giovedì 31 maggio 2012

Strauss-Kahn e Plinio Corrêa de Oliveira


I quotidiani di mezza Europa riprendono da «Le Monde» - che, giacché la Francia non è l'Italia, dovrà rispondere in tribunale per aver pubblicato i verbali riservati di un'inchiesta giudiziaria - i testi dell'interrogatorio dell'ex direttore generale del Fondo Monetario Internazionale Dominique Strauss-Kahn da parte del giudice d'istruzione Stéphanie Ausbart a Lilla il 26 marzo scorso. Molti scrivono che Strauss-Kahn ha cercato di passare dai reati penali che gli sono contestati a questioni di principio nell'ambito di una strategia difensiva, cercando di fuorviare e anche di mettere in imbarazzo il giovane magistrato, una donna di trent'anni. E può darsi che sia così.

Suggerisco però anche un'altra chiave di lettura, ispirata a idee del pensatore cattolico brasiliano Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995). Questo profondo osservatore della crisi dell'Occidente nella sua opera principale, «Rivoluzione e Contro-Rivoluzione», del 1959, aveva descritto la decadenza dell'Europa come un processo di tre Rivoluzioni, che avevano fatto venire meno rispettivamente i tradizionali legami religiosi (la Riforma protestante), politici (la Rivoluzione francese) ed economici (la Rivoluzione russa e il comunismo). Successivamente aveva aggiunto una nuova categoria, la Quarta Rivoluzione, esplosa in Europa con il 1968 e che si presentava come rivoluzione culturale, attaccando i legami microsociali, le famiglie, il legame tra madre e figlio con l'aborto e perfino i legami che ogni persona stabilisce con se stessa con la droga, l'eutanasia, l'ideologia di genere.

In «Rivoluzione e Contro-Rivoluzione» Corrêa de Oliveira menzionava anche una «marcia di eccesso in eccesso» del processo rivoluzionario, qualche cosa che corrisponde alla saggezza popolare depositata in Italia nel proverbio secondo cui «peggio non è morto mai». Sì, non c'è limite al peggio. Dopo il divorzio e l'aborto, dopo l'eutanasia e il matrimonio omosessuale dove può ancora arrivare la Quarta Rivoluzione? Ce lo mostra, con parole a suo modo esemplari, Strauss-Kahn: la prossima frontiera è il «libertinismo intelligente» - sembra di capire, tipicamente francese e da non confondersi con un libertinismo poco intelligente alla Silvio Berlusconi -, che teorizza «cene libertine» - in tempi meno illuminati forse chiamate diversamente - dove «non esiste più l'oggetto, ma solo soggetti», che manifestano il loro «desiderio» non solo in tutti i modi possibili ma in pubblico, perché l'essenza del libertinismo consiste nel guardare e nell'essere guardati.

Non si potrebbe dir meglio, e non hanno torto i commentatori che hanno notato come a tratti sembra che sia Strauss-Kahn a processare la giudice ragazzina, la quale - poveretta - appartiene a un mondo ormai superato e travolto, quello dove esiste ancora il reale, l'oggetto, e - come le spiega con pazienza l'economista socialista - non può capire il «libertinismo intelligente» perché non l'ha mai praticato. Naturalmente, come in tutte le battaglie, ci sono dei caduti: nella stessa tornata d'interrogatori le prostitute ingaggiate per le «cene libertine» hanno affermato di esser state afferrate per i polsi da alcuni degli «intelligenti» commensali per permettere a Strauss-Kahn di praticare a forza forme di libertinismo a loro non gradite. Ma che cos'è il corpo di una prostituta di fronte alla prospettiva di entrare nel glorioso mondo nuovo del «libertinismo intelligente»?

Ecco dunque la risposta a che cosa la Quarta Rivoluzione può offrirci ancora dopo l'aborto e l'eutanasia: il «libertinismo intelligente», cioè l'elogio dell'orgia e della violenza carnale, da parte di qualcuno considerato fino ai recenti guai giudiziari l'uomo più potente del mondo. Molti anni fa - scrivendo in tema di Quarta Rivoluzione su «Cristianità», la rivista di Alleanza Cattolica -, attiravo l'attenzione sul marchese Donatien-Alphone-François de Sade (1740-1814), il quale durante la Rivoluzione francese verificava un'altra tesi di Corrêa de Oliveira, quella secondo la quale in ogni Rivoluzione appaiono «rivoluzionari di marcia veloce», che non hanno successo perché sono in anticipo sui tempi ma annunciano Rivoluzioni successive. Il pensatore brasiliano citava Gracchus Babeuf (1760-1797), che durante la Seconda Rivoluzione anticipò la Terza, il comunismo. Nello stesso modo, de Sade anticipò la Quarta.

Solo che il marchese libertino - anche lui cantore della violenza carnale - finì in manicomio. Mentre sappiamo che oggi de Sade può diventare il primo burocrate del mondo, dirigere il Fondo Monetario Internazionale e decidere il destino d'intere nazioni. Non è questa la perfezione della Quarta Rivoluzione?

(di Massimo Introvigne)

mercoledì 30 maggio 2012

Che cosa succede in Vaticano?


Che cosa succede in Vaticano? I cattolici del mondo intero si domandano costernati qual è il senso delle notizie che esplodono sulla stampa e che sembrano rivelare l’esistenza di una guerra ecclesiastica interna alle Mura Leonine, la cui portata è artatamente ingigantita dai mass media. Però, se non è facile capire che cosa succede, si può tentare di capire perché tutto ciò oggi accade.

Non è privo di significato il fatto che l’autocombustione divampi proprio mentre ricorre il 50esimo anniversario del Concilio Vaticano II. Tra tutti i documenti di quel Concilio, il più emblematico, e forse il più discusso, è la costituzione Gaudium et Spes, che non piacque al teologo Josef Ratzinger. In quel documento si celebrava con irenico ottimismo l’abbraccio tra la Chiesa e il mondo contemporaneo. Era il mondo degli anni Sessanta, intriso di consumismo e di secolarismo; un mondo su cui si proiettava l’ombra dell’imperialismo comunista, di cui il Concilio non volle parlare.

Il Vaticano II vedeva i germi positivi della modernità, ma non ne scorgeva il pericolo, rinunciava a denunciarne gli errori e rifiutava di riconoscerne le radici anticristiane. Si poneva in ascolto del mondo e cercava di leggere i «segni dei tempi», nella convinzione che la storia portasse con sé un indefinito progresso. I Padri conciliari sembravano aver fretta di chiudere con il passato, nella convinzione che il futuro sarebbe stato propizio per la Chiesa e per l’umanità. Così purtroppo non fu. Negli anni del postconcilio, allo slancio verticale verso i princìpi trascendenti si sostituì l’inseguimento dei valori terrestri e mondani.

Il principio filosofico di immanenza si tradusse in una visione orizzontale e sociologica del Cristianesimo, simboleggiata, nella liturgia, dall’altare rivolto verso il popolo. La conversio ad populum, pagata a prezzo di inaudite devastazioni artistiche, trasformò l’immagine del Corpo Mistico di Cristo in quella di un corpo sociale svuotato della sua anima soprannaturale. Ma se la Chiesa volta le spalle al soprannaturale e al trascendente, per volgersi al naturale e all’immanente, capovolge l’insegnamento del Vangelo per cui bisogna essere «nel mondo, ma non del mondo»: cessa di cristianizzare il mondo ed è mondanizzata da esso.

Il Regno di Dio diviene una struttura di potere in cui dominano il calcolo e la ragion politica, le passioni umane e gli interessi contingenti. La “svolta antropocentrica” portò nella Chiesa molta presenza dell’uomo, ma poca presenza di Dio. Quando parliamo di Chiesa ci riferiamo naturalmente non alla Chiesa in sé, ma agli uomini che ne fanno parte. La Chiesa ha una natura divina che da nulla è offuscata e che la rende sempre pura e immacolata. Ma la sua dimensione umana può essere ricoperta da quella fuliggine che Benedetto XVI, nella Via Crucis precedente alla sua elezione, chiamò «sporcizia» e Paolo VI, di fronte alle crepe conciliari, definì, con parole inconsapevolmente profetiche, «fumo di Satana» penetrato nel tempio di Dio.

Fumo di Satana, prima delle debolezze e delle miserie degli uomini, sono i discorsi eretizzanti e le affermazioni equivoche che a partire dal Concilio Vaticano II si susseguono nella Chiesa, senza che ancora sia iniziata quell’opera che Giovanni Paolo II chiamò di «purificazione della memoria» e che noi, più semplicemente, chiamiamo «esame di coscienza», per capire dove abbiamo sbagliato, che cosa dobbiamo correggere, come dobbiamo corrispondere alla volontà di Gesù Cristo, che resta l’unico Salvatore, non solo del suo Corpo Mistico, ma di una società alla deriva. La Chiesa vive un’epoca di crisi, ma è ricca di risorse spirituali e di santità che continuano a brillare in tante anime. L’ora delle tenebre si accompagna sempre nella sua storia all’ora della luce che rifulge. 

(di Roberto de Mattei)

Presidenzialismo: dopo la bicamerale


È sorprendente come tutti, ma proprio tutti, nel Pdl, dopo l'uscita del Capo, abbiano riscoperto il presidenzialismo (o semi, nella vulgata francese) e se ne siano innamorati. La circostanza mi fa ritenere che la dimenticanza di un tema del genere, durata oltre quattro anni - al netto del lungo silenzio berlusconiano al riguardo dal 1998 ad oggi, cioè da quando fallì la Commissione Bicamerale per le riforme istituzionali presieduta da D'Alema che fu ad un passo ad varare la Grande Riforma - sia da attribuire ad altre  questioni che premevano e tenevano impegnata la classe dirigente del partito, buona parte della quale è sempre stata sinceramente e convintamente presidenzialista.

