giovedì 2 agosto 2012

Quel film scomodo sul delitto Giralucci


«Gli anni '70 per me sono la scuola elementare, i giochi con le amiche, nascondino, prendersi, alla guerra. Di quel che accadeva intorno a me conservo poche immagini sfuocate, avevo una vaga paura degli uomini con i capelli lunghi, delle manifestazioni, delle scritte sui muri. Una, di fronte a casa di mia nonna, nella periferia di Padova, diceva: “Fuori i compagni del 7 aprile”. Perché “fuori”, perché “compagni”?». Inizia così, con delle bellissime e commoventi immagini familiari girate in un Super8 ancora splendente e con un commento autobiografico letto dalla stessa Silvia Giralucci il suo documentario Sfiorando il muro, diretto insieme a Luca Ricciardi, proiezione speciale fuori concorso alla prossima Mostra d'Arte Cinematografica di Venezia a fine agosto. 

E non sarà - non è - un film che passerà inosservato. Perché per Silvia Giralucci gli anni '70 sono stati soprattutto l'uccisione del padre Graziano, avvenuta nel 1974 nella sede padovana del Movimento Sociale Italiano. Primo - duplice - omicidio rivendicato direttamente dalle Brigate Rosse per cui sono stati condannati per concorso morale Renato Curcio, Alberto Franceschini e Mario Moretti e come esecutori Roberto Ognibene, Fabrizio Pelli, Susanna Ronconi, Giorgio Semeria, Martino Serafini. Silvia aveva 3 anni, il papà - rugbista, agente di commercio e militante missino, appena 29. Ma Sfiorando il muro, con le bellissime musiche di Stefano Lentini non è un lavoro ispirato, neppure lontanamente, da sentimenti di rivalsa. «La mia storia personale - spiega l'autrice che l'anno scorso ha pubblicato per Mondadori L'inferno sono gli altri all'origine di questo documentario - si porta dentro diverse contraddizioni: sono figlia vittima del terrorismo, ma di destra, quindi meno vittima degli altri, anzi, diciamo pure un po' colpevole. Sono figlia di un missino e rispetto la storia di mio padre ma non mi sento di destra». Così nel film non può non documentare gli annuali «Presente!» strillati in strada con le braccia tese ma - dice - «per loro mio padre è un simbolo per me è una persona, ed è qualcosa di più». Ciò che Silvia Giralucci fa è semplicemente cercare di capire, finalmente dal punto di vista di una vittima (come Mario Calabresi e Benedetta Tobagi) dopo le tante - troppe - voci dei protagonisti della violenza, come sia possibile che nel nostro paese l'appartenenza politica «oscurasse persino la pietas per i morti dell'altra parte». Fino a poco tempo fa peraltro. «La prima scena che ho girato - spiega l'autrice - è la targa che ricorda a via Zabarella a Padova l'assassinio di mio padre. Era appesa a un palo perché il condominio non la voleva sul palazzo, poi il sindaco (Flavio Zanonato del Pd, ndr) ha ordinato la sua affissione. Un momento simbolico in cui ho potuto affrontare il mio lutto grazie anche al riconoscimento pubblico». Perché tutto parte da Padova, paradigmatica incubatrice della violenza bipartisan e malefica aula d'insegnamento di cattivi maestri alla Toni Negri. Il professore di Potere Operaio che - ricorda Silvia Giralucci - «non mi ha mai voluto incontrare e quando per caso su un treno ci siamo trovati faccia a faccia mi ha ribadito il suo no senza voler gettare la maschera». Molto diverso è l'ex autonomo Raul Franceschi scappato in Francia per non finire in galera all'indomani del 7 aprile del 1979 quando furono arrestati decine di giornalisti, professori, leader e militanti del movimento e di Potere Operaio (da qui le scritte sui muri «Fuori i compagni del 7 aprile»). Verso di lui la più bella forma di pietas dell'autrice che, non a caso, lavora anche per la rivista Ristretti Orizzonti sul mondo carcerario: «Ho trovato un sopravvissuto a 10 anni di eroina e una persona che ha creduto, onestamente, di poter cambiare il mondo, e che ha pagato carissimo il prezzo di averlo fatto nel modo sbagliato. Una vita alla deriva. Mi sento male a pensare alla sua stamberga alla periferia di Parigi e alla casa veneziana di Toni Negri».

Il film dal taglio cinematografico, con le interviste girate con le tecniche del grande documentarista statunitense Errol Morris, si avvale di un'imponente ricerca di filmati (anche in Super8) e fotografie poco o mai viste. Prodotto da Marco Visalberghi, Sfiorando il muro ha avuto i contributi della Regione Veneto e della municipalizzata padovana AcegasAps ma non quelli del Ministero dei beni culturali. «Il doc - dice l'autrice senza voler suscitare polemiche - non ha avuto un punteggio sufficiente in due diverse richieste. Peccato perché altrimenti lo avremmo potuto distribuire meglio nei cinema».

