lunedì 21 febbraio 2011

L’amazzonemachia


Sul finire delle orge, quando, nello svaporare delle nausee l’anima vaga alla deriva, ogni uomo già vede i più meritati castighi. Succede quando sente la notte diventargli pece, morsicata dai rimorsi ma nessuno, anche tra i più lazzaroni, saprebbe immaginare un baratro, un guaio, una sventura simile a quella che sta per capitare a Silvio Berlusconi. Il noto peccatore, infatti, che non vogliamo credere colpevole di consumata sfrenatezza, non fosse altro per tutte le ragazze vestite da Babbette di Natale, poco appropriate perciò agli intrecci lacoontici, sta per affrontare quello che per ogni maschio è un incubo: ritrovarsi a fare i conti con tutte le donne della propria vita.

Donne. Tutte le donne. Che è come dire vedere sfilare tutte le femmine con cui si ha avuto a che fare, tutte in un colpo. E tutte insieme, alleate, come nelle “Ragazze di San Frediano”, il libro di Vasco Pratolini dove c’è Bob, il rubacuori di quartiere, che proprio quando pensa di averla fatta franca nel far credere a cinque ragazze contemporaneamente di essere innamorato e fidanzato esclusivo di ognuna, una volta scoperto da tutte loro, da tutte quante viene messo nel sacco.

Donne. Tutte le donne. E non al modo struggente dell’“Uomo che amava le donne”, nella sceneggiatura di François Truffaut, dove l’uomo, adagiato sul catafalco, riposa circondato dalla foresta di gambe di tutte le femmine avute e godute. Ognuna getta un pugno di terra sulla sua bara, un tumulo che per ciascuna non è una pietra messa sopra a una storia ma un modo per rimboccare le coperte a quel seduttore elargitore di emozioni giunto al suo meritato eterno riposo. Donne, quindi. E neppure alla maniera, eroica e superiore di un altro straordinario sciupafemmine, Drieu La Rochelle, suicida sulle pagine ardenti dei Veda. E’ “l’uomo coperto di donne”. Al suo funerale accorrono velate le dame, tutte sue innamorate, di una Parigi la cui pioggia è un pianto e un commiato.

Donne. Solo donne. E solo da morto un uomo può sopportare di incontrare le proprie storie d’amore e riceverle tutte insieme. Un mio amico, trionfante nel tabbuto, diede uno spettacolo magnifico di sé quando, una volta spalancata dalla morte la porta di casa sua, si ritrovò nella stessa scena di Truffaut ma non con l’aspersione della terra, piuttosto con uno svelamento o, meglio: un a-letheia. Fu il dis-velamento che, in un pomeriggio leccese, lo fece spoglia tra le spogliate di ogni segreto. Chi prendendogli una mano, chi l’altra. Chi baciandogli la fronte, chi, sognante sul suo petto e chi, consolando un’altra per farsi consolare, in una confusione di signore che lo pianse contendendosi con estremo riguardo la salma fattasi sorniona a furia di baci e pianti, al mio amico capitò il trionfo dell’uomo molto amato e se ne andò al camposanto sotto la lapide dell’unico coro: “Amore mio, grandissimo stronzo!”. Un amore che non somiglia affatto al comune amore è quello che descrive il destino di un uomo disperso tra le donne e perciò forse resta stronzo, fatalmente stronzo, ma capace di grandissimo amore.

Donne e solo donne. E donne, amazzoni, si diventa. E cosa ne possono capire di Tantra, di Lussuria e di amazzonismo quelle rubizze bonarie Babbette di Natale raccontate da “Chi” alla festa del Noto Peccatore? Hanno lo stile ordinario che è perfetto per le reclute in libera uscita ma inadatte a chi, per portafoglio, e per charme, potrebbe consentirsi partouze con top model. Una scena, quella sì, da serata elegante, tipo “Eyes wide shut” che se solo il Noto Peccatore l’avesse fatta una cosa così, con stangone che stanno a calcagno alto senza bisogno di stiletto, pure il Santo Padre non avrebbe avuto da ridire. Figurarsi Gustavo Zagrebelsky.

Sono molto pagnottine queste povere ragazze, provengono da territori esteticamente disagiati e anche quando hanno una Nicole Minetti a far da esempio, questa stessa, pur di lingua madre inglese, intervistata dalla Cnn rivela un accento della periferia est di Londra. Come dire: ’nnamo, ’ffamo, ’ddimo. E’ il dettaglio rivelatore che traccia il solco e c’è poi l’estetica che lo smutanda, ovvio, ma la Minetti per fortuna veleggia oltre gli obblighi del bovarismo. Gioca per sé, è già amazzone, sta tenendo botta malgrado la minaccia di una condanna, non morale, bensì carceraria, è una femmina fuoriclasse, coriacea e inesorabile, ma se si sono aperte le tane e stanno uscendo tutte quante, tutte improbabili, la guerra è alle porte.

Ciascuna, infatti, è pronta a reclamare il suo di un uomo i cui pezzi, a metterli insieme, non riuscirebbero a ricomporre un destino di bravo bigamo, di un saggio trigamo o di un generoso poligamo, ma di un batrace la cui arte di enfiar l’ego ha prodotto solo una spaventosa esplosione. Un vero guaio, la disintegrazione di un’esistenza che – nel dettaglio, nel caso specifico del Noto Peccatore – è anche pubblica. Roba da far proprio il grido di Rambaldo Melandri, l’architetto di “Amici miei” e, con lui, dire sgomenti: “Ma perché non siamo nati tutti froci?”.

E sono amazzoni diventate erinni, nemiche in luogo di amiche, signore che accuratamente sono state tenute lontane l’una dall’altra, a due a due, a dieci a dieci ma anche a tre a tre. Come nella regola di Milan Kundera. Quella ove si prescrive che un uomo debba avere tre donne, per non capitolare innamorandosi di una o, soccombere alla decisione, dovendo scegliere tra due. Nell’affollarsi di femmine la vita di un uomo si moltiplica nel racconto di ognuna. Uno, nessuno e centomila deriva da qui, non da chissà quale incursione esistenzialista, deriva dal qui e ora che è l’urgenza di un uomo di esplorare se stesso specchiandosi in tutte le sue donne: fino a morirne. L’uscita di scena auspicabile. E far combaciare i pezzi di quest’uomo non sono mai passeggiate, ma danni fatti sopra altri danni da fare.

E’ l’amazzonemachia, questa battaglia di femmine, quella che sta per portarselo via il Noto Peccatore. E di amazzonemachia trattasi se le inquirenti che lo tallonano femmine sono. Così le giudicanti, femmine appunto. E gli avvocati, una delle quali di nome Ippolita, sono altre femmine scese in torneo tra altre femmine. E le spettatrici, poi, solo femmine. E così le piazze, piene di femmine. E le testimoni infine, femmine, seppure bonarie, vestite da Babbette di Natale e non discese dalla tradizione di quelle sante e solenni scopate, sono femmine radunate dal raccogliticcio di serate sfumate su per il camino dell’esofago col Sanbitter e non di quelle che sanno strofinare il sommo della pancia con le mammelline ardenti. Magari lui, il Noto Peccatore, è uno che mangia per frutta la rosea fragola di una poppa, ma non è nemesi, come ha voluto rimpinzarsi di così laborioso concetto il giornale cattolico Avvenire. Il Noto Peccatore è solo un martire, magari di se stesso per non aver frequentato top model ma solo sciacquette, ed è solo un’amazzonemachia questa sua sventura laddove il batrace, ranocchio incolpevole, nel gracidar dell’ego ha enfiarsi una sorta di quadruplice pappagorgia e non il sommo dello stomaco. Fino ad esplodere.

Donne. E solo donne. Tutte accorse in questa vicenda italiana che nessun sceneggiatore avrebbe saputo immaginare. Donne che nessuna canzone del rimorso (nessuna gratitudine) potrà far recedere dal proposito di cucinarlo, il ranocchio, fino al punto di lasciarci presagire di vederlo, il ranocchio, in compagnia dei suoi fedelissimi nell’atto di tendere la mano come mendichi, bisognosi di scampo in questa storiaccia dove le donne, amazzoni, fanno colare giù dai loro occhioni feroci, rimproveri bituminosi e una sentenza già scritta: “E’ finita”.

Se non peggio di una secca sentenza. L’oscuro e ricolmo grembo terrestre si è da troppo tempo ritratto per muovere adesso scacco al ranocchio. E questo è il guaio. Se non ci fosse il rischio di essere individuati quali equivoci e raffigurarsi così complici potremmo cavarcela adesso con una lettura di Johann Jakob Bachofen, precisamente “Le Madri e la virilità olimpica”, quella storia segreta dell’antico mondo mediterraneo dove l’amazzonismo è analizzato in connessione al sentimento dell’onta subita. E’ la lesione del diritto della donna a suscitare la sua resistenza e ad armare la sua mano, dapprima per sua difesa, poi per una vendetta cruenta. Là dove l’abuso dell’uomo l’ha degradata, la femmina sente dapprima il desiderio di un’esistenza più sicura e più pura. Ecco un assaggio: “Il sentimento dell’onta subita e la forza della disperazione destano poi in lei la resistenza armata e la trasformano in una di quelle figure guerriere che, mentre sembrano esulare dal mondo di una femminilità normale, pure nascono dal bisogno di realizzare proprio questa femminilità su di un piano più alto”.

L’amazzonemachia ha preso possesso della scena. Una pm, le giudicesse, le testimoni, trasformate in “parte lesa”, la piazza convocata a far da coro, le avvocatesse strette intorno al fragile batrace di siffatta amazzonemachia chiamate a officiare una liturgia tutta da scrivere perché un affaraccio così non è contemplato in letteratura. Né in quella giuridica né, tantomeno, in quella del dispettoso groviglio del contrappasso fatto favola. Il Noto Peccatore cui non perdoniamo solo le crostine scelte, le Babbette di Natale, avendo infatti denari per procurarsi il meglio, è uno che ha sempre vissuto sulla corda del suo spirito e non, come un ragno, sul filo della propria bava, e merita perciò la pietas che un martire si merita. Certo, colpa sua se non ha mai letto Guido De Giorgio, dovrebbe attardarsi sulle sue pagine e sulla rivista Heliodromos, ne ricaverebbe un’assai edificante illuminazione quando il filosofo, il cui nome segreto è Havismat, della donna così scrive: “La donna non è una ‘cosa’, ma è un animale e, quel che è peggio: ora sta diventando un burattino, perché all’uomo è piaciuto così. L’avversione per la donna, con quella benedetta mania di ‘volere’, è una ossessione moderna”. E poi: “La donna è, di fronte all’uomo volgare, un essere la cui superiorità è palese in una zona in cui l’uomo è poverissimo: libertà – seppure senza luce e senza coscienza, come nei bimbi –, assenza di pregiudizi, nettezza miracolosa e sorriso in quel che l’uomo chiama ‘male’; non affermazione, ma scrollata di spalle là dove l’uomo borghesemente edifica; essere capace di tutto, pervia a tutto, ricettacolo di tutto, senza fondo, simbolo della matrice cosmica, insaturabile”.

La donna, tutta la donna, anche l’amazzone, non è come l’uomo l’ha costruita. La donna, di suo, ha quella miracolosa natura che è la danza: il ritmo dell’anca, il canto, il sorriso che le torna in volto nell’amplesso, quel disegno di virgola fatto in cielo che l’uomo non ha tra le lenzuola sfatte ma che la donna possiede. La donna che nuota e si svuota nel cosmo è l’indicibile, la donna ridotta a cosa, invece, spinta nella vita, senza il velo, prostituita in vetrina è posta là dove non dovrebbe essere: “Nel letamaio”.

Ma la donna torna femmina. La donna è dunque femmina e ogni fissazione del moderno, su di lei, si ribalta nell’esatto contrario. Come nell’essersi adesso vestita delle armature dell’amazzonemachia. A che servirebbe la forza se non ne abusassero? Scrive ancora De Giorgio che la dice lunga e meglio di ogni Roberta De Monticelli: “I popoli anglosassoni hanno voluto ciò: e da noi, con quell’ottusità che ci spinge verso la spazzatura, si sta seguendo l’esempio di quei bestioni. Un’ultima osservazione”, scrive ancora De Giorgio, “la danza è unica (danza orientale: danza del ventre): l’Europa ha distrutto anche questo e ha introdotto la coppia. Se si seguisse il filo di questa constatazione si andrebbe molto lontano nella visione del pervertimento occidentale. Forse fu per questo che la famosa “danzatrice del ventre”, assai imbarazzata, se ne scappò via dal bunga bunga?

La donna è tutte le femmine. Capelli biondi da accarezzare, labbra rosse sulle quali morire. E sempre nel numero di dieci. E volentieri sforare il numero di dieci. Ed è per questo che un uomo fa la cerca fino a disintegrarsi nell’incubo: ritrovarsele tutte quante, in un solo colpo, davanti. Dopo averle godute, amate, cercate e collezionate. Ognuna cercando un pezzo di quel maschio ridotto a pezzi. Ed è questa la fine delle fini, non quell’immagine biblica di Adamo ed Eva nudi, con le mani incrociate sulle vergogne a reclamare pudore. Nel cosmo l’uomo è solo. E senza neppure lo scudo di una madre. E l’uomo, solitario, appare di propria forza solo negli effetti che da lui si generano, nel degradare da potenza a sfinimento.

Certo, in tutto questo non ha più avuto seguito quello che il Noto Peccatore, in una delle sue apparizioni brezneviane, aveva accennato: “Ho una relazione stabile con una signora che non consentirebbe certe cose di cui vengo accusato”. Non se n’è avuta più notizia. Ed è come fecondare la propria distruzione, ed è questa la fine di ogni cosa: giustificarsi, trovare uno straccio di giustificazione. Con tutte quelle Babbette di Natale, poi. E neppure sul finire delle orge. Ma sempre ai margini di un vassoio. Generoso di ottimo Sanbitter. E fare i conti con tutte le donne della propria vita, proprio una dura vita.

(di Pietrangelo Buttafuoco)

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