Ma, pur con tutte le attenuanti che si possono riconoscere al Pdl e segnatamente a Berlusconi, ritengo non si possa perdonare l'abbandono di un tema qualificante la natura politica stessa del centrodestra (ed in particolare della componente di destra dello schieramento) per poi rispolverato in articulo mortis, alla fine cioè di una legislatura quando non ci sono concretamente i tempi per poter procedere ad una riforma tanto impegnativa e soprattutto in assenza di un clima costituente che soltanto un'Assemblea ad hoc potrebbe favorire e portare a compimento un lavoro inevitabilmente complesso. Infatti, non si tratta semplicemente di scrivere in un emendamento che il capo dello Stato viene eletto a suffragio universale, ma di ripensare seriamente tutta la seconda parte della Costituzione introducendovi pesi e bilanciamenti fra i tre poteri dello Stato in coerenza con una Repubblica che voglia essere presidenziale nella sostanza sia pure "semi" nella forma.

A meno che non si intenda risolvere il tutto nella solita manfrina all'italiana, come accadde con la riforma del Titolo V della Costituzione, fatta a maggioranza e poi cassata e poi ancora reiterata, con i risultati non esaltanti che abbiamo conosciuto, credo sia indispensabile procedere con accortezza e nei tempi giusti. Non sarebbe neppure accettabile il sospetto - tanto per uscire dal vago - che alla richiesta di doppio turno di collegio per il rinnovo del Parlamento, si rilanci con la proposta di elezione diretta del presidente, naturalmente sempre con il sistema del doppio turno. Le riforme non si fanno a metà e neppure a bocconi o, peggio, per fini strumentali. O sono coerenti complessivamente o è meglio lasciar perdere.

Meglio ancora, per ottenere quel presidenzialismo, come risposta istituzionalmente ineccepibile alla crisi del sistema ed alla richiesta di modernizzazione delle istituzioni, rilanciato da Berlusconi e qualche settimana fa sostenuto qui, su L'Opinione e su Notapolitica.it, dal deputato Pd Mario Barbi con dovizia di lucide argomentazioni e dall'eccellente politologa Sofia Ventura, penso non ci sia altro da fare che impostare la discussione, tenerla viva e rimandare i risultati di una riflessione che non può che essere collettiva, ben al di là dunque della destra e della sinistra, ad un'Assemblea costituente - personalmente sostenuta da anni e da alcuni parlamentari avanzata con proposte di legge che giacciono sotto metri di polvere nei due rami del Parlamento - da eleggere a suffragio universale con sistema rigorosamente proporzionale, magari in contemporanea con le politiche del prossimo anno. Assemblea che dovrebbe durare in carica non più di due anni con il compito di trasformare la Repubblica parlamentare in presidenziale ed adeguare gli istituti politici e rappresentativi ai criteri del decisionismo e della partecipazione. Più poteri all'esecutivo, più controlli al legislativo, meno intromissione dei partiti nella pubblica amministrazione, autonomia della magistratura, uno stato più efficiente, vicino ai cittadini e difensore della centralità della persona.

Il presidenzialismo - auspicherei quello di tipo americano, ma mi rendo conto delle oggettive difficoltà derivanti dalla nostra storia - anche nella forma francese è lo strumento che risolve al meglio il divario tra paese reale e paese legale. Il "decisore" (per usare un termine schmittiano caro all'indimenticabile Gianfranco Miglio) affrancato dai condizionamenti partitici ha il potere, legittimato dall'investitura popolare, di assumere provvedimenti previsti dalla Costituzione e, nello stesso tempo, incarna l'unità statale e nazionale, dunque mostrandosi come il centro di gravità politica intorno al quale ruotano tutte le istituzioni comprese quelle, come il Parlamento, cui è demandata la vigilanza  sugli atti presidenziali previsti e definiti e la fiducia al primo ministro ed al governo nominati dal presidente il quale, sempre dalle Camere, può essere soggetto alla messa sotto accusa per attentato alla Repubblica.

Con il presidenzialismo la democrazia diretta farebbe davvero irruzione nei costumi politici del nostro Paese dove l'istituto referendario è andato svalutandosi nel corso del tempo per responsabilità esclusiva della partitocrazia, un tiranno senza volto, per dirla con Giuseppe Maranini, la cui voracità potrebbe essere contrastata soltanto dal popolo rappresentato al più alto vertice dello Stato senza intermediazioni. Non da un Leviatano, sia pure mite beninteso, ma da chi meglio riesce ad interpretare, secondo logiche di democrazia integrale, cioè partecipativa, le esigenze degli elettori e lo spirito della nazione.

(di Gennaro Malgieri)

martedì 29 maggio 2012

Zolla, gli occhiali magici di un visionario razionale


Cos’ha lasciato Elémire Zolla, uscito dal mondo il 29 maggio di dieci anni fa? Ha lasciato un paio di occhiali magici per andare oltre la realtà, la vita, la storia. Occhiali magici per congedarsi dal Novecento e dall’occidente, per distaccarsi dal mondo e per cercare nella Tradizione tracce di sacro e presagi di futuro. 

È curioso pensare che l’autore di Volgarità e dolore (Bompiani), che nel 1962 accusava l’industria, la tecnica e l’industria culturale in particolare, di sfregiare il mondo, violare la sua bellezza, corrompere gli animi, trent’anni dopo in Uscite dal mondo (Adelphi e ora Marsilio), si sia innamorato della realtà virtuale, «vertice e rovesciamento salutare della rivoluzione industriale».

Trent’anni prima il cinema era da lui disprezzato come Grande Corruttore e arte minore, e così la televisione; trent’anni dopo, i pixel, i pc, gli occhiali magici, generavano per Zolla una grande palingenesi da schermo: la realtà virtuale ci solleva dalla realtà volgare. La liberazione indù tramite la liberazione in 3D. Cortocircuito tra occidente e oriente, tra tecnica e magia, tra elettronica e metafisica.

Questo fu Zolla che sempre fece dell’estraneità al suo tempo, il Novecento, e al suo luogo, l’Italia, la cifra del proprio pensiero. Nella sua opera, Zolla inseguì i mistici d’occidente e i sapienti d’oriente, ritrasse aure e archetipi, si soffermò sullo stupore infantile e presentò gli hobbit di Tolkien, navigò nell’alchimia, frequentò gli sciamani e le ebbrezze dionisiache, narrò di amanti invisibili e androgini, si spinse a definire cos’è la Filosofia perenne e la Tradizione: civiltà del commento, rispetto alla modernità, che è civiltà della critica. Ma a volte poco civiltà, per Zolla, e poi la critica migliore per lui si fa all’ombra della tradizione; ci vuole un punto fermo e trascendente per giudicare.

Nonostante la sua dura critica della modernità - che però aveva punti di contatto con la scuola di Francoforte - Zolla non fu un maestro di tradizione spregiato dalla cultura e dai media, anzi scrisse per i maggiori quotidiani, pubblicò con le maggiori case editrici, ebbe cattedra universitaria alla Sapienza romana e dialogò col suo tempo e i potenti della cultura.

Non fu un Evola, e nemmeno un Guénon, e non ne subì la sorte. Duettò con Moravia come con Del Noce, pubblicò con Einaudi e Adelphi come con la Rusconi di Cattabiani. Andò perfino in tv. Una volta mi trovai con lui, ospiti di Barbiellini Amidei, a discorrere in tv del sacro nel nostro presente. Temo di averlo visto anche sul palco del Maurizio Costanzo Show. Eppure il suo itinerario resta eccezionale, nelle sue opere, nelle sue conoscenze, nei suoi amori con tre donne non comuni: prima la poetessa Maria Luisa Spaziani, poi la straordinaria Vittoria Guerrini, in arte Cristina Campo, venuta da un altro mondo e vissuta con lui per tanti anni fino alla sua morte precoce, in uno «strano rapporto», come lui stesso disse a Doriano Fasoli (Un destino itinerante, Marsilio); infine, l’orientalista Grazia Marchianò, a cui si deve una bella biografia di Zolla, Il conoscitore di segreti (Marsilio). Che fa il paio con il recente Elémire Zolla. La luce delle idee di Hervé Cavallera (Le Lettere).

Curioso pensare che sulla sua rivista, Conoscenza religiosa, Zolla, pensatore gnostico e aristocratico, abbia pubblicato, ammirato, uno scritto del santo più popolare, ruvido e miracoloso del ’900, Padre Pio: Breve trattato della notte oscura, che Zolla definì «un capolavoro, nello stile dei mistici del Seicento».

Benché accostato a Julius Evola nel nome della Tradizione e degli studi orientali, di René Guénon e di Mircea Eliade, Zolla ebbe antipatia e disagio nei suoi confronti e preferì tenersi lontano da lui e non essere assimilato alla sua demonizzazione. Pur vivendo entrambi per molti anni a Roma, neanche lontani, non ebbero contatti. Evola lo liquidò con giudizi sprezzanti (il suo libro Che cos’è la Tradizione lo definì «pretenzioso»). Zolla preferì non parlarne mai in Italia, salvo giudizi sprezzanti di passaggio (per esempio quando scrisse del massone esoterico Arturo Reghini, sodale di Evola per molti anni). Ma vent’anni fa ci capitò di scoprire e di render noto in Italia che Zolla aveva scritto pagine non del tutto critiche su Evola nella rivista americana Gnosis della Lumen Foundation. Pagine non tradotte in Italia, a differenza di analoghi profili, come quello su Reghini. Del resto, lo stesso Zolla, nel libro intervista a Fasolo, cita André Malraux che dopo aver detto di considerare Guénon la vera novità del suo tempo, aggiunse «però non bisogna parlarne»...

