialismo culturale che tanto vessò Malaparte in vita e in patria. Il libro, una miniera di inediti (la lettera di risposta di Céline sopra citata, così come quella di Henry Miller, per dirne soltanto due), lo riconsegna dunque alla dimensione che è sempre stata sua: Prospettive, la rivista da lui fondata negli anni Trenta, presentava traduzioni di García Lorca, Eluard, Yeats, Eliot, Rafael Alberti, Antonio Machado, Gottfried Benn; Kaputt e La pelle sono le più impressionanti descrizioni della Finis Europae che siano mai state scritte; in Deux chapeaux de paille d’Italie, pubblicato sempre in Francia nel 1948, si prevedeva il compromesso storico fra democristiani e comunisti con trent’anni d’anticipo...

Questo spiega perché nel libro di Serra ci sia più spazio per Jünger, Malraux, Koestler, Hemingway (senza dimenticare Byron e Chateaubriand) che per Longanesi, Maccari, Montanelli, perché Alberto Moravia, che pure si giovò del suo aiuto e della sua influenza, abbia in seguito sempre cercato di favorirne l’oblio, perché all’interno dello stesso fascismo Malaparte abbia fatto vita a sé, inclassificabile e perciò sostanzialmente ingovernabile. Degli scrittori suoi contemporanei, quello che più gli somiglia, non è del resto un italiano, ma un francese, Pierre Drieu La Rochelle.

La rivolta dei santi maledetti sta alla Comédie de Charleroi, L’Europa vivente è l’altra faccia di Socialisme fasciste. Il tema della decadenza che ossessionerà Drieu per tutta la sua opera è quello che Malaparte, dalla Pelle a Mamma marcia farà proprio: il decomporsi di una civiltà e l’impossibilità di porvi un freno, l’aver sognato un ritorno a valori antichi, elementari, come antidoto, il doverne constatare il fallimento, il prendere atto della fine di un mondo. Malaparte scrittore europeo: era ora.

(di Stenio Solinas)

venerdì 21 gennaio 2011

La rosa italiana contro il cardo bolscevico


“Tre sono le credenze religiose collocate sopra tutte le altre nella universalità dei comuni giurati: la vita è bella e degna che severamente e magnificamente la viva l'uomo rifatto intiero nella libertà; l'uomo intiero colui che sa ogni giorno inventare la sua propria virtù, per ogni giorno offrire ai suoi fratelli un nuovo dono; il lavoro, anche il più umile, anche il più oscuro, se sia bene eseguito, tende alla bellezza e orna il mondo”. In nessuna Costituzione del mondo, neanche quella americana con il suo diritto “alla ricerca della felicità”, c’è un testo comparabile a quello del XIV articolo della Carta del Carnaro proclamata da Gabriele D’Annunzio l’8 settembre del 1920. Anche per questo il convegno di oggi dedicato dalla rivista “Il Berretto del Capitano” alla “Carta di Fiume 90 anni dopo” ha scelto il titolo “D’Annunzio e il canto della legge”. Come ha ricordato Giordano Bruno Guerri, presidente del Vittoriale, la stessa cittadella monumentale conserva l’originale dei 113 fogli su cui D’Annunzio vergò a mano il testo di quella Costituzione. Per assumersene la paternità, dopo che la prima bozza era stata stesa dal sindacalista Alceste De Ambris, ma anche per imprimerle i propri valori estetici, e per curare che fosse un documento di rilevanza non solo giuridica, ma anche letteraria. Appunto, “il ritmo della legge”. “La stessa dicitura Reggenza Italiana del Carnaro”, ha ricordato Guerri, “è un endecasillabo: il verso di Dante, e il verso preferito da D’Annunzio”.



Un fenomeno sia politico che letterario che giustifica la presenza al convegno di autori e romanzieri: Paolo Di Mino con “Fiume di tenebra. L'ultimo volo di Gabriele D’Annunzio”; Giulio Leoni con il giallo “E trentuno con la morte”; Gabriele Marconi con il romanzo “Le stelle danzanti”. Proprio Leoni ha osservato come in Italia una vicenda così romanzesca non solo non è entrata nell’immaginario collettivo, ma ha finito quasi per essere cancellata. Anche nei testi subito dopo il 1945 fu dedicata scarsa attenzione all’impresa di Fiume: da una parte, essa veniva identificata con il fascismo, dall'altra ricordava troppo il dramma del confine orientale. Anche il fascismo stesso, pur mobilitando una potente industria culturale al servizio dei suoi miti, non dedicò all’impresa di Fiume né un film né un fumetto. Come dice lo storico Bruno Guerri, in realtà D’Annunzio fu per Mussolini un rivale e un avversario, che il regime aveva cercato di non mettere troppo in evidenza.

