lunedì 16 novembre 2009

Il Secolo trendy


Ieri il Secolo d’Italia era “con Saviano per fermare tutte le mafie”, perché “emerge con prepotenza ‘una questione morale’ che non può essere declinata nella retorica della giustizia politicizzata o delle ‘toghe rosse’ ma che invece deve far riflettere i partiti” e così via. L’altroieri il Secolo d’Italia illanguidiva all’idea di vivere in “una destra trendy che suscita invidia”. Oggi e domani chissà. Una combinazione di austerità e autocompiacimento fa sì che il quotidiano di Fini, sempre più indispensabile, riesca quasi ogni giorno a esaurire lo spettro delle emozioni politiche. Dall’indignazione facile e un po’ forcaiola in materia di giustizia, vecchia passione degli anni Ottanta oggi declinata ingenuamente con lo stendardo del lettore collettivo di un incolpevole Saviano, alla più divertente sfida di costume al berlusconismo.

In quest’ultimo caso bisogna riconoscere che il corsivo sulla destra trendy era ben confezionato: in fatto di marchi il Cav. ha Raiuno, Fede, Porta a Porta, Apicella; Fini ha Fabio Fazio, Piroso, Sky, la Mannoia, Serra, Gruber; il Cav. ha Ghedini e i rotocalchi, Fini l’avvocato Bongiorno e i libri con la copertina bianca; il premier ha il predellino, il presidente della Camera il sito internet giovanilista di FareFuturo. Messa così non c’è storia, il gioco serioso certifica che la destra è davvero al passo coi tempi, centrale nella dialettica dello spirito glamour, eppoi giovane, giovane, sempre più giovane. Talmente giovane da realizzare il sogno occulto dell’uomo moderno: nascere vecchio e vivere il decorso dell’esistenza ringiovanendo progressivamente. Che meraviglia, per la destra, vedere invecchiare i cavalieri, nell’attesa di farsi mettere il pannolino dalla Littizzetto.

(di Alessandro Giuli)

sabato 14 novembre 2009

COME NEMBO DI TEMPESTA

La rivoluzione antiliberale battuta da Hitler

Ritorna all’attenzione, grazie a un denso libretto di Ernst Nolte, la Rivoluzione conservatrice tedesca, movimento intellettuale che ha influenzato più di quanto non si ritenga la cultura del Novecento. Nel suo saggio (La Rivoluzione conservatrice nella Germania della Repubblica di Weimar, a cura di Luigi Iannone, Rubbettino, pp. 76, euro 10) lo storico esamina i leitbilder (le immagini conduttrici) e passa in rassegna alcuni dei protagonisti del singolare movimento, traendone conclusioni che possono aiutarci a comprendere la crisi della modernità che, negli anni Venti e Trenta, e non soltanto in Germania, era ben presente a pensatori che non si abbandonavano alle fallaci astrazioni del razionalismo per interpretare le convulsioni che s’intravedevano.

Riproponendo le figure di Mann e di Spengler, di Klages e di Jünger, di Schmitt e di Moeller van den Bruck, di Niekisch e dei fratelli Strasser, Nolte richiama l’interesse attorno a un paesaggio caratterizzato dalla critica anti-illuministica, nel quale si agitavano idee protese alla preparazione di una rivoluzione dei valori (perciò “conservatrice”) nel segno della negazione dell’egualitarismo e di una nuova legittimità del potere fondata sugli elementi tradizionali degli aggregati nazionali e comunitari.

Culto delle origini

Un fenomeno, insomma, dalle spiccate connotazioni metapolitiche che proseguiva idealmente il discorso sulla funzione della cultura nel contesto della “crisi della civiltà” cominciato tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento dagli studi sociologici di Tönnies e di von Gierke, da quelli storici di Bachofen e di Burckhardt, dalle ricerche sulle origini religiose dell’Europa di Erwin Rodhe, dall’“opera totale” di Wagner e dalla “filosofia dell’avvenire” di Nietzsche. Le coordinate culturali che legano i pensatori rivoluzionario-conservatori vanno dal comune sentimento del nichilismo quale tragedia europea al culto delle origini, dalla concezione sferica del tempo e della storia alla difesa delle culture differenziate, dalla visione organica della nazione e dello Stato alla centralità dello spirito del popolo e della tradizione civile che esso incarna. E su tutto una lirica, quasi metafisica, coscienza dell’Europa quale corpo spirituale e storico da resuscitare nel segno di una grande politica.

Movimento europeo

Elementi, questi, come originalmente sostiene Nolte capovolgendo una vecchia immagine della Rivoluzione conservatrice, che appartengono non soltanto agli ideologi tedeschi del tempo, ma che si riscontrano anche negli studiosi e negli agitatori italiani, spagnoli e francesi in particolare, sicché si può dire che il movimento è stato europeo nel suo dispiegarsi, fornendo le ragioni di una rivolta spiritualista e antirazionalista a chi vedeva crollare il vecchio mondo sotto il peso delle nefandezze ideologiche (e non solo) originate dalla Rivoluzione francese.

Insomma, i rivoluzionario-conservatori, consapevoli che l’ultimo stadio della sovversione era rappresentato dal marxismo che si fa Stato, non avevano altro scopo se non di ripulire la vecchia Europa dai cadaveri ideologici e conservare la “storicità” dell’uomo, vale a dire la possibilità di creare nuovi eterni ritorni in opposizione radicale con la fine della storia progettata dalle ideologie razionaliste. Animati da una “nostalgia dell’avvenire”, si lanciarono in una battaglia che s’infranse contro i totalitarismi, ma lasciò semi sparsi un po’ ovunque che ancora oggi, opportunamente coltivati, possono fruttificare.

(di Gennaro Malgieri)