Se dovessimo definire il pensiero di Zolla dovremmo parlare di Gnosi e di Sincretismo, sia sul versante filosofico che religioso. Zolla non coltiva l’autorevolezza impersonale di Guénon, si avverte nelle sue pagine la sua presenza e la sua opinione, il suo stile letterario, i suoi gusti narrativi, la sua soggettività. Del resto, il sincretismo presuppone un soggetto che sceglie e combina tradizioni differenti, miscela fedi e culture diverse; assembla, rimescola, opera, come un alchimista. A volte la sua fu alchemicamente «un’opera al nero»: Zolla ha viaggiato anche all’inferno, dal suo romanzo d’esordio, ora ristampato, Minuetto all’inferno, alle pagine dedicate ai demoni e al satanismo, alla magia nera e ad alcuni aspetti «sinistri» delle tradizioni d’oriente e d’occidente. Zolla ha rappresentato nei piani alti e sacri del sapere un bisogno diffuso anche nei piani bassi e profani, nelle pieghe delle inquietudini contemporanee e nei risvolti del nichilismo di massa: fuoruscita dalla storia e dal proprio tempo, ebbrezze dionisiache ed esotiche, oracoli e oroscopi, tisane e percorsi emozionali, segni zodiacali e altre forme di esoterismo di massa, un ossimoro e una contraddizione in termini. Del resto i seguaci del Siddharta di Hesse, di Castaneda e Hillman, degli intellettuali-sciamani a metà strada tra Jung e i «lanzichenecchi del nulla», hanno uno spazio non di nicchia nell’ipermercato del nostro tempo.

Pur distante, Zolla appare in sintonia con il fiume carsico dei nostri anni e la sua ansia di oriente e nirvana. Ma i suoi occhiali magici non sono quelli di Harry Potter.

(di Marcello Veneziani)

lunedì 28 maggio 2012

Cardini: non confondere il cristianesimo con lo Stato


Lo storico Franco Cardini mette l'accento sulla confusione che spesso si fa fra queste due realtà e invita a «non gridare al cristianesimo offeso e tradito anche perché non è in causa il cristianesimo» in questo momento di turbolenza per il Vaticano. Che ha visto la sfiducia nei confronti del presidente dello Ior, Ettore Gotti Tedeschi, e oggi al fermo del presunto «corvo» Paolo Gabriele, aiutante di camerà della famiglia pontificia, accusato di essere in possesso di documenti riservati. «Se ne sa ancora poco, è presto per fare illazioni. Ma, certamente, noi dimentichiamo che il Vaticano è uno Stato, ha un apparato istituzionale, è anche una grande potenza economico-finanziaria e da tutto questo conseguono una quantità di elementi che complicano un quadro che noi, un po' distrattamente, ameremmo essere un quadro religioso», dice Cardini. 

Lo storico insiste poi sul fatto che «confondiamo lo Stato Città del Vaticano con la Chiesa e con la confessione cattolica della fede cristiana. È un errore dal quale dovremmo guardarci e lo facciamo un pò tutti». Per Cardini «non è particolarmente strano quello che è accaduto a Gotti Tedeschi. È una disavventura professionale che può succedere a qualunque esperto di finanza investito di una responsabilità così delicata come quella dello Ior, chiacchierato da tempo. Il nome di Marcinkus è diventato qualcosa di impronunciabile, come Dracula e il vampiro». 

«Gotti Tedeschi lo riterrà uno smacco alla sua carriera professionale ma - continua lo storico - siamo tutti esposti a queste cose. In tempi si recessione economico-finanziaria è normale che succedano. Lo Stato Città del Vaticano non è lo Stato Europeo, ma risente della crisi attuale». Lo Stato Città del Vaticano, ricorda Cardini, «è una realtà nata nel '29 per risolvere un grosso problema che riguardava lo Stato Italiano: quello del contenzioso dei beni sequestrati e della libertà delle coscienze» ed «è chiaro che esistono i segreti di Stato. Facciamo l'errore di attribuire al Vaticano una superiorità morale e spirituale che non è nell'ordine delle cose storiche».

Tra confusione politica e casino nel Pdl


Grande è la confusione sotto i cieli della politica, ma nel Pdl il casino è totale. Formattatori, demolitori, azzeratori, rottamatori, seniores affaticati ma con l'ambizione di essere i ricostruttori: tutti contro tutti. Fanno appello al popolo, si schierano contro l'apparato, mettono in croce chiunque, ma paradossalmente non muovono un solo addebito a Berlusconi; si scandalizzano per le veline catapultate in politica e per una Minetti diventata consigliera regionale come se al Pirellone l'avesse inviata una forza misteriosa; vogliono le "primarie delle idee", ma si guardano bene dall'avanzarne almeno una, al di là della solita litania dei valori non declinati e dei programmi neppure abbozzati. La mitizzazione dei social network è l'orizzonte a cui sembrano votarsi, immaginando che la politica delle parole anzi dei twitt sia il frammentato avvenire verso cui tendere, come una primavera araba qualsiasi. È il neo-populismo degli adepti del web del centrodestra.

Se questa è la reazione delle forze nuove del Pdl alla disfatta politica e culturale, prima che elettorale, c'è poco da stare allegri. Non vedo come si possa ritrovare una strada se non si sa dove si vuole andare. E, francamente, non ho capito l'estemporaneo movimentismo di chi si è messo in testa di smuovere le acque stagnanti del partito berlusconiano soltanto agitando qualche slogan, facendo la faccia brutta, cavalcando il disgusto generato (non certo da un mese a questa parte) da una pratica partitica che ha seguito rituali ammuffiti fino a proiettare nell'empireo politico, come è stato detto in una delle assemblee dei giorni scorsi, le Minetti e gli Scilipoti.

Ma il giovanilismo, da cui pure il segretario del Pdl, Angelino Alfano, pare essere stato contagiato, al di là delle ovvie incazzature, è capace di produrre qualcosa su cui vale la pena riflettere oppure il suo scopo è quello di mettere alla porta i "vecchi" del partito, esautorarli insomma - tutti, ma proprio tutti - e prenderne i posti per assicurargli un più fulgido avvenire? Si discuterà a lungo di tutto ciò e non è detto senza costrutto. Ma per adesso l'impressione che si ricava da tanta "ammuina" è il non trascurabile disagio di quanti, giovani e meno giovani, hanno visto spegnersi negli ultimi quattro anni la prospettiva del cambiamento che il "partito unico" prometteva e non si sono minimamente curati - e questa verità è incontestabile - di avanzare riserve sulla deriva impolitica che il Pdl stava raggiungendo a rapidi passi fino alla débâcle di questo maggio crudele.

Inutile ribadire ciò di cui necessitava il soggetto politico intorno al quale ruotava il centrodestra: non vorrei passare per noioso ripetitore di avvisi ai naviganti sempre caduti nel vuoto. Ma soltanto ricordare agli agitati di oggi, che non si agitavano ieri quando si organizzavano i casting per le candidature e le igieniste dentali venivano inserite nei listini bloccati senza aver mai distribuito in precedenza neppure un volantino, che la buona politica si costruisce con le idee e non con i meccani elettorali di cui il Pdl ha fatto un uso smodato all'epoca delle vacche grasse, dimagrite all'improvviso.

C'era bisogno che esplodesse il vulcano della politica perché si rimettesse in circolazione un grande disegno come la Repubblica presidenziale, in un contesto di integrale rinnovamento delle istituzioni? O forse non sarebbe stato meglio rilanciarla a tempo debito e, indipendentemente dall'esito immediato, costruire attorno ad essa una mobilitazione tale da scuotere gli italiani ed offrire al centrodestra una buona occasione per guidare il fronte dei riformatori, al di là della destra e della sinistra?

Occorre ripensare tutto quello che poteva essere fatto e non è stato fatto, insomma. Ripartire dalle idee e da una nuova classe dirigente da costruire sul territorio (non necessariamente formata da imberbi volenterosi tuttavia); nobilitare l'impegno attraverso la militanza (non sarà molto trendy, ma è comunque indispensabile); giovarsi dell'apporto intellettuale di studiosi trascurati perché non ritenuti funzionali al collage di mode e tendenze da assecondare secondo i canoni televisivi o più generalmente del glamour tipico dello star system. E, naturalmente, tornare tra la gente, consumare le suole delle scarpe, organizzare un movimento di presenza attiva laddove il disagio è più forte. Ecco, alcune delle cose da fare. Subito. Con passione e intelligenza. Non credo che comunque il Pdl possa rinascere, ma almeno si può nutrire la speranza che il centrodestra, strutturandosi diversamente, non muoia. O almeno non si trasformi in un'indistinta marmellata chiamata "mondo dei moderati". Una roba da brivido.

(di Gennaro Malgieri)

domenica 27 maggio 2012

Il coprofago Mughini


In uno dei suoi innumerevoli libri sul '68 (non ha scritto d'altro), 'Compagni, addio', del 1987, Giampiero Mughini, seppur già 'pentito', rabbrividendo di piacere dall'alluce al capezzolo e bagnandosi anche il pannolino (lui sostiene che è un perizoma, ma è un pannolino, oggi pannolone, perchè è sempre stato incontinente), racconta che nel giugno del 1979 un comunicato del latitante Franco Piperno, uno dei personaggi più ambigui degli 'anni di piombo', leader di Potere Operaio (PotOp per gli amici, 'molotov e champagne' per gli altri perchè era zeppo di figli dell'aristocrazia e dell'alta borghesia romana), contiguo, per non dir di più, dei terroristi Morucci e Faranda, fu scritto in casa sua, nella sua cucina, e con la sua Lettera 32.

