domenica 5 dicembre 2010

Il Fascismo? Mezzo conservatore e mezzo liberale


I fascisti stessi avevano le idee confuse su natura, caratteristiche, propositi del loro movimento e dello stesso regime. All’inizio, per esempio, Mussolini disse che il fascismo non era «merce d’esportazione». Poi avallò le suggestioni del «fascismo universale» o del «panfascismo». Attorno agli anni Trenta, dopo che era stata in gran parte realizzata quella che Alfredo Rocco aveva chiamato la «trasformazione dello Stato» attraverso interventi legislativi per lo più legati al suo nome, si discusse a lungo negli ambienti giuspubblicistici e politici per individuare e precisare quel quid novi caratteristico dello Stato fascista e atto a distinguerlo da altri tipi di Stato. Il dibattito si intrecciò con quello sul corporativismo e coinvolse i maggiori giuristi e teorici della politica del tempo. Non giunse però - proprio perché non era possibile giungervi, essendo il fascismo figlio della prassi e non già di una precisa filosofia politica - a una teorizzazione univoca. E ciò, malgrado il proliferare di studi (e persino di cattedre universitarie) sulla dottrina del fascismo.

Anche la storiografia non è pervenuta - indipendentemente dal giudizio etico o storico-politico - a conclusioni condivise sulla natura dello Stato fascista. Possono essere, infatti, individuati, sia pure in prima approssimazione, almeno due grandi filoni interpretativi: l’uno che riconduce il fascismo alla famiglia degli «Stati autoritari» del XX secolo e l’altro che lo assimila a quella degli «Stati totalitari».

Un contributo importante a questo dibattito giunge ora, con la pubblicazione di un agile lavoro dal titolo Lo Stato fascista (Il Mulino, pagg. 158, euro 14) scritto da un fine giurista, Sabino Cassese, il quale è, certo, uno dei maggiori esperti dei problemi dello Stato e dell’amministrazione statale. Proprio l’approccio di tipo giuridico-istituzionale, piuttosto che quello di pura e semplice ricostruzione storico-fattuale, ha consentito all’autore di giungere a conclusioni, a nostro parere, condivisibili. Cassese, infatti, pone subito, in via preliminare, un problema - quello delle «persistenze» istituzionali - che storici troppo legati a una visione ideologica degli avvenimenti rifiutano di prendere in considerazione o ritengono residuale.

Se è vero che, in più occasioni, Mussolini enfatizzò la «rivoluzione fascista» sottolineando la cesura fra liberalismo e fascismo e parlò di uno «Stato nuovo», totalitario e corporativo, è anche vero che, di fatto, egli governò utilizzando largamente le istituzioni prefasciste. La legislazione fascista non sostituì affatto quella precedente, ma si insinuò al suo interno integrandola e valorizzandone taluni aspetti autoritari. In fondo, osserva Cassese, il regime prefascista aveva una struttura autoritaria temperata da istituti liberali che il fascismo riuscì facilmente a eliminare o a mettere in ombra sostituendoli o giustapponendovi norme di ispirazione più autenticamente autoritaria. Si ebbe, così, in sostanza, una continuità di istituzioni cui fece riscontro una continuità di personale tecnico-politico. E, del resto, un discorso non troppo dissimile, secondo Cassese, potrebbe essere portato avanti per definire, al di là delle dichiarazioni di principio, il rapporto tra l’Italia fascista e l’Italia postfascista. Alla luce di queste considerazioni, appare del tutto errata l’idea che il fascismo sia stato, per usare la celebre espressione di Benedetto Croce, una «parentesi» nella storia d’Italia. La convinzione, insomma, che possa esistere una cesura netta tra l’Italia fascista e l’Italia repubblicana è un’idea, scrive Cassese, che «corrisponde più a un bisogno dei contemporanei di stabilire una distanza tra il fascismo e se stessi, che alla realtà dei fatti». Esiste invece, a suo parere, una continuità Stato liberale-Stato fascista-Stato democratico che si manifesta sotto diversi aspetti che riguardano, per esempio, il ruolo dello Stato come produttore di servizi e di beni o quello dell’amministrazione pubblica o infine la stessa sopravvivenza di strutture di tipo corporativo.

Dall’esame delle strategie istituzionali del fascismo, Cassese giunge alla conclusione - cui erano pervenuti anche studiosi come Hannah Arendt, Alberto Aquarone e Renzo De Felice - che non si possa parlare correttamente, per esso, di Stato totalitario. Nello Stato fascista, per esempio, si trovano sia una forte componente autoritaria sia una grande capacità di mobilitazione delle masse che non è propria dell’autoritarismo. Inoltre vi si possono rintracciare agevolmente sia forti motivi polemici antiliberali, sia l’accettazione della tradizione liberale e di alcuni suoi istituti, a cominciare dal Re e dal Senato. Ma non basta: i paradossi e le contraddizioni sono moltissime e Cassese le enuclea e analizza in questo bel saggio che rappresenta un contributo di rilievo al dibattito sulla natura del fascismo. Un saggio che, inoltre, offre un’importante lezione metodologica sulla necessità di combinare - nello studio di un fenomeno così complesso qual è il fascismo - gli strumenti dell’analisi storiografica con quelli delle scienze sociali e quelli giuridico-istituzionali.