(di Pedro Armocida)

Romanzo storico tra realtà e finzione


È perlomeno singolare che una faccenda misteriosa come il «raggio della morte» che Guglielmo Marconi avrebbe inventato, non sia mai stata usata come spunto per qualche romanzo di guerra, spionaggio, avventura o anche di fantascienza. Bufala o realtà? Fantasia o vero progetto? Gli storici e i ricercatori hanno idee diametralmente opposte, anche se esistono due testimonianze in merito: una di Rachele, moglie del Duce, che racconta come sul tratto di strada Acilia-Ostia un giorno del 1935 il «raggio» venne sperimentato bloccando i motori di auto e motociclette. E un'altra dello stesso Mussolini che raccontò nel 1945 a Ivanoe Fossati che a Orbetello il «raggio» incendiò i motori di aerei radiocomandati in volo. Poi non se ne sarebbe fatto nulla: Marconi, uomo devoto, si consigliò con Pio XI che gli disse di lasciar perdere per il bene dell'umanità. E poi prevalse forse l'amore per la moglie inglese rispetto a quello per la propria patria, casomai fosse scoppiata una guerra contro la Gran Bretagna. Marconi morì ne 1937 e si portò il segreto nella tomba. Ma adesso Daniele Lembo con Prima che sia troppo tardi (Bietti, pagg. 210, euro 18) immagina invece che un prototipo del «raggio della morte» sia stato completato da un assistente di Marconi e, dopo l'8 settembre, portato a Nord per la sua messa a punto. Di rintracciarlo viene incaricato Onofrio D'Onofrio (ma preferisce farsi chiamare Renzo), maresciallo della Guardia di Finanza che fa parte del Servizio Informazioni Militari del Regno del Sud il quale, a fine 1944, dopo l'arrivo a Roma degli Alleati, viene mandato in missione nella RSI.

Lembo è un prolifico autore si storia militare con all'attivo molti volumi sulla Seconda guerra mondiale, nonché su strutture e reparti. Questa sua specializzazione gli consente di scrivere un romanzo non da orecchiante come spesso accade per i narratori-narratori, ma da conoscitore della politica, della storia e soprattutto della realtà sociale dell'Italia divisa in due. Il suo romanzo e le avventure belliche, ma anche erotiche, del maresciallo D'Onofrio appassionano il lettore di storie di guerra e intrighi spionistici, dove non mancano colpi di scena e situazioni violente, ma anche perché ricostruiscono, e in direttamente mettono a confronto, due realtà di vera occupazione militare. Lui, soldato e non politico, vede e giudica e si pone delle domande pur facendo sino in fondo il proprio dovere: Roma è in sostanza occupata dagli Alleati, così come a Milano ci sono i tedeschi. Oggettivamente D'Onofrio fa un bilancio da puro osservatore: è questo il lato inedito e nuovo del romanzo che, per questo motivo, non è uno dei tanti politicamente e storicamente corretti che ancora si scrivono sulla guerra civile 1943-5. Sicché le avventure del maresciallo D'Onofrio, agente del Regno del Sud in missione nella Repubblica Sociale alla ricerca del «raggio della morte», si trasformano in una cruda immagine di quel che allora fummo e che non tutti hanno saputo descrivere. Eroi e vigliacchi, fanatici e traditori, violenze e generosità ci furono da entrambe le parti. È tanto difficile ammetterlo? Pare di sì. Al di là dell'intrigo spionistico per cui Prima che tutto sia finito si legge con piacere, è questa, a mio giudizio, la vera novità del romanzo di Lembo. Che sia stato necessario attendere sino al 2012 per leggere un'opera di narrativa del genere, il cui autore non ha vissuto quelle esperienze in prima persona, deve dare da pensare.

(di Gianfranco de Turris)

mercoledì 1 agosto 2012

Lo studio che boccia l'euro: all'Italia conviene uscirne


Altro che espulsi con ignominia dall’euro: la Germania dovrebbe corromperci per convincerci (con quattrini sonanti) a restare nel circolo traballante della moneta unica europea. A dirlo non è qualche pasdaran italiano ma la blasonata banca d’affari Merrill Lynch in un report datato 10 luglio. Secondo i due analisti (David Woo  e Athanasios Vamvakidis), il nostro Paese avrebbe tutto da guadagnare ad uscire «ordinatamente» dall’euro, a patto che lo faccia prima degli altri (Grecia e Spagna).

Chi ci rimetterebbe sarebbe certamente la Germania. Che uno dei due analisti sia di origine greca è solo uno di quegli scherzi del fato beffardo.  Athanasios Vamvakidis è un rampante esperto di affari internazionali sotto contratto anche con il Fondo monetario internazionale e questo studio stilato (insieme al collega Woo) per la banca d’affari americana non sembra risentire dei guai che sta  vivendo il Paese d’origine dell’analista. Anzi  Vamvakidis suggerisce all’Italia quasi di farsi pagare dai tedeschi per restare nell’euro, ma i benefici maggiori il nostro Paese li avrebbe se prima si facesse aiutare e poi lasciasse tempestivamente la moneta unica. Spiega l’analisi che in Italia non ha avuto un grande risalto se non nei forum di discussione on line sull’ipotesi di uscita dall’euro: «I risultati della ricerca appaiono sorprendenti e rischiano di lasciare senza parole anche i lettori che non sono d’accordo con la nostra conclusione».

Premessa: l’Italia rappresenta nell’area euro la terza più grande economia, e potrebbe avere «maggiore probabilità di raggiungere un’uscita ordinata rispetto ad altri». Insomma, avremmo tutto da guadagnare in termini di  maggiore competitività, in ripresa della crescita economica e miglioramenti dei bilanci.

Di contro la Germania viene comunemente (ma erroneamente secondo gli analisti di Merrill Lynch) considerato il Paese in grado di lasciare la zona euro più facilmente. Ma non è così:  Berlino infatti si troverebbe ad affrontare una crescita molto più debole, gli oneri finanziari eventualmente spiccherebbero il volo e dovrebbe incassare un colpo pesante sui bilanci interni. Stessa musica per Austria, Finlandia e Belgio che già oggi hanno anche pochi buoni motivi per pensare soltanto ad uscire dall’euro, mentre la Spagna - Paese più direttamente colpito dalla crisi - farebbe fatica ad affrontare un percorso di crescita visti i sacrifici già affrontati per rimanervi.

