domenica 30 gennaio 2011

Al sommo scrittore querulo


Tutto quello che non ti dico quando ci vediamo, caro Roberto, tutto quello che metto tra parentesi per la leggerezza del volersi bene e il piacere di vedersi al ristorante o tra gli uffici e le scale di via Sicilia, alla Mondadori, te lo metto per iscritto adesso. E ti chiedo: perché, tu che non somigli a nessuno, vuoi assomigliare ai tuoi lettori? Guai se Georges Simenon, che è un genio, risultasse identico ai viaggiatori negli scompartimenti, i suoi lettori. Sarebbe solo un disturbato incapace di vedere la propria vita. Magari sarebbe in grado di uccidere. Ma non di scrivere e di scappare via da quel mondo: “Sono partito – così confessò – proprio per non commettere quei delitti di cui mi sarei volentieri macchiato se fossi rimasto in provincia”. Guai, dunque, se Carmelo Bene somigliasse agli astanti dispersi nei teatri, tutti orfani della sua voce, sarebbe macchietta, un pernacchio nasale e perciò sarebbe pensato, non de-pensato. Guai se un Baudelaire potesse essere scambiato con tutti i suicidi, gli allunati e i malati di poesia, guai, infine, se perfino una Raffaella Carrà si specchiasse in tutte le checche scatenate nel ballo del tuca tuca. Sarebbe solo una megera senza talento, non più un monumento pop. Sono i Moccia che, in quella discesa agli inferi che è l’identificazione, vanno ad assomigliare ai loro lettori. S’identificano al punto di mettersi il cappello di Qui, Quo, Qua a cinquanta anni suonati. E così anche la Parodi, quella dei ricettari di cucina, se vogliamo usare il parametro delle vendite sterminate e milionarie.

Ecco, a maggior ragione se si è star del pop system internazionale bisogna garantirsi il pathos della distanza. Te lo spiegò, se non ricordo male, Salman Rushdie: “Una vita dura, la nostra. Se poi non ci ammazzano finisce che ci odiano tutti”. E tu e Salman Rushdie ne avete di ironia e distacco per sapere affrontare una vita disgraziata perché blindata. Quello è un dio della grande scrittura, tu pure, e però col cavolo che Rushdie s’identifica con i suoi lettori: dispensa grazia, non testimonianza. Capii di che legno è fatta quella scopa quando, al Centenario della Mondadori, a Milano, io che sono saraceno, me lo trovai accanto e quella distanza ravvicinata, fresco com’ero della salat della sera, l’essere arrivato così vicino, mi sembrò di essere io la famosa falla nella sicurezza. Un po’ come le escort che entrano ad Arcore, ecco. Non sanno proprio proteggerlo, mi dissi, anche con una sola forchettata sul dito un poco di Paradiso me lo prendo di sicuro. Ma non divaghiamo. Questo per significare quanto accessibile sia per ogni passerotto lieve di fatwa la capoccia del più tonitruante monumento.

Torniamo a bomba e perciò, Roberto caro, mi ripeto, anzi, ti chiedo: non cercare di assomigliare ai tuoi lettori. Non lasciarti sedurre dall’orgia degli innumerevoli. Perché l’impostura è la dea delle folle. Deve esserci qualcosa nell’aria, una sorta di diossina del pensiero banale se poi capita, come mi è capitato, di vedere in un vagone della metropolitana una ragazza e un libro. Una che nel 1966 avrebbe avuto l’“Antologia di Spoon River” tra le dita, nel 1974 le pagine con le canzoni di Bob Dylan, nel 1988 o ancora più avanti i “Figli della mezzanotte” di Rushdie e, invece, qualche mese fa, una ragazza come quella, bella, una ragazza che si merita sogni e poesia, una ragazza il cui sangue è incanto, se ne stava immersa nella lettura di un saggio di Chiarelettere, un libro sui conti della famiglia Moratti. Ecco, caro Roberto, forse per questo l’Italia che non ha più grandezze, che non conosce né il Tasso ma neppure Guglielmo Marconi, diventa periferia, un quartiere di rancorosi che, se solo potessero, farebbero peggio di quelli che vogliono impiccare. Come può appassionare mai un brogliaccio giudiziario sui soldi della famiglia Moratti? Un mistero del marketing, forse. Deve essere il famoso target applicato alla poiesis che trasforma le ragazze in graziose comarelle dell’indignazione.