(di Francesco Perfetti)

venerdì 3 dicembre 2010

Il Mossad accusato di complotto: «Le notizie di Wikileaks avvantaggiano Israele»


A chi fa gioco il gioco di Wikileaks? Finora poco più di seicento di 251.287 messaggi diplomatici americani “rubati” sono apparsi in rete ma c’è già chi parla di complotto. Due sono le direttrici indicate: Julian Assange e i suoi collaboratori si vogliono arricchire oppure stanno lavorando per favorire la politica di un governo. Le teorie complottiste abbondano sul web. Nel mirino, quasi sempre, Stati Uniti e Israele. E anche questa volta, in prima linea tra gli accusati, i due Paesi.

In un’intervista alla rivista americana Time il fondatore di Wilkileaks ha fatto le lodi di Netanyahu che, ha detto, è convinto che le rivelazioni aiuteranno la ricerca della pace in Medio Oriente. «Il premier israeliano sostiene che i leader devono parlare in pubblico come parlano nel privato». I documenti classificati finora pubblicati giocano sicuramente a favore di Tel Aviv. Sia quando i diplomatici americani raccontano come molti leader arabi sono preoccupati per la politica di Teheran, sia quando spiegano che nonostante lo stato formale di belligeranza tra arabi e Israele, esistono ottimi rapporti tra molti paesi del Golfo e il “nemico”.


Wikileaks è nato nel dicembre 2006 e sostiene di «essere stato fondato da dissidenti cinesi, giornalisti, matematici ed esperti di informatica dagli Stati Uniti, Taiwan, Europa, Australia e Sud Africa». E anche se oggi c’è chi sospetta un ruolo dei cinesi nella raccolta e disseminazione dei documenti, molti cinesi vicini al regime sono convinti che Assange e i suoi siano in qualche modo collegati al Mossad, il servizio segreto di Tel Aviv.


Su un sito britannico qualcuno ha trovato “intrigante” una frase di un articolo del giornalista israeliano Yossi Melman, pubblicato sul quotidiano The Independent. Melman mette insieme tre eventi «apparentemente non collegati tra loro». Il primo, la pubblicazione dei documenti molti dei quali riguardano le preoccupazioni del mondo con il programma nucleare iraniano; il secondo, l’assassinio misterioso a Teheran del più importante scienziato nucleare iraniano e il ferimento di un altro; e infine la nomina di Tamir Pardo come nuovo capo del Mossad. «Ma c’è un legame tra di loro. Sono parte dello sforzo interminabile dell’Intelligence israeliana, insieme con le loro controparti in Occidente compreso l’M16 britannico e la Cia americana, per sabotare, ritardare e se possibile per impedire all’Iran di raggiungere il suo scopo di ottenere la sua prima bomba nucleare». Melman non ha voluto chiarire oltre il suo pensiero.


Accuse al Mossad, dopo quelle scontate di Ahmadinejad, sono arrivate ieri anche dalla Turchia, vecchio alleato strategico di Israele ora su posizioni nettamente contrarie alla politica del governo Netanyahu. Huseyin Celik, numero due del partito del premier Erdogan ha indicato che «Israele è soddisfatto» per le rivelazioni. «Ancora prima che i documenti fossero diffusi, già dicevano che “Israele non avrà problemi”». I documenti riservati finora pubblicati, sono imbarazzanti per Erdogan.


Fin qui, le valutazioni di chi cerca motivazioni politiche per “il complotto”. Per altri, il vero obiettivo di Assange e dei suoi collaboratori è di favorire il grande business dell’high-tech, dunque quella portante dell’economia israeliana. Appena venuta fuori la notizia della “fuga”, il governo americano e quelli di molti altri Paesi del mondo si sono messi alla ricerca di sistemi di difesa elettronica per garantire la sicurezza dei loro siti. «E’ un po’ com’è accaduto con la sicurezza negli aeroporti, nei porti e in altre strutture pubbliche dopo i vari allarmi terrorismo», spiega un esperto del settore e ricordando che anche in questo le aziende israeliane sono le più quotate.

