martedì 1 settembre 2009

Ode perversa all’amico Adolf Hitler

«Spesso mi si domanda quali siano state le mie intenzioni nello scrivere oggi di Hitler. In verità se avessi voluto scrivere seriamente su di lui non mi sarebbe bastato un romanzo, e neppure due. Il problema “Hitler” si ricollega da un lato all’essenza stessa della civiltà del XX secolo, e dall’altro agli oscuri abissi della natura umana». Così lo scrittore giapponese Yukio Mishima - l’autore di capolavori come Confessioni di una maschera e Sole e acciaio - spiegava, nel dicembre 1968, le motivazioni che lo avevano spinto a produrre il testo teatrale Il mio amico Hitler. Oggi il dramma torna sugli scaffali delle librerie italiane dopo (troppi) anni di assenza. La prima traduzione nel nostro Paese risale al 1983 e si conta solo una ristampa (nel 1992), entrambe per Guanda, che pubblica anche questa nuova edizione (pp. 128, euro 12,5).
La storia è ambientata nel giugno del 1934 e racconta, attraverso i dialoghi fra i protagonisti diretti, i momenti che precedono la “Notte dei lunghi coltelli”, ovvero quella fra il 29 e il 30 giugno del ’34, durante la quale furono sterminate le SA guidate da Ernst Röhm al culmine di uno scontro di potere interno al partito nazista. In quelle ore venne tagliata la testa all’ala sinistra degli hitleriani, rappresentata dallo stesso Röhm e da Gregor Strasser, i quali erano entrati in collisione con gli altri gerarchi, che avevano convinto il Führer della loro pericolosità. Proprio Strasser e Röhm sono i due personaggi principali del testo di Mishima. Il primo cerca di convincere il secondo a mettersi in salvo, a proteggersi dai pericoli che incombono su di lui.
Ma da quell’orecchio Ernst non ci vuole sentire. Rimane convinto che Hitler sia troppo legato a lui per fargli del male. Pensa che sia, dopo tutto, suo amico. «Non vuoi proprio ascoltarmi?», gli grida Strasser disperato a un certo punto. «Se non mi ascolti sarai inevitabilmente annientato». Ma lui resta irremovibile: «Che idiozia! Come potrebbe Adolf uccidermi!». E ripete imperterrito: «Si sono già verificati nella storia molteplici esempi di idee annidate in menti malate che hanno rovinato rapporti umani splendidi. Ma Hitler non ucciderà mai Röhm. La storia sta ad attestarlo. La storia dell’umanità... Strasser, tu sei malato».Del resto, poco tempo prima Hitler rassicurava il capo delle SA: «Quando diverrò presidente, sarà facile trovare il modo per affidarti l’intero esercito. È necessario avere pazienza fino a quel giorno: vorrei che tu affrontassi insieme con me anche le situazioni più critiche. All’apparenza siamo un cancelliere e il suo brillante ministro, ma poiché condividiamo un indicibile tormento, è come essere tornati al 1923, all’epoca delle fatiche di Ercole (...). Ernst, non ho mai contato su di te come in questo momento. Se tenendoci per mano, riusciremo a superare anche questo...».
Come sappiamo, è finita in modo diverso. Mishima, però, non ne fa una storia tragica di “amicizia tradita”. Tutto, per lui, si risolve nei rapporti di potere. «Con questo dramma in tre atti», spiega lui stesso, «ho voluto trattare il caso Röhm, accaduto nel 1934, che m’interessava più dello stesso Hitler. Nella costruzione di un sistema totalitario è una necessità politica che in una fase specifica si inganni il popolo con l’illusione di una “politica moderata”. E così agì lo stesso Hitler, nell’estate del 1934; e per far questo egli fu costretto a sopprimere con la forza l’estrema destra e l’estrema sinistra». Sullo stesso argomento scriverà anche nel “Programma del teatro Gekidanroman” del 1969: «Mi sembra una regola ferrea della politica che per suscitare una mobilitazione generale della nazione sia necessario stroncare non solo l’estrema sinistra, ma anche l’estrema destra».
Del Führer lo scrittore giapponese stima «l’implacabile, tremenda intelligenza (...), il suo genio politico». Secondo alcuni, spiega, «anche Stalin fu profondamente impressionato dal caso Röhm e s’ispirò a esso per le sue epurazioni». Mishima, tuttavia, esaspera i tratti del capo delle SA, dipingendolo come un idealista che si fa ammazzare perché non vuol credere che gli “antichi valori” siano ormai perduti. Il capitano è «ancora più ingenuo, onesto e puro di quanto sarebbe lecito ritenere, considerando la sua identità storica».
Il mio amico Hitler esordì a Tokio il 19 gennaio 1969. Mishima era reduce da un periodo piuttosto intenso. Qualche mese prima aveva fondato il corpo para-militare Tate no kai (Associazione dello scudo) ed era entrato nella Tokya University affrontando gli studenti che tenevano prigioniero il preside. Anche quando deve mettere in scena il suo spettacolo non risparmia sulla provocazione. Distribuisce al pubblico una nota che recita: «Mishima, il pericoloso ideologo, dedica un’ode perversa al pericoloso eroe, Adolf Hitler».
In realtà, il suo pensiero sul dittatore tedesco era molto più complesso: «Molti mi domandano», scriverà Mishima, «“Perché Hitler ti piace a tal punto?”, ma l’aver scritto un dramma su di lui non significa necessariamente amarlo. Francamente io nutro uno straordinario interesse per il personaggio Hitler, ma alla domanda se mi piace o non mi piace posso rispondere solo negativamente. Hitler era un genio politico, ma non un eroe». Secondo il biografo Henry Scott Stokes (autore di Vita e morte di Yukio Mishima, Lindau) si tratta di un messaggio indirizzato agli intellettuali giapponesi schierati su posizioni di sinistra moderata: «La neutralità, voleva dimostrare il dramma, può condurre agli sbocchi più imprevisti».
Al di là degli aspetti “rivoluzionari” dell’opera, Mishima non disdegnava neppure il successo commerciale, tanto che cercò di sfondare pure a Broadway. Incaricò la sua agente di trovargli negli Usa un teatro adatto per la sua Madame De Sade (sulla moglie del Divin Marchese). Nulla da fare: sia quello spettacolo che Il mio amico Hitler non riuscirono mai a conquistare l’America.

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