 Nei sui princìpi, la Carta del Carnaro è nazionalista e corporativa, ma presenta anche aspetti fortemente libertari, come l'uguaglianza dei sessi e il pluralismo, l'“l’inviolabilità del domicilio; l’habeas corpus; il risarcimento dei danni in caso di errore giudiziario o di abusato potere”. Di Mino ha parlato non solo di D’Annunzio come “ultimo eroe risorgimentale” e del fiumanesimo come sintesi tra “l’azione di Garibaldi e il pensiero di Mazzini”, ma anche come un modello che avrebbe potuto contrapporsi ai totalitarismi montanti, di destra e di sinistra. In pratica, "trasformare il cardo bolscevico in rosa d'Italia", secondo uno slogan di Fiume.

Gabriele Marconi ha addirittura ipotizzato la revisione di alcune pagine della Prima guerra mondiale. Nel 1919 infatti, i granatieri di Ronchi (Monfalcone) disertarono la Grande guerra per seguire D’Annunzio nella storica impresa di Fiume. La Prima guerra mondiale, insomma, sembrava ad alcuni soldati quasi imposta, e anche quando Nitti ordinò di “riassicurare Fiume alla legalità internazionale”, si ebbe paura di una rivolta dell’intero Regio Esercito. 

“Dopo quella ‘degli antichi’ di partecipare alla cosa pubblica e quella ‘dei moderni’ di essere liberi dall’ingerenza eccessiva dello stato individuate da Benjamin Constant”, secondo il direttore del “Berretto del Capitano”, Fabrizio Di Priamo, nella Carta costituzionale di Fiume è possibile “ritrovare una terza forma di libertà del futuro. La libertà che si esprime nel dono agli altri, come nel famoso motto dannunziano ‘Io sono quel che ho donato’”. Inoltre la Reggenza italiana del Carnaro, oltre a essere stata l’ultimo episodio storico del Risorgimento, che ha dato all’Italia le sue frontiere naturali, secondo Guerri “è stata anche l’ultimo episodio del Rinascimento”, percorso dalla frenesia di costruire la Città del sole e le Città ideali.



Il presidente della Società di studi fiumani, Amleto Ballarini, ha presentato infine i numeri: dei 60.000 abitanti che aveva Fiume nel 1945, oggi gli italiani sono solo 4000. Eppure qualcosa sta cambiando: nel 1999 nel Palazzo comunale di Fiume si poté organizzare un convegno – in italiano – sulla Carta del Carnaro, invitando studiosi italiani, croati, ungheresi e austriaci. Anche il municipio croato sta celebrando i novant’anni della Reggenza con una mostra in cui, per la prima volta, il voto con cui il 30 ottobre del 1918 il Consiglio della città aveva chiesto l’annessione all’Italia è stato tradotto in croato.

(di Maurizio Stefanini)

giovedì 20 gennaio 2011

La Tunisia di De Michelis e l'oro di Leila


La cronaca spesso è uno straordinario puntello della Storia. In due Paesi completamente diversi, che tuttavia hanno la colonizzazione della Francia come matrice comune ancora ineludibile, Tunisia e Haiti, stanno risalendo in questi giorni in contemporanea rigurgiti di storia alla quale avevamo tutti messo colpevolmente la sordina.

Sono altrettanti segnali che quella che un po’ troppo ottimisticamente chiamiamo la coscienza democratica dell’Occidente non è che una pia illusione, utile solo a dare una patina di retorica a buon mercato ai discorsi da ministri degli Esteri alla Frattini. La coscienza democratica dell’Occidente, ammesso che esista davvero, come minimo dorme o si addormenta spesso, cullata dagli interessi della real politik e dalle mediocri ambasce del quotidiano.

LA FUGA DI BEN ALI. Dalla Tunisia il presidente Ben Ali, impotente nel fronteggiare la (per ora) piccola rivoluzione di piazza, è fuggito in Arabia Saudita. Ma l’avvenimento più interessante riguarda la moglie, la procace Leila Trabelsi, perché lei non è fuggita con il marito ma un po’ più tardi, con un secondo aereo presidenziale. Prima doveva fare un’importante commissione, ovvero recarsi alla Banca di Tunisia a fare shopping presso le riserve auree di quel disgraziato paese. Il bottino dell’affascinante Leila è stato di una tonnellata e mezza d’oro.