E' morto Paolo Signorelli, il ribelle nero


Il professore è morto. Paolo Signorelli, ideologo della Destra antagonista, ha finito di soffrire. Per la malattia che da anni minava il suo corpo. Ha finito di subire accuse infamanti. Di essere perseguitato. Sì, perseguitato. Può essere considerata una bestemmia, ma come definire un’azione giudiziaria che si è protratta per quasi vent’anni e lo ha mandato in galera a ripetizione con accuse infamanti come quella di strage. Ripetutamente i giudici ne hanno chiesto la condanna all’ergastolo ma alla fine veniva sempre assolto. Emblematica la sentenza della Cassazione del 1992 che definiva il processo a suo carico «illogico, privo di coerenza, immotivato». L’unica condanna è stata per associazione sovversiva e banda armata. Un’imputazione che negli anni che furono di Piombo veniva diffusamente affibbiata a tutti gli esponenti extraparlamentari. Paolo Signorelli fu ideologo del Movimento Sociale e poi tra i fondatori di Ordine Nuovo. Fascista. Definizione che non lo offendeva, anzi la riteneva riduttiva e superata. L’uscita dal Msi, l’esperienza di Ordine Nuovo fino a quella ultima di Alternativa sociale, definiscono il percorso di un’esperienza che voleva essere una sfida politico-culturale antagonista al sistema e con posizioni anti-americane. La sua era una volontà di rinnovare e uscire da quegli stereotipi dove la rivoluzione è solo marxista.

Tradizionalista e ribelle fondava la sua contrapposizione al mondo moderno così come l’aveva tracciata Julius Evola del quale Signorelli si diceva allievo. Cattivo maestro per avversari e magistrati che lo hanno accusato di essere mandante di omicidi e di strage. Trascorse dieci anni di carcere per l’ecatombe di Bologna da cui fu assolto. Uscì da Rebibbia in barella. Tra quelle mura riempì un quaderno di disegni a china, scritti, poesie, lettere che si trasformarono nel libro «Forza Uomo». Pensatore radicale, icona per tanti camerati, appena pochi mesi fa, in un’intervista aveva duramente stroncato sia la destra parlamentare sia quella extraparlamentare di oggi. La prima ormai asservita all’omogenizzazione liberal-democratica e a «Wall Street». La seconda liquidata come fantasma di quella che fu venduta ormai per «motivi di strapuntini» agli schieramenti elettorali rinnegando le idee. Ai nuovi extraparlamentari contestava l’anti islamismo e una difesa astratta del cattolicesimo.

La vera colpa, senza appello, di Paolo Signorelli: la coerenza oltre ogni limite di buon senso. Fino in fondo, così da negarsi qualsiasi spazio. Pensatore illiberale al di là della destra e della sinistra. Continuava a rilanciare la sua idea di «Popolo» in un quadro di autodeterminazione di un’Europa che geopoliticamente si estende da Lisbona a Vladivostok. Le sue idee sono state sottoposte a processo. Non ci sono solo teoremi giudiziari contro la Sinistra: Paolo Signorelli è finito in carcere perché era di destra e rivoluzionario nel senso di contrario al conformismo politico di sinistra. Idee che possono non essere condivise, possono essere contestate. Ma non imprigionate. L’Occidente e l’Italia si stracciano le vesti per la libertà e i diritti negati in Iran, Myanmar e in tanti altri Paesi ma dimenticano le loro vittime. Il professore «nero» è morto.

(di Paolo Piccirilli)

giovedì 2 dicembre 2010

Il tempo delle demolizioni è arrivato. Anche la periferia italiana può uscire dal tunnel brutalista


In uno dei momenti più cupi della Storia recente, tra vecchie alleanze che tramontano e nuove che ancora non sono sorte, arriva, finalmente, una speranza per la periferia italiana. Si diffonde ormai ovunque la consapevolezza che il tempo delle periferie brutaliste è finito e iniziano a vedersi i primi segni concreti di una nuova stagione per l’architettura italiana.

Dopo il periodo degli UFO atterrati inconsapevolmente nelle periferie di tutte le città, dopo i bunker nostalgici del Vallo Atlantico e le colate di cemento brutalista che hanno prodotto i poco invidiabili record del Pilastro a Bologna e del Corviale a Roma – qual è il chilometro di cemento più brutale del Reame? – ecco arrivare i primi progetti ispirati a una nuova concezione della città. Una concezione ispirata, nello stesso tempo, alla migliore tradizione dell’architettura urbana italiana e alle più innovative tecniche di costruzione secondo i principi della Bioarchitettura.

Finalmente, sembra arrivare anche in Italia il momento di demolire le orrende periferie costruite in base alle meravigliose ideologie totalitarie del secolo passato e di costruire nuove Eco-Città Compatte. E una speranza inizia a diffondersi tra gli abitanti di questi esperimenti fallimentari di urbanistica brutalista. Una periferia grigia anche quando il sole splende alto nel cielo. Una periferia grigia in omaggio al cemento venerato dai seguaci di Le Corbusier che hanno cercato, invano,di cancellare la vitalità, il colore, la ricchezza delle migliori città italiane.