L’analisi di scuola condotta dagli esperi della banca americana si basa sull’analisi dei costi-benefici e fa leva sulla teoria dei giochi. Mettendo in fila cosa succederebbe se i 17 Paesi abbandonassero l’euro salta fuori che l’Irlanda e l’Italia ha ricevuto un punteggio medio di 3,5, mentre la Grecia era a 5,3 e la Germania avrebbe il punteggio più alto a 8,5. In sostanza più basso è il numero, più ci sarebbe da guadagnare ad abbandonare la valuta europea.

Secondo la simulazione condotta da Woo e Vamvakidis la Germania dovrebbe addirittura «corrompere» l’Italia per convincerla a rimanere nel blocco ed evitare le conseguenze derivanti da una uscita, ma la capacità di persuasione di Berlino sarebbe alquanto limitata. Questo perché l’Italia ha più di qualche buona ragione per lasciare ora, mentre per la Grecia - che già si è impegnata pesantemente con i piani di ristrutturazione e rimborso dei debiti - diventare troppo costoso. Ora come ora gli italiani potrebbero non digerire le condizioni per la permanenza. E quindi la Germania potrebbe addolcire la pillola dei sacrifici per convincere Roma a rimanere. Secondo gli analisti il momento migliore per abbandonare sarebbe proprio a metà del percorso di convincimento (e incassati gli aiuti). In questo caso oltre alla crescita ed al miglioramento della bilancia dei pagamenti, l’Italia incasserebbe un dividendo aggiuntivo proprio dall’opera preventiva di “corruzione” attuata da Berlino
Si tratta di ipotesi teoriche. L’intervento di Mario Draghi, presidente della Banca centrale europea («l’euro sarà salvato ad ogni costo», ha scandito), ieri è bastato per far esultare i mercati e riportare il nostro spread sotto i 480 punti (da oltre 520. Ma l’estate è, tradizionalmente, stagione di colpi di Stato, invasioni e grandi speculazioni finanziarie. E infatti i due analisti chiosa il report con un sibillino monito: «Se la nostra ipotesi dovesse essere corretta, questa potrebbe avere implicazioni negative per i mercati nei mesi a venire». Insomma, una cosa è la teoria, ben altra la pratica. E poi c’è un monito per tutta Europa: fino a quando l’euro resterà così forte (1,22 sul dollaro),  la crisi resterà altrettanto potente. Insomma, per portare tranquillità nel Vecchio continente l’euro dovrebbe scendere intorno a quota 1,10, anche meno. Detto dalla più grande banca d’affari americana sembra più che un consiglio teorico un monito. Agosto è lungo, non resta che vedere se la teorizza dei giochi si trasformerà in pratica dell’uscita. Ordinata, ovviamente.

(di Antonio Castro)

venerdì 27 luglio 2012

Quello che resta di An tra fondazione congelata e scontri per il patrimonio


Giorgio Almirante non avrebbe potuto immaginarlo neanche lontanamente. Altrimenti non avrebbe mai lasciato a chi considerava come figli un patrimonio oggi trasformatosi in un caso e in un motivo in più di dispute e ripicche fra ex  tanto da finire in tribunale. Ma come accade anche nelle migliori famiglie i soldi diventano tutto. Patrimonio immenso, quello di An, che prima dello scioglimento del partito aveva come amministratoreunico Donato Lamorte, che gestiva le società Immobiliare Nuova  Mancini srl e Italimmobili srl che si occupavano dei beni immobiliari. La storia poi si è evoluta in maniera diversa: quando il 21 e il 22 marzo 2009 si tenne il congresso di scioglimento di An, a una settimana dalla fondazione del Pdl, furono approvate delle determinazioni congressuali nelle quali si diceva che il patrimonio di An continuava a essere destinato agli scopi che An aveva perseguito come partito, ma con veste giuridica diversa, la fondazione appunto. Per questo furono creati due organi: un comitato di gestione e un comitato dei garanti, che avrebbero dovuto traghettare il passaggio da An partito ad An fondazione. Qualcosa però non andò per il verso giusto, e il patrimonio di An, dopo il dito alzato di Fini e la rottura definitiva con il Pdl, è diventato motivo di scontro violento.

Alcuni, poi confluiti in Fli nel 2010, hanno cominciato ad interpretare queste determinazioni congressuali obiettando che le persone che in quel momento facevano parte del comitato di gestione e del comitato di garanti non potevano amministrare liberamente il patrimonio ma si dovevano comportare come liquidatori di un'associazione che era il partito (interpretazione confermata dall’On. Buonfiglio, uno dei protagonisti insieme all’On. Raisi del ricorso al Tar). Si sono quindi rivolti al Presidente del Tribunale di Roma che il 7 febbraio scorso ha nominato due commissari liquidatori, un commercialista e un avvocato. Ma prima che il Presidente rendesse effettivo il loro insediamento, il precedente comitato di gestione ha disposto la costituzione di una fondazione eseguendo una serie di trasferimenti patrimoniali.

