martedì 29 giugno 2010

Berto, la guerra in camicia nera

Con Giuseppe Berto gli storici non hanno dovuto faticare granché, come invece hanno fatto con molti altri scrittori italiani, per rintracciare le prove della sua adesione al fascismo: dieci anni dopo la fine della guerra, era lo stesso Berto a ricordare a chi l’avesse dimenticato, e a futura memoria, che lui non solo era stato fascista, ma che si era anche arruolato come volontario tra le Camicie Nere per combattere in Africa. Lo faceva con un libro intitolato, a scanso di equivoci, Guerra in camicia nera (ora riproposto dalla Bur, 196 pagine, euro 9.20), che evidentemente, a metà degli anni Cinquanta, non poteva trovare un’accoglienza troppo favorevole. Anche perché Berto, in quel libro edito da Garzanti, non sconfessava il proprio passato; scriveva anzi in una breve nota introduttiva: «Spero che il mio lavoro conservi sufficiente sapore di realtà da testimoniare in me, e in tanti altri che comeme servirono il fascismo con la convinzione di servire l’Italia, una essenza morale valida anche oggi». Si potrebbe dire che lo scrittore di Mogliano, con un libro come Guerra in camicia nera, se l’andasse un po’ a cercare; del resto anche questo era tipico del suo tormentato carattere. Reduce dall’insuccesso del suo terzo romanzo (Il brigante), già piuttosto defilato, per non dire inviso all’establishment culturale romano e nazionale, Berto contribuì col suo diario di guerra fascista alla propria stessa sfortuna, imboccando proprio in quel periodo un lungo tunnel di insuccessi e depressione dal quale sarebbe uscito - trionfalmente - nel 1964 con la pubblicazione del suo libro più famoso, Il male oscuro.

Anche se non è da leggere come un documento storico, come dice lo stesso Berto nella sua introduzione, il romanzo-diario Guerra in camicia nera è interessante perché racconta la guerra del fronte africano vista da chi si trovava dalla parte sbagliata della storia. L’arrivo di Berto a Tripoli, il primo settembre 1942, avviene in coincidenza quasi perfetta con un fatto destinato a cambiare le sorti del conflitto sul fronte africano: la nomina del maresciallo Bernard Montgomery a capo dell’VIII armata inglese. In quel momento la situazione era favorevole alle forze italo-tedesche che, grazie alla controffensiva condotta da Erwin Rommel, avevano respinto gli inglesi in Egitto. L’euforia di Berto dura quindi poco: giusto il tempo di accorgersi che il suo viaggio verso il fronte incrocia sempre più spesso il percorso inverso delle truppe italo-tedesche che annunciano la massiccia ritirata conseguente alla sconfitta di El-Alamein. Gli resta però l’ottimismo della «fede», che in un personaggio come Berto fa un po’ a pugni con lo spirito anarchico; lui è peraltro uno di quei fascisti che ritiene necessaria, dopo la vittoria della guerra, una rivoluzione interna al fascismo, che consisterà nell’«eliminare la stupidità e la corruzione» e nel «concedere una maggiore libertà politica».

La guerra vera, però, tarda per lui ad arrivare: si vive spesso in questo libro nell’aria polverosa della disfatta presagita inconsciamente, nel progressivo ripiegamento verso ovest che cede il passo ai fantasmi dell’VIII armata inglese. Quando si arriva al contatto con gli inglesi viene anche la consapevolezza che si tratti di un esercito «troppo numeroso e armato»; poi, dopo che il VI battaglione di cui l’autore fa parte viene spazzato via dal nemico, si manifesta in lui il desiderio del ritorno in Italia, che Berto prova a giocarsi con la carta dell’ulcera duodenale, a suo tempo nascosta per potersi arruolare nelle Camicie Nere. Raggiunge Tunisi ma gli esami danno esito negativo; torna in linea finché non viene il turno, anche per lui, di arrendersi agli inglesi (sarà poi portato nel «Fascist camp» di Hereford, in Texas, dove resterà fino al gennaio 1946). Guerra in camicia nera è il racconto in tono dolceamaro, tra sentimento e cinismo, di un’idea che si accartoccia su se stessa, di un’esperienza in cui la disciplina tenta di convivere con l’egoismo del volere salva la pelle. È un libro, a suo modo, antiretorico e onesto, le cui pagine brillano spesso d’ironia e autoironia: «Tra i tanti motti da cui siamo stati afflitti non ce n’è forse uno che dice: nudi alla meta? La meta è vicina, e io nudo press’a poco lo sono».

(fonte: www.corriere.it di Matteo Giancotti)

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