Il Workshop organizzato dal Comune di Roma sul “Ritorno alla Città” sembra inaugurare una nuova stagione dell’architettura italiana. Già il nome, mutuato da una serie di seminari internazionali di A Vision of Europe (http://www.avoe.org/) che già negli anni 90 avevano presentato, per la prima volta in Italia, la possibilità di costruire città eco-compatibili, sembra dare una direzione chiara.

E’ arrivato il tempo di abbandonare ideologie ed esperimenti fallimentari per ritornare alla migliore tradizione dell’Arte di Costruire le Città. Basta con le stecche e i grattacieli dispersi a macchia d’olio nelle nostre campagne, collegati da immensi fasci autostradali ad altrettanto immensi ipermercati e alienanti villettopoli. E’ ora di trasformare le periferie in nuovi eco-quartieri compatti, basati sull’accessibilità pedonale, organicamente concepiti come parte di una città con precisi limiti, in armonia con l’ambiente naturale.

E l’idea sembra essere ormai condivisa sia dai molti over-70 presenti al Workshop sia dai giovani architetti tra i quali spiccano i membri del Gruppo Salingaros. Riunitisi, grazie all’intelligenza del famoso docente di University of Texas e alla formidabile capacità organizzativa di Stefano Serafini, sotto la bandiera della lotta per la liberazione dalla tirannia delle archistar e per lo sviluppo di una città ispirata ai principi della Biofilia, della Bioarchitettura e della Eco-Città Compatta (http://www.ecocompactcity.org/), architetti, urbanisti, ingegneri, filosofi, artisti e uomini di cultura presentano alla città di Roma una serie di progetti per la trasformazione della periferia in una comunità organica di nuovi eco-quartieri.

Si va dai progetti per la nuova eco-città giardino di Corviale stimolati dall’appello dell’Assessore alla Casa Teodoro Buontempo alla ri-urbanizzazione della Borgata Case Rosse. Mentre i progetti di A Vision of Europe e di Ettore Mazzola per demolire Corviale e trasformarlo in una nuova “città dentro dentro la città” dimostrano la redditività economica di questi interventi, il progetto di Pietro Pagliardini per Case Rosse offre un nuovo modello d’intervento per la ri-urbanizzazione delle tante borgate sorte nell’Italia del secolo passato senza un vero piano regolatore.

Monicelli e gli avvoltoi del suicidio


Che pena vedere gli avvoltoi svolazzare sul corpo suicida di Mario Monicelli. Non è morto neanche da due giorni e già il suo gesto disperato e tremendo viene usato come testimonial per battaglie civili e propagande politiche.

Che brutto vedere la Camera dei deputati diventare palestra del tetro idealismo dei radicali e del lugubre antiberlusconismo veltroniano. Non avrei mai voluto trattare di bipolarismo davanti al morire. È barbarico, è disumano infierire sui morti, i morenti e i viventi fino a questo punto, usare la tragedia di un vecchio perduto nei labirinti della sua solitudine per legittimare una battaglia civile o, peggio, una contesa politica. Riconosco una luttuosa coerenza ai radicali, nelle loro battaglie intorno al morire, dall’eutanasia all’aborto, alla liberalizzazione della droga. Ma usare un suicidio per rilanciare ancora una volta l’eutanasia, mi pare assai brutto, e un po’ sciacallesco. Rivela l’obbiettivo finale dell’eutanasia che non è quello di staccare la spina a vite ridotte alla pura sopravvivenza biologica, come si vuol far credere attraverso due-tre casi estremi. Ma è l’idea che ciascuno possa decidere la propria morte semplicemente quando «non ce la fa più a vivere», come ha detto ieri alla Camera la radicale Rita Bernardini.

Dunque, non è più il caso estremo di una vita solo vegetativa per decretare la dolce morte; basta sentire il bisogno di uccidersi perché non ce la facciamo più. Nessuno ha diritto di giudicare le tempeste e le tragedie della vita altrui, e dunque il rispetto pietoso verso la scelta drastica del suicidio non deve mai venir meno. Chi ha deciso di compiere quel passo finale assume su di sé tutte le sue responsabilità davanti alla vita e alla morte, a chi gli sopravvive e se, crede, davanti a Dio. Quel che è barbarico, anche se si veste con le dolci vesti della civiltà e della libertà, è che la società, la sanità, la famiglia debbano offrirgli la corda per impiccarsi. Corda indolore, beninteso, per non farlo soffrire.