Oggi, 2012, Giampiero Mughini sul Sole 24 Ore on line, sede quanto mai appropriata, fa un'apologia dei soldi, senza celare il suo intellettuale disprezzo per chi non li ha fatti. Il Mughini sembra avere un feticismo coprofago per il denaro. Seduto sul water, dove abitualmente scrive, gode sia nel ritenerlo che, ma più moderatamente, nell'evacuarlo. “Il denaro è poesia...emana un profumo inebriante...il fruscio delle banconote da venti o cento euro quando il cassiere te la mette in mano per cambiare l'assegno...e meglio ancora se gli zeri nella cifra in alto a destra sono parecchi...i soldi fungono da barometro della libertà di tutti, della democrazia reale, della civiltà di una società matura”.

Mughini se la prende anche con i giornali, “dove lavorano a bizzeffe i figli del '68” (ma lui da dove viene e dove lavora?), perchè sulla questione dei soldi fanno una gran confusione. Mentre “dire dei soldi è parlare di filosofia e non tutti ne sono degni”. E' vero, il denaro è una sofisticata creazione dell'intelletto umano, Adam Smith la paragonava all'invenzione della macchina a vapore. Ma il filosofo Giampiero quando si scaglia contro l'invidia sociale (“il dare addosso all'erba del vicino che è più verde della tua”), non si rende conto che l'invidia sociale, come ha spiegato Ludwig von Mises, uno dei più estremi ma anche dei più coerenti teorici dell'industrial-capitalismo, l'invidia è proprio l'indispensabile ingranaggio per far girare il meccanismo di quella 'società matura' in cui lui, il Mughini, si trova tanto a suo agio. E' l'invidia che alimenta i consumi e ne allunga la catena.

Quando si parla di denaro, oltre che di filosofia bisognerebbe sapere anche un po' di storia. Mughini scrive una cosa esilarante: “per secoli e secoli i ricchi erano riuscti a convincere i poveri che parlare di 'soldi' non fosse chic”. A parte che il termine 'chic' appartiene alla classe sociale dei Mughini e non ai poveri, “per secoli e secoli”, in Europa, il popolo minuto ha nutrito un'estrema e istintiva diffidenza nei confronti del denaro, intuendone le insidie. E con buone ragioni. I mercanti infatti pagavano in 'moneta povera' (rame, bronzo o 'bilione' che è ancora bronzo ma con sopra una spruzzatina d'argento), ma realizzavano in 'moneta forte', oro e argento, sui mercati internazionali di allora. I truffoni monetari e speculativi non sono stati inventati oggi.

Ma torniamo alla filosofia. Il denaro, nella sua estrema essenza, è proiezione nel futuro. E' futuro. Il più che settantenne Mughini, come ogni vecchio, ne ha meno degli altri. Attaccarsi, da vecchi, al denaro quando non hai più il tempo di spenderlo, di investirlo, ma solo di ritenerlo, come uno stronzo, è un nonsense. Giampiero Mughini ha sbagliato tutto nella vita. Doveva adorare il denaro quando, trentenne, gli sarebbe servito e invece faceva il rivoluzionario da cucina e affettava di disprezzarlo, e tenerlo in non cale oggi che non può più farsene nulla.

(di Massimo Fini)

giovedì 24 maggio 2012

Per Repubblica Falcone era un guitto


Il 9 gennaio 1992 Repubblica esce con un articolo firmato da Sandro Viola intitolato “Falcone, che peccato”. (L'articolo casualmente è sparito dall'archivio digitale di Repubblica). L'autore rimprovera al giudice Giovanni Falcone “l’eccessivo presenzialismo del magistrato” nelle trasmissioni televisive. Critiche ingrate e anche ingiuste. Pochi mesi dopo, il 23 maggio, esattamente 20 anni fa, Giovanni Falcone sarebbe stato ucciso per mano mafiosa.

Riportiamo integralmente l’editoriale di Sandro Viola.

D'un uomo come Giovanni Falcone, il magistrato che alla metà degli anni Ottanta, dal suo posto alla Procura di Palermo, inflisse alcuni duri colpi alla mafia, si vorrebbe dire tutto il bene possibile. O quanto meno, per evitare di trovarsi nella pessima compagnia di certi suoi detrattori, non si vorrebbe dirne male. E tuttavia, da qualche tempo sta diventando difficile guardare al giudice Falcone col rispetto che s'era guadagnato.

Egli è stato preso, infatti, da una febbre di presenzialismo. Sembra dominato da quell'impulso irrefrenabile a parlare, che oggi rappresenta il più indecente dei vizi nazionali. Quella smania di pronunciarsi, di sciorinare sentenze sulle pagine dei giornali o negli studi televisivi, che divora tanti personaggi della vita italiana – a cominciare, sfortunatamente per la Repubblica, dal Presidente della Repubblica – spingendoli a gareggiare con i comici del sabato sera, con il prof. Sgarbi, con i leaders di partito, con i conduttori di “talk-shows”, con gli allenatori di calcio, insomma con tutti coloro che ci affliggono quotidianamente, nei giornali e alla televisione, con le loro fumose, insopportabili logorree.

Ecco quindi il magistrato Falcone, oggi ad uno dei posti di vertice del ministero di Grazia e Giustizia, divenuto uno dei più loquaci e prolifici componenti del carrozzone pubblicistico italiano. Articoli, interviste, sortite radiofoniche, comparse televisive. E come se non bastasse, libri: è uscito da poco, infatti, un suo libro-intervista dal titolo accattivante, un titolo metà Sciascia e metà “seriale” televisivo, “Cose di cosa nostra”, che con il suo suono leggero, la sua graziosa allitterazione, a tutto fa pensare meno che ai cadaveri seminati dalla mafia. Concludendo: ecco il giudice Falcone entrato a far parte di quella scalcinata compagnia di giro degli autori di “instant boooks”, degli “opinionisti al minuto”, dei “noti esperti”, degli “ospiti in studio”, che sera dopo sera, a sera inoltrata – quasi unmemento mori” -, s'affacciano dagli schermi televisivi.

Né il giudice Falcone può invocare la sua esperienza del crimine, e del crimine mafioso in particolare, come giustificazione di tanti interventi. Certo, ci sono materie in cui la parola va data al “noto esperto”: la gastronomia, poniamo, il giardinaggio, il salvataggio dei monumenti. Nulla osta, infatti, acchè queste materie, vengano trattate in tutta libertà, col più esplicito dei linguaggi. Ma parlare di crimine quando si ricopre un'altissima carica nell'amministrazione della giustizia, è diverso.

Infatti, si pone il problema formale della compatibilità tra al funzione nell'apparato statale e l'attività pubblicistica. E poi c'è un elemento sostanziale. Trattare la materia mafiosa quando si è, allo stesso tempo, un magistrato coinvolto a fondo nella lotta alla mafia, impone un riserbo. Costringe, se non proprio all'evasività, a discorsi generici. Infatti, dal dr. Falcone lo spettatore televisivo, il lettore dei suoi articoli, ricaverà quasi sempre molto poco. Perché quello che il direttore degli Affari Penali sa, non può certo essere detto interamente; e quello che pensa – se appena l'argomento è un po' delicato -, va detto con estrema cautela.

Il risultato è che le esternazioni del dr. Falcone risultano quando mai nebulose. Così, qualcuno penserà che egli non sa niente di niente sulla criminalità organizzata, un altro crederà che lancia messaggi trasversali, un altro ancora riterrà che ciurla nel manico, un ultimo sospetterà che non sa esprimersi. E dunque che senso può avere pronunciarsi (come il giudice Falcone fa così di frequente), quando il decorso della funzione giudiziaria, gli obblighi di discrezione connessi alla carica, impediscono giustamente d'essere troppo espliciti? Non si potrebbe rispondere alle segreterie di redazione del Tg2 e del Tg3 che telefonano per organizzare una trasmissione, “Grazie, ma sono occupato”?

Beninteso, rimproverare al giudice Falcone di contribuire senza risparmio al “ronzio incessante di commenti estetici, di opinioni al minuto, di giudizi pontificali pre-imballati che invadono l'etere”, sarebbe più pertinente in un altro paese che non l'Italia. In Italia, si sa come stanno le cose. Il primo a violare giornalmente ogni obbligo di riserbo, di misura, di rispetto per la propri funzione, è il primo cittadino della Repubblica. E di fronte a tanto disprezzo delle regole da parte di chi, per primo, dovrebbe servire da esempio, illustrando le virtù della discrezione e della compostezza, prendersela col dr. Falcone può risultare ozioso.

Ma è il passato del giudice Falcone, che induce alla critica. Non lo si tirerebbe in ballo se egli fosse uno dei tanti magistrati che si sono messi a far politica, ad ammorbare con la loro prosa indigeribile le pagine dell'”Unità”, ad esibire le loro parlantine in televisione. Ma la capacità con cui egli svolse i suoi incarichi alla Procura di Palermo, la stima che suscitò in tanti di noi costringono ad esprimere uno stupore, una riserva, sull'eccesso di verbosità con cui egli va conducendo questa seconda parte della sua carriera. Perché nessuno regola o consuetudine prevede che i magistrati tengano una “rubrica fissa” sul crimine. Perché nessun paese civile ha mai lasciato che si confondessero la magistratura e l'attività pubblicistica. E dunque non si capisce come mai il dr. Falcone, se proprio tiene tanto al suo nuovo ruolo di “esperto in criminalità mafiosa”, non ne faccia la sua professione definitiva, abbandonando (questo sì, questo sarebbe inevitabile) la magistratura.