Golpe, il nome sinistro della giustizia

In nome della Legge si proceda al massacro. Gira e rigira, l’ultima frontiera della sinistra italiana è la Legge. Le idee sono morte da un pezzo, la storia è meglio cancellarla perché è piena zeppa di errori e di orrori, gli uomini scarseggiano e perdono le competizioni elettorali. Allora non resta che invocare la Legge, aggrapparsi alla Legge. I ragazzi a scuola tirateli su con la Costituzione, i politici al potere tirateli giù con i codici. Prevenzione & Punizione. Ieri l’ex giudice Colombo bacchettava Galli della Loggia che aveva osato criticare l’uso ideologico della Costituzione nelle scuole; e l’ex giudice Di Pietro bacchettava la maggioranza che abbreviando i processi aggirava a suo dire le leggi e salvava Berlusconi. E la sinistra, sub judice, nel senso di subalterna ormai ai magistrati, è partita in guerra nel nome della Legge. Noi siamo la legalità, loro sono i fuorilegge; noi siamo i patrioti della Costituzione, loro sono banditi anticostituzionali, fanno carne da porco delle Leggi e calpestano le Norme, adattandole ai propri bisogni. A volte le parti si invertono: quando si parla ad esempio di terrorismo e di criminalità, di droga e clandestini, le forze di sinistra sono solitamente più indulgenti e invece il centrodestra chiede leggi più severe e soprattutto applicazioni più certe e più rapide. Ma se dovessimo trovare uno spartiacque ideologico tra quel che resta della destra e della sinistra, dovremmo dire che la linea di demarcazione è lì: il primato delle leggi o delle persone.
Ora, nessuna società potrebbe sopravvivere senza l’osservanza di poche ma solide leggi; anche se il nostro Paese sopravvive miracolosamente da svariati anni col novantatré per cento dei reati impuniti e un tasso altissimo di errori giudiziari e di ritardi paurosi. Veniamo da una civiltà antica, fondata sul Diritto, e non saremo certo noi a negare l’importanza delle leggi e il valore che esse hanno. No, il ragionamento che vorrei fare non è di stampo giuridico ma culturale. Stavo per dire storico-filosofico ma temendo la fuga in massa dei lettori, mi fermo al già compromettente taglio culturale. Beh, ci sono due modelli culturali alle radici dell’Europa e quindi dell’Occidente: un modello di derivazione anglo-protestante, che è fondato sul primato assoluto delle Leggi, l’impersonalità oggettiva delle Norme e delle Carte. E c’è un modello di derivazione mediterranea e cattolica, improntato invece sul primato della persona e la mediazione fondamentale dell’uomo. Il primo ha il pregio di sottrarre il potere e i rapporti umani alla logica dei favori perché non guarda in faccia nessuno; ma ha il limite appunto di non guardare in faccia nessuno, di non considerare la vita, la storia, la realtà. Il secondo, invece ha il pregio e il limite opposti, perché considera la persona ma rischia il personalismo. Non sto contrapponendo Lex a Rex, non sto considerando il sovrano legibus solutus, cioè sciolto dalle leggi. Sto riferendomi ad un’altra più realistica versione, non medievale ma compatibile con le democrazie moderne.
Le fonti del potere e della decisione, per chi ha una visione fondata sul primato della persona e della comunità, sono tre: la maggioranza, l’esperienza e la competenza, ovvero la sovranità popolare, la lezione della storia e della tradizione, il parere degli addetti ai lavori, le élite scientifiche, le classi dirigenti. Per chi invece sposa il primato della Legge, prevale su tutto la Norma, rigida e frigida. Non scomoderei per questo lo Stato Etico, come ha fatto ieri Galli della Loggia; preferirei usare l’espressione di Nietzsche di uno Stato come di un Mostro freddo che applica le leggi a prescindere dalla realtà. Anche se smentisce l’interesse generale, le situazioni storiche, il consenso dei popoli, il parere degli esperti, le abitudini e la vita concreta con le sue imperfezioni e variazioni. Senza considerare che le leggi possono essere usate e interpretate in modo malevolo e fazioso, o applicate con colpevole ritardo. Le leggi possono essere non solo concepite ad personam, ma anche usate ad personam.
Una società perfetta, avrebbe naturalmente un equilibrio divino tra le due culture, e la Legge combacerebbe sempre con le tre fonti del potere e della decisione. Ma l’esperienza insegna che non è così e a volte sono in gioco gli interessi supremi di un Paese o comunque superiori alle leggi. E poi, come dicevamo prima, quando si esce dalla politica e si entra nell’ordine pubblico, nella comune criminalità o nei costumi, la sinistra diventa permissiva e invoca l’interpretazione storica, sociale e perfino ideologica delle leggi.
Da queste due visioni discendono due diversi tipi di patriottismi. Per i fautori della Legalità vige il patriottismo della Costituzione, cioè la convinzione che il punto comune e supremo che lega le società sia il Patto costituzionale e l’osservanza delle sue norme. Come se la Costituzione fosse stata dettata sul Monte Sinai direttamente da Nostro Signore, che scolpì con la Luce, nella prima Fotocopia Celeste, le Tavole normative per gli uomini. Anche Montanelli scriveva che la Costituzione non è la Bibbia, ma si può modificare, fu scritta da uomini in un certo momento storico. Per i fautori del realismo c’è invece il Patriottismo della tradizione, ovvero la convinzione che a unirci non siano le leggi scritte, nel caso nostro scritte nel ’47; ma sia la vita, la storia, la cultura dell’Italia, dunque le sue esperienze umane, civili e religiose, il patto tra le generazioni, la loro continuità e il loro mutamento, il comune destino e la comune provenienza. Per farvi un esempio, piccolo ed enorme, il patriottismo della Costituzione esclude la presenza dei crocefissi nelle aule pubbliche, il patriottismo della tradizione invece no.
Direte che ho esagerato, tirando in ballo Mosè e Gesù Cristo, per parlarvi dell’ultimo scannatoio politico in atto sul processo breve e la Costituzione nelle scuole; direte che al di là delle idee, il problema vero è mettere in mano a magistrati feroci e docenti ideologizzati l’uso giacobino delle Leggi. Avete ragione, ma a volte non è male salire di un piano e capire le radici del caso italiano, cercando anche di innalzare il dibattito politico e civile del nostro Paese. Ora riprendete pure a massacrarvi nel nome della Legge e a sentirvi italiani solo perché è scritto nella Costituzione anziché nel vostro dna.
(di Marcello Veneziani)

venerdì 13 novembre 2009

Il «capitano Ultimo» senza scorta. I colleghi: lo proteggiamo noi


Ad ottobre, nei giorni in cui è tornata alla ribalta la presunta trattativa del «papello» tra lo Stato e Cosa Nostra per far cessare la stagione delle stragi di mafia, "Studio Aperto" rivelò che al «capitano Ultimo» era stata tolta la scorta. Sì, davanti ai telespettatori, è stato detto che Sergio De Caprio, l’ufficiale dell’Arma che la mafia non ha dimenticato perché fu lui a guidare sul campo la cattura di Totò Riina, era ormai privo di protezione. E così, ora, ­quella protezione assicurata fino a tre anni fa all’ex ufficiale dei Ros viene di nuovo assicurata «in forma privata» dai colleghi del Nucleo scorte del comando provinciale di Palermo. Liberi dal servizio e con le proprie autovetture (pagando anche la benzina, s’intende) i 120 militari del reparto hanno deciso di alternarsi per coprire i turni se e quando il tenente colonnello De Caprio (che oggi lavora a Roma al Noe, il nucleo operativo ecologico dei carabinieri) dovesse recarsi in Sicilia per servizio: «Andremo a prenderlo all’aeroporto, lo accompagneremo in albergo, lo seguiremo ovunque», confermano i militari che hanno deciso di prendere un’iniziativa senza precedenti. Il tam-tam, tuttavia, ha raggiunto anche altre regioni e non è escluso che anche altri reparti scorte dell’Arma (Milano, Roma, etc) si adeguino alla decisione dei colleghi siciliani.


L’arresto di Riina (15 gennaio 1993) e la ritardata perquisizione del covo.

La notizia della scorta privata assicurata dai colleghi al «capitano Ultimo» ­ - diffusa dal delegato del Cobar Sicilia (il sindacato dei carabinieri, ndr) Alessandro Rumore ­­­– ha certamente delle ricadute e negli ambienti vicini all’Arma viene letta come un forte segnale di solidarietà verso De Caprio che ha spesso fatto parlare di sé per i contrasti avuti con i superiori nell’Arma e con la magistratura inquirente. Lui, infatti, non è solo l’eroe del passato che con la sua squadretta mimetizzata è riuscito a mettere le manette ai polsi del boss dei corleonesi. «Ultimo» è tornato di recente al centro dell’attenzione quando, lo scorso 6 novembre, ha appreso che Massimo Ciancimino, il figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino, aveva deciso di querelato: il motivo del contendere è sempre l’arresto di Riina che avvenne, secondo la versione di Ciancimino jr, solo «perché venduto da Provenzano». A questa ricostruzione, De Caprio, che all’epoca era sotto il comando del colonnello Mario Mori (Ros), ha risposto a modo suo: «Ciancimino? Un servo di Riina». Ma per il figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo questo va oltre il diritto di critica: «Ciascuno ha il diritto di esporre il proprio pensiero ma le offese sono un’altra cosa».