È umano, terribilmente umano che qualcuno decida di mettere fine ai suoi giorni ma è disumano, terribilmente disumano, immaginare una società, una civiltà che non si fondi sulla vita e non si preoccupi di difenderla ma diventi pubblica impresaria del libero morire. Chi si uccide e chi lo aiuta a uccidersi si assumano le loro responsabilità di fronte a Dio, se esiste, e davanti agli uomini. Senza salvacondotto sanitario; non vogliamo che la mutua ci passi la morte; se preferiamo un gesto estremo, che estremo sia. Un gesto da anarco ribelle, fuori dalla società. Se crediamo che quella sia la massima scelta di libertà, lasciamola alla libertà e non all’assistenza sanitaria pubblica. Si discuta sull’accanimento terapeutico su esistenze minime, incoscienti e solo artificiali. Ma una società non può legalizzare e agevolare il suicidio; smette di essere una società, diventa solo un dispositivo tecnico, un account inumano, per sbrigare al meglio le pratiche. A tale proposito devo ricordare le toccanti testimonianze raccolte da Bruno Vespa tra i familiari che hanno deciso di caricarsi la croce di una vita ridotta al lumicino e ora vivono la gioia di uno straordinario risveglio dei loro familiari dati per morti. Ti riconciliano con la vita e con la famiglia.

Meno ferale ma più brutta è stata la lugubre speculazione di Veltroni. Ricordare in Parlamento che al suicida Monicelli «non piaceva l’Italia d’oggi, la mortificazione della vita culturale» significa quasi adombrare, ma in quei modi obliqui, tipicamente veltroniani, riferiti sempre a misteriosi fattori climatici, un nesso tra il suicidio del grande regista e la polemica antiberlusconiana dei cineasti e della sinistra de piazza. Non farla così sporca, Walter, non mescolare la propaganda politica al cordoglio. Te lo dico con le parole di Totò: «’Sti ppagliacciate ’e ffanno sulo ’e vive: nuje simmo serie... appartenimmo a’ morte».

Trovo tremenda l’eco di altri due suicidi in questi giorni, di un prete e di un diacono: il primo perché scoperto dalle Iene nelle sue debolezze omosessuali, il secondo perché ritenuto non idoneo al sacerdozio. È terribile come il parlare di suicidi porti altri suicidi. E mi spaventa dirlo mentre scrivo sul tema, seppure in direzione inversa rispetto al diffuso cupio dissolvi in gloria del suicidio.

Qui torno a Monicelli. Mi ha scosso sapere che anche lui ha avuto, come altri casi, il tragico esempio di un padre suicida. Quante volte i figli rimproverano ai loro genitori il volontario abbandono della vita e dei loro cari quando insorge la disperazione. E quante volte, tragicamente, a distanza di tanti anni, quei figli ripetono gli stessi errori dei padri o delle madri, per ragioni diverse ma in un intreccio doloroso d’amore e di protesta tardiva verso di loro. Si uccidono a volte contro i loro padri e le loro madri che li abbandonarono, ma si uccidono come loro. Questo dimostra che non siamo isole nel deserto del mondo, ma siamo legati pur sempre a qualcuno, veniamo da qualcuno, rispondiamo a qualcuno, echeggiano in noi tracce profonde, e dentro la nostra solitudine abitano impreviste comunanze. Amor fati, senza osare di insegnare nulla a nessuno. Addio maestro, e che almeno in questo non abbia discepoli.

(di Marcello Veneziani)

mercoledì 1 dicembre 2010

Si vuol ripetere il grisbi del '92


Solo un ingenuo può supporre i documenti top secret statunitensi in giro per il mondo senza che in un sottoscala di Washington DC ne sappiano nulla. La tracciabilità d'ogni top secret è totale. Se sfuggono in massa è per mimetizzare i due o tre papelli indirizzati sull'obiettivo vero, Silvio Berlusconi.

Dov'è la Cia d'una volta? Quella che rapiva Aldo Moro, sparava al Papa, metteva le bombe sugli aerei? Il male assoluto di chiunque avesse una, pur lontana, affinità con Marx e monsignor Riboldi. Miracolo! È ascesa al cielo dalle pagine postbolsceviche nazionali. Abbiamo Santa Hillary Clinton da quando Wikileaks sforna documenti persino più sensazionali di quelli consueti di Repubblica. Mentre Gianfranco Fini attacca il governo, guardato con simpatia dal “Bildberg group”, si tenta di ripetere la rapina dell'industria italiana, realizzata fra il 1992 e il 1994, quando ci fregarono le industrie dell'Iri, grazie ai governi antimafiosi che non applicarono misure adeguate ai mafiosi. Il mirino politico è su Berlusconi, quello economico è su Finmeccanica, fiore all'occhiello della tecnologia militare italiana e dito nell'occhio per la Gran Bretagna. Come i barbari, s'uccidono i governanti e si saccheggiano le ricchezze.

Chiedetelo a Romano Prodi che fu consigliere di Goldman & Sachs quando speculava contro la lira nel 1992 (Ciampi, governatore di Bankitalia, bruciò 60mila miliardi) mentre tutti eravamo distratti dalle stragi dei mafiosi, poi curati come sappiamo da Giovanni Conso, ministro del solito Carlo Azeglio Ciampi. Chiedetelo agli italiani convocati sul panfilo Britannia nel 1992 (dopo la morte di Falcone e prima di quella di Borsellino) al largo di Ustica, accolti da uno staff di agenti britannici col dossier Mitrokhin in mano. Divennero tutti liberal, subito.