Qualcuno mi dice che le continue sortite del giudice palermitano avrebbero un loro scopo, peraltro apprezzabile: quello d'illustrare, propagandare, i due organismi varati recentemente per combattere meglio la mafia, la cosiddetta Superprocura e la Dia. Personalmente, considero la Superprocura e la Dia due misure sensate (che mi auguro risultino efficaci) mentre mi sfuggono le ragioni di chi invece le avversa. Ma quanto al propagandarle, il direttore degli Affari penali avrebbe altro modo che non il presenzialismo di cui s'è detto. Due interviste all'anno – chiare, circostanziate – sarebbero infatti più che sufficienti.

Quel che temo, tuttavia, è che a questo punto il giudice Falcone non potrebbe più placarsi con un paio d'interviste all'anno. La logica e le trappole dell'informazione di massa, le sirene della notorietà televisiva tendono a trasformare in ansiosi esibizionismi anche uomini che erano, all'origine, del tutto equilibrati. L'apparire, il pronunciarsi ingenerano ad un certo momento come una “dipendenza”, il timore lancinante che il non esibirsi sia lo stesso che il non esistere. E scorrendo il libro-intervista di Falcone, “Cose di cosa nostra”, s'avverte (anche per il concorso d'una intervistatrice adorante) proprio questo: l'eruzione d'una vanità, d'una spinta a descriversi, a celebrarsi, come se ne colgono nelle interviste del ministero De Michelis o dei guitti televisivi.

E, si capisce, la fatuità fa declinare la capacità d'autocritica. Solo così si spiegano le melensaggini di “Cose di cosa nostra”. Frasi come:Questa è la Sicilia, l'isola del potere della patologia del potere”; oppure: “Al tribunale di Palermo sono stato oggetto d'una serie di microsismi...”; oppure ancora: “Ho sempre saputo che per dare battaglia bisogna lavorare a più non posso e non m'erano necessarie particolari illuminazioni per capire che la mafia era una organizzazione criminale”. Dio, che linguaggio. A Falcone non saranno necessarie, ma a me servirebbero, invece, due o tre “particolari illuminazioni”: così da capire, o avvinarmi a capire, come mai un valoroso magistrato desideri essere un mediocre pubblicista.

(di Sandro Viola - 9 gennario 1992)

mercoledì 23 maggio 2012

L'Islam radicale? Raccoglie l'eredità di comunisti e nazisti


Quali sono stati i due movimenti politici più importanti che negli ultimi due secoli si sono opposti con maggior determinazione all’avvento della modernità laica ed edonistica rappresentata dal capitalismo? Non c’è dubbio: il comunismo e il nazionalsocialismo. 

È la tesi di Ernst Nolte, il quale però ora aggiunge alla lista un terzo nemico della società aperta, l’islamismo nel nuovo saggio Il terzo radicalismo. Islam e Occidente nel XXI secolo , Edizioni Liberal, pagg. 341, euro 23.

Venticinque anni fa lo storico tedesco scandalizzò la storiografia mondiale affermando che la causa del nazismo andava ricercata nel comunismo. Con la rivoluzione d’Ottobre il bolscevismo si presenta come un fenomeno mondiale che tenta l’annientamento di ogni borghesia nazionale, cioè uno sterminio generalizzato di classe, dando inizio alla guerra civile europea. Di qui la reazione nazista: allo sterminio di classe viene opposto lo sterminio di razza. Scatta un antagonismo imitativo, la creazione originale produce una copia: il Gulag genera Auschwitz.

Ora Nolte ritorna all’idea della comparabilità tra comunismo e nazismo ponendola quale premessa per la comprensione storica del terzo grande radicalismo avverso alla modernità e all’Occidente: l’islam. Anche l’islam, infatti, è un fenomeno antimoderno perché la sua intima natura è data dalla negazione radicale del progresso volto ad unificare il mondo con lo sviluppo tecnico scientifico iniziato con l’illuminismo e la rivoluzione industriale. Il comunismo, il nazismo e l’islamismo, con diversi intenti, sono risposte «religiose» tese a fermare l’avanzata rivoluzionaria del capitalismo.

Naturalmente va osservato che mentre il comunismo e il nazismo sono nati all’interno dell’Occidente, essendo un prodotto estremo della secolarizzazione, l’islamismo ne è del tutto estraneo. Comunque, a fronte del processo della modernità, definito da Nolte «omogeneizzazione distruttrice dell’identità» e «secolarismo antropocentrico», il comunismo, il nazismo e l’islamismo, «nonostante le profonde differenze», risultano convergenti per «il fondamento comune» dovuto al loro «conservatorismo rivoluzionario». Con questo ossimoro lo storico tedesco afferma che i tre movimenti risultano radicalmente avversi alla modernità, e in questa avversione manifestano la loro dimensione rivoluzionaria; però, nello stesso tempo, esprimono una comune propensione conservatrice perché non accettano l’espansione universale e trasformatrice della società liberale, laica ed edonistica.

Nolte descrive storicamente l’avversione islamica all’Occidente partendo dalla Prima guerra mondiale per giungere fino ai nostri giorni. La sua attenzione è rivolta in modo particolare verso lo Stato d’Israele, definito giustamente la fonte della modernità nel contesto del mondo islamico; mentre del tutto discutibile è la sua distinzione fra antisemitismo e antisionismo, che di fatto riecheggia gli stereotipi propri del terzomondismo islamico. Detto questo, osserviamo, da parte nostra, che la vittoria definitiva del capitalismo sul comunismo ha dissolto ogni vera alternativa storica al capitalismo medesimo. Il comunismo, infatti, era un sistema socio-economico radicalmente opposto perché pretendeva di costituire un mondo superiore rispetto al mercato e alla proprietà privata. La realtà islamica, invece, non ha nulla di tutto questo, non avendo un suo specifico sistema di produzione e di distribuzione della ricchezza, né di organizzazione tecnica delle risorse, vale a dire un sistema che sia congruo al proprio finalismo religioso: il sapere teologico del clero sciita nulla sa della gestione dei pozzi petroliferi. L’islam è radicalmente opposto all’Occidente solo in termini religiosi e politici.
La mancanza di una competizione tra assetti economici opposti e alternativi indica perciò il senso vero della competizione in atto, vale a dire la lotta mortale tra laicità e religione. 

L’avanzata della modernità produce degli esiti incontrollabili, come osservò, con straordinaria lucidità, Oriana Fallaci. Ne consegue, purtroppo, la quasi impossibilità di una comparazione tranquilla tra la civiltà occidentale e quella islamica; permane, insomma, quello scontro di civiltà, già rilevato a suo tempo da Samuel Huntington.

(n.d.r. nella foto il Gran Muftì di Gerusalemme, Amin al Husseini)

(di Giampietro Berti)

Il cadavere di Mussolini arriva in prima serata tv


Un corpo scomodo, in cui la storia continua a inciampare. Il corpo di un leader che, con la sua fisicità prorompente, ha ammaliato gli italiani per vent’anni. Un simbolo incredibilmente potente, quasi cristologico secondo alcuni (tra i quali lo storico Sergio Luzzatto), ingombrante in vita come in morte. Anzi forse più in morte, dopo l’orrendo carnevale di sangue di Piazzale Loreto.

Parliamo ovviamente del Duce, del suo torace possente, della mascella volitiva, del cranio rasato su cui spesso era calato l’elmetto, e della necessità di profanare un cadavere, in un rito sacrilego e selvaggio (Pertini che con i fascisti non era tenero disse: «A Piazzale Loreto l’insurrezione si è disonorata»), che continuava a essere un’icona, un catalizzatore di istinti. È questo il tema, scomodo persino a più di sessant’anni di distanza dagli eventi, che sarà trattato stasera su Retequattro, nella trasmissione Apocalypse condotta da Giuseppe Cruciani. In questa prima puntata (ne seguiranno altre due) verrà, infatti, presentato in prima serata il documentario Il corpo del Duce, coprodotto da Retequattro e dall’Istituto Luce (regia di Fabrizio Laurenzi che si è ispirato proprio a un saggio di Luzzatto). Con filmati, mai visti in televisione, il film mostra le sequenze crude del trattamento subìto dalla salma di Mussolini, ed è corredato anche dalle ultime immagini esistenti del corpo. Quelle scattate nella questura di Milano il 14 agosto ’46. Fotografie rimaste occultate, in un faldone riservato del ministero degli Interni, per oltre mezzo secolo. Come mai? Perché subito dopo Piazzale Loreto, per volere del Cnl, il Duce fu tumulato in gran segreto in una fossa anonima nel Cimitero Maggiore di Milano. Non si voleva che la tomba diventasse oggetto di pellegrinaggio. Ma un anno dopo, nella notte del 23 aprile ’46, il corpo venne trafugato da un gruppo neofascista, capitanati da Domenico Leccisi, che ne reclamava una sepoltura più degna. Il cadavere venne poi recuperato dalla polizia. Le direttive che arrivano da Roma sono chiare: una cosa simile non deve più accadere (tra i neo fascisti c’era stato anche chi farneticava di resurrezione). La salma è rinchiusa in un baule, ripiegata su se stessa e ormai ridotta a una mummia. Il corpo fu occultato per oltre 11 anni in un luogo conosciuto solo dai vertici dello Stato (un convento dei cappuccini a Cerro Maggiore), chiuso in una cassa di sapone.