Contrasti con la procura di Palermo

Intervistato dalla trasmissione «Chi l’ha visto?» di Federica Sciarelli, il 6 novembre scorso De Caprio ha dato la sua ricostruzione dalla quale emerge quanto meno un forte contrasto con la magistratura su metodi investigativi da seguire: «Nessun mafioso, nessuna persona ci ha mai indicato il covo, l’abitazione dove abitava Totò Riina… Per avere commesso questa grave azione sono stato anche processato e assolto: basta leggere la sentenza di assoluzione per rendersi conto che quell’arresto e le azioni collegate si sono svolte in maniera legittima e trasparente senza inganno alcuno verso al procura e senza alcuna trattativa. Dunque chi parla di trattativa e di accordi è solo un vile, uno dei tanti vili servi di Riina… La verità che ho ripetuto in ogni sede è che l’arresto di Riina è stato ostacolato dalla Procura di Palermo e oggi capisco che ha dato fastidio a tutte quelle persone che evidentemente avevano interesse a tenere in libertà Riina... gli stessi che hanno isolato e ucciso professionalmente Giovanni Falcone, gli stessi che hanno isolato Paolo Borsellino, poi fisicamente ammazzati dai sicari di Cosa Nostra». Ecco, c’è anche tutto questo, compresa la storia mai chiarita fino in fondo della ritardata perquisizione del covo di Riina che dopo l’arresto fu setacciato dagli investigatori quando ormai era «freddo» da giorni, dietro la decisione dei colleghi carabinieri siciliani di schierarsi in modo plateale dalla parte del «capitano Ultimo».

Il Cocer Sicilia

Dunque, senza scorta (ormai da tre anni) e molto esposto da un punto di vista mediatico, il tenente colonnello De Caprio incassa ora la solidarietà dei 120 colleghi di stanza in Sicilia che sono disposti anche a rinunciare a un pomeriggio da trascorrere con a moglie figli pur di tutelare un ufficiale che in molti ritengono un eroe. «La lodevole iniziativa», spiega Alessandro Rumore (Cocer), «è un chiaro segno alla mafia al fine di renderla edotta che il capitano Ultimo non sarà mai lasciato solo allorquando dovrà intervenire nei processi contro Cosa nostra». Gesti questi, incalza il delegato Cocer, «che uniscono in un momento particolare per l’Arma dei carabinieri…».

Interrogazione parlamentare

La vicenda della scorta tolta al capitano Ultimo è anche oggetto di una interrogazione parlamentare al ministro dell’Interno presentata dal deputato Nino Germanà (Pdl): «Sergio De Caprio è oggi un uomo solo, abbandonato dallo Stato che ha servito. Per le mansioni attualmente svolte è senza scorta che possa tutelarlo e la mafia non dimentica. L’assenza di una scorta a tutela del colonnello De Caprio appare tanto più incredibile in un momento in cui le oscure vicende legate alla strategia stragista di Cosa Nostra negli anni 1992- 1993 stanno riconquistando gli onori della cronaca…». Chissà, dunque, se il ministro Roberto Maroni (Interno), nel rispondere a questa interrogazione, dovrà anche affrontare il tema delicato della «tutela privata» assicurata a De Caprio dal reparto scorte di Palermo fuori dall’orario di servizio e con mezzi propri. Un’iniziativa, questa, che potrebbe imbarazzare il Viminale. Al punto da far scattare richiami e sanzioni disciplinari all’interno dell’Arma.

Strappare l’architettura agli architetti

«Prova a immaginare te stesso dentro l’architettura che hai progettato: ti ci senti bene?». Quando il professor Nikos Salingaros pone questa domanda ai laureandi di architettura nell’università del Texas dove insegna, i giovani sbalordiscono: nulla di ciò che gli è stato insegnato nei quattro anni precedenti li ha preparati a porsi una simile questione. Anzi.
Salingaros è in Italia per presentare il suo volume «No alle Archistar», della Libreria Editrice Fiorentina. Le Archistar sono gli architetti strapagati e acchiappa-tutto nei grandi progetti internazionali. Da tempo Salingaros, matematico per formazione, li accusa non solo di essere gli esponenti di un’architettura malata, ma che fa anche male alla salute fisica, psichica e spirituale dell’uomo.
A Roma, ho assistito a una conferenza-stampa del professore. Poichè erano presenti più architetti che giornalisti (e pochi studenti muti di domande, probabilmente esterrefatti di ascoltare il contrario di ciò che si sono sentiti insegnare), hanno finito per parlarsi tra loro. E francamente, rinunciando alla lingua di legno delle riviste di architettura. Cos’hanno detto?
Tutti d’accordo, visto che pochi sentivano, che occorre «riportare l’uomo al centro della progettazione». Che bisogna tornare a «progettare la normalità» e non le stravaganze. O anche che (Wittfrida Mitterer, direttrice della rivista Bio-Architettura) che «le architetture tradizionali sono di per sè eco-sostenibili», intendendo proprio le architetture popolari («vernacolari»), non foss’altro perchè usano materiali locali e sono adeguate al clima locale, oltre che alla cultura umana del luogo.
Perchè allora non si costruiscono case tradizionali? Un problema è che per quelle c’è bisogno di artigiani, e gli artigiani «ormai sono rarissimi, e perciò carissimi». In compenso, abbiamo abbondanza di architetti laureati. In Italia, ha rivelato Amedeo Schiattarella, presidente dell’Ordine di Roma, c’è un architetto ogni 400 abitanti. Viene il sospetto che esista un rapporto diretto tra la densità di architetti e la densità di orrori edilizi che ci occupano i nostri suoli. Ma forse no; all’estero, i nostri studenti d’architettura sono ben considerati, hanno cultura (forse hanno studiato storia dell’arte, si spera), e sono per lo più sottoccupati: gli enti pubblici non hanno in mente che le archistar straniere.
Il fatto è che i nostri studenti non hanno pratica. La professoressa Mitterer, che insegna anche in Austria, dice che a Vienna gli studenti vengono mandati nei cantieri già nei primi sei mesi: anche per aiutarli a capire se hanno scelto la strada giusta o no. I nostri, nei cantieri non vanno mai.
Tristi assensi riscuote l’ammissione che Bernini non è uscito dalla facoltà di architettura, eppure se l’è cavata non male nel progetto di San Pietro, collonnato e tutto. Anzi, nè i costruttori di cattedrali, nè quelli che fecero le terme di Diocleziano, nè uno dei grandie edifici del nostro passato artistico, hanno mai frequentato una università. Spesso non ne sappiamo i nomi, perchè essi stessi si consideravano non più che artigiani. Nulla del divisimo sprezzante dei Fuksas, dei Piano, dei Libeskind.
E poi un intermezzo satirico: «Le archistar non abitano negli edifici che costruiscono». Si scelgono (ne hanno i mezzi) antichi palazzi storici. Per esempio: Gregotti, autore dell’orribile quartiere Zen di Palermo, covo di malattie morali e patibolari, fu beccato tempo fa da quei «mascalzoni» di «Le Iene» in casa sua: un palazzo ottocentesco al centro di Roma con affreschi alle pareti, fontane (alcune delle cose che non si fanno più perchè mancano gli artigiani) e decine di stanze.
«Il quartiere Zen è bellissimo», ha insistito Gregotti con Lucci (la Iena) che lo intervistava, «Ma lei ci vivrebbe?», incalza la iena. La risposta: «Io non faccio il proletario, faccio l’architetto» (e poi si dicono di sinistra).
Il tragicomico è che una simile illuminazione la dobbiamo trovare in un programma sboccato TV, non su «Casabella» o «AR», o le altre riviste dell’architettura criminal-progressista, dove la frase di Gregotti meriterebbe di essere stampato in eterno.
Lucien Steil, architetto famoso con un bel papillon, spiega: «Io porto gli studenti americani di architettura a vedere le antiche città italiane, perchè respirino e si intridano delle soluzioni urbanistiche di queste città fatte per l’uomo e dall’uomo, della qualità di relazioni umane che permettono. Come mai invece in Italia si scimmiottano le archistar?».
Il perchè viene implicitamente fuori da spezzoni di conversazioni fra gli addetti ai lavoro. Il giovane architetto Ettore Maria Mazzola, con il dente avvelenato («Dodici anni di precario ricercatore!») cita il piano urbanistico per Bari stilato nel 1931, che fissò una sorta di diritto dell’architettura. Per esempio, stabiliva il principio che anche se l’edificio di città è privato, «la facciata non è del proprietario, ma della comunità». Cita anche lo slogan – o il proposito – dell’Istituto Case Popolari fascista: «La casa sana ed educatrice».
Capito? La casa popolare, per quelli là, doveva essere «educatrice». Ossia: non doveva diventare ghetto separato e discriminante, la zona desolata dei poveri separata dalla città dei ricchi (vedi banlieues parigine in rivolta permanente).
La Mitterer: «Bisogna riconoscere che l’ultima volta in cui si è stati capaci di fare urbanistica è stato durante il fascismo».
Ecco dunque perchè le burocrazie pubbliche locali, Comuni, Regioni, non sanno far altro che rivolgersi ai Libeskind o ai Meier: d’accordo, questi dispongono di potenti studi e di macchine enormi e intimidatorie di pubbliche relazioni, ed hanno di fronte committenti ignoranti oltrechè anonimi (e dunque irresponsabili). Ma l’incultura architettonico-urbanistica in Italia viene in gran misura dalla necessità – politicamente corretta – di «saltare» un periodo che si raccordò coscientemente alla tradizione costruttiva antico-romana. La censura ha prodotto una frattura, uno iato col passato artistico nazionale. Abbiamo perso la nostra «lingua» architettonica, elaborata da generazioni nei secoli.
E Salingaros? Ha finito per parlar poco, ascoltando divertito gli architetti presenti che parlavano fra loro. Per chi non lo conosce, dò qui sotto alcuni esempi delle realizzazioni delle Archistar contro le quali ha ingaggiato, forte della sua origine greca e della sua cultura europea, una lotta solitaria.
(di Maurizio Blondet - fonte: http://www.effedieffe.com/)