Come sia riuscita, e con l’aiuto di quale autista di bulldozer, a portarsi dietro un simile peso d’oro ancora non è dato sapere. Chi le abbia generosamente aperto il fort Knox tunisino non si sa di preciso. Ma lei, bravissima e imperterrita, se ne è andata in Dubai con il suo oro. Il suo aereo è atterrato nell’aeroporto più offshore del mondo. Nessuno ha alzato un dito.

I reati politici internazionali sono ben visti negli aeroporti offshore. La bella Leila è stata accolta come una regina. Il suo aereo ha fatto carburante (a buon prezzo) e poi è ripartito per l’Arabia Saudita, dove l’attende il marito Ben Ali.

Il nuovo presidente ad interim Ghannouchi ha dichiarato: «Negli ultimi tempi avevamo l’impressione che fosse Leila e non Ben Ali a governare». I successori della ex coppia erano tuttavia fidati collaboratori della stessa.

L'arrivo al potere di Ben Ali? Merito di Craxi e Andreotti.

Cosa attende, ora, la Tunisia? L’Italia vi faceva affari ma nessuno si è mai sognato di contestare qualcosa a Ben Ali e signora. Ora tutto il fango è buono. Ma in questi ultimi dieci anni chi ha mai fatto indagini sulla politica repressiva di ogni minoranza attuata dal presidente tunisino?Eppure il buon Ben Ali, classe 1936 (come Berlusconi, stesso mese di settembre) è stato installato nel suo scranno proprio dagli italiani Bettino Craxi e Giulio Andreotti nel lontanissimo 1987 dopo una deposizione morbida dell’ottantaquattrenne Bourghiba.

L'AZIONE DEL SISMI. Deposizione concepita e attuata dai servizi segreti italiani, il Sismi, agli ordini dell’ammiraglio Fulvio Martini (morto nel 2003). Martini confessò il golpe senza spargimento di sangue (italiani brava gente) nel 1999 e ne scrisse in modo edulcorato in un libro di memorie. Fu chiamato anche il Golpe medico, perché Bourghiba venne deposto per la falsa attestazione medica di una sua presunta grave malattia siglata da sette medici compiacenti. Da quel golpe, di matrice Cuf (Craxi, Forlani, Andreotti) nacque l’attuale regime, senza soluzione di continuità.

Gli interessi energetici dietro l'attivismo italiano in Tunisia.

Perché l’Italia ha voluto il golpe contro Bourghiba che pure era un eroe dell’indipendenza tunisina dalla Francia coloniale dal lontano 1956? Perché aveva bisogno di rinnovare le proprie credenziali in un’area, il Maghreb, che le dava il gas a buon prezzo. Il gas algerino passava in parte attraverso il territorio tunisino ma nel 1987 le tensioni fra Algeria e Tunisia erano altissime. L’Algeria minacciava di invadere la Tunisia per vecchie vertenze di confine e perché Bourghiba voleva mandare a morte 12 integralisti islamici, accusati di cospirazione e gli islamisti stavano riacquistando potere in Tunisia.

Bourghiba era un presidente laico e questo poteva creare qualche problema. Per salvare il gas algerino e riportare una pace fittizia bisognava deporre Bourghiba. E così fu fatto, nel silenzio dell’Europa, dei suoi giornali, della stessa Francia.

STATO AMICO DEL CRAXISMO. L’Italia indubbiamente ci guadagnò, ma non la Tunisia, che ebbe in dono un ex generale come Ben Ali, durato in carica quasi un quarto di secolo. Da quel golpe nacque la Tunisia amica del craxismo e ospite a eterna riconoscenza del Bettino poi ‘perseguitato’ da Mani Pulite e residente fino alla morte ad Hammamet.

La fuga di Ben Ali ha imbarazzato non poco gli ex craxiani. Il più cinico, e più informato, è stato ancora una volta il vecchio Gianni De Michelis. A chi gli chiedeva se non sapesse, lui che lo conosceva bene, che Ben Ali aveva instaurato una dittatura in Tunisia, rispose: «Non una dittatura, diciamo una democratura». Il neologismo di De Michelis spiega in abbondanza l’ambiguità della politica estera di un Paese del profondo occidente come il nostro. E sancisce la fine, se mai c’è stata, della sua famosa coscienza democratica, ovunque (teoricamente) esportabile. Magari in cambio di ottimo gas del deserto.