Sono immagini molto crude e la scelta di mandarle in onda in prima serata ha richiesto un certo coraggio, come spiega al Giornale il direttore di rete, Giuseppe Feyles: «Non è facile programmare la storia in prima serata e in piena garanzia. Ma i documentari che proponiamo, alcuni in prima visione assoluta, meritano questo rischio. Raccontare il passato, infatti, aiuta a capire il presente». Anche il conduttore della trasmissione Giuseppe Cruciani è conscio dell’impatto di queste immagini. «Sono immagini forti, dure... ma è giusto guardarle e vanno contestualizzate sull’epoca dei fatti... E poi c’è il legame con l’oggi su cui riflettere, assomigliano a quelle della morte di Gheddafi... I dittatori quando cadono finiscono così».

Ma forse di fronte alle immagini di quel corpo, adorato quanto vilipeso, che tanto ha pesato sulla nostra storia, la chiosa migliore restano le parole di Cesare Pavese: «Se un nemico diventa morendo una cosa simile...vuol dire che, anche vinto il nemico, è qualcuno... per questo ogni guerra è una guerra civile. Ogni caduto somiglia a chi resta e gliene chiede ragione». Soprattutto se il caduto è Benito Mussolini. 

(di Matteo Sacchi)

lunedì 21 maggio 2012

Quando Evola e Eliade vollero «fare fronte» spirituale


Quella fra Julius Evola e Mircea Eliade fu, come scrisse molti anni fa Philippe Baillet, «una amicizia mancata», o meglio fu Un rapporto difficile: è questo il titolo di un saggio scritto da Liviu Bordas, dell'Istituto Studi Sud-Est Europei dell'Accademia Romena di Bucarest, pubblicato sul nuovo numero di Nuova Storia Contemporanea. Uno studio ricco di analisi e interrogativi sull'incontro fra i due studiosi, che si basa sul ritrovamento di 8 lettere inedite del periodo 1952-1962 dell'italiano al romeno, scovate da Bordas tra i Mircea Eliade Papers custoditi all'Università di Chicago e che si aggiungono alle 16 pubblicate poco tempo fa dalla casa editrice Controcorrente (Julius Evola, Lettere a Mircea Eliade 1930-1954).

I rapporti tra Evola e Eliade furono soprattutto epistolari e sicuramente comprendono molte più missive di quelle sino a oggi rintracciate: nell'immediato dopoguerra, Evola cercò di riprendere i contatti con le sue maggiori conoscenze culturali, scrivendo loro sin da quando era in ospedale, nel 1948-49: a Carl Schmitt, a Ren´ Gu´non, a Gottfried Benn, a Ernst Jünger e a diverse altre personalità fra cui, appunto, Eliade. Lo scopo ideale era non solo riallacciare contatti personali ma cercare di ricostruire una specie di fronte spirituale nella nuova situazione pubblicando in Italia la traduzione di alcune delle opere delle sue antiche conoscenze. Non tutti compresero le sue intenzioni.

Nell'epistolario con Eliade, a esempio, il problema che si pose in quei primi anni Cinquanta nei quali Evola si diede molto da fare per la pubblicazione dei più importanti libri dello studioso romeno, come documentano le nuove e vecchie lettere, fu quello di quanta poteva essere l'influenza degli autori «tradizionalisti» sugli scritti scientifici e divulgativi di Mircea Eliade e il fatto che questi non citasse quasi mai certe sue fonti che alla «Accademia» potevano sembrare sospette. Erano anni turbolenti e anche pericolosi per chi era stato sul fronte degli sconfitti e lo studioso di certo non amava che gli si ricordasse la sua vicinanza prima della guerra alla Guardia di Ferro di Codreanu. Sta di fatto che, nonostante l'aiuto concreto che Evola diede alla pubblicazione dei libri di Eliade, dopo l'uscita della sua autobiografia Il cammino del cinabro (1963) in cui venivano ricordati certi precedenti «politici» eliadiani, questi sospese ogni contatto e, come rivela Bordas, che ha esaminato i diari inediti dello storico delle religioni romeno, confessò nelle sue note di essere molto amareggiato. Insomma, il rapporto fra i due andò avanti sempre fra alti e bassi, comprensioni e incomprensioni che avevano radici culturali e psicologiche, come ben documenta Bordas.

Il quale ha fatto un ottimo lavoro di esegesi incurante dei pregiudizi «politici» che man mano negli anni sembrano accentuarsi sia per Evola sia per Eliade. Ultimo esempio è un recentissimo articolo di Claudio Magris, in cui l'autore, elogiando lo scrittore romeno Norman Manea, afferma che Eliade è «il più grande rappresentante» di quella «grande e spesso cialtronesca cultura romena che genialmente ha indagato e talora pasticciato e falsificato l'universo del mito, disprezzando le ideologie (quelle liberali e democratiche) in nome delle ineffabili verità dell'occulto». Parole che rispecchiano una conoscenza di seconda e terza mano, sorprendente in una personalità come Magris, il quale confonde «occulto» con «esoterismo». 

Eliade fu sempre contro l'occulto (anche Gu´non ed Evola lo furono) e, come dimostra il saggio di Bordas, elaborò studi «scientifici» anche se si interessava degli autori «tradizionalisti». 

(di Gianfranco de Turris)

La Marcia su Roma? Servì a Mussolini per rassicurare l’Italia


Ma cosa sarebbe accaduto se il Re avesse firmato lo stato d’assedio e avesse impedito la Marcia su Roma? Ci sarebbe stata la guerra civile, i rossi sarebbero accorsi a dar manforte ai militi che fino al giorno prima sputavano o si sarebbero alleati ai fascisti? Non ci sarebbe stato il fascismo? Domande di patafisica che mi ponevo l’altro giorno a Gorizia, parlando della Marcia su Roma novant’anni dopo, al Festival «èStoria».

Cosa fu la Marcia su Roma? Una controrivoluzione preventiva, come scrisse l’anarchico Luigi Fabbri e dissero i comunisti? Un colpo di stato, come scrisse Missiroli? Una crisi parlamentare con salutare soluzione extraparlamentare, come pensò Croce? Una rivoluzione indolore, senza vittime e senza caos, come poi disse il Re? Un’insurrezione che poi diventò regime, come scrisse Mussolini? Una rivolta solo minacciata, una parata con prova simulata di rivoluzione? Sul piano dei fatti la Marcia su Roma fu tutto questo. Ma nel suo significato politico la Marcia su Roma fu una «rivoluzione rassicurante». Così fu concepita dal suo Capo. Fu una rivoluzione rassicurante perché volle rassicurare il Paese e il suo establishment, il popolo e i “palazzi”. Già dal 1921 il rivoluzionario Mussolini aveva lasciato i toni antisabaudi, anticlericali e antiborghesi. Con la Marcia rassicurò la Corona, lo Stato, le Istituzioni, le forze armate e i militi, la Magistratura, la Chiesa, la Borghesia, il Capitale, e pure il Parlamento, fece un governo di coalizione. E rassicurò gli italiani che si sarebbe ripristinata la legalità, l’ordine pubblico, la vita normale, la sicurezza sociale.

«Tutto funzionò in quei giorni - disse sette anni dopo il Re - non ci furono vittime, le scuole restarono aperte, i tribunali, i magistrati fecero il loro dovere, gli operai andarono ugualmente fiduciosi a lavorare». La rivoluzione, per il Re, riportò ordine nel «popolo più indisciplinato della terra».

In secondo luogo, la Marcia su Roma non fu la calata dei barbari sulla capitale. L’azione fascista nasceva dal grembo della cultura italiana, dopo lunga incubazione. Non la sostennero solo gli agitatori dell’arte e della letteratura, del giornalismo e del pensiero, i futuristi e i nazionalisti, Papini, Prezzolini, Soffici, D’Annunzio, Malaparte. Ma all’inizio anche fior di liberali come Benedetto Croce e Giovanni Gentile, Vilfredo Pareto e Gaetano Mosca, Maffeo Pantaleoni e Luigi Einaudi, Alberto de’ Stefani, Luigi Albertini e Ugo Ojetti. E personalità come Giacomo Puccini e Guglielmo Marconi, Luigi Pirandello, Ada Negri e Giuseppe Ungaretti, Umberto Saba e Giuseppe Rensi, il duca d’Aosta e la Regina Margherita. Croce addirittura presiedette nel 1914 il Fascio d’ordine che auspicava l’alleanza tra liberali nazionali e cattolici e criticava la massoneria, il giudaismo e il parlamentarismo. Poi paragonò le squadre fasciste alle «orde del cardinale Ruffo che avevano servito a scopi nazionali» e, da seguace di Sorel, disse a Giustino Fortunato che «la violenza è levatrice della storia». Alla Camera votò la fiducia al Duce anche dopo il delitto Matteotti.

Quando Lenin ricevette al Cremlino una delegazione della sinistra italiana guidata da Giacinto Menotti Serrati, disse che in Italia la rivoluzione potevano farla solo tre capi: D’Annunzio, Marinetti e Mussolini. Però gli altri due erano poeti... Ma D’Annunzio a Fiume fornì il prototipo alla Marcia su Roma.

Nel 1921 Mussolini siglò un patto di pacificazione con i socialisti, mentre nasceva il partito comunista dalla costola rivoluzionaria del Psi che era stata più vicina a Mussolini ai tempi dell’interventismo rivoluzionario: da Gramsci e ad Angelo Tasca, dall’interventista Peppino Di Vittorio a Nicola Bombacci, che poi finì fascista, ucciso insieme a Mussolini a Salò. Non a caso l’Italia fascista fu il primo Paese a riconoscere l’Unione Sovietica pochi mesi dopo la Marcia su Roma. Per Soffici la differenza tra la rivoluzione fascista e quella sovietica fu netta: «Mussolini è italiano, cioè appartenente a una civiltà superiore, a una razza di liberi, di saggi, di generosi. Mussolini non è un pazzo, un degenerato, un sanguinario cittadino di un paese incivile, primitivo, brutale e malato come la Russia... il fine di Mussolini è la pacificazione sotto la bandiera italiana».