Intanto il Tar del Lazio questa settimana ha sospeso il riconoscimento giuridico della validità della Fondazione. Ovvio che la questione del patrimonio di An tocchi nervi oramai scoperti da un bel po’ di tempo, ma come ribadisce al Foglio.it l’onorevole Buonfiglio (che ora non è più in Fli) “indipendentemente dal partito in cui siamo adesso, noi abbiamo posto sin dall’inizio che durante la liquidazione non si possono disporre atti dispositivi e dunque non si potevano finanziare campagne elettorali. Un conto è trasferire tutti i beni che facevano già parte del patrimonio di An – prosegue Buonfiglio – altro conto è trasferire l’intera somma che deriva dai rimborsi elettorali. In questa fondazione sono finiti anche 55 milioni di euro che derivano dalla legge sui rimborsi elettorali dei partiti”.

Forse anche l’affaire Montecarlo ha inasprito i rapporti, e sicuramente una questione che poteva dirimersi con il codice civile dovrà ora risolversi in Tribunale. Quando gli si chiede quale ruolo abbia avuto l’ex Presidente di An in questa storia del patrimonio, il commento di Buonfiglio è laconico: “E’ stato altalenante: all’inizio il primo ricorso era stato fatto insieme, poi abbiamo preso strade diverse probabilmente dettate dalle diverse concezioni che avevamo su questa storia. Fini avrebbe potuto fare il bello e il cattivo tempo in Alleanza Nazionale: una volta chiusa quell’esperienza l’ha consegnata con questo patrimonio compresa la casa di Montecarlo in bilancio”.

Il 26 febbraio 2009 Franco Pontone, tesoriere del partito fino al 6 ottobre 2010, scriveva che il rendiconto di gestione al 31 dicembre 2008 evidenzia un soddisfacente risultato di avanzo di gestione pari a 10 milioni 335 mila 573 euro e una situazione di liquidità disponibile di 30 milioni 685 mila 260 euro. Risultati che confermano la solidità della situazione patrimoniale di An. Solidità perduta nel tempo, solidità che alla fine è come se avesse seguito le sorti del suo partito e del suo Presidente. In effetti è quasi inutile avere tutte queste case se il padrone di casa  non ha nemmeno  le chiavi, e nemmeno avere un giornale serve più se si ha poco da dire. Poi ognuno pone la questione su un “ è affare di principio” ma questo principio è costituito da 70 milioni di euro in contanti più 600 milioni di immobili. Il Tar ha congelato An come fondazione, per il partito ci hanno pensato tutti gli altri.

(di Graziella Balestrieri)

giovedì 26 luglio 2012

Marco Tarchi: il grillismo? Tutta colpa dei partiti


Quando analizza la situazione italiana è un po’ il signor-no. Contesta i luoghi comuni della politica tanto per cominciare la distinzione destra-sinistra che ritiene da molto tempo ormai categorie superate. Attento più all’evoluzione del pensiero e soprattutto, ai mutamenti intervenuti nella società, osserva in modo più scientifico che passionale il degrado della lotta politica nazionale e ne trae conclusioni che hanno finito per renderlo al tempo stesso protagonista di incontri con i pensatori più attenti e critici della sinistra e mal sopportato a destra.

È a Marco Tarchi, docente universitario a Firenze, al quale abbiamo chiesto una visione riflessiva e critica del presente e del futuro del Paese.

Professor Tarchi, destra, sinistra e centro sono categorie politiche che oggi sembrano avere il fiato corto. Quasi 30 anni fa, era il novembre 1982, lei, con una delle figure più critiche della sinistra, Massimo Cacciari, gettò il ponte della discussione per superare quelli che allora si chiamavano ancora steccati fra destra e sinistra. Che cosa è rimasto di quel seme? Quali prospettive ha di essere ripreso e rivitalizzato vincendo le opposte ritrosie?

«La situazione odierna è molto più difficile, soprattutto in Italia, perché il sistema elettorale adottato nel 1993 e la riammissione nel gioco delle coalizioni governative degli ex neofascisti hanno cristallizzato, nel gergo politico e nella mentalità di molti cittadini, le nozioni di sinistra e destra, che trent’anni fa davano chiari segni di obsolescenza. Le due etichette si sono trasformate in paroletalismano: spesso chi non ne fa uso si sente a disagio. Mi chiedo però se le linee di frattura socio-culturale che avevano dato vita al discrimine sinistra-destra, e che fenomeni come la crescita delle preoccupazioni ecologiche e la fioritura di tematiche post-materialiste sembravano condannare all’anacronismo, abbiano ritrovato nel frattempo vigore, o si siano riproposte con forza, pur con panni rinnovati. A me pare proprio di no, e credo che stiano a dimostrarlo le sostanziali sovrapposizioni di molte parti dei programmi che le forze politiche in concorrenza presentano per attrarre consenso. Se si escludono i toni concitati da talk show e qualche solenne proclamazione di principio sistematicamente smentite dai fatti, gran parte delle destre e sinistre odierne dicono le stesse cose – si tratti di ricette economiche, di posizioni sullo scacchiere internazionale, di diritti civili e via dicendo. Gli antagonismi – e le convergenze – reali si trovano solo in ambiti per ora marginali o comunque malfamati. Penso ai movimenti populisti sorti un po’ in tutta Europa che, per il solo fatto di infrangere in qualche misura questo oligopolio ideologico, finiscono nel mirino dell’apparato di denigrazione massmediale. Ciò non toglie che, fra spiriti liberi, da tempo un dialogo costruttivo che prescinde, almeno in larga misura, dalle pregresse formazioni e appartenenze, sia in atto: penso, giusto per fare un esempio (ma ce ne sono molti) al confronto costante che Franco Cardini ed io abbiamo con Danilo Zolo. Potrà sfociare in una convergenza metapolitica più ampia? Detto con sincerità, dipenderà dalle circostanze e dagli scenari che si formeranno. Da parte mia, la disponibilità è forte oggi come allora, perché in trent’anni non ho visto né udito un solo argomento convincente che abbia smentito la mia convinzione che le linee di conflitto del Novecento sono inadatte ai nostri tempi». Se la destra appare senza bussola, la sinistra è combattuta oggi fra Vendola, Di Pietro e Bersani ed è alla ricerca della propria anima. Dove si fermerà il travaglio? Approdando sulle sponde di Grillo? «Penso proprio di no, perché Grillo dimostra sempre più, di giorno in giorno, di ragionare senza tenere nel minimo conto il discrimine sinistradestra. Piaccia o non piaccia, aggredisce problemi e sradica tabù con una radicalità che non può piacere a nessuno degli attuali attori politici. E lo si vede, data la potenza delle bocche di fuoco che hanno cominciato a sparargli contro: a parte i politici di professione, non sono mancati il presidente della Repubblica, quasi tutti i quotidiani che contano, i telegiornali, i politologi. Ho letto le dure critiche del giornale israeliano Yedioth Aharonoth, un foglio che conta. Un ulteriore segnale molto significativo. No, la sinistra non finirà con Grillo. Continuerà, in ordine sparso, a dibattersi fra una resa sostanziale alle idee dei nemici di un tempo e un attaccamento, ormai più sentimentale e retorico che altro, alle ragioni degli umili. Come è stato da più parti scritto, un vago progressismo cosmopolita ha ormai cancellato il socialismo dall’identità culturale della sinistra. La classe operaia, ormai considerata poco più di una zavorra della dinamica storica dell’economia, è stata soppiantata nelle preoccupazioni di quegli ambienti dai marginali d’ogni tipo. La guerra di classe ha ceduto il passo alle guerre umanitarie, i diritti dei lavoratori salariati non appaiono più primari rispetto a quelli delle coppie gay, i migranti sono l’unico proletariato a cui si guarda. E passare da Karl Marx a Bernard-Henri Lévy non è un buon segno…»