giovedì 12 novembre 2009

Camillo Barany e il Prefetto Giacone. Da Mussolinia a Littoria al Terminillo

“Giacone, …Giacone, …Giacone… Ma dove cazzo l’ho già visto io, questo Giacone?” m’ero chiesto subito, appena lo avevo trovato – un paio d’anni fa – su un libro di Angioni (da non confondere con il generale Angioni che diresse la prima operazione italiana in Libano negli anni Ottanta, dopo Sabra e Chatila. Pure questo Angioni nostro peraltro – Michele Antonio – viene pure lui dalle forze armate, ossia è un maresciallo dell’Aeronautica in pensione che ha deciso di farsi storico della bonifica di Arborea, la mitica Mussolinia di Sardegna. Negli anni ha prodotto diverse pubblicazioni, tra cui un librone di 718 pagine he per il numero delle testimonianze, la quantità e qualità dei materiali, l’acribia delle ricostruzioni e delle argomentazioni, mette fuori gioco pure certi storici di professione).
Ora è abbastanza evidente che quando uno si metta a fare il giro di tutte le nuove fondazioni in Italia durante il fascismo, così come gli capita spesso di ritrovarci gli stessi archi, portici ed eucalypti – dice: “E vorrei vedere, scusa: ma se ne hanno fatte più di 150, mica potevano stare a cambiare 150 volte gli stili ed il tipo di piante; saranno stati fasci, ma non saranno stati proprio scemi” – così ogni tanto è pure normale che da una bonifica all’altra, da un borgo al successivo, ogni tanto capiti di imbattersi anche nelle stesse persone, lo stesso architetto, il politico, imprenditore, il federale. Vai ad Arsia e trovi lo stesso Segre di Carbonia; vai a Segezia e ritrovi Petrucci; Mazzocchi Alemanni in Sicilia e Agro Pontino. A volte ritrovi pure gli stessi operai, tecnici o gruppi di persone: gente meno famosa, per intenderci, ma che la bonifica e le città le hanno fatte con le mani loro.
Tra Latina ed Arborea per esempio – l’antica Littoria del 1932 e la Mussolinia di Sardegna del 1928 – pur nella assoluta differenza degli stili architettonici, le affinità e gli scambi sono molti più di uno. Innanzitutto lo stesso tipo di immigrazione colonizzatrice, fatta in ambedue i casi (Lazio e Sardegna) con famiglie patriarcali trapiantate dal Veneto. Ad Arborea inoltre c’è tuttora una “pineta Barany” (si legge Baranì, con l’accento sulla y), un bosco fitto fitto di pini, grande otto ettari, al centro del quale c’è un cippo di marmo dedicato a questo Barany: “Nessun monumento è più degno di lui”, scrive Stanis Ruinas, “di questa selva di pini nascenti, alberi italici, sempre verdi, sonanti in riva al nostro mare e in vetta ai nostri monti”, e ad Arborea-città c’è tuttora una Via Barany. Ma chi era Costui?
Camillo Hindart Barany era evidentemente uno un po’ fascista. Era nato a Paullo tra Lodi e Milano – anche se Ruinas dice a Vercelli – ed era di origini ungheresi. Il nonno se ne era venuto dall’Ungheria in Italia per andare a combattere insieme a Garibaldi con i Mille in Sicilia. Lui – Camillo, il nipote – è stato anche lui garibaldino, con quel Peppino Garibaldi figlio primogenito di Ricciotti Garibaldi, figlio del Garibaldi maggiore, in Messico e nelle Argonne[5]. Fatto prigioniero nella grande guerra, evase da un campo di concentramento austriaco e fu poi combattente nell’antiguerriglia in Tripolitania, legionario a Fiume, squadrista e Marcia su Roma. Non se ne era quindi persa una ma – tra una guerra e l’altra – per campare faceva quello che allora si chiamava “agente agrario”, cioè l’agronomo o perito che sovrintende ad un’azienda agraria di medio-grandi dimensioni. Per questo era venuto a Mussolinia di Sardegna: a fare la bonifica e ad avviare la trasformazione fondiaria. A Mussolinia si deve essere fatto voler bene, se tutti ancora oggi ne parlano con devozione.
Prima di Mussolinia, però, era già stato a Maccarese vicino Roma – a fare la bonifica di Maccarese – e dopo qualche anno a Mussolinia deve avere cambiato padrone e dalla Sbs, la Società bonifiche sarde che operava appunto a Mussolinia, deve essere passato all’Onc (Opera nazionale combattenti) per venire a fare quella di Littoria e dell’Agro Pontino. Insomma questo – a farla breve – o stava in guerra o faceva bonifiche. Tertium non datur. Ed era pure di religione ebraica. Era ebreo. Ebreo-ungherese d’origine e sul cognome esatto c’è però pure qualche ombra di incertezza. Ruinas difatti scrive Hindart Barany con la t alla fine di Hindart. Gli altri invece – internet e Cecini – scrivono Hindard con la d finale. Quale sarà? Vallo a sapere. Dice: “E che ci vuole? basterebbe approfondire solo un po’ la ricerca”. Ho capito, ma io pure ciavrei qualcos’altro da fare, a me – se permetti – mi basta pure così; se a te invece non ti basta, vattelo a fare tu st’approfondimento di ricerca. Io ho messo Hindart con la t e mi sta bene così, non solo perché mi sta simpatico Ruinas, ma soprattutto perché a Latina-Littoria negli anni Cinquanta c’era – quando ero ragazzino io, ma è rimasta in attività credo fino quasi agli anni Novanta e passa – una ferramenta molto ben fornita che si chiamava Indart. Mo’ può pure essere che quella della ferramenta non fosse che la semplicissima contrazione di Industria-Artigianato, però a me mi piace Hindart e Hindart qui rimane.
Camillo Hindart Barany comunque – qui in Agro Pontino – tra una badilata e l’altra, tra lo squadro d’un terreno e la messa a punto d’una qualche nuova tecnica colturale, mise pure su per bene la locale e neonata Compagnia CC.NN. (Camicie nere) della Milizia volontaria di sicurezza nazionale (Mvsn).
Nel 1935 però – attenzione: non è che fosse passato chissà quanto tempo, Littoria è solo del ’32, manco tre anni; ma per uno come questi, tipo Valentino Rossi ma pure Vasco fatti conto, tre anni sono un’eternità, un’era geologica – appena è scoppiata la guerra d’Abissinia non ci ha visto più: “La Patria chiama”. Mo’ lascia stare che pure agli Abissini li chiamava la patria loro; anzi, quella era proprio la patria loro ed eravamo noi gli invasori che andavano prepotentemente a sfruculiargliela: non si discute. Però nemmeno si discute che davvero noi credevamo – almeno in massa – che fosse proprio la Patria nostra a chiamarci. Questo è il dramma della condizione umana: sei perennemente condannato a vivere nel torto, pensando peraltro d’avere pure ragione. Lui comunque appena ha sentito la voce della Patria che chiamava, ha buttato per aria tutti gli strumenti e scartafacci dell’Opera combattenti sulla prima trattrice Pavesi che passava ed è corso ad arruolarsi per andare di nuovo a combattere insieme a tutta la compagnia sua. Pare sia andato a prenderli casa per casa uno a uno per tutti i poderi: “All’erta camerati, a conquistar l’Impero”. “Comandi!” hanno risposto subito tutti quanti. Non è difatti che si sia dovuto insistere troppo per trovare volontari a Littoria, anzi, a parecchi li rimandarono pure indietro: “No, siamo troppi”. A noi quelli ci avevano dato la terra, in fin dei conti, e tu manco ti volevi sdebitare andando volontario? Li abbiamo riempiti di volontari fino all’ultimo: fino alla Rsi, fino ai battaglioni “M” e alla X Mas.