Wikileaks è un avvertimento a Ban Ki-Moon, a Muammar Gheddafi, ad Hamid Karzai, a Vladimir Putin, all'Iran. È una pugnalata a Berlusconi. Qui nessuna novità. Le fonti dell'ambasciata Usa a Roma si autoqualificano come ai tempi di Moro, quando dagli Usa piovve lo scandalo Lockheed (fondi neri, come per oggi per Finmeccanica) isolando lo statista pugliese (mentre l'Unione sovietica si preparava a ucciderlo). È il solito problema dei democratici Usa; l'avidità li induce a confondere traditori con amici e viceversa. Come si realizza tecnicamente la bufala di Wikileaks? I documenti sono filtrati legalmente verso uno o più paesi fidati, l'«Echelon club» per intenderci, la super Nato che raccoglie i paesi Wasp (White, Anglosasson, Protestant), a egemonia bianca, anglosassone e religione protestante. Da lì a organizzare una finta fuga di documenti, attraverso una rete non collegabile a Washington, il passo è breve. Nello stesso tempo a Washington attivano i canali legali (la legalità innanzi tutto, si sa) per incriminare Julian Assange, il patron di Wikileaks, genio, ma fesso come tutti i geni. Avrà un incidente mortale o andrà in galera e nessuno potrà intervistarlo, non appena l'operazione contro Berlusconi sarà conclusa, o piuttosto naufragata.

ItaliaOggi lo scrisse molti mesi fa: se Berlusconi non avesse l'amicizia di Putin sarebbe finito come Giovanni Leone, Moro e altri di fede occidentale. L'avidità dei malvagi non è mutata; tempi e scenari invece sì. Washington e Londra lo capiranno quando sarà troppo tardi, come al solito. Se fotocopiate questo pezzo, state attenti: ogni fotocopiatrice lascia tre puntini invisibili, una firma indelebile; la più aggirabile delle innumerevoli invenzioni della Cia per tracciare i documenti.

Il divorzio all'italiana? Non solo progresso

Il primo dicembre di quarant’anni fa l’Italia usciva dalla famiglia ed entrava ufficialmente nella modernità. Cessava di pensarsi e organizzarsi per famiglie e si emancipava pensandosi e organizzandosi per singoli. L’Italia cattolica, democristiana e familista fece il suo salto nella modernità laica, libertaria e individualista.

Fu un passaggio epocale. Come tutte le date ufficiali è solo un riferimento simbolico a un processo più lungo, cominciato prima e proseguito dopo. Il 1º dicembre del 1970 fu promulgata la legge del divorzio. Furono aboliti i reati di adulterio, concubinato e propaganda dei metodi anticoncezionali. Un fronte laico esteso ai comunisti sostenne la legge sul divorzio presentata dal socialista Fortuna e dal liberale Baslini. Erano ormai alle spalle i tempi in cui Togliatti definiva «innaturale» il divorzio (nonostante la sua relazione extramatrimoniale con la Jotti). Il Pci si era secolarizzato e si avviava a diventare la colonna portante di quello che Augusto del Noce avrebbe poi definito «partito radicale di massa». I radicali di Pannella furono infatti l’avanguardia della battaglia sul divorzio, la madre di tutte le battaglie civili che poi seguiranno, aborto incluso. L’Italia usciva dalla protezione parrocchiale, entrava sotto la protezione televisiva, usciva dalla dipendenza verso il modello patriarcale ed entrava nella dipendenza verso il modello americano.

C’era stato prima il boom economico, il Concilio Vaticano II, il ’68 e l’Autunno Caldo. E arrivò poi il divorzio territoriale, la fine dell’Italia dei prefetti, per dar luogo nello stesso 1970 all’Italia delle Regioni. Il divorzio fu la rivincita protestante sull’Italia cattolica, della cui mentalità era figlio anche il vecchio Pci.

In quel tempo, per dirla col Vangelo, il modello civile di maggiore suggestione era la Svezia con la sua società permissiva, individualista e socialdemocratica, single e libertaria ma protettiva e statalista. Meno famiglia ma più Stato, grazie a un pervasivo sistema pubblico. Le minigonne, gli hot pants e il mito del libero amore fecero da cornice leggiadra alla liberazione sessuale. I giornali del tempo, a eccezione del Tempo e del Giornale d’Italia, furono tutti a favore del divorzio e poi del no al referendum di quattro anni dopo, quando restarono sconfitti due svogliati interpreti del fronte antidivorzista, Fanfani e Almirante (a sua volta anch’egli nella situazione togliattiana). Nonostante le due grandi sconfitte del divorzio e dell’aborto, la Dc restò al potere godendo dello stesso consenso elettorale e anche l’Msi nonostante subisse in casa sua un doloroso divorzio (la scissione di Democrazia Nazionale) restò intatto negli anni Ottanta.