Pensa, dunque, se uno dovesse veramente identificarsi con i propri lettori, tutti quei disturbati che trovano anche il tempo di scrivere ai propri giornali o, peggio, sul Web. Pensa: i famosi utenti del Web. Sono quelli che commentano, quelli che postano, quelli che linkano, quelli che però sono discesi tutti per i rami dalla libera uscita delle latrine. Sono sempre quelli, e sono gli stessi, che nella notte dei tempi scrivevano sul muro del cesso “Viva la Fica” e, adesso, aggiornati ai tempi nuovi, “Culo offresi”.
Ecco, Roberto caro, tu poi lo sai come sono fatti i lettori, specie quelli del Web, quelli che si eccitano quando dai voce a tutti i capitoli – siano i brogli alle primarie del Pd a Napoli, sia, come dici, la salvaguardia della memoria, ovvero le tue trasmissioni. Ogni tua minima sfiatatella diventa bum! e a vedere il sito di Repubblica, che sembra la casamicciola degli onesti, pare non ci voglia niente a raddrizzare le gambe ai cani. La coscienza civile fa tutto facile ma tu lo sai, in tutta onestà, quella cruda, in tutto cinismo, quello smagliante, che Napoli e ’mbroglio sono la stessa cosa. Sono sinonimi. Io sono cresciuto con la santa anima di Pinuccio Tatarella che nei momenti difficili alzava gli occhi al cielo e pregava: “’Mbroglio, aiutami tu”. Non si può chiedere a Napoli di dimettersi da Napoli. Sarebbe un doppio imbroglio. Anche a Milano li fanno gli imbrogli. Solo che non li chiamano così. Trovarli a Napoli è un luogo comune che neppure l’alto tribunale della scrittura, la tua, può cancellare. E poi, che cosa te ne fotte a te del Partito democratico se non sei il Partito democratico? Se proprio vuoi sporcare la tua santità, e non sarebbe male, insozzala col genio e il genio è quello che non si fa mai trovare dove gli altri pensano di beccarlo, fai di te stesso un politico e però rischia, fai il nuovo Gabriele D’Annunzio, porta tutto il sangue dei pazzi a Casal di Principe, fanne la nuova Fiume, diventa Comandante e Poeta, fatti bombardare da tutti i Cagoia e non incensare dai soliti babbioni. E poi metti tutta la Napoli possibile dentro Napoli e non cavartela facendo il regista di un magistrato, il dott. Cantone, che giustamente vuole fare solo il suo lavoro e non il successore di Antonio Bassolino. In Sicilia, sai, abbiamo un proverbio magnifico: “A Napoli fanno gli imbrogli e a Palermo li sbrogliano”. Qualcosa vorrà dire.

Ecco, caro Roberto, tu non puoi essere “un militante appassionato”, tu non hai sfasciato un monolite d’indifferenza sulla macchina di morte e miserabile vita di Casal di Principe per diventare quello che, oplà, dirà così e cosà, e anche le motivazioni che hai dato per la tua decisione di pubblicare con Feltrinelli i copioni delle tue puntate in tivù con Fabio Fazio, sono entrate in un registro da “signora mia”. Hai parlato di “salvaguardia della memoria”, manco si trattasse di chissà quale lavacro di martirio a rischio oblio. Più di cento milioni di cristiani sono stati sterminati in soli settanta anni di potere sovietico (grazie a Putin abbiamo questa notizia di cui non se ne strafotte nessuno in occidente), non è stato manco Stalin ad ammazzarne, anzi, piuttosto quello buono, Kruscev, non se ne strafotte nessuno di questa storia, accuratamente censurata dalla Sacra Città del Vaticano e tu te ne vieni con la “salvaguardia della memoria” delle tue orazioni civili fatte in coppia con Fabio Fazio a “Vieni via con me” che, con tutto il rispetto per la storia della televisione, non stiamo parlando certo di “Rischiatutto”?