Comunque – fatto sta – nel 1936 il centurione Camillo Hindart Barany muore in Abissinia nella conquista dell’Aredan, al comando della compagnia “Littoria” della divisione Camicie Nere (CC.NN.) “III gennaio”.
Era già stato ferito ad Abbi-Addi peraltro, ma dimesso dall’ospedale aveva rifiutato la regolamentare licenza di convalescenza per tornare subito a combattere con un braccio ingessato appeso al collo. E’ per questo che gli hanno dato la medaglia d’oro alla memoria e la pensione a moglie e figli. “Come fanno sennò senza di me?” doveva avere pensato (non in riferimento alla moglie e ai figli per la pensione, naturalmente, ma alle camicie nere di Littoria senza il suo comando). E così era tornato a combattere. Ingessato. E così, fino a quando non è caduto il fascismo, Littoria e Mussolinia se lo sono litigato: “E’ un eroe nostro di Mussolinia!”. “Ma che state a di’? E’ littoriano!”. E se loro gli dedicarono una strada e una pineta [nella foto sopra], noi gli nominammo subito il gruppo rionale del Partito fascista, Pnf, alle Case popolari – stava proprio nella “piazzetta” sopraelevata, dove anche c’era (e fino all’anno scorso) l’osteria “XXVIII Ottobre” – ed il Distretto militare. Sul frontone del Distretto c’era scritto proprio: “Caserma Camillo Baranj”; con la “j” però, non con la “y” come invece lo scrivono tutte le fonti a stampa (dice: “E come s’è verificato questo errore?”. Ah, non lo so. Mica so tutto. Bisognerebbe fare una ricerca. Ma non mi pare anche questa una ricerca di cui non si possa proprio fare assolutamente a meno). Dice: “Ma era ebreo”. Embe’? Mica era ancora un reato nel 1936. Tu pensa che alla guerra d’Abissinia, al seguito delle truppe vittoriose che conquisteranno poi l’impero, oltre ai cappellani cattolici come il Padre Reginaldo Giuliani – che prese pure lui la medaglia d’oro alla memoria, al valor militare – c’erano pure i rabbini, nominati di concerto tra il Rabbinato militare e l’Unione delle comunità israelitiche italiane. Tali e quali ai cappellani cattolici. Pochi – perché pochi erano gli ebrei in Italia: 30 o 40 mila al massimo su 42 milioni – ma ce n’erano.
Questa intestazione sul Distretto però, a Latina-Littoria non durò molto: appena caduto il fascio cadde pure – o meglio, lo fecero cadere – quel “Camillo Baranj” dal frontone del Distretto. Tu guarda come cambia, e in tempi così rapidi, il concetto di amor di Patria e senso civico: il giorno prima eri un eroe e il giorno dopo sei un fìdenamignotta. Aspetta un altro po’, e gli succede pure a Berlusconi. Dove vuoi che vada? E quindi a noi da Littoria ci cambiarono in Latina e giustamente noi – a Barany – ci sembrò subito più patrio o quanto meno più rassicurante preferire Goffredo Mameli. Così scrivemmo “Caserma G. Mameli” là sopra, che però – come ognun vede – è un pochino più corto di “Caserma Camillo Baranj”.
Dice: “E perché hanno scritto solo la G. e non Goffredo per intero, che sarebbe venuta uguale?”. Perché “Goffredo” per esteso avrebbe comportato la bellezza di quasi due lettere in più – calcolando la sottomisura della i di Camillo – e quindi non ci sarebbe più entrata nel frontone.
Tutto questo comunque – e cioè il cambio di nome alla caserma del Distretto – è successo prima ch’io nascessi e quindi da ragazzino, quando passavo là sotto, mi chiedevo semplicemente ogni volta: “Ma com’è che sta scritta l’hanno fatta storta?”. Stava tutta da una parte, poverina, con un sacco di spazio in più che le avanzava a destra, dove pure si percepivano – poiché erano state coperte male – le tracce informi di qualcosa che doveva esserci stato prima: “Si debbono essere sbagliati”, pensavo.
Mo’ però hanno risolto tutto: hanno cancellato anche Mameli. Dice: “E chi è stato?”. I postfasci di Latina. Dice: “Ah, vabbe’: ci hanno rimesso Barany?”. Sì, beato a te, ma che sei scemo? Dovevano restaurare l’edificio del Distretto perché era un po’ vecchio e malandato, e poi il distretto militare adesso non c’è più – non c’è più la naja, figurati i distretti – e l’hanno accorpato a Roma. Qui adesso ci abbiamo messo la facoltà di ingegneria della cosiddetta Università Pontina, che altro non è – come tutti sanno – che una succursale della Sapienza di Roma. Un’università di scorta. Dove ci sta un mare di professori “opzionati” o “incaricati”. Il giorno che davvero mettono una cattedra a concorso, viene giù tutta Latina. Il terremoto. Oppure sbarcano gli Ufo. Tu pensa che c’è un corso di laurea chiamato proprio “Ingegneria Ambientale”. A Latina. Che è l’esempio vivente delle modifiche ambientali e degli interventi bonificatori dell’uomo sulla natura più avversa. Dice: “Be’, è pure giusto”. Ah, sì? Però lì non c’è un solo insegnamento, corso, o cattedra di storia del paesaggio agrario o urbano, o storia delle bonifiche e della bonifica pontina in particolare, o storia delle città di fondazione o di quello che ti pare a te, legato comunque a questa specifica modifica ambientale. Tu dimmi quindi che razza di “Ingegneria Ambientale” è questa, se ai neo-ingegneri “ambientali” che sforna, non gli ha fatto nemmeno studiare come s’era prodotto e modificato l’ambiente in cui essa stessa Università e i suoi studenti stanno. Ma che stai a ambienta’, allora: le lune di Plutone?
Comunque abbiamo restaurato il Distretto per darlo all’università, e questo è un fatto. In realtà più che di un restauro si è trattato di un recupero – almeno negli interni – perché i soldi erano pochi e l’architetto se li è dovuti far bastare: ha salvato i materiali originari dove ha potuto, ma dove non ha potuto ci ha messo il cartongesso. Sulla scritta però dice: “Io non c’entro: l’avevano levata già prima”. Sarà stato qualche ufficio. Il dramma però è che le iscrizioni di un edificio sono parte integrante del monumento e, se tu le tocchi, tocchi l’autenticità e il valore storico del monumento stesso. I primi che dovrebbero saperlo, oltre tutto, sono proprio i post-aennini, che si incazzano ancora perché dopo il 25 luglio gli tolsero i fasci da tutti i muri: “La damnatio memoriae!”. Ma anche Cristo disse: “Non fare agli altri ciò che non vuoi venga fatto a te”.
Loro invece – all’ex Distretto militare ora Ingegneria – hanno tolto tutte le iscrizioni che avevano campeggiato per anni sulla facciata principale. Hanno tolto la targa di marmo “Distretto” che stava a fianco all’ingresso e hanno tolto pure la scritta grossa sul frontone in cima al tetto “Caserma G. Mameli”, dando pure una bella ripulita alle tracce vecchie ma che ancora si vedevano, avanzate dal “Baranj”. Mo’ non c’è più niente. Tabula rasa. Tutto bello bianco. Dice: “Vabbe’, ma manco ci sta più il Distretto e se non c’è più né distretto e né caserma, perché ci dovrebbero lasciare scritto sopra: Distretto e Caserma? Mo’ c’è un’altra cosa”. Ho capito, ma manco al Pantheon a Roma non c’è più il Pantheon di Marco Vipsanio Agrippa. Anzi, dentro ci stanno le tombe dei Savoia. E allora tu che fai adesso: levi la scritta di Vipsanio Agrippa e ci metti quella di Alemanno e dei Savoia?