Macché nani e ballerine siamo all'orgia del potere


È stato uno dei principali esponenti del Partito Socialista Italiano e più volte ministro durante la Prima Repubblica. Oggi Rino Formica ha 84 anni e una lucidità invidiabile. Fu lui a coniare l'espressione «nani e ballerine» per definire l'ultima assemblea nazionale del Psi del 1991. Si riferiva ai troppi attori e intellettuali infilati impropriamente nel parlamentino socialista. Non solo. Definì la politica «sangue e merda» e non risparmiò critiche ai compagni diventati milionari grazie alla politica: «Il convento è povero, ma i monaci sono ricchi» precisò, sottolineando il contrasto fra i problemi finanziari del Psi e lo stile di vita di alcuni dirigenti. Anche adesso Formica non le manda a dire: «Berlusconi? Siamo arrivati a un punto di non ritorno».

La vede così brutta?

«Credo che tutti i cittadini oscillino tra lo sbigottimento e la meraviglia, non tanto per i fatti in sé ma perché è stata superata una soglia». E la causa? «È la crisi della personalizzazione della politica. In questi anni c'è stata un'identificazione tra persona e potere che ha reso tutto possibile. Si tratta di una forma di nuovo autoritarismo».

Mi scusi ma queste cose non succedevano anche nella Prima Repubblica? Fu lei a inventare l'espressione «nani e ballerine».

«Intanto i nani e le ballerine di allora erano giganti in confronto a quelli di adesso e poi quel giudizio nasceva dalla difficoltà di cooptare politici dalla società civile. In ogni caso si trattava di premi Nobel, personaggi del mondo della cultura, attori. Ora invece siamo all'orgia del potere».

D'accordo Formica, ma i leader del Psi si vedevano spesso nelle feste in discoteca.

«Certo. Ma appunto erano in discoteca, cioè in locali pubblici in cui avveniva ciò che era consentito dalle norme. Questa invece è un'orgia che porta dietro di sé un modello di organizzazione perverso».

È anche una questione politica?

«Nella Prima Repubblica un politico rispondeva al partito come un lavoratore al sindacato. Si stava nelle regole. La personalizzazione della politica ha portato invece a smantellare quel sistema. Il punto è che negli ultimi vent'anni abbiamo vissuto una continua fase del disfare».

Eppure gli italiani non sembrano indignati.

«Non è vero. È che l'indignazione non ha ancora trovato i suoi canali. Non è vero che al popolo non importa niente. Fate un giro tra le ragazze che lavorano nei call center a 500 euro al mese. Piuttosto bisogna stare attenti: quando la crisi morale si incrocia con la crisi economica esce fuori una miscela esplosiva».

Mi scusi Formica ma cosa dovrebbe fare Berlusconi?

«Andare in una clinica in Svizzera».

Scommetto che non sarà d'accordo con quelli che parlano di intromissioni indebite nella sfera privata del premier...

«Ma quale privato! Si chiede la riservetezza del privato ma, nello stesso tempo, si pretendono le procedure del pubblico. Siamo in uno stato confusionale. Smettiamola con questa idea di un privato e un pubblico che non s'incrociano quando si fa politica. Non è così, ma non solo per un capo di Stato anche per un consigliere di quartiere».

Eppure dalle carte non sembrano evidenti i rilievi penali.

«Sotto certi aspetti Berlusconi è parte lesa. Intorno a lui si muove un'organizzazione che sfrutta la prostituzione. O lui è il capo o, in effetti, è vittima. Certo se è parte lesa è ricattabile».

Cosa l'ha impressionata di più in questa vicenda?

«L'insensibilità di Berlusconi, è accecato. Ha difeso anche Lele Mora, ma come si fa? Mi colpisce anche un altro fatto: è un anno che c'è questa indagine, uno è al vertice dello Stato e non ha la percezione di ciò che sta accadendo benché le persone coinvolte siano centinaia. Come è possibile?».

E ora che succede?

«Servirebbe una tregua di un anno, un anno e mezzo per formare un'assemblea costituente, eletta col sistema proporzionale, e per far sorgere un nuovo modello di democrazia». Le elezioni anticipate? «Sarebbero un regalo al Pd».

Cioè crede che Berlusconi non vincerebbe un'altra volta? Ne è sicuro?

«I cittadini non lo rivoteranno».