Mutò la qualità del consenso per la Dc, la motivazione atlantica prevalse sulla motivazione cristiana, mentre proseguì la motivazione clientelare, col voto di scambio. Nel frattempo la società era mutata: il lavoro alle donne, il benessere economico e la contestazione avevano reso il divorzio inevitabile. Fummo i penultimi in Europa, restò solo la Spagna di Franco, cattolicissima. Il divorzio tra sfera dei valori e politica fu clamoroso nella Dc, che per la prima trovava alleata la destra, per la seconda si univa all’arco costituzionale e si spingeva verso sinistra, fino al compromesso storico con il grosso Pci degli anni ’70. Sicché in famiglia votava con i missini, in aula con i comunisti.

È obbligo civile e culturale considerare la legge sul divorzio necessaria e benefica. Ma a costo di scandalizzare dirò che fu una conquista e una perdita. Come ogni medaglia ha una testa e una croce. La testa fu la libertà, i diritti, l’emancipazione, l’autonomia, soprattutto per le donne. La croce fu che la famiglia cominciò a sfasciarsi come principio, fondamento, dovere, denatalità. Su questo ebbero ragione gli antidivorzisti; non era vero che il divorzio lasciava l’indissolubilità del matrimonio a chi voleva la famiglia tradizionale e dava la possibilità di scegliere diversamente a chi non vi si riconosceva. Perché la famiglia prese a sfasciarsi progressivamente, e lo sappiamo. Dite pure che era inevitabile, e aggiungete che fu un bene, se volete; ma non negate il nesso, non solo simbolico, tra il divorzio e la sfamiglia (il conio è mio, poi lo usò Crepet).

Riducendo il legame nuziale a fatto soggettivo e revocabile, venivano negati la sacralità del matrimonio e il legame comunitario. Forse non era del tutto avventata la distinzione che proposero alcuni cattolici tra matrimonio religioso e unione civile in una specie di doppio regime: chi liberamente decide di sposarsi davanti a Dio accetta l’indissolubilità del legame nuziale, chi viceversa si sposa davanti al sindaco, magari aggiungendo una cerimonia religiosa non vincolante, può decidere di separarsi. Converrete che è un’ipocrisia volere il divorzio munito dai conforti religiosi, separarsi ma con la benedizione del prete... Come fu un’ipocrisia di ritorno della Chiesa negare i sacramenti ai divorziati. Tra le promesse mancate del divorzio ve ne sono tre vistose. La prima è che la famiglia è in crisi ma il «familismo amorale» è in auge e produce i suoi peggiori effetti, e non nelle aree più arretrate o nella malavita, si pensi al nepotismo nelle classi dirigenti e nelle università. La seconda è che le violenze non sono diminuite con le separazioni, anzi a volte hanno esiti più tragici. La terza è che il divorzio non ha generato rapporti più franchi tra coniugi, senza le finzioni, i sotterfugi e le scappatelle delle nozze per sempre; anzi le ipocrisie, le frustrazioni, i tradimenti sono aumentati vertiginosamente. Quel che non potè il divorzio può il telefonino, la prima causa statisticamente accertata dei litigi coniugali. Curiosa infine la parabola invertita delle unioni gay: la famiglia si sfascia ma le coppie omosessuali vogliono parificarsi alle unioni famigliari...

È facile sparlare della famiglia arcaica ante-divorzio e del suo assetto incompatibile con la libera modernità. Di solito si ricordano abusi e ipocrisie, il padre-padrone e la gerarchia domestica. Io vorrei ricordare che per ogni abuso c’erano cento casi di dedizione commovente, per ogni violenza c’erano cento sacrifici personali, per ogni etto d’odio c’era un quintale d’amore. Oggi assai meno. Quella struttura arcaica è irripetibile, merita solo giudizi storici e memorie sentimentali ma è alle nostre spalle. Non disprezziamo quel che è alle nostre spalle. Non sputate sui vostri padri e sulle vostre madri.

(di Marcello Veneziani)

La scelta stoica e terribile di andarsene a modo suo

«Il suicidio permette di sfuggire alla vi­ta; ma non permette di sfuggire alla ca­ricatura postuma, e specialmente alla caricatura fatta, per leggerezza e pas­sione, delle ragioni del vostro suici­dio » scrisse Henry de Montherlant pri­ma di uccidersi a 76 anni. Una volta morto, ci fu chi sostenne che quel col­po di pistola sparato alla tempia di un scrittore grande e famoso, era dovuto alla paura di diventare cieco: una ra­gione plausibile, per un gesto altri­menti incomprensibile, e insieme una ragione pietosa, il suicidio come debolezza, incapacità ad accettare i mali della vita. Eppure, come si era interrogato lui stesso, se il suicida è un vinto, che male c’è? «Dalla società? È un onore. Dalla malattia, dalla vecchia­ia? È la natura. Da un nemico? È un soffio nel vento della morte, la vita è fatta di questo. Che il suicida sia o no uno sconfitto, ha poca importan­za, se con il suo suicidio ha te­stimoniato due cose. Il suo co­raggio e il suo dominio. E ciò detto, se ammiro il coraggio di quelli che si uccidono, am­miro anche il coraggio di quanti, per una quindicina di secoli, i secoli del cristianesi­mo, hanno sopportato tutto, le cose più atroci, senza suici­darsi. Il coraggio di morire e il coraggio di non morire».