Dove nasce la Marcia su Roma? Dalla Guerra vinta e sanguinante, frustrata e mutilata, i tanti caduti, l’esperienza del fronte con l’adrenalina ancora in circolo, le sue ferite aperte e le sue energie rimaste attive. Nasce poi dal caos del dopoguerra, dagli scioperi e dalle violenze del biennio rosso. E ancora: nasce dal cortocircuito tra decadenza politico-civile ed esuberanza giovanile-culturale. Infine dalla forte personalità di un Capo che fu chiamato Duce (dicono che il primo ad appellarlo in quel modo fosse stato Pietro Nenni, già suo compagno di galera, ai tempi dell’interventismo rivoluzionario).

Il fascismo fu, come scrisse Nolte, «il modello di una rivoluzione conservatrice e incruenta». Rivoluzione-restaurazione. Eppure era imbevuta degli umori più rivoluzionari: Marx, Nietzsche e il loro anello di congiunzione, Sorel, teorico della violenza. La stessa cosa avvenne con il totalitarismo: la parola fu coniata per il fascismo, la rivendicarono Gentile e Mussolini, ma il fascismo non fu mai un regime totalitario compiuto: non ne ebbe i tratti delineati dalla Arendt e la ferocia, ma anche perché durante il regime Monarchia e Chiesa, Capitale e Apparati dello Stato restarono in piedi, quasi indenni. Il fascismo fu un regime autoritario di massa, e poi una dittatura cesarista e nazionalpopolare.

Nel ’21 Mussolini si fece monarchico e legalitario, fu il primo «ateo devoto», ritenne la missione universale della Chiesa romana un orgoglio per l’Italia. Impresse la svolta di regime, come egli stesso scrisse su Gerarchia, quando istituì il Gran Consiglio del Fascismo e la Milizia Volontaria per la sicurezza nazionale, da un verso costituzionalizzando il fascismo ma dall’altro ponendo sotto tutela fascista lo Stato. È curioso infine ricordare che nel ’21 nelle consultazioni al Quirinale l’allora deputato Mussolini suggerì al Re di nominare capo del governo il presidente della Camera di allora, Enrico De Nicola. Quando cadde il fascismo e poi la monarchia, il monarchico De Nicola fu il primo provvisorio presidente della Repubblica. Heri dicebamus, avrebbe detto Croce. La democrazia riprese laddove era stata interrotta, e seguì il consiglio del Dittatore...

(di Marcello Veneziani)

domenica 20 maggio 2012

Io vorrei che l'Italia non fosse subalterna a nessuno


Monsignor Ernesto Galli della Loggia sul Corriere di domenica ci ha inflitto un'omelia per spiegarci che la Germania, nonostante la sua forza economica, non è adatta a guidare l'Europa. È difficile sintetizzare un'editoriale di Monsignore che la cede per prolissità solo a Eugenio Scalfari, comunque ci proverò. Secondo Monsignore la Germania è gretta, meschina, arida, incapace di sogni e “quando si addormenta la sera l'unico pensiero che può permettersi è quello sullo spread che l'attende l'indomani”. Per la verità non mi pare che gli italiani siano meno adoratori del Quattrino, con la differenza che noi tendiamo a rubarlo, la classe dirigente tedesca a usarlo in funzione del bene comune. Ma lasciamo perdere.

Si potrebbe obiettare a Monsignore che l'intera cultura europea degli ultimi due secoli è tributaria del pensiero tedesco, in ogni sua forma, filosofica, letteraria, scientifica, architettonica, urbanistica, musicale, da Kant a Heidegger, da Kafka a Thomas Mann, da Oppenheimer a Einstein, da Gropius al Bauhaus, da Mozart a Stockhausen, e che quindi sparare contro la Germania è sparare contro l'Europa. Ma è proprio ciò che interessa a Monsignore in favore dell'eterno 'amico americano'. Scrive: “Alla Germania manca la capacità di incarnare una 'way of life' libera e accattivante, di produrre universi mitico-simbolici... di inventare oggetti, specie beni di consumo (dalla gomma da masticare, alla Coca Cola, ai jeans) che alludono irresistibilmente a forme di vita easy”.

Io di questa mistica del chewing-gum ne ho pieni i coglioni. Dura da quasi settant'anni. E vediamola allora, a volo d'uccello, la storia di questo popolo tanto easy. Comincia con uno spietato e vigliacchissimo genocidio (winchester contro frecce), non disdegnando l'uso delle 'armi chimiche' allora disponibili (whisky per rovinare la salute dei pellerossa). Gli Stati Uniti sono l'unico Paese che in tempi moderni ha praticato al proprio interno la schiavitù (abolita solo nel 1862), scomparsa in Europa dal crollo dell'Impero romano. Hanno avuto l'apartheid fino a una cinquantina d'anni fa. Molto attenti alla propria pelle gli americani hanno una totale indifferenza per quella altrui. Alla fine della Seconda guerra mondiale bombardarono a tappeto Dresda, Lipsia, Berlino col preciso intento di colpire i civili, ammazzandone a milioni, “per fiaccare la resistenza del popolo tedesco”, come si espressero esplicitamente i loro comandi politici e militari. Sono i soli che abbiano usato l'Atomica.

Dopo la vittoria del 1945 hanno ridotto l'Europa in stato di minorità, di sovranità limitata e la Nato è stata uno dei principali strumenti per tenerla soggiogata, militarmente, politicamente, economicamente e, alla fine, anche culturalmente come dimostra il soccombista Galli della Loggia. Con la loro 'way of life' easy hanno provocato una crisi epocale che hanno poi scaricato sull'Europa e che continuano a scaricare con tutti i mezzi, non escluse le loro agenzie di rating. La crisi è partita dall'America, ma quel pseudodemocratico e pseudonero di Obama ha la faccia tosta di impartirci lezioni di moralità economica.

Io vorrei che l'Italia non fosse subalterna a nessuno. Ma se così deve essere, preferisco un'Europa guidata dalla Germania che sotto il tallone degli “easy, ariosi, liberi, umani” United States of America, di cui siamo, da troppo tempo, gli 'utili idioti'.

(di Massimo Fini)

sabato 19 maggio 2012

“Mi sfrattano per essere stato un militante del Fronte della Gioventù”. Autodifesa di Vattani



“Sarei curioso di sapere che cosa pensano del trattamento che mi sta riservando il ministero degli Esteri i molti personaggi politici provenienti dal Msi e poi da An, che hanno avuto incarichi di prestigio anche nei precedenti governi”. A parlare al Foglio è il console a Osaka, Mario Vattani, prima richiamato dalla Farnesina, poi reintegrato da una sentenza del Tar e ora di nuovo richiamato in Italia dopo una decisione monocratica del Consiglio di stato (la sentenza collegiale arriverà solo il 19 giugno): il tutto senza ancora alcuna decisione della commissione di disciplina e, in sostanza, perché quasi trent’anni fa faceva parte del Fronte della gioventù.

Il circo mediatico giudiziario si era messo in moto contro Vattani il 29 dicembre 2011, con un video pubblicato dall’Unità che lo ritraeva nella sede romana di CasaPound, sul palco, sotto pseudonimo, a cantare canzoni di gioventù. “Per poter ricorrere al Consiglio di stato”, spiega Vattani, “il ministero degli Esteri ha inserito una ‘considerazione a monte’ che al momento del ricorso al Tar non era stata usata”. Secondo la considerazione a monte, gli “elementi fattuali” che rendono Vattani colpevole – condannato senza processo – consistono nella sua militanza politica missina negli anni Ottanta. Questo renderebbe la permanenza all’estero del console “in palese contraddizione con le alte funzioni di rappresentanza dello stato che egli è chiamato a svolgere”, come si legge nella memoria della Farnesina. “Nel testo presentato al Consiglio di stato”, dice Vattani, “il ministero evidentemente considera incompatibile il passato nell’organizzazione giovanile del Msi con la rappresentanza dell’Italia all’estero. Ma nel periodo in cui io ero iscritto al Fronte della gioventù i segretari dell’organizzazione erano prima Gianfranco Fini – divenuto in seguito ministro degli Esteri – e dal 1988 Gianni Alemanno”.

Una campagna mediatico-giudiziaria senza precedenti, quella riservata al console, e riconosciuta come tale anche dal Tar, che nella sentenza del 5 aprile scorso dice che non bastano articoli di stampa e il video di un concerto per un decreto di richiamo. Il “clamore di stampa” suscitato da Vattani, e a lui imputato, secondo il Tar era in realtà dovuto alla sovraesposizione mediatica della vicenda da parte dei vertici del ministero. In sostanza la Farnesina si sarebbe danneggiata da sé, attribuendo enorme visibilità a una vicenda che per mesi non aveva interessato nessuno. “Invece di tenere conto dei fatti – dice Vattani – ci si basa sulla loro interpretazione da parte di alcuni giornali. Ma la cosa sconvolgente è che nessuno dalla Farnesina si è mai premurato di spiegare perché io fossi stato nominato a Osaka, o di fare un minimo cenno sul mio curriculum e sul fatto che conosco correntemente la lingua e la cultura giapponese”. Ora Vattani ha cinque giorni per traslocare a Roma, dopo il richiamo “urgentissimo” della Farnesina: “Farmi rientrare in cinque giorni, con una serie di impegni istituzionali già organizzati e centinaia di invitati, tra cui personalità politiche giapponesi, equivale a un gravissimo sgarbo nei confronti delle autorità giapponesi e a un grave danno d’immagine per l’Italia. E’ evidentemente un provvedimento vessatorio e punitivo che dimostra un accanimento quasi ideologico. Se è questa la lezione di diplomazia che mi si vuole dare…”.