Ma non è tutto: sui libri ufficiali dei postfasci di Latina – assessorato provinciale alla cultura in primis che ci ha messo i soldi e l’imprimatur – c’è scritto che progettista del Distretto (ora Ingegneria) sarebbe stato l’architetto Ernesto Caldarelli, che avrebbe progettato anche la Questura e l’Istituto tecnico commerciale “Vittorio Veneto”. Ora sul Vittorio Veneto non ci sono dubbi: questo sì lo ha progettato proprio l’architetto Caldarelli ma – sul piano estetico – chiunque ci passi davanti si rende conto che tra lui e i primi due c’è un abisso. Mentre il Vittorio Veneto è difatti ampolloso, pesante e retorico, il Distretto e soprattutto la Questura sono di un’altra consistenza estetica, con leggerezza di forme e assoluta purezza di disegno. E difatti non sono opere dell’architetto Caldarelli bensì di un altro, e cioè dell’ingegnere Olindo Ricci, come già appurato nel 1995 da Annibale Folchi che consultò i documenti d’archivio. Ergo, nel caso che a un qualunque studente di ingegneria a Latina venisse comunque e per conto suo la voglia di andarsi a studiare un po’ di storia della città e della sua fondazione, quello che imparerebbe dai testi ufficial-cittadini di riferimento è che la sua attuale facoltà di ingegneria – benché si tratti in realtà di un ottimo prodotto di architettura dell’ottimo ingegnere e suo collega Olindo Ricci – è invece opera di un architetto, ossia Caldarelli. E se lo interrogano all’esame ci giura pure sopra. Dice: “Vabbe’, ma che ti frega a te? So’ affari del Preside in fin dei conti”. Vero. Però su quei muri – insieme alle lapidi dell’ingresso e alle iscrizioni sul frontone sia vecchie che nuove – stava scritta non solo la storia intera dell’edificio, ma quella delle varie fasi che ha attraversato la città, damnatio memoriae compresa. Mo’ tu ne hai fatta una carta bianca – non c’è più niente – e tra qualche anno, quando saremo morti anche gli ultimi che andavamo lì, a farci controfirmare le licenze dall’ufficiale di picchetto, nessuno saprà mai che lì dentro c’era una volta il distretto militare e, dentro le aule in cui adesso formi i nuovi ingegneri, c’erano le camerate con le brande in cui dormivano i soldati e, la notte, piovevano anche i gavettoni sulle reclute. Di fianco però – sulla facciata verso l’ex campo profughi – con le lettere di marmo a mezza altezza sulla cortina di mattoni, ora hanno scritto di bel nuovo: “Facoltà di Ingegneria”. Hanno usato i caratteri d’epoca – fasci, diciamo – in giusto tono con il monumento e così, tra qualche anno, chiunque passerà di lì non potrà non essere indotto a pensare che a Latina la facoltà di Ingegneria, ed esattamente in quel posto, ce l’aveva già messa il Duce appena fondata Littoria. A meno che non pensi – visto come insegniamo ai giovani la storia – che tutta Latina, insieme a ingegneria, sia stata fondata l’altro giorno da Silvio Berlusconi e dal sindaco Zaccheo.
Negli ultimi mesi, infine, a Latina-Littoria abbiamo rimesso a posto anche il centralissimo edificio costruito nel 1934 dalla Riunione Adriatica di Sicurtà – una compagnia assicuratrice – sulla piazza della Prefettura. Era un bell’edificio anche questo, giocato sul contrasto tra intonaci e cortine di mattoni. Sulle facciate c’era giustamente anche qui, come usava allora e come è rimasta per oltre settant’anni, un’altra bella scritta con le lettere grosse di marmo, destinate a ricordare a tutti – ai vivi e contemporanei, ma pure ai posteri – l’evergetica compagnia: “Riunione Adriatica di Sicurtà”, appunto. Che pure lì, quando ci passavo sotto da ragazzino, non facevo che chiedermi: “Ma che vuol dire?”. Comunque adesso le hanno levate anche lì, e le scritte non ci sono più. Pare che la Riunione Adriatica di Sicurtà abbia man mano venduto tutti gli appartamenti – non sono più i suoi – e quindi loro hanno levato anche la scritta: “Il padrone so’ io adesso”. E il comune non gli ha detto niente. Dice: “Ma a Latina non c’è una Soprintendenza?”. Sì, la Soprintendenza. Ma beato a te e le Soprintendenze. Aspetta che arrivi a Roma qualcuno di Latina, e vedrai se non siamo davvero capaci di andare a levare Marco Vipsanio Agrippa da là sopra: “Mica è più tuo st’appartamento”.
Dice: “Vabbe’, ma il gruppo rionale Barany invece, che fine ha fatto?”.
Ah, m’ero scordato.
Pure quello naturalmente – il gruppo rionale del partito fascista alle Case popolari di Littoria, sulla piazzetta che adesso chiamano “Nicolosi” – è durato poco. Anzi, ancora meno del Distretto. Mica ci potevamo tenere, del resto, un “gruppo rionale del Pnf”. Siamo seri. Subito dopo il 25 luglio 1943, però, nessuno lo aveva toccato per più di una settimana. Nessuno difatti a Littoria ha toccato assolutamente niente il 25 luglio, manco un fascio sopra i muri, manco un busto del Duce. Gli unici in tutta Italia, sempre per la storia del debito e della terra, evidentemente. Gli altri già dalla mattina alle sei stavano con le mazzette e gli scalpelli. E quindi nessuno ha toccato nemmeno la sede del “gruppo Barany”.
Ma dopo una settimana e visto che nessuno peraltro veniva nemmeno a riaprirselo – e sentito soprattutto che da dietro la saracinesca usciva un fortissimo odore come di formaggio che aveva già inondato tutta la piazzetta, mentre in giro dappertutto c’era una fame, la fame di guerra, che ti correva appresso – le donne della Case popolari si sono date tutte una voce e hanno buttato giù la porta. E dentro era pieno di forme di formaggio grana, provolone e parmigiano. Pieno in ogni stanza. E loro hanno fatto provvista. Pareva l’assalto al forno di Renzo Tramaglino. I Promessi sposi. Con la gente che strillava: “Guarda questi qua: noi a morire di fame e loro a nascondersi il formaggio”.
“Poi vai a sapere”, dice Alfio Calcagnini mentre lo racconta – lui era un ragazzetto allora, abitava proprio lì vicino – anche se è comunista: “Magari lo tenevano lì per una distribuzione”.
