
Per  molti economisti, una delle cause della crisi sistemica globale cui  attualmente assistiamo, dipende dal crollo del sistema di Bretton Woods  fondato sul dollaro americano come perno del sistema monetario  internazionale, e più particolarmente da ciò che l’economista cinese Xu  Xiaonian ha definito «sovraemissione di moneta della Riserva Federale».  Édouard Husson e Norman Palma ritengono, ad esempio, che la crisi sia la  conseguenza diretta dell’«esorbitante privilegio» che permette agli  Stati Uniti di «acquistare i beni e i servizi del mondo con della  semplice carta». In ogni caso, il fatto è che le tensioni all’interno  del sistema monetario internazionale costituiscono oggi una crisi  all’interno della crisi, e che una bancarotta di questo sistema  implicherebbe obbligatoriamente quella del dollaro.
Come è noto, il  dollaro ha uno statuto particolare tra tutte le altre monete. Creato nel  1785, costituisce la moneta nazionale degli Stati Uniti e dei loro  territori d’oltremare (come Portorico), ma è al contempo la principale  moneta di riserva, la moneta più utilizzata al mondo per le transazioni  commerciali, la principale divisa trattata sul mercato dei cambi, la  divisa che possiede i mercati finanziari più importanti e, dal dicembre  2006, la seconda moneta dietro l’euro in termini di moneta di  circolazione. Nel 1985, più dell’80% degli scambi mondiali era già  formulato in dollari. Questa percentuale è salita all’89% nel 2004. Nel  2007, il dollaro contava in misura del 64% nelle riserve delle banche  centrali nel mondo (il 72% nel 2002). Sappiamo altresì che la  maggioranza dei paesi paga in dollari il petrolio greggio acquistato dai  paesi produttori (i famosi «petrodollari»), essendo le due principali  borse petrolifere del mondo, quelle di Londra e di New York, ugualmente  dominate dalle imprese americane.
Per comprendere come siamo arrivati a questo punto, si impone qualche elementare cenno storico.
Fino  al 1810, il sistema monetario in uso nei paesi occidentali era fondato  sul bimetallismo, i cui talloni erano l’oro e l’argento. All’epoca,  l’Inghilterra scelse il monometallismo sotto le specie del tallone-oro.  La maggior parte dei paesi fece altrettanto tra il 1820 e il 1876. Nel  1922, fu allora istituito, con gli accordi di Genova, il sistema  monetario detto del Gold Exchange Standard – sistema poi sospeso nel  1933 da Franklin D. Roosevelt, il quale voleva svalutare il dollaro, e  reintrodotto nel 1944 con gli accordi di Bretton Woods.
Il sistema di  Bretton Woods si basava su due pilastri principali: un sistema di cambi  fissi tra le monete e, soprattutto, il riconoscimento del dollaro come  moneta di riserva internazionale, restando quest’ultima convertibile in  oro (al tasso fisso di 35 dollari l’oncia di oro fino), ma soltanto nel  quadro degli scambi tra banche centrali. In effetti, le istituzioni  create a partire dal 1944 consacravano il rapporto di forze economiche e  politiche all’indomani della Seconda Guerra mondiale: il nuovo dominio  degli Stati Uniti, l’unico paese ad essersi arricchito durante questo  periodo, il crollo dell’Europa, l’inesistenza politica dell’Asia.
Ma  il 15 agosto 1971, colpo di scena: il presidente Richard Nixon decideva  la non convertibilità del dollaro rispetto all’oro, in seguito  all’accumularsi, durante gli anni Sessanta, di deficit americani  ulteriormente accresciuti dalle spese legate alla guerra del Vietnam,  che avevano provocato fortissime pressioni sulla moneta americana.  Questa decisione in forma di diktat – fu infatti presa dagli Stati Uniti  senza consultare nessuno dei suoi partners – si spiegava allora con il  timore dell’amministrazione americana di vedere certi paesi esigere la  conversione in oro delle loro eccedenze in dollari.