Ecco, caro Roberto, io vorrei svegliarti al destino della tua giovinezza, della tua disobbedienza, del tuo coraggio, del genio savianeo che riesce a discernere, anche con gli occhi dei tuoi ragazzi più sinceri, ovvero gli uomini della scorta, un’Italia (qualora ci fosse) carica di energia e non di cloroformio narcisista. Io vorrei che la tua natura furbacchiona facesse la tara e perciò voglio sperare che sia solo per un sommo disprezzo della beota natura democratica, con il gusto di vedere l’effetto che fa che tu, a quelli che stanno dalla parte del Bene, a quelli che si sentono l’Italia migliore, butti l’osso di una stupidata, quella della solidarietà in forma di dedica ai pm di Milano che indagano sulle meste mutande di Silvio Berlusconi. Magistrati, sia chiaro, che stanno facendo il loro dovere con grande dispendio intorno al pelo inteso come pilu ma non sono certo a rischio di essere isolati, pensa un po’, o di perdere la vita. Manco fossero, insomma, a Gela o nella tua Scampia, tra le ammazzatine vere e non, invece, come sono, a Milano, in un’inchiesta di zoccole e niente più. Quella che tu chiami “macchina del fango”, accusare la Boccassini, come ha fatto il Giornale, di aver baciato un uomo più di trenta anni fa, un suo uomo, fosse pure di sinistra, non è stata solo una caduta di stile ma il tipico rutto di destra che, ahimè, qualifica la destra e non infanga la Boccassini. Il bacio resta pur sempre un apostrofo rosa, non un festino. Lo capiscono perfino i lettori.

Un po’ di spirito sovversivo, caro Roberto, non ti farebbe male. Tu non puoi metterti in coda dietro un Vito Mancuso e fare la Casta Diva sull’odiata proprietà Mondadori. Se sei collega di catalogo con Silvio Berlusconi in persona, visto che ha fatto stampare un suo libro con tanto di corredo fotografico presso Mondadori, non è uno stridente contrasto perché è solo Italia quella che si distende ai tuoi piedi. Anche nel tuo film, “Gomorra”, qualche comparsa risultava reclutata dalla camorra, pensa se fosse successo in un qualsiasi cinepanettone di produzione Medusa, si sarebbe scritto, magari chiedendo un tuo commento: la camorra investe nei film di Natale. Ecco, vedi?, anche io sto precipitando nel luogo comune, ma è che a forza di abbassare il livello l’acqua si stagna sempre.

Ma tu, caro Roberto, resta fiero e orgoglioso di essere seguito dal grande pubblico ma in privato, per favore, facciamocela una grassa risata su questa gara di solidarietà che ti sostiene, specie quella degli scrittori, tutti tuoi odiatori, gente che vorrebbe sgozzarti più di quanto non voglia fare Sandokan, il casalese, tanta è l’invidia ma che però, per obbligo di conformismo, fa tutto il ciripiripì di complimenti e forza Roberto di qua e forza Roberto di là. E ancora stanno a fare marameo allo strummolo.
Tu che non somigli a nessuno come puoi consentire a te stesso di assomigliare ai tuoi lettori, compresi quelli che vanno a ruota, per sentito dire, e non per consapevolezza critica? Tu che non somigli a nessuno hai solo l’obbligo di assomigliare alla tua opera, ai tuoi libri, alla letteratura che ti rende speciale e divo. Un divo impegnato, ovvio, come un Camus, un Sartre, un Gide o come un Aldo Busi. Tutta gente che sa spiegare per avere studiato tanto e che se deve parlare del bunga bunga lo fa in forza del “Satiricon”, per parlare dunque alla scrittura, e non ai fan rintanati nelle latrine del Web con un colpo di scena, quella dedica, suvvia, così stupida, buona al più di un Loris Mazzetti e non certo di un Leonardo Sciascia.