Ora è chiaro che Barany non c’entri niente con la storia del formaggio. E’ chiaro anche che tu non ti potevi tenere per forza e fino a adesso – e per tutti i secoli dei secoli che verranno – un gruppo rionale del Pnf o un Distretto militare. La storia va avanti. Certe cose prima servono e dopo non servono più. Te ne devi liberare e andare avanti. Però è anche chiaro che questo Camillo Barany, qualche cosa a questa città l’aveva data. Mo’ non sarà stato giusto e sarà stato sicuramente sbagliato, però quando questo è morto in Africa stava alla testa di centinaia di soldati-contadini littoriani come lui. C’erano pure i miei zii là in mezzo e chissà quanti nonni e zii – bonificatori dell’Agro Pontino e fondatori di Latina-Littoria – di tutti noi. Sono i nostri Antenati. Lares et Penates. E ad Arborea già Mussolinia di Sardegna c’è ancora una via e una pineta – con una stele in mezzo – a ricordare ai posteri Camillo Barany. Noi lo abbiamo scancellato dappertutto. Dice: “Era un fascista”. Ho capito. Però è un mio Antenato. E come diceva mio zio Adelchi colono veneto, che aveva combattuto con lui in Africa Orientale: “Povero Barany: se fosse campato solo altri due anni, magari lo copévimo diretamente nantri”. Le leggi razziali. Prima lo cacciavamo dal partito e poi dall’Opera combattenti – “Licenziato!” – e quando poi s’è fatta l’ora buia, magari, caricavamo davvero pure lui e la sua famiglia su un vagone piombato per Mauthausen. Poi dice l’infamità.
Tornando ad Arborea, c’è una terza consonanza che la lega però – nell’anima e nel Genius loci – a Latina, ed è costituita dalla cura religiosa dei salesiani. A Mussolinia-Arborea arrivano difatti nel 1936 e mettono in piedi quella che è tuttora l’unica parrocchia; in fin dei conti sono solo 4mila abitanti.
A Latina invece siamo 120mila e le chiese oramai si sprecano, ma fino a metà degli anni Cinquanta c’è stata solo S. Marco, retta dai salesiani arrivati nel 1933, ed è attorno a loro – nel bene e nel male, perché ancora mi ricordo quando facevo il chierichetto la domenica mattina e dopo la messa delle 11, in sagrestia, mentre noi ci sbrigavamo a togliere i paramenti al parroco per poterci togliere anche noi le tonache e scappare, arrivava sempre e regolarmente il sindaco (Dc) a prendere gli ordini e farci perdere tempo: lui si inginocchiava e ripeteva per filo e per segno tutto quello che avevano fatto o che stavano per fare e il parroco, don Angelo, lo mazzolava bene bene “Questo sì e questo no” e quello rifaceva umile: “Sì sì, don A’, va bene” – che s’è costruita la comunità.
Il fascio in fin dei conti era durato solo una decina d’anni – dal ’32 al ’43 – ma i preti sono durati sempre e tutti andavamo all’oratorio: recite, serate, gite, giochi, la colonia al mare di Rio Martino, il cinema, il teatro. E lo stesso deve essere stato ad Arborea – lo stesso background dovevano avere in fin dei conti pure quei salesiani – e le stesse canzoni dobbiamo aver cantato tutte e due le comunità: prima Fuoco di Vesta e Giovinezza, poi Valsugana e Mazzolin di fiori, Tantum ergo e: “Don Bosco ritorna / fra i giovani ancor, / ti aspettan frementi / di gioia e d’amor”.
E difatti pure ad Arborea, come a Latina, c’è la statua di Maria Ausiliatrice in piazza e quella di Don Bosco con a fianco San Domenico Savio in chiesa. Anzi, un quadro con Don Bosco e San Domenico Savio l’ho trovato pure in una sala parrocchiale, dentro la canonica, a Borgo Cervaro in Puglia, nel Foggiano, vicino Segezia, e ricordo che quando l’ho visto mi si è stretto il cuore, perchè sull’altra parete della stanza, quella di fronte a Don Bosco, c’era pure Santa Maria Goretti: i santi nostri, Santa Maria Goretti soprattutto, che anche se non ci credo più, però quando li vedo così, lontani da casa, mi pare proprio d’essere tornato a casa, nella casa che adesso non c’è più e che ho abitato da bambino.
E questi, ad Arborea, hanno ancora la “grotta di Lourdes”, un montarozzo di pietre – il nostro era di tufo – con la grotticella e le statuine di marmo della Madonna e dei tre pastorelli. Ce l’avevamo pure noi a S. Marco la grotta, dentro il recinto dell’oratorio – proprio di fianco alla chiesa – e prima di iniziare a giocare ci facevano dire le preghiere, e lì davanti si pregava ogni volta prima della partenza per le gite, sui pullmann sgangherati blu dell’Atal, Azienda trasporti automobilistici Littoria, prima, e Latina poi, le corriere che avevano il rimorchio. E lì davanti, ogni anno, il fotografo ci scattava la foto di gruppo, con tutti noi arrampicati sulle panche o sulla grotta, e i preti davanti.
Ad Arborea ce l’hanno ancora. A Latina l’abbiamo buttata giù la grotta. Demolita. Per fare posto a un campetto di basket. Del resto faceva un po’ troppo folklore “paesano”, provinciale. Oramai S. Marco è cattedrale e hanno buttato giù pure l’altare che aveva fatto il Duce, e i marmi bianchi e neri che aveva messo lui, e la balaustra e il pulpito. Abbiamo rifatto tutto moderno, coi marmi colorati e gli ori di lusso. Mica siamo Arborea. E a me mi si è ristretto il cuore – proprio un tuffo, un llanto – quando di fianco alla chiesa all’improvviso, a Mussolinia di Sardegna ora Arborea, mi sono ritrovato davanti alla grotta di Lourdes. Mi pareva proprio di stare lì di nuovo ad aspettare da un momento all’altro, coi calzoncini corti e i sandaletti ai piedi, che arrivasse la corriera col rimorchio per portarci in colonia a Rio Martino e di sentirmi proprio sbattere sul fianco, nella sacchetta di tela a tracollo, il pane e la frittata preparatimi da mia madre.
(Dice: “Ma questo è pensiero nostalgico!”. E sarà quello che ti pare a te, che me ne frega a me? Io sono d’accordo con Antonio Pascale, e Scienza e sentimento è un libro che si dovrebbe far studiare a forza in ogni scuola. Pure alle elementari e alle veline: i pomodori di adesso sono difatti meglio di quelli di una volta, non si discute. E se Pascale vuole, vengo pure io sotto casa di Citati a fare una dimostrazione coi cartelli “Viva i pomodori di adesso”. Quello sì è “pensiero nostalgico” ed anche io sono per il “pensiero scientifico”: non esiste una età dell’oro, perduta nel passato. Il passato – a guardarlo da vicino – è sempre peggio del presente. L’età dell’oro sta nel futuro – se ci sta – ed è legata solo al progresso scientifico. Però anche io non sono che un piccolo uomo legato alle sue debolezze: che male vi fo, direbbe Trilussa, se ancora rivoglio pur non credendoci – o almeno non credendoci più come allora – le scritte sui muri e le grotte di Lourdes? E poi diciamocela tutta: Antonio Pascale ha sicuramente ragione sui pomodori, sulle patate e su tutto il resto. Non si discute. E la prossima volta, alle primarie, voto Pascale. Ma sui cocomeri no però, puttanaeva: i cocomeri non sono più quelli di una volta, compagni. Non mi state a raccontare le fregnacce: i cocomeri d’adesso fanno schifo, “slavarìa”,, come si dice in veneto, acqua slavata, sciacquatura di piatti. ‘Nzanno de gnènte. Vuoi mettere i cocomeri di una volta dell’Agro Pontino, col succo zuccherino che ti si attaccava su tutta la faccia e il collo? Vattelo a mangia’ mo’, un cocomero).
Dice: “Sì vabbe’, ma per quel Giacone che nominavi all’inizio?”. Ahò, e per Giacone evidentemente non c’è più tempo. Ne riparliamo la prossima volta.
(di Antonio Pennacchi - fonte: http://www.mirorenzaglia.org/)