Segnando la fine  del sistema di Bretton Woods, la non convertibilità del dollaro e la sua  trasformazione in semplice dollaro-carta si tradussero subito in una  serie di tensioni che sfociarono, nel dicembre 1971, negli «accordi di  Washington» - detti anche «accordi dello Smithsonian Institute» - i  quali prevedevano delle parità centrali e dei margini di fluttuazione  tra le monete non eccedenti il 2,25%. Fu in quest’epoca che il  segretario americano al Tesoro, John Connally, lanciò la sua celebre  apostrofe: «Il dollaro è ora la nostra divisa e il vostro problema»  («The dollar is our currency and your problem»). Tuttavia, sin dal marzo  1973, il «gruppo dei Dieci» (la CEE, la Svezia, gli Stati Uniti, il  Canada e il Giappone), decideva l’abbandono della fissità dei tassi di  cambio delle diverse monete rispetto al dollaro, il che permetteva alle  banche centrali degli altri paesi di smettere di acquistare dollari per  mantenere la sua parità. Nasceva così un nuovo sistema, detto dei «cambi  fluttuanti», che sarà formalmente ratificato nel gennaio 1976 con gli  accordi della Giamaica.
Gli squilibri allora proseguiranno. Sin dagli  anni Ottanta, il dollaro comincerà tendenzialmente a deprezzarsi. Si  assisterà a un forte aumento dei tassi di interesse a lungo termine,  poi, nell’ottobre 1987, al doppio crac dei mercati obbligazionari e dei  mercati azionari. Questo deprezzamento del dollaro si è addirittura  accelerato in seguito alla crisi ipotecaria che ha scatenato l’attuale  crisi. Mentre nel 2002 un euro valeva ancora solo 86 centesimi di  dollaro, lo scorso 2 giugno ha raggiunto la quotazione di 1,43 dollari –  il record storico di un euro per 1,6 dollari essendo stato già  raggiunto il 15 luglio 2008. questo relativo deprezzamento del dollaro  penalizza evidentemente le esportazioni europee, i cui prodotti  diventano sempre più cari per gli americani: si stima che la soglia di  vulnerabilità per le industrie europee si situi intorno a un euro per  1,24-1,35 dollari. Se il dollaro continuerà a deprezzarsi, le  possibilità per gli europei di esportare verso gli Stati Uniti  diminuiranno ulteriormente e la situazione diventerà rapidamente  insostenibile.
È evidente che il paese che emette la moneta di  riserva internazionale dispone di un formidabile strumento per  finanziare la sua economia e il suo debito pubblico, imporre le sue  condizioni finanziarie al resto del mondo e sciogliersi da vincoli  esterni. A cosa serve preoccuparsi dei propri deficit con l’estero  quando è possibile fabbricare dollari per pagare i propri fornitori?  Essendo scollegato dall’oro, il dollaro poteva moltiplicarsi senza un  immediato effetto automatico sul suo valore o sull’inflazione, il che  avrebbe permesso agli americani di far finanziare all’infinito i loro  crescenti deficit commerciali dal resto del mondo, in particolare  grazie alla emissione di Buoni del Tesoro. Di fatto, la massiccia  domanda di dollari ha permesso a lungo agli americani di accumulare  deficit commerciali e di bilancio esorbitanti senza soffrire del  negativo impatto economico dei debiti che tali squilibri avrebbero  normalmente dovuto provocare. Il risultato è che gli Stati Uniti hanno  potuto vivere al di sopra dei loro mezzi grazie ai capitali esteri e  che, da almeno trent’anni, l’economia americana vive alle spalle del  resto del mondo. Essa fabbrica una falsa crescita, che provoca il  regolare aumento degli indici di borsa per il solo fatto  dell’accumularsi del denaro nei portafogli di investimento, ma che non  rinvia più allo sviluppo economico reale. La macchina gira generando un  debito che cresce meccanicamente.
In questo sistema, in cui la  variazione dei corsi del dollaro si ripercuote immediatamente  sull’insieme dell’economia mondiale, i differenti paesi del mondo sono  costretti ad acquistare i biglietti verdi emessi da Washington per  evitare ogni maggiore squilibrio, il che permette agli americani di  accumulare i debiti in totale impunità, attraendo da soli l’80% del  risparmio mondiale. «Quando vuole attirare i capitali, come negli anni  Ottanta, [l’America] alza i tassi di interesse e fa salire la sua  moneta; quando punta sui paesi dai salari bassi, la debolezza dei prezzi  dei loro prodotti compensa largamente l’aumento dei prezzi delle  derrate importate, legato alle differenze di cambio. Per l’America è il  poker vincente. I deficit si accumulano, ma a pagare sono i paesi  emergenti e il Giappone».
