giovedì 20 gennaio 2011

Le anime di Futuro e Libertà. Bocchino, Granata e Briguglio: ma non vogliamo morire finiani


La storia di Italo Bocchino, per esempio, uno dei terribili tre con Fabio Granata e Carmelo Briguglio che da destra hanno mosso guerra a Silvio Berlusconi, sarà tutta da scrivere. E possiamo metterci la mano sul fuoco. Il vero obiettivo del quarantenne in maniche di camicia – possiamo dirlo? – sarà Gianfranco Fini. E non perché Bocchino sia un traditore. Ma per ovvia evoluzione: «Sono giovane e gioco in serie A». E per via di una biografia, quella da nemico numero uno dei berlusconiani, segnata da una serie di colpi messi a segno.

Se Fini, quest’estate, inseguito da una campagna stampa per la vicenda di Monte-Carlo (l’appartamento di proprietà di An finito ai Tulliani), non s’è dimesso, si deve a Bocchino che lo ha convinto a restare davanti a una videocamera per il messaggio web poi oggetto di uno speciale tv di Enrico Mentana. Lo ha costretto a restare presidente della Camera, dunque dentro un ruolo istituzionale, e il risultato è stato di non coinvolgerlo in quella realtà territoriale qual è ormai Fli.

Giusto un partito, ciò che Fini, forse più dello stesso Berlusconi rispetto al Pdl, non ha mai amato, se è vero che durante il suo eterno ruolo di leader del Msi prima e di An dopo ha sempre disatteso le regole di un confronto con la classe dirigente e con gli stessi militanti.

Il punto di forza di Bocchino rispetto a Fini, poi, è la freddezza riguardo all’obiettivo. La violenta battaglia di Bocchino contro Berlusconi, contraddistinta anche da capricci o da sconfinamenti politici nella cerchia di amici quali il ministro Mara Carfagna, amica dell’uno quanto dell’altro contendente, non lo ha deviato dalla traiettoria. Quella che per un moderato come Bocchino è ancora uno sbocco naturale, ovvero un partito per quella maggioranza di italiani non di sinistra, dove Berlusconi è ancora fondamentale. Di certo è così per Bocchino, ma non per Fini che nutre (ricambiato) una forte pregiudiziale verso il premier: il fatto personale.

Se è nota la battuta pronunciata a denti stretti da Fini nei corridoi di Montecitorio: «Io sono disposto a incontrare ancora Berlusconi ma con una cintura da kamikaze, salterò pure io ma finalmente salterà anche lui», non ancora conosciuta è la promessa che l’ex leader di An ha fatto alla sua donna, Elisabetta Tulliani, e che ha poi raccontato agli amici: «A Natale faremo festa togliendo Berlusconi da Palazzo Chigi».

Ecco, con tutta questa inusitata passione, un algido come Fini s’è di fatto retrocesso al ruolo di moschettiere, laddove Bocchino è sempre più un solido Richelieu pronto a concedere al vecchio re d’Arcore un ruolo nel frattempo che gli sottrae pezzi di reame. O magari riprendere un campione della cerchia elettorale in Campania come Alfredo Vito, mister 100 mila preferenze, radar infallibile in quella battuta di caccia qual è la verifica delle urne sempre necessaria malgrado i proclami dell’immacolata «politica nuova». Oppure ancora più attento alle sfumature dell’establishment, tanto è vero che Bocchino, a dispetto di un’antica esclusione della destra dai giri giusti, è ben introdotto nell’alta società. A differenza di Fini, stretto fra i suoceri a Val Cannuta, ridente quartiere della Roma periferica, Bocchino frequenta Paolo Mieli.

Se Bocchino è di destra senza alcuna ombra di dubbio, tanto di destra da non essere mai stato un «sociale» durante la sua militanza di missino, ben diverso è il percorso di Fabio Granata e di Carmelo Briguglio, i due siciliani che sono assurti a ruoli di primo piano in questa vicenda politico-culturale della guerra al berlusconismo; una vicenda pregna di radici intellettuali così di sinistra da suscitare sorpresa solo in chi non conosce la storia di quel mondo. Briguglio, formatosi all’Ars, ovvero il parlamento regionale siciliano, già componente dell’area di Domenico Mennitti, Proposta, oggi al Copasir è diventato l’osso duro di ogni argomento sgranocchiato nella difficile digestione della polemica contro Berlusconi. Lui stesso, arrivato da Furci Siculo, in provincia di Messina, con la sua figura da instancabile dichiaratore alle agenzie di stampa, nonché star di SkyTg24, si mostra sodale con il suo presidente, con Massimo D’Alema in questo caso. Ma come dice Antonio Pennacchi, premio Strega per Canale Mussolini, «la rottura dei finiani con Berlusconi non è una deviazione rispetto a un’ideologia, anzi, sono perfettamente in linea con l’asse ereditario», e Briguglio e Granata, a differenza dello stesso Fini, che è stato sempre fuori dall’asse sociale e popolare, non stanno contraddicendo una sola sillaba rispetto all’alfabeto utilizzato negli anni della loro militanza di missini.

A differenza di Fini, un capo movimentista come Granata non fa che proseguire nel solco di quella che fu la battaglia della Nuova destra (tanto è vero che al suo fianco, sebbene si sia dichiarato distante e non interessato Marco Tarchi, fondatore della Nuova destra, ci sono però Monica Centanni e Peppe Nanni, animatori del Manifesto di ottobre) su ecologia, legalità, politica estera non succube dell’atlantismo.

Già assessore alla Cultura del governo siciliano, vice di Totò Cuffaro, Granata ebbe modo di farsi odiare dagli ambienti mefitici dell’isola per i suoi interventi contro la devastazione del paesaggio, a partire dalle pale eoliche fino ad arrivare agli scavi indiscriminati sui siti archeologici e nella Val di Noto promossi dalle società americane. Ebbe al suo fianco, oltre al presidente Cuffaro che lo sostenne, i grossi nomi della società civile: Giulia Maria Crespi e Andrea Camilleri.

Impegnato nella battaglia contro la mafia, Granata ha portato dentro il nuovo Fini quei temi che l’ex leader di An doveva farsi spiegare da Maurizio Gasparri. Come quando, in un convegno del Fronte della gioventù a Siracusa, giusto Gasparri chiamò Paolo Borsellino ad aprire i lavori. E se adesso il presidente dei senatori del Pdl è stato tolto dalla fotografia, verità storica impone di dire che quella della guerra ai mafiosi era il tratto distintivo di quel Msi, quello che ai funerali dell’eroe insegnò a tutta Italia a gridare: «Meglio vivere un giorno da Borsellino che cento da Ciancimino».

Che Granata sia diventato oggi un eroe della sinistra, omaggiato perfino a Cannes dai cineasti, com’è successo alla proiezione dei Malavoglia di Pasquale Scimeca, non è solo un episodio della interessante metamorfosi degli ex missini, ma della incapacità della sinistra di vigilare i propri stessi confini. Non hanno saputo fare neppure quel lavoro che, al contrario, ha ben potuto costruire la destra dei «sociali». Ed è perciò che ha dovuto fare la destra ciò che la stessa sinistra non ha saputo approntare nel ventennio berlusconiano, inventare un’opposizione.

(di Pietrangelo Buttafuoco)

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