venerdì 30 luglio 2010

L'imprenditore e il politico: gli alleati che non si sono mai amati


Berlusconi e Fini non si sono mai amati. Mai. Diversi, diversissimi per stile di vita. L’uno longilineo, l’altro non propriamente slanciato, fisicamente agli antipodi. L’imprenditore di successo contro il «politico di professione». La televisione contro la sezione. Nel Partito Fini ha compiuto la sua educazione sentimentale. Per Berlusconi i partiti hanno emanato sempre i miasmi del «teatrino della politica». La necessità, il calcolo e le bizzarrie della storia li hanno messi insieme. E il divorzio si compie in un paradossale rovesciamento di ruoli. Berlusconi diventa il sacerdote della supremazia del Partito, il custode della sua Disciplina che espelle, radia, scomunica, butta fuori dal recinto sacro. Fini il dissidente, l'uomo dell'apparato che si ribella all'apparato e prende su di sé l'anatema: fuori linea, indisciplinato. Sabotatore.

Non si sono mai amati. Hanno spesso litigato. Ma hanno convissuto onorando uno schema che appagava le reciproche convenienze. Lo schema era, per Berlusconi, l'inamovibilità gerarchica: lui era il numero uno, l'altro il numero due. Per Fini lo schema coincideva, cinicamente, con il destino anagrafico: giocare al numero due, confidando sull'ineluttabilità della successione. Quando lo schema si è rotto, l'antagonismo caratteriale dei due è esploso. La convivenza si è fatta tempestosa. Si è gonfiata a dismisura l'insopportazione reciproca. Che ha conosciuto numerose tappe, scene madri, frizioni, scontri, espressioni contrariate del volto. Ora che la rottura è consumata, quella sequenza di tensioni acquista un nuovo significato. Tutto diventa indizio di una frattura irreparabile. Come nei matrimoni. Ma questo non è mai stato un matrimonio d'amore. Berlusconi pensa di essere lui lo «sdoganatore» di Fini: per questo lo considera un ingrato. Pensa che con quel suo fatidico «se fossi romano voterei Fini» pronunciato nel novembre del 1993 alla vigilia del ballottaggio per il sindaco di Roma, lui abbia fatto uscire l'allora segretario del Msi dal ghetto infrequentabile del neofascismo per portarlo in una dimensione inimmaginabile fino ad allora. Gli eredi del fascismo, gli «esuli in Patria» scaraventati grazie al suo tocco magico nell'area di governo: ecco il suo capolavoro. Fini non l'ha mai pensata così. Ha sempre sostenuto che lo «sdoganamento» è stato promosso dagli elettori di Roma e di Napoli che avevano mandato al ballottaggio lui stesso e Alessandra Mussolini. Che a quel tempo il suo partito si chiamava ancora Movimento Sociale e non ancora Alleanza Nazionale. Che la fine dell'«arco costituzionale» della Seconda Repubblica era stata decretata nelle aule giudiziarie, non in uno studio Fininvest. Per dire: non sono stati d'accordo nemmeno sul significato delle origini, sul mito fondativo. Non proprio la base migliore per un matrimonio duraturo. Che però è durato. E neanche poco: più di sedici anni. Con burrasche e scenate, ma è durato.

È durato anche quando alla fine del 1995, dopo il ribaltone che estromise Berlusconi da Palazzo Chigi e il governo Dini che il Cavaliere visse come un tradimento, Fini decise di indossare i panni di quello che si sarebbe definito il «signor No» e di ostacolare il governissimo di Antonio Maccanico: le elezioni sarebbero state rimandate sine die, la candidatura di Prodi si sarebbe indebolita, chissà come sarebbero andate le cose dal '96 in poi. Berlusconi non gliel'ha mai perdonata. Poi il signor No sarebbe diventato proprio lui, Berlusconi. Decise di far saltare la Bicamerale proprio quando Fini si dimostrava favorevole al patto (detto anche «inciucio») con D'Alema. Ma i ruoli non si sarebbero più scambiati. Si imponeva lo schema, quello del numero uno e del numero due. Ma con dispetti, ritorsioni, screzi, gesti sgarbati. Quando nel 1999 Fini organizza a Verona la conferenza organizzativa di Alleanza Nazionale, propone un'operazione di restyling con una coccinella che sparirà dal simbolo con la stessa velocità con cui era entrata, cerca di rimarcare la sua autonomia politica e culturale dal potente alleato, Berlusconi il numero uno dello schieramento politico, nonché capo dell'impero editoriale della Mondadori, arriva con camion pieni di copie del «Libro nero del comunismo» che vengono distribuite ai delegati aennini. Fini non se ne rallegrò. Anzi, si infuriò. Proprio lui che si era fatto le ossa nel Movimento Sociale, proprio lui che aveva fatto dell'anticomunismo di piazza una bandiera e una scelta esistenziale, doveva sorbirsi adesso lezioni di anticomunismo? Anche Fini non gliel'ha mai perdonata.

E poi l'elefantino di Fini con Mariotto Segni alle Europee del '99. Una digressione, una scappatella, un'avventura (finita male). Ma il matrimonio, anche stavolta, non esplose. Finché non si arriva al quinquennio della legislatura berlusconiana tra il 2001 e il 2006. Fini accetta la vicepresidenza del Consiglio (numero due), il ministero degli Esteri nelle turbolenze internazionali post-11 settembre (sempre numero due). Ma il suo umore nei confronti del numero uno è stampato sul volto di disappunto, stupefazione, disperazione che Fini non fa finta di nascondere quando Berlusconi si produce, nell'aula del Parlamento europeo, nella clamorosa gaffe sul «Kapò». Fini il numero due, seduto, tira addirittura la giacca al numero uno, in piedi. Ma in quella scena si manifesta la lacerazione umana di un matrimonio di convenienza in cui i risentimenti reciproci, le insofferenze, la suscettibilità di entrambi acquistano una preponderanza sempre più evidente, sempre meno governabile. Il partito del «predellino», Berlusconi lo fa principalmente contro l'altro, il numero due, lo «sdoganato», Fini, ribattezzato addirittura il «parruccone». Lui, il parruccone sempre più detestato da Berlusconi, bolla la scena del predellino così: «Siamo alle comiche». Ma poi quel partito si farà. Fini lo subirà. Berlusconi lo imporrà. Incapace di concepire anche il sia pur minimo dissenso, il Capo sottolinea tutti i passaggi critici del discorso di Fini alla convention di fondazione del Popolo della Libertà con plateali cenni di assenso, seduto in prima fila, accanto a Elisabetta Tulliani nientemeno: come a dire che la grande famiglia non si sarebbe sciolta mai. E invece ieri sera si è sciolta, liquefatta. Il dissenso è ufficialmente bandito. Il monolitismo del Pdl è salvo. Il Partito mistico e sacro amputa l'infezione eretica e si sottomette alla volontà unica e insindacabile del Capo carismatico. Finisce una storia, un matrimonio. Una rivoluzione che doveva essere liberale e si consuma mimando le liturgie epuratrici dei partiti comunisti. Nasce l'epoca dei probiviri buttafuori. Nel «Libro nero» si chiamavano Commissioni Centrali di Controllo. Ma quello era il «teatrino della politica».

(di Pierluigi Battista)

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