Passiamo al campo opposto: lei ha ripetutamente sostenuto che un fenomeno come quello della Nuova Destra è ormai acqua passata. Oggi si dovrebbe parlare di ricerca di nuove sintesi, al di là della destra e della sinistra, come già ipotizzato da Sternhell? E in compagnia di chi?

«Per pensare sinteticamente, non c’è bisogno di alleati o di riconoscimenti esterni. È sufficiente sentirsi insoddisfatti del pensiero binario, sentirne i condizionamenti come un limite inaccettabile della libertà di pensare orizzonti diversi da quelli del sistema culturale, sociale, politico ed economico nel quale oggi viviamo. Sternhell si è occupato del panorama politico-intellettuale di fine Ottocentoprimi decenni del Novecento e ha scritto opere di eccellente qualità; per questo l’ho tradotto e fatto pubblicare prima che fosse scoperto da altri editori. Ma qui stiamo parlando di scenari attuali. Non essere prigionieri dei riflessi condizionati dettati dall’appartenenza ad una categoria politica preconfezionata significa, in primo luogo, tener fede alla visione del mondo che si coltiva e favorire la diffusione delle credenze e delle opinioni che ne derivano senza preoccuparsi delle convenienze. Le culture politiche riferibili ai concetti di sinistra e destra hanno lasciato, oltre a parecchi detriti, un buon numero di spunti utili a misurarsi positivamente con i grandi problemi del nostro tempo. Raccoglierli, metterne uno accanto all’altro, aggiornarli e sistematizzarli, senza escluderne affatto l’integrazione con riflessioni originali dettate dall’attualità, mi pare un compito né ozioso né sgradevole. Allinearsi, magari con forti disagi, alle parole d’ordine del campo a cui si è scelto di appartenere, a mio avviso è un destino molto più gramo. Anche se può avere ricadute utili dal punto di vista del tornaconto personale. Ah, a proposito, e senza eccessi polemici: il progetto delle nuove sintesi non nasce su un campo opposto a quello della sinistra o della destra. La contraddizione logica non lo consentirebbe».

Parliamoci chiaro: di cultura politica si può discutere all’infinito, poi a ritmi più o meno cadenzati c’è l’appuntamento con la scheda elettorale. Che prospettive avrebbe un elettore disgustato dall’attuale centrodestra pidiellino, dal centrosinistra frutto della fusione fra mezzi democristiani e mezzi comunisti o dal presunto terzo polo che non fa impazzire di gioia gli elettori?

«Mi permetto un’obiezione. Occuparsi di cultura politica non significa discutere all’infinito, magari del famoso sesso degli angeli, ma cercare di creare anche solide basi per agire nella realtà. Perché se non si influisce sulla mentalità delle persone, non si otterrà mai uno stabile consenso verso i programmi e le tesi che si difendono in ambito politico. La destra, su questo monito, farebbe bene a ragionare a lungo e profondamente, ammesso che ne sia capace. Ovviamente, se ci si accontenta di guadagnare voti, seggi e stipendi per realizzare le proprie ambizioni, di cultura non c’è il benché minimo bisogno. Anzi. Demagogia, doti seduttive personali, risorse economiche e massmediali possono bastare. Se la si vede così, però, limitiamoci ai manuali di marketing, anche politico. Se comunque vogliamo scendere sul terreno delle scelte politiche, chi pensa che il suo voto incida sulle scelte dei governi, nazionali e locali, può stabilire da solo quale grado di compatibilità partiti, candidati e programmi abbiano con il suo modo di vedere le cose e auspicare soluzioni ai problemi. C’è chi ne fa una questione di coerenza, chi di convenienza; c’è il voto espressivo e quello utile. Ma non vedo perché si debbano per forza digerire pillole amare se non si è affetti da particolari malattie. Personalmente, ho spesso preferito astenermi piuttosto che dare voti di cui mi sarei dovuto pentire, sentendomi corresponsabile di scelte e comportamenti deplorevoli. A volte ho, come molti, votato contro chi mi sembrava più detestabile, ma a posteriori non ripeterei l’errore. Talvolta ho individuato un soggetto politico che collimava con qualcuna delle opinioni che coltivo e l’ho sostenuto. In genere, chi dà fastidio al sistema vigente mi suscita simpatia».