(di Giulia Pompili)

giovedì 17 maggio 2012

Le verginelle della Lega


Tra le molte cose che non tornano nella vicenda della distrazione dei fondi della Lega a favore di alcuni beneficiari vicinissimi a Bossi oltre che, a quanto sembra, a Bossi stesso, una in particolare dovrebbe accendere la curiosità degli osservatori, dei commentatori e soprattutto dei militanti del Carroccio. E' l'incredibile atteggiamento delle vergini dure e pure che fino alla scoperta del malaffare che sta travolgendo il movimento (non si illudano i nuovi depositari del verbo: niente sarà più come prima, a cominciare dal patrimonio elettorale) che si dichiarano ignare di tutto quanto sta venendo fuori e si sentono addirittura vittime di un tipo come Belsito che hanno cooptato nel governo come sottosegretario, si sono seduti accanto lui nelle riunioni di partito, si sono fatti rappresentare in qualche importante consiglio di amministrazione ed hanno avallato con il loro silenzio tutte le operazioni finanziarie che l'amministratore - indicato a Bossi per quella carica dal morente Balocchi - ha ritenuto di mettere in campo, dai singolari investimenti a Cipro, in Norvegia, in Tanzania (respinti dalle banche di questo accorto Paese africano) alle generose elargizioni al sindacato padano ed alla famiglia del Capo.

Roba da non credere. Ma dove stavano Maroni e compagnia cantante quando il malaffare s'insinuava nel movimento? Possibile che proprio il ministro dell'Interno leghista non si accorgesse di nulla, non avesse "sponde" nel consiglio federale e nelle segrete stanze dell'amministrazione che lo informassero e  non potesse incaricare uno straccio di informatore che gli rendesse conto dei maneggi di denaro impropri  senza destare nessuna meraviglia? Come faceva Renzo Bossi a condurre una vita ben al di sopra delle sue possibilità prima di essere eletto consigliere regionale della Lombardia senza destare sospetti nei militanti? Ed il vasto clan bossiano in che modo si rapportava con Belsito nell'incuranza dei colonnelli leghisti, Maroni compreso?

Interrogativi per il momento senza risposta. A meno di non voler prendere per buona la tesi accreditata dal malandato leader: un complotto ai suoi danni. Ma se così fosse, Bossi dovrebbe quantomeno indicare chi lo avrebbe ordito. Non basta tirare in ballo genericamente servizi segreti, mafia, poteri forti e perfino centri di interessi che lambirebbero il governo. Una cortina fumogena per nascondere il pensiero di tanti, non soltanto di coloro più prossimi al "cerchio magico" secondo i quali le radici e le ragioni del complotto sarebbero da ricercare nella Lega stessa. Nomi non se ne fanno, al massimo si ammicca, si sussurra qualcosa. E se proprio si vuole dire di più basta tirar fuori riferimenti alle antiche divisioni che, guarda caso, hanno visto da tempo, almeno da quindici anni in qua, proprio Maroni al centro delle dispute tanto che ci fu chi ne propose l'espulsione, come ha ricordato lo stesso Bossi a Bergamo martedì sera durante una sgangherata manifestazione che, tra le gli altri aspetti, ha rivelato una dose di ipocrisia nella classe dirigente leghista insospettabile.

Il Carroccio non verrà travolto dallo scandalo, né dalla ostinazione di Rosi Mauro (un capro espiatorio a fronte di tante altre responsabilità oggettive) e neppure dalla confusione che regna ai vertici del partiti. Si affosserà per mancanza di una proposta politica in grado di unificare il variegato mondo dei militanti e degli elettori e per la mancanza di coraggio morale della sua classe dirigente nel condividere una brutta pagina della storia leghista ammettendo errori, colpe, omissioni. Insomma, non basta additare qualcuno come reo per salvare altri con cui per una lunga stagione ci si è spartito il sonno. C'è odore di stalinismo in pratiche del genere. L'onore di un partito lo si difende tutti insieme accollandosi ognuno la sua porzione di ingenuità o di malafede e facendo ammenda davanti al popolo che prima agitava cappi ed oggi la ramazza.

Quel popolo deve essere consapevole che se i capi del movimento non sapevano o non erano in grado di controllare, non sono adeguati ad inaugurare il tempo nuovo della Lega. Le frescacce secessioniste, le invocazioni alla Padania libera ed indipendente riproposte da Maroni che fino a ieri è stato ministro della Repubblica, l'orgia di indignazione sono prossime ai riti delle ampolle riempite con l'acqua del Po, alle regate rigeneratrici, al culto del Sole delle Alpi. Paccottiglia, insomma.  La politica è un'altra cosa. La morale un'altra ancora.

(di Gennaro Malgieri)

mercoledì 16 maggio 2012

Per non essere degli schiavi dobbiamo uscire dall'euro


Il rigurgito terrorista e la debolezza dei partiti hanno rafforzato il premier: ma adesso è ora di darci un taglio. I partiti politici non hanno superato, com’era del resto ampiamente prevedibile, la prova delle elezioni amministrative. Sconfitte diverse, ma tutte nette e definitive. Il Popolo delle Libertà è stato semplicemente ignorato. Con il suo leader in vacanza in Russia, la sua classe politica si è guardata allo specchio, scoprendo di non essere mai esistita. E comunque il famoso “patto con gli italiani” è rimasto in larga parte lettera morta. Il Terzo Polo, formato in larga parte da “traditori” degli altri due poli, è abortito ancora prima di nascere. La Lega Nord, da parte sua, persa in un modo così brutale la propria verginità, si è arroccata nei propri storici quadrilateri del veronese, che la tengono sì in vita, ma in stato di coma vegetativo permanente. Il Partito Democratico pensa di vivere nel migliore dei mondi possibili, come il Candido di Voltaire: di fronte al terremoto, si consola sostenendo che una sconfitta limitata - con la perdita di circa il 2% delle preferenze - equivale ad una vittoria. Dulcis in fundo: un italiano su tre non è neppure andato a votare e questo rende difficile pensare che qualcuno, compresi i grillini, abbia davvero vinto. Nessuno dei partiti italiani ha conquistato i milioni di voti degli elettori: sono voti che lasciano una sensazione di vuoto: quasi la metà del corpo elettorale non si riconosce più nei partiti.

Politica assente - Questo è il dato fondamentale che emerge dalla tornata elettorale: non ci sono forze politiche che rappresentano i bisogni materiali e spirituali autentici degli italiani. Il presunto successo dei grillini ne costituisce la controprova. Il cosiddetto “voto di protesta” è un ibrido tra il non-voto e la reazione “luddista”, ma è in ogni caso quanto di più politicamente innocuo e neutrale possa esserci: è la valvola di sfogo che il regime concede. Questo dissenso non è contro, ma a servizio dell’autorità: quello dei grillini rappresenta esattamente la percentuale di “no” di cui il governo tecnico di Monti ha bisogno per continuare a sostenere un presunto “stato d’eccezione” nel Paese, per continuare a legittimarsi come l’unica forma d’autorità in grado di prendere il posto dei partiti politici.

Supplizio prolungato? - E c’è chi già si è spinto a scommettere sulla possibilità di prolungare quel mandato anche dopo le elezioni. Come già osservava Ernst Jünger, «tracciando la sua croce in quel punto rischioso, il nostro elettore ha fatto esattamente ciò che il suo potentissimo nemico si aspettava da lui». Così l’esercizio del diritto di voto crea artificiose maggioranze e minoranze che non rispecchiano più in alcun modo la realtà.

Vince Monti - Possibile che nessuno abbia capito che il vincitore di queste elezioni è uno solo, che ha conquistato tutti i voti, l’unanimità, che è davvero riuscito a trasformare un’elezione democratica in un plebiscito a suo favore? Il governo Monti. A rafforzare l’unanimità, la “coesione nazionale”, sembra che sia giunta l’ondata di terrorismo degli ultimi giorni. Il classico specchietto per le allodole, se non avesse dietro di sé già una lunga striscia di sangue. La minaccia terroristica, nella storia di questo Paese, prelude sempre alle retoriche dei governi di unità e solidarietà nazionale, di fatto alla neutralizzazione della critica politica ed alla repressione di ogni forma di dissenso.

Il finto plebiscito - Tutto ciò crea una finta atmosfera da plebiscito a favore del governo Monti. Nel voto, sono stati occultati e rovesciati i bisogni reali degli italiani. Nemmeno un singolo “no” ha potuto esprimere ciò che avrebbe davvero voluto dire, ossia che gli italiani - come i greci del resto - ne hanno le palle piene dell’euro e dell’Europa, sono stufi di politiche ed economie che stanno portando alla miseria intere popolazioni. La moneta unica è stata fondata sull’espropriazione della sovranità dei popoli europei da parte di un potere invisibile, ma non per questo meno reale, di banchieri e finanzieri appartenenti ad esclusivi clubs e gruppi di decisione e pressione, rappresentato, in Italia, prima da Ciampi e Prodi, e ora da Monti e Draghi. A partire dal Trattato di Maastricht (1992), il quale istituì l’Unione Europea fondata sui cosiddetti “tre pilastri” (le Comunità europee, la politica estera e di sicurezza comune, la cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale), gli Stati hanno visto costantemente ridotte le proprie libertà e sottratti i propri poteri. Il Trattato di Amsterdam (1997) ha determinato poi l’espropriazione del settore della giustizia e degli affari interni, quello di Nizza (2001) ha portato a compimento l’immagine dell’Unione come “Comunità di diritto”, infine, il Trattato di Lisbona (2007) