martedì 29 giugno 2010

La cultura di destra non è più una barzelletta


Essere il nipote di Alessandro Pavolini è una consapevolezza latente, riposta in un libro di scuola. A quarantacinque anni Lorenzo Pavolini, scrittore e redattore di Nuovi Argomenti, decide di ristabilire un contatto con le proprie origini scrivendo un libro, Accanto alla tigre (Fandango), finito nella cinquina dei candidati al Premio Strega 2010, che vorrebbe essere un documentario e poi diventa un diario, trovandosi davanti alla difficoltà di stabilire le giuste distanze e rischiando di essere investito dai sentimenti, provando ad addomesticare la storia come si fa con una tigre da cui, se si decide di cavalcarla, forse sarà impossibile scendere, e scegliendo di domarla nell’unico modo possibile, camminandole accanto.

Come una formazione di sinistra ha convissuto con la consapevolezza delle sue origini?

In famiglia c’era una forma di reticenza alla quale non do un valore negativo, perché alcune questioni non riescono ad essere sciolte con un’interlocuzione diretta. Nella mia formazione il fatto che mio nonno sia stato uno di quelli che hanno elaborato la cultura fascista dal di dentro non ha avuto alcun peso. Mio padre non mi ha mai trasmesso una cultura di destra e mi ha lasciato libero di formarmi come mi pareva: io sono stato un ragazzo che, negli anni Ottanta, voleva lavorare tra editoria e giornalismo ed era affascinato dalla nostra cultura migliore. A un certo punto ho scansato un editore socialista e sono finito a lavorare con una casa editrice comunista come gli Editori Riuniti. Mi sono formato con quella cultura, antinazionalista e multiculturale, e ancora credo che qualcosa distingua una cultura di sinistra da una conservatrice e antisolidarista. Tra i libri che leggevo, se mi sono imbattuto in Ezra Pound o Céline non significa che li abbia letti in modo diverso rispetto ad altri grandi del Novecento. Ciò che più mi interessava raccontare è come ambienti di formazione familiari possano produrre degli individui che compiono delle scelte molto diverse. Famiglie che si sono divise di fronte al fascismo, com’è successo tra mio nonno e suo fratello Corrado, sposato nel ’21 con una donna ebrea.

Quando ha sentito che era il momento giusto per avvicinarsi alla figura di suo nonno? C’è un motivo legato al momento storico attuale?

Paradossalmente negli anni Settanta e Ottanta il mio cognome era più smarcato dalla storia del fascismo di quanto non lo sia adesso. Oggi quando mi imbatto in una scritta sul muro che inneggia a Pavolini penso come mai per quarant’anni non mi era mai successo. Non dico che certe cose stiano tornando, ma che c’è una tale distanza da quei giorni che una nuova generazione se ne può impossessare e farne il simbolo di una nuova destra o ne può ragionare con lucidità. Quando mi sono formato, a quarant’anni da quei fatti, le ferite erano troppo vive e le persone imbarazzate nell’affrontare certe questioni. Il mio libro è stato anche un tentativo di rottura di questo imbarazzo. Non è un romanzo storico né familiare, ma un libro che ragiona sulla storia e sulla famiglia. Non ho mai deciso che fosse il momento di scriverlo, però molte persone che hanno letto il libro mi hanno detto che adesso si poteva fare, e ho capito come la mia generazione, nella distanza biologica da certe tragedie, può considerarle in equilibrio tra pietas e lucida valutazione storica.

Cosa ne pensa delle polemiche sul revisionismo storiografico a proposito della necessità di correggere le tesi sul fascismo?

Sono polemiche che hanno avuto una fase molto scomposta dieci anni fa. Oggi c’è una volontà ideologica nel distorcere la storia. Il lavoro degli storici è una continua revisione della conoscenza della storia, e quello svolto dagli anni Novanta da Pavone, Gentile, Luzzatto, Crainz o Parlato non può essere tacciato di revisionismo, anzi si è fatto carico di guardare la storia da tutti i punti di vista. Come in tutte le discipline esiste chi opera con onestà culturale e chi ha dei secondi fini. Se uno storico pone un’ideologia come substrato del proprio lavoro sbaglia sempre.

Non nasconde che durante il processo di conoscenza di Alessandro Pavolini ha subito la tentazione di riabilitare la sua figura.

Ho scelto di venire a contatto in un preciso momento della scrittura con quei materiali che hanno la temperatura emotiva più alta – lettere, immagini, voce – e ho lasciato che la percezione di mio nonno mi invadesse, come accade a chiunque venga in rapporto con l’elemento umano della sua ricerca. La conoscenza e la passione ci avvicinano molto più dell’appartenenza alla famiglia. Capisco che un lettore possa restare colpito da quel “momento di rottura” perché sa che parlo di mio nonno, ma è semplicemente un individuo di cui mi sono chinato a osservare il destino e con cui si è stabilita una forma di empatia.

Cos’è la memoria?

Una volta si studiava la storia dei grandi personaggi, noi ci siamo formati sulle memorie dal basso, sulla storia degli Annales, sull’idea che tutti fanno parte della storia. La storia orale che ci ha insegnato Alessandro Portelli con il suo libro sulle Fosse Ardeatine (L’ordine è già stato eseguito, Donzelli, 2005, ndr) e poi il lavoro teatrale di Ascanio Celestini ci hanno mostrato com’è possibile fare di questa materia una narrazione collettiva, quando si raccontano le storie dolorose che ci hanno portato fuori dall’incubo della dittatura. È un discorso retorico dire che ci manca una memoria condivisa: probabilmente le memorie non sono fatte per essere tutte condivise, ognuno ha la sua, perché uno dovrebbe sentirsi compromesso con una memoria diversa? Qualcuno mi ha detto: «Quest’anno nella cinquina dello Strega ci sono due libri di destra!» (il riferimento è a Canale Mussolini di Antonio Pennacchi, Mondadori, ndr). Ma non sono di destra, sono libri che parlano della storia d’Italia e di un ventennio che ha coinvolto tutti, la minoranza che si è opposta e la maggioranza che ha partecipato e che poi ha cambiato.

Cosa intende con «la serietà in Italia non può che risolversi in tragedia»?

Noi italiani non abbiamo una grande capacità di sentire il tragico. Siamo inclini alla burla, a scansare il tragico con una battuta. Alessandro Pavolini era una persona estremamente seria e determinata fino ad accettare le conseguenze delle sue scelte, compreso il sacrificio di sé. In questo era un italiano atipico. In Italia la valutazione della nostra classe dirigente dal dopoguerra a oggi è stata “da barzelletta”: siamo specialisti nell’avere una classe dirigente che viene ridicolizzata perché a sua volta si rende ridicola. In fondo è questa relatività che ci ha dato modo di reagire all’egemonia americana in modo autonomo. Carosone canta Tu vo’ fa’ l’americano, Sordi fa l’americano e ci si ride sopra. A volte la nostra capacità di burla può essere molto utile nel confronto tra culture ma non ci aiuta a percepire la reale tragedia in atto.

Quanto il libro nasce nel tentativo di «parlare con i propri morti» e quanto in quello di parlare al Paese?

Più che ai miei morti io volevo parlare a mio padre, prendendomi la responsabilità di essere adulto. Ma le mie questioni sono le questioni del Paese. Mi ha aiutato costruire la frase dell’incipit, perché tra l’espressione «mio nonno» e «libro di storia» ho capito che c’era un cortocircuito tra dimensione personale e collettiva. Il lavoro intellettuale parla sempre al Paese. Per intellettuali come Moravia e Pasolini era naturale pensare che qualsiasi cosa scrivessero, anche la più intima, stessero parlando alla collettività. Non c’è dubbio che mentre scrivevo questo libro ho pensato che potesse essere utile a tutti. Strappare alle polemiche la conoscenza di un secolo, riconsiderare il fatto che la cultura di destra non è la barzelletta a cui ci siamo abituati dal dopoguerra solo perché non è stata più elaborata, capire che all’inizio del secolo ha affascinato molti giovani rappresentando una risposta italiana alla Rivoluzione russa, è qualcosa che era utile a me ma allo stesso tempo la volontà di entrare in relazione con la collettività. Mi interessava che altre persone vi trovassero una possibilità di interlocuzione. La scrittura deve contenere la cronaca del presente che non può che essere un discorso pubblico.

(fonte: http://www.ilriformista.it/ di Carmen Maffione)

Nessun commento:

Posta un commento