Lei vive lontano dalla politica di partito da un trentennio abbondante. Guardiamo altrove. Dai Campi Hobbit in poi e per un certo periodo è nata la prospettiva di una rivoluzione impossibile, cito il titolo di un suo recente volume. Però la riflessione fra le esperienze non conformiste a sinistra o a destra non ha portato da nessuna parte. Perché? Eppure oggi più che mai c’è bisogno di aria nuova, di un rinnovato elogio delle differenze.

«Se ho considerato impossibile la rivoluzione ipotizzata e agognata dai protagonisti di quelle esperienze, è proprio perché l’ambiente in cui se ne coltivava il sogno era inadatto a recepirlo e concretizzarlo. Me ne sono reso conto e l’ho affermato nettamente, trent’anni fa. E ho cercato, con un nucleo di amici e di simpatizzanti, di seguire un’altra via. Come, appunto, ho argomentato nelle centoventi pagine dei saggi introduttivo e conclusivo del libro che lei cita, edito da Vallecchi. Ho voluto pubblicare quel libro per intenti tutt’altro che celebrativi. L’analisi che vi ho svolto è impietosa ma, nei miei intendimenti, costruttiva. Quel che sostengo è che, se i risultati cui lei fa cenno sono mancati, lo si è dovuto alla mancanza di coraggio di chi, dovendo affrontare la severa prova dell’impegno metapolitico, sul terreno della diffusione delle idee, con scarsissimi mezzi materiali, ha preferito rintanarsi nella calda nicchia della routine di partito, limitandosi alla politica politicante, come allora la chiamavamo. Non so come sarebbero andate le cose se ai tempi in cui la Nuova Destra seppe conquistarsi una visibilità pubblica non trascurabile fosse esistito internet. Le comunicazioni del nucleo territorialmente sparso degli animatori sarebbero state molto più agevoli, gli strumenti per rilanciare iniziative e parole d’ordine assai più efficaci, e non sarebbe mancata l’istantaneità nel fornire notizie e far circolare opinioni. Ma con i se si costruisce poco. Resta il fatto che di risultati ce ne sono stati, eccome. Non in senso micropolitico, questo è certo, anche se alcuni dei coprotagonisti o degli attori secondari di quell’esperienza, da cui si erano congedati anzitempo, hanno tentato di farsene tre decenni dopo un titolo di merito, soprattutto in occasione della scissione finiana dal Pdl, presentandosi come innovatori di lungo corso e contestatori ante litteram di scelte che, viceversa, in sede politica hanno ampiamente e tenacemente sottoscritto. Ma in una prospettiva più ampia, se nel dibattito pubblico si vuol sostenere che da destra sono scaturite idee non banali e non conformiste, è sempre alla stagione prima dei Campi Hobbit e poi della Nuova Destra che si fa ricorso».

Torniamo, in Italia, dove imperversano i grillismi. È solo degenerazione della politica o siamo di fronte ad una rivoluzione sociale che nasce dal basso?
«Avrà capito che io non ho di Beppe Grillo, pur nella piena consapevolezza dei suoi limiti, l’opinione demonizzante e l’atteggiamento di esorcismo o di scherno di altri commentatori. Le sue provocazioni, ad onta dei toni, sfidano non pochi dei luoghi comuni del nostro tempo. Di fronte ad una politica che da decenni dà il peggio di sé e a un panorama partitico deprimente, novità come questa mi sollevano un misto di interesse e curiosità. Speranza sarebbe una parola troppo grossa, così come lo è rivoluzione. Mi limito all’attenzione, senza antipatia. Anche perché, dal prevedibile esaurimento del «grillismo», potrebbero nascere fermenti ulteriori. Di nuovo, senza coltivare illusioni».

Heidegger e il mal di Grecia della Germania che vorrebbe essere Sparta


Corrado Guzzanti dice che quando i tedeschi non capiscono una cosa finiscono sempre per invadere la Polonia. La battuta ci può stare poiché segnala (anche involontariamente), nella costituzione profonda dell’essere germanico, una rigidità schematica di natura recriminatorio-aggressiva. Inutile macerarsi oltremisura sul fatto che la Germania tende a germanizzare il mondo intorno a sé (Umwelt, direbbe Massimo Cacciari) e che l’idealtipo del germano resta un inguaribile romantico (tendenza olio su tela di Caspar Friedrich con “Viandante sul mare di nebbia” in redingote) anche mentre presidia la torretta d’un campo di prigionia.

Andrebbe piuttosto svelato il rapporto intimo di Berlino con la Grecia, un magnifico palinsesto di pulsioni sentimentali al limite dell’erotismo efebico, nel quale però il barbaro ingentilito pretende di esercitare il ruolo del maestro di paideia con il degenere discendente di Tirteo. Johann Joachim Winckelmann, Wolfgang Goethe, Johann Christian Friedrich Hölderlin e Heinrich Schliemann, ma pure Albert Speer con la sua teoria del “valore delle rovine” che sedusse l’animo architettonico di Adolf Hitler alle prese con la riprogettazione millenaria del Reich: sono tutti esempi parlanti di un debito culturale nato dall’incontro di anime gelide riscaldate dalla luce del Meriggio europeo, e che nel tempo inclina verso l’ombra lunga di un impossessamento impaziente (fuori dalla lista figura Friedrich Nietzsche, lui rivendicava con orgoglio sangue polacco e antitedesco).

Ciò che non è dato fare con la poco poetica e molto dominatrice Roma antica – di qui la diffidenza anticapitolina del Mommsen e della sua scuola – i tedeschi l’hanno azzardato con la Grecia.
E’ un caso di scuola antropologico nel quale, come avrebbe detto lui, soggiorna appieno l’esserci di Martin Heidegger, di cui Guanda ha da poco mandato in libreria i “Soggiorni” ellenici (73 pagine, 10 euri, nella traduzione di Alessandra Iadicicco che coglie felicemente un’invalidante versione tedesca di un oracolo delfico in Eraclito, cui oppone l’intuizione perfetta di Giorgio Colli). Il suo è il diario di una crociera risalente al 1962, metafisicamente spettrale come un racconto di Massimo Bontempelli, nel quale l’estenuante ricerca della “grecitudine” (das Griechische) è scandita dal ritmo del fallimento: durante gli scali il filosofo preferisce troppo spesso meditare sull’oggetto del suo viaggio rimanendo in nave, sempre turbato dal timore del tradimento fattuale. Soltanto l’apollinea Delos gli si accenna. Ma Heidegger, prigioniero del soliloquio mentale, non ha la prontezza interiore di ammettere la propria indisponibilità a mettersi “nella dimensione dell’ascolto” (secondo la formula di Walter Otto, autentico amico delle Muse). Conclusione laconizzante heideggeriana: “Il congedo dalla Grecia divenne l’avvento della Grecia”.

Non esiste, forse, frase più perspicua per rendere ragione anche dell’oggi, con le sue intermittenti promesse di abbandono e di salvezza: deve morire la Grecia in sé (cioè l’Europa tutta) affinché rinasca la Grecia in me (l’Euro-Germania). E’ una sentenza che sembra scolpita nel tempio interiore del ceto dirigente teutonico come la proiezione immaginaria della propria essenza irrealizzata. Ed è appunto questa la meccanica che secondo Ludwig Feuerbach spiega (ma è un errore) la nascita dell’idea di Dio nel cuore degli uomini. Sopra tutto è la conferma che la Germania non può che pensare a sé stessa se non come a una Grecia glaucopide chiamata a germanizzare il mondo.

(di Alessandro Giuli)

martedì 24 luglio 2012

Bce, la fabbrica del debito che sta rovinando l’Europa


Se tutti i giorni i Merkel, Monti, Barroso, Draghi scendono in campo per rassicurarci che “l’euro è irreversibile” (non un Grillo qualsiasi che dopo aver lungamente sbraitato contro la moneta unica ora si professa sincero europeista), vuol dire che stiamo assistendo a un rito scaramantico per allungare il più possibile la vita del moribondo. Tutti gli indicatori dell’economia reale attestano in modo inequivocabile che giorno dopo giorno siamo prossimi al funerale. Dell’euro? Dei padroni dell’euro? No, il nostro funerale! La recessione sempre più profonda, l’indebitamento pubblico che cresce, il Pil che si riduce, la produzione, le esportazioni e i consumi in calo, le tasse più alte al mondo e nella storia, le imprese strangolate che chiudono, i disoccupati e i poveri che aumentano, i giovani senza prospettive, i figli che non si fanno più, la democrazia svuotata di contenuti, i partiti e il parlamento che si sono auto-commissariati svendendo l’Italia alla triplice dittatura finanziaria, relativista e mediatica, gli italiani sempre più ingannati, traditi, rassegnati, frustrati, disorientati.

Ebbene come è possibile che, da un lato, la crisi è colpa dell’euro e, dall’altro, siamo noi italiani, noi europei, a pagarne le tragiche conseguenze? La risposta è nella recente dichiarazione del governatore della Bce (Banca Centrale Europea) Draghi al quotidiano francese Le Monde: “Il nostro mandato non è di risolvere i problemi finanziari degli Stati, ma di garantire la stabilità dei prezzi e mantenere la stabilità del sistema finanziario in tutta indipendenza”. Ma come: la Bce, insieme al Fmi (Fondo Monetario Internazionale) e alla Commissione Europea, la celeberrima e temutissima troika, dopo aver imposto fin nei minimi dettagli condizioni spietatissime agli Stati per poter accedere al credito finalizzato al ripianamento del debito pubblico, ora ci dice che si lava le mani dei problemi degli Stati? Ma come: se questi problemi sono essenzialmente legati alla carenza di liquidità monetaria e l’unica istituzione titolata ad emettere l’euro è la Bce che si rifiuta di farlo? Ma come: quando le banche e le società quotate in borsa crollano si pretende il massiccio intervento degli Stati con denaro pubblico mentre quando gli Stati sono in crisi voltate loro le spalle?