Appunto, a proposito: Leonardo Sciascia. Tu lo sai perché ne abbiamo parlato ed è un tema che bussa alle tue spalle, quello della continuità tra lui e te in tema di analisi del potere, di letteratura e potere, di denuncia e potere. E di mafia. Sono passati tanti anni e tu oggi hai quella vita blindata che lui, per sua fortuna, non ebbe mai. Visse, lavorò e morì nella sua Racalmuto e il danno che fece ai don, agli zii, ai capi mafia, con i suoi “Candide”, con la sua “Civetta” e con i suoi “Todo Modo” furono danni grandi notificati non solo alla mafietta agreste ma al cuore nudo del potere che, in forza di una grande lingua, Sciascia seppe disossare e svelare in tutte le sue epifanie: da quella pretesca a quella parlamentare, da quella finanziaria a quella, scivolosa, del conformismo erto a sigillo del giustizialismo, quello che – per dirla con Emanuele Macaluso – faceva sovrapporre alla bilancia della giustizia i famosi “occhiali di Cavour”, ovvero, le manette.
Siccome l’essenza di ogni lingua è il lapsus, al momento potrei dirti che non so perché ho evocato Sciascia in questo mio colloquio muto con te ma siccome ho le corna lunghe del paraculo, faccio a paraculo, paraculo e mezzo e tutto quello che non ti ho ancora detto, te lo racconto adesso perché, in assenza di Sciascia, solo tu mi puoi dare una risposta. Ecco: come devo fare io che sono siciliano, io che ho le scuole, io che lavoro dove lavori anche tu, tra le patrie lettere della pubblicistica, come devo fare – appunto – adesso che ho un amico in carcere? Lo hanno preso in una retata più di tre mesi fa, a Catania. Accusa grave: concorso esterno in associazione mafiosa. Io so per certo che è vittima della mafia, non certo un complice e ho capito che, come minimo, lo terranno in vincoli fino alla celebrazione del processo, almeno due anni.

Cosa devo fare, dunque? Lui che come me e come te viene dal sud, lui che a differenza di me e di te non fa testimonianza, non è società civile, ma un imprenditore, uno che dà lavoro nella muratura, come si deve difendere se i mafiosi gli fanno saltare i cantieri se non paga e lo stato lo sbatte in cella se paga? Non faccio il nome per pudore perché dalle parti nostre, lo sai, finire sul giornale è vergogna. E non faccio il nome perché chi deve sapere sa, ci sono le intercettazioni appunto, e tra le trascrizioni, lo immagino, c’è tutta la Sicilia vista dalla parte degli infedeli. Magari per inaugurare un capitolo d’antropologia: il cappuccio del Venerdì Santo, la scannata del porco, la mangiata in campagna e quelle feste, insomma, per soli uomini, dove trionfa una panza tanta e la lingua ancestrale della madre terra. C’è la solita Sicilia, la solita Italia vorrei dire, la solita Gomorra per capirci, insomma, c’è quella camurria che ai politici e agli imprenditori concede solo due inesorabili appuntamenti: o la galera o il fallimento. Per gli imprenditori, e mi ripeto su queste colonne, anche tutte e due gli appuntamenti. Io, ovviamente, non posso fare niente. Non ho che da raccontare a te una storia capitata a questo mio amico, una storia che lo vede punta di un iceberg dove gli imprenditori, a meno che facciano solo testimonianza invece di lavorare e produrre ricchezza, vivono la stagione di una sola generazione quando va bene, oppure scapparsene via, come fece Simenon, per non sporcarsi con la propria stessa vita al prezzo della famosa padella e della relativa, altrettanto famosa, brace. O ammazzati dalla mafia o sbattuti in cella dallo stato. Due anni di carcere prima del processo, dopo, per la maggior parte di loro – e la maggior parte, sottolineo – l’assoluzione. Con due anni in meno di vita. Con le aziende chiuse. E con i disoccupati per strada, magari pronti a diventare estorsori.

Ecco, chiudiamola qui, le cose tipo coscienza civile, impegno, denuncia o chissà che non mi si confanno. Non ho la faccia adatta. Anche perché traffico col Venerdì Santo e la scannata del porco, ma tu, caro Roberto, tu che la capisci la lingua ancestrale e la mangiata in campagna, tu che però sai parlare a tutti quelli dalle gote imporporate di sdegno e pudico rossore, se proprio hai voglia di sporcare la tua stessa santità, fatti finalmente bestemmia: in una delle tue orazioni civili, fagli fare – a tutti loro, a tutti i giusti, a quelli che se la guardano da lontano, la vita vera – quello che si chiama un esame di coscienza e mettili di fronte a un aborto giuridico che solo noi italiani, resi pazzi dall’ipocrisia, abbiamo potuto adottare: concorso esterno in associazione mafiosa. Quanto meno c’è un cortocircuito della logica e della lingua: come si fa a concorrere esternamente? O si è mafiosi o non si è. Non si scappa. O si è associati o niente. Ma tu ci pensi, Roberto, tu che vai a mettere in discussione il concorso esterno? Viste le vendite, avresti sempre gli scrittori dalla tua parte. E, per dirla con Sciascia, saresti finalmente dalla parte degli infedeli. La parte che è propria della libertà e della eresia.

(di Pietrangelo Buttafuoco)

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