Nicola Rao si immerge negli Anni di Piombo vissuti a destra

Negli anni Settanta nelle strade di Roma e in quelle di molte città d'Italia si spara per uccidere. La violenza politica è lentamente scivolata dagli scontri armati di bastoni agli agguati a colpi di pistola. Una sorta di Selvaggio West che è stato consegnato alla storia con la dicitura di "Anni di piombo". La lotta armata è ormai una realtà consolidata a sinistra quando anche i neofascisti decidono di percorrere questa sanguinosa strada. La svolta armata di Concutelli e quella molto più dura dei Nuclei Armati Rivoluzionari sono il tema portante del libro Il piombo e la celtica (Sperling&Kupfer editore, 2009) scritto da Nicola Rao. Il testo è l'ultimo atto della "trilogia della celtica" (La fiamma e la celtica del 2006 e Il sangue e la celtica del 2008) e conclude la vasta analisi condotta dal giornalista sul neofascismo italiano dalle origini ai giorni nostri.
Può descrivere il quadro politico che l’Italia viveva nei cosiddetti “Anni di Piombo"?
"Nella metà degli anni Settanta il Paese è in fibrillazione. L'Italia appartiene all'Alleanza Atlantica, ma è una zona di frontiera nel quale si contrappongono due visioni del mondo completamente diverse. E' anche il Paese con il più grande partito neofascista, il MSI, e il più grande partito comunista del mondo occidentale. Per questo si vivono grandi paure: da un lato quello che l'Italia diventi comunista e dall'altro che ci sia una svolta totalitaria di destra con un colpo di stato. In questo clima nelle grandi città inizia una guerra civile minore che ha per protagonisti i più giovani e come campi di battaglia le strade, le scuole e le università. Roma è la città più violenta anche perché qui il numero dei neofascisti è abbastanza grosso da poter reagire".
Quindi conferma la teoria di Mario Fioravanti, papà di Valerio e Cristiano, che ha sempre sostenuto che se i suoi figli fossero vissuti in un’altra città diversa da Roma probabilmente non sarebbero divenuti terroristi.
"Per 12-13 anni Roma è stato un campo di battaglia prima tra bande opposte, poi tra giovani e servitori dello Stato".
Come si arrivò a quel punto e di chi furono le responsabilità?
"Se un fenomeno storico viene analizzato a freddo, è possibile stabilire chiaramente dinamiche e concatenazioni. Ma sei stai dentro questo fenomeno è molto più complicato. Centinaia di ragazzini che giravano per strada armati riuscivano a passare inosservati. Sembra assurdo oggi ma questo era il clima allora. I Nar erano noti a molti nell'ambiente, ma rappresentavano un mistero per i magistrati. Mario Amato ad esempio non avendo alcun elemento sui Nar ipotizzò una unitarietà e una sorta di cupola a destra che in realtà non esisteva".
Il giudice Amato fu ucciso dai Nar, quando i neofascisti decidono di sparare contro lo Stato?
"I Nar hanno iniziato colpendo gli avversari, ma poi Valerio Fioravanti decise di fare il salto di qualità ed emulare le Brigate Rosse nella lotta allo Stato. I Nar volevano così dimostrare di essere rivoluzionari e antiborghesi. Al tempo stesso volevano prendere le distanze dagli stragisti e da coloro che avevano avuto rapporti con lo Stato. Il risultato è stato che alla fine della loro storia combattevano una guerra privata contro l'antiterrorismo".
La lotta armata al sistema venne teorizzata prima dei Nar da Pierluigi Concutelli.
"Concutelli è considerato dagli stessi Nar il loro padre politico. Il suo percorso inizia come quello di tanti neofascisti con gli scontri con i compagni, il mito del principe Borghese, la militanza nel Msi per poi arrivare all'esperienza in Ordino nuovo. E' il primo insieme a Mario Tuti a indicare nelle Br un modello da imitare. Per questo nel 1976 uccide il giudice Vittorio Occorsio, il pm del processo sul Movimento Politico Ordine Nuovo. E' una scheggia impazzita, ma anche un uomo con una forte personalità . Voleva dimostrare che anche i fascisti, in quanto rivoluzionari, fanno la lotta armata".
Oggi sarebbe difficile immaginare che coesistessero nelle stesse sezioni romane i Fini o gli Urso e i Fioravanti.
"E' successo anche a sinistra. Ma la vicinanza fisica non coincide con un comune modello di vita. Dubito che Almirante o Romualdi approvassero una scelta di quel tipo e questo è testimoniato dalla richiesta della pena di morte per i terroristi e dall'invocazione alla massima durezza nei confronti dei terroristi neri".
In più parti del suo libro diversi intervistati mettono in discussione la sentenza della strage di Bologna che condannato Fioravanti, Mambro e Ciavardini perché esecutori materiali. Qual è il suo giudizio?
"Tendo a escludere che siano i Nar gli esecutori della strage di Bologna del 2 agosto 1980. I Nar sono divenuti assassini per seguire una rottura plateale con la vecchia destra stragista e per essere contro lo Stato e non al suo servizio. Non ha senso dal punto di vista storico e politico che un gruppo terroristico che è nato con questa idea poi decida di fare una strage. Anche dal punto di vista giudiziario, la testimonianza di Massimo Sparti appare insufficiente per condannare una o più persone per una strage di questa portata".
Facendo un parallelo con il terrorismo rosso, quello di matrice neofascista sembra più una reazione contro i compagni che ammazzavano i camerati e contro lo stato che in qualche modo tollerava.
"Ci sono tre elementi che distinguono il terrorismo nero da quello rosso. Sicuramente fu un terrorismo di reazione. Erano anni in cui l'antifascimo militante era un pensiero dominante che portava a definire malato chi si definiva di destra o fascista. Quando la violenza esplode, e in quegli anni era arrivata ai massimi livelli, è difficile dire chi abbia iniziato. Gli altri elementi sono poi l'emulazione verso le Br e la ricerca di discostarsi dalla vecchia destra. Questi sono gli elementi principali ma ce ne sono anche altri".
Quali sono?
"L'età media dei militanti dei Nar era molto bassa. Basta pensare che quando Valerio Fioravanti viene arrestato ha solo 23 anni ma ha commesso moltissimi crimini. I militanti rossi hanno 10 o 15 anni in più. Questo spiega anche la differente consapevolezza politica dei brigatisti e la pochezza politica e culturale dei Nar. I Nar sono stati un fenomeno limitato nel tempo e nello spazio. Infine le Brigate rosse avevano l'obiettivo preciso di abbattere il sistema per costituire uno stato comunista. Quella dei Nar è stata una guerra nichilista".
(fonte: www.tiscali.it)