Per capire le ragioni profonde della crisi strutturale della finanza e dell’economia internazionale, bisogna iniziare dall’a, b, c della scienza monetaria. La moneta è solo un mezzo di scambio della vera ricchezza che sono beni e servizi prodotti. Il suo valore è convenzionale e lo conferisce chi lo accetta non chi la stampa. Il signoraggio è la differenza tra il costo reale e il valore nominale della moneta. Oggi la Bce stampa la banconota da 100 euro al costo di 3 centesimi e la vende alle banche commerciali a 100 euro più l’1% di interesse in cambio di titoli di garanzia. Le banche rivendono la banconota allo Stato a un tasso superiore in cambio di Buoni del Tesoro che sono titoli di debito. Lo Stato ripaga questi interessi facendoli gravare sulle tasse imposte ai cittadini. Quindi tutto il denaro in circolazione è gravato da interessi percepiti dalle banche e da tasse che gravano sulle nostre spalle. E’ così che noi siamo indebitati dal momento in cui nasciamo, a prescindere da qualsiasi responsabilità oggettiva! E’ il sistema che di fatto corrisponde ad una “fabbrica del debito”. Chi è il responsabile? A differenza di quanto si tenderebbe a pensare, la Bce, al pari della Banca Centrale d’Italia, è un’istituzione che svolge una funzione pubblica ma è di proprietà privata, detenuta da banche private, comprese quelle dei Paesi europei che non aderiscono all’euro. Ha la struttura di una società per azione e gode di autonomia assoluta dalla politica pur condizionando pesantemente la politica. Questa “fabbrica del debito” si è arricchita grazie a due nuovi trattati, il Fiscal Compact o Patto di stabilità, e il Mes o Fondo Salva-Stati, approvati a larghissima maggioranza il 19 luglio dal nostro parlamento senza né un’adeguata informazione né la consapevolezza da parte degli italiani che ci siamo ormai auto-condannati ad essere indebitati a vita. Di fatto ci siamo impegnati, al fine di dimezzare il debito pubblico per portarlo al 60% del Pil, a ridurre i costi dello Stato di 45 miliardi di euro all’anno per i prossimi 20 anni, ciò che si tradurrà in nuove tasse e ulteriori tagli alla spesa pubblica; mentre per creare il Fondo Salva-Stati, l’Italia si è accollata la quota di 125 miliardi di euro, che non abbiamo. Qualora non dovessimo rispettare gli impegni sulle condizioni del pareggio di bilancio che abbiamo inserito nella Costituzione, anche in questo caso tra la distrazione generale degli italiani, scatterà in automatico una sanzione pari all’1% del Pil, 15 miliardi di euro.

Nasciamo indebitati perché la moneta non la emette lo Stato ma una banca privata e abbiamo sottoscritto degli accordi con istitituzioni sovranazionali le cui sentenze sono inappellabili, che ci impegnano a indebitarci ulteriormente per ripianare il debito! Va da sé che d’ora in poi lavoreremo sempre di più e vivremo sempre peggio per pagare i debiti. Scordiamoci i soldi per favorire lo sviluppo, per sostenere la famiglia, per dare speranza ai giovani. Anche antropologicamente muteremo trasformandoci in un tubo digerente: ci limiteremo a produrre per consumare beni materiali, non ci saranno né risorse né tempo per occuparci della dimensione spirituale che ci eleva al rango di persona depositaria di valori non negoziabili alla vita, alla dignità e alla libertà. Siamo ad un bivio epocale: salvare l’euro per morire noi come persona, oppure riscattare la sovranità monetaria per salvaguardare la nostra umanità. Ecco perché solo una nuova valuta nazionale emessa direttamente dallo Stato, che ci affranchi dalla schiavitù del signoraggio e scardini dalle fondamenta la “fabbrica del debito”, emessa a parità di cambio con l’euro per prevenire fenomeni speculativi e inflazionistici, potrà darci la libertà di essere pienamente noi stessi nella nostra Italia che ha tutti i requisiti di credibilità e solidità per andare avanti a testa alta e con la schiena dritta.

(di Magdi Cristiano Allam)

Tommaso, l'unico Moro davvero santo


Lunedì scorso, in silenzio, è stato accolto il primo passo per avviare la santificazione di Aldo Moro, servo di Dio. Me lo diceva un suo fedelissimo, Luigi Ferlicchia, presidente del centro studi Moro e promotore con il postulatore Nicola Giampaolo della canonizzazione.

Ferlicchia è pure convinto che Moro sia stato vittima del Kgb sovietico: ricorda un borsista che seguiva le lezioni di Moro, Sergeij Sokulov, agente del Kgb, che avrebbe condotto Moro per braccio nel rapimento di via Fani. 

Una tesi condivisa da due stretti collaboratori di Moro, Franco Tritto e Renato Dell'Andro. Ma questa è roba da commissione Mitrokhin.

Mi turba di più la santità di Moro (idem per De Gasperi. Verrà poi il turno di Andreotti?). Ammiro la devozione eterna dei postulanti nei confronti di Moro ma francamente non vedo tracce di santità. Non tiro in ballo il compromesso storico e l'apertura a sinistra di un politico che pure nasce moderato e da giovane fu fascista; né lo dico ricordando lo scandalo dei petroli, i suoi collaboratori inquisiti o l'affare Lockheed. Moro fu un politico e si comportò da politico, non da santo. La sua morte brucia ancora, ma come diceva Sant'Agostino non è la pena ma la causa a fare i martiri. E non vedo Moro mosso da una causa cristiana, al più democristiana. O dovremmo santificare tutte le vittime cattoliche del terrorismo?

I veri santi si sacrificano nel nome della fede o dedicano la loro vita a opere di carità o compiono miracoli. Moro rientra in questi canoni? Un Santo Moro politico c'è già: è San Tommaso Moro. Basta lui. Dio non votava Dc.

(di Marcello Veneziani)