Mario Monicelli era uno stoico, nato in un tempo che non era il suo e dove quelle che in altre epoche erano cate­gorie filosofiche coerenti si erano trasformate in caricatu­re, un compromesso di qua, un accomodamento di là e al­la fine si poteva essere un po’ tutto e quindi niente, asceti ed epicurei, moralisti e ses­suomani, atei e bigotti... Lui era stato uno dei re della com­media all’italiana, che nei suoi momenti più alti non è al­tro che i l sottolineare i l nostro peggio non credendo più nel nostro meglio.

Scriveva ancora Monther­lant che «quando uno ha visto il mondo non gli resta che il suicidio o Dio». Monicelli non era credente, ma non è questo il punto e Monther­lant lo spiega molto bene nel rendere più comprensibile quella dicotomia. «I romani avevano creato, secondo il co­stume di allora, un Giove par­ticolare, che avevano chiama­to Jupiter liberatore. Era que­sto Dio che invocavano suici­dandosi. Ciò non significava tanto che il dio vi liberava dei vostri mali o delle vostre ango­sce, ma che era il Dio degli uo­mini che, almeno una volta , erano stati liberi: quando ave­vano chiuso, di propria scel­ta, la loro vita».

Ecco, Monicel­li credeva in quel dio degli uo­mini. Perché ci si uccide a novan­tacinque anni? Non avrebbe potuto lasciare alla natura o al tempo il compito di mette­re la parola fine? C’è chi ha scritto che in fondo il suicidio è un’affermazione di vita; es­sere disgustato dalla vita si­gnifica avere fede nella vita, ri­tenerla una festa unica, alla quale non si è stati invitati, una tavola splendidamente apparecchiata dalla quale si viene scacciati pur avendo fa­me. È per questo che il suici­dio non è mai stato così fre­quente come nelle epoche in cui si crede nella felicità. C’è del vero, ma è anche plausibi­le che chi si uccide da vecchio lo faccia per stanchezza del vi­vere: sono scomparsi i punti di riferimento, l’età ha in­ghiottito amori e amicizie, riti e abitudini, e ogni decennio che passa ti costringe a rivede­re ciò che è stato e a cercare di accettare ciò che sarà. Puoi a un certo punto decidere che hai visto troppo e hai soppor­tato abbastanza e ciò che ti at­tende sarà sempre peggio di ciò che ti sei già lasciato die­tro. Come che sia, nemmeno in questo articolo si riesce a usci­re da quella «caricatura postu­ma » da cui fin dall’inizio si sa­rebbe voluto prendere le di­stanze.

In realtà, poiché nes­sun istinto è più intollerante del desiderio di vivere, fati­chiamo a capire perché uno possa decidere consapevol­mente di morire. Abbiamo bi­sogno di giustificarlo, ovvero di scusarlo, lo consideriamo un delitto e così facendo lo ca­lunniamo, perché nessuna ra­gione morale consente di trat­tarlo a questa stregua. Nel Cre­tino in sintesi , l’ultimo libro di Franco Lucentini, anche lui morto suicida otto anni fa, c’è un paragrafo quanto mai em­blematico che riguarda la morte e la mania dei mass me­dia di interpretarla. «D’accor­do, così non è lecito morire, così nemmeno, così è una ver­gogna, così è assurdo, così è uno scandalo, così è idiota. La morte è divenuta una discus­sione, un’avaria, un proble­ma, un errore. A questo pun­to, la domanda si pone da sé: come diavolo deve morire la gente allora?

Come cercatori d'oro, tutti si precipitavano a monte per scavare fuori la ve­rità vera, portare alla luce omissioni e responsabilità lontane e vicine, dirette e indi­rette, minime e madornali. Noi guardiamo a monte e fac­ciamo esposti, denunce, cor­tei, decreti, dibattiti, accerta­menti. Là in fondo, a valle, ci sarebbe sempre il vecchio De­stino, ma non lo vogliamo ve­dere più». Monicelli si è ucci­so gettandosi nel vuoto. Era malato, hanno fatto sapere le agenzie di stampa, era stanco e si sentiva solo... Muoiono co­sì pensionati e vedovi, studen­ti e professori, scrittori. Mori­rono così anche Primo Levi e, appunto, Franco Lucentini. Punto e basta.

(di Stenio Solinas)