Ma c’è comunque un limite, che oggi è  stato raggiunto. Infatti, il deficit pubblico americano è ormai fuori  controllo, con una esplosione delle uscite (+ 41% in un anno) e un  crollo delle entrate fiscali (- 28%). Il deficit federale ha raggiunto  quasi 200 miliardi di dollari per il solo mese di marzo 2009, ossia  circa la metà del deficit totale registrato nel 2008. Ricordiamo che,  nel 1984, il deficit di bilancio americano era ancora solo di 184  miliardi di dollari. L’anno prossimo, potrebbe raggiungere quasi 3500  miliardi di dollari, ossia più del 20% del PNL americano! Quanto al  debito pubblico, supera attualmente i 10.000 miliardi di dollari.
Tenuto  conto di tutti i fattori, l’indebitamento totale degli Stati Uniti  raggiunge ora il 340% del loro prodotto interno lordo (PIL), con il  debito privato che rappresenta da solo il 170% del PIL! Se riconduciamo  questo debito privato americano alla produzione effettiva di beni  primari e secondari, gli americani sono indebitati nella misura di circa  sei anni della loro produzione industriale e agricola. Il debito totale  equivale, invece, a dodici anni di produzione. Cifre allucinanti, che  pongono un problema evidente agli altri paesi del mondo. E in primo  luogo alla Cina.
L’insieme delle riserve cinesi è oggi valutato tra i  2000 e i 2300 miliardi di dollari, di cui circa 1400 miliardi (quasi il  70%) espresse in dollari americani (900 miliardi di Buoni del Tesoro,  circa 550 miliardi di buoni diversi, quasi 200 miliardi di attivi  privati e 40 miliardi di depositi a breve termine), il resto essendo  costituito di attivi espressi principalmente in euro. Il Giappone e  altri paesi possiedono anch’essi importanti riserve formulate in  dollari, accumulate come contropartita della loro penetrazione sul  mercato interno americano. Con più di 550 miliardi di dollari, la zona  euro viene al terzo posto – dietro la Cina e il Giappone, ma davanti  alla Russia e ai paesi del Golfo – dei maggiori detentori di riserve in  dollari.
Sino a poco tempo addietro, esisteva un tacito accordo tra  Washington e Pechino, in base al quale la Cina continuava a finanziare  il debito americano, reinvestendo nel sistema i suoi eccedenti  commerciali sotto forma di acquisto di Buoni del Tesoro, mentre gli  americani, in cambio, aprivano il loro mercato interno ai prodotti  cinesi. La Cina si trovava così nella situazione della corda che  sostiene l’impiccato: in teoria, aveva in pugno l’economia americana, ma  se ne approfittava per farla crollare, nuoceva nello stesso tempo ai  propri interressi. E se avesse deciso di sbarazzarsi brutalmente dei  suoi dollari contro un’altra moneta ritenuta più sicura, un crollo del  dollaro avrebbe tolto a quest’ultimo ogni valore di fronte ai beni che  la Cina avrebbe deciso di acquistare in cambio. Esistevano anche rischi  di ritorsione, ad esempio il congelamento da parte degli americani dei  patrimoni cinesi in dollari.
Orbene, questo tacito accordo tra la  Cina e gli Stati Uniti sembra sul punto di rompersi. Il messaggio che  Pechino ha fatto passare ai dirigenti del G20, lo scorso 24 marzo, alla  vigilia del vertice di Londra, era chiaro. Per bocca del governatore  della sua Banca centrale, Zhou Xiaochuan, la Cina ha dichiarato che «lo  scoppio della crisi e il suo straripamento nel mondo intero riflettono  le vulnerabilità inerenti e i rischi sistemici del sistema monetario  internazionale» di cui il dollaro è il perno. I cinesi domandano dunque  esplicitamente la sostituzione del dollaro come moneta di riferimento  internazionale con una «moneta di riferimento sovra-sovrana», capace di  «restare stabile sul lungo termine» e che sarebbe «scollegata dalle  singole nazioni», detto chiaramente una divisa fondata su un «paniere»  comprendente lo yuan, l’euro, lo yen, il rublo e il real, oltre al  dollaro, cosa di cui, beninteso, gli Stati Uniti non vogliono sentir  parlare.
Con questa dichiarazione, che ha prodotto l’effetto di una  bomba, la Cina mirava in primo luogo a impedire ogni messa in  discussione della propria moneta, notoriamente sottovalutata. Essa  intendeva poi mettere in guardia contro una forte svalutazione del  dollaro, che svaluterebbe in proporzione le sue enormi riserve, ma  soprattutto prendere posizione per un totale rifacimento del sistema  finanziario mondiale implicante, oltre a una nuova moneta, una  ridistribuzione dei ruoli in seno a grandi organismi come il Fondo  monetario internazionale (FMI) e la Banca mondiale, dove gli asiatici  non hanno mai potuto ottenere delle responsabilità proporzionali alla  loro potenza economica né al loro peso demografico (la Cina detiene solo  il 3,6% dei diritti di voto in seno al FMI, mentre gli Stati Uniti se  ne arrogano il 16,8%), così come il trasferimento dell’attuale potere di  creazione monetaria dalla Riserva federale (FED) verso un organismo  internazionale alla gestione del quale essa sarebbe associata.
I  cinesi evocano anche la possibilità di ricorrere ai Diritti speciali di  prelievo (DSP), creati nel 1969 per tentare di limitare i privilegi del  dollaro e il cui valore è determinato appunto a partire da un «paniere»  di monete (il dollaro, la lira, lo yen e l’euro), per farne una vera  moneta di riserva, proposta già fatta dalla Francia nel 1964, ma senza  alcun successo. L’utilizzazione dei DSP, che oggi sono solo una semplice  unità di conto per le operazioni del FMI, ha infatti sempre cozzato  contro l’ostilità degli americani.
Sembra, peraltro, che la Cina  cerchi ora di sbarazzarsi con tutti i mezzi di quegli attivi «tossici»  che sono divenuti per lei i Buoni del Tesoro americani, scambiandoli  contro degli attivi di cui ha bisogno a lungo termine e che sono oggi a  prezzi storicamente bassi. Dalla fine del 2008, Pechino si è così  alleggerita ogni mese da 50 a 100 miliardi dei suoi attivi espressi in  dollari, ossia un totale di circa 600 miliardi. La Cina acquista solo un  piccolo numero di Buoni del Tesoro, in generale buoni a breve termine.  Si ritiene che, dalla fine del 2008, abbia rifiutato di acquistare tra  500 e 1000 miliardi di Buoni del Tesoro che l’amministrazione americana  cerca di piazzare sui mercati internazionali per finanziare i suoi  deficit pubblici. Poiché la Cina non risponde più ai bisogni di  finanziamento degli Stati Uniti, questi ultimi rischiano, di  conseguenza, di emettere troppa cartamoneta per evitare la bancarotta,  infilandosi così nella mortale spirale dell’inflazione. Lo scorso 18  marzo, la Riserva Federale ha d’altronde già deciso di riacquistare 300  miliardi di dollari di Buoni del Tesoro, il che rilancerà  immancabilmente l’inflazione.
La più recente attualità ha visto  sommarsi i segni che confermano le intenzioni cinesi. Così, nel corso di  questi ultimi mesi, la Corea del Sud, la Malaysia, l’Indonesia, la  Bielorussia, l’Argentina e il Brasile hanno firmato con Pechino un  accordo di swap che permette alle loro imprese di non utilizzare più il  dollaro americano per i loro scambi commerciali bilaterali. D’altronde,  la Cina ormai autorizza i paesi in deficit commerciale con lei a  produrre obbligazioni in yuan (e non dollari) che sottoscriverà.  Nell’aprile 2009, abbiamo appreso che gli scambi cino-americani erano  calati del 6,8% in un anno, mentre gli investimenti americani in Cina  diminuivano del 19,4%. Alcuni giorni più tardi, la Banca centrale cinese  annunciava di aver quasi raddoppiato le sue riserve in oro (adesso ne  detiene 1054 tonnellate).
Parallelamente, certi paesi produttori di  petrolio hanno intenzione di sostituire i loro petro-dollari con  petro-euro. Dal 2007, i grandi raffinatori petroliferi giapponesi hanno  cominciato a pagare il petrolio greggio iraniano in yen. Circa il 65%  delle esportazioni petrolifere dell’Iran sono ormai fatte in euro e  l’altro 20% in yen. Lo scorso aprile, il presidente russo Dmitri  Medvedev si è ugualmente pronunciato per la creazione di una nuova  «moneta di riserva mondiale e sovranazionale», eventualmente posta sotto  l’egida del FMI. All’inizio di febbraio, ol ministro russo delle  Finanze, Alerei Koudrine, aveva già dichiarato che «la creazione di una  unità monetaria internazionale è una iniziativa audace che necessita di  una visione e un coraggio senza pari […] A breve termine, la comunità  internazionale, in particolare il FMI, dovrebbe almeno riconoscere il  problema e fronteggiare i rischi derivanti dal sistema attuale». Dal  canto loro, le banche centrali di Corea del Sud, Taiwan, Russia, Siria e  Italia hanno annunciato dei piani per ridurre i loro patrimoni in  dollari. In poche parole, la politica della Banca centrale americana (la  FED) è sempre più contestata. Ieri, tutti volevano acquistare dollari,  oggi tutti vogliono sbarazzarsene.
«Il destino del dollaro è nelle  mani del Giappone, della Cina e dei paesi del Golfo», sosteneva poco  tempo fa Jean-Pierre Chevènement[5]. In effetti, è essenzialmente nelle  mani della Cina. I russi sono infatti posizionati meno bene per  contestare l’egemonia del dollaro, perché la loro economia e le loro  strutture finanziarie non sono ancora sufficientemente solide. Quanto  all’euro, se rappresenta oggi il 26% delle riserve monetarie mondiali,  contro il 20% di dieci anni fa, la sua posizione in quanto moneta  internazionale richiede ancora di essere consolidata. Al contrario, se  la Cina uscisse dal sistema del dollaro, gli Stati Uniti si  ritroverebbero istantaneamente in stato di insolvenza.
Su tale  questione si constata una profonda divisione in seno al G20. gli  americani e gli inglesi, seguiti dal Giappone, tentano, beninteso, di  preservare a ogni costo lo statu quo, i cinesi, i russi, gli indiani, i  brasiliani, gli argentini e i sudafricani militano apertamente per una  riforma in profondità del sistema finanziario internazionale, mentre gli  europei, come al solito, sono incapaci di decidere.
Nell’immediato,  gli Stati Uniti, a causa della crisi attuale, dovranno collocare sui  mercati finanziari tra 1700 e 1900 miliardi di Buoni del Tesoro. Chi li  comprerà? Più precisamente: quanti Buoni del Tesoro gli americani  dovranno monetizzare, facendoli riacquistare dalla Riserva federale, e  qual è la parte che i cinesi e i paesi del G20 acconsentiranno ad  acquistare? Lo sapremo presto. Non è d’altra parte a escluso che si  assista alla creazione di nuove monete regionali da parte dei detentori  di dollari non cinesi. La moltiplicazione delle monete di riserva  potrebbe far nascere vere regioni commerciali. Un altro  «scenario-catastrofista» è quello di un ribasso del dollaro al di qua di  una certa soglia, il che obbligherebbe tutte le banche centrali a  smettere di sostenere la moneta americana.
George Soros diceva,  nella primavera del 2008: «Il mondo corre verso la fine dell’era del  dollaro». Il problema è che è fin troppo evidente che gli Stati Uniti  non rinunceranno spontaneamente ai privilegi della loro moneta. Al  contrario, faranno di tutto per continuare a prendere in prestito  dall’estero, perché senza questa capacità di prestito la loro economia  crollerebbe (non dimentichiamo che essi consumano ogni anno 800 miliardi  di dollari di più rispetto a quanto produce la loro ricchezza  nazionale). Il problema è dunque di sapere se i cinesi andranno fino  allo scontro. È una delle grandi incognite dei prossimi anni.
(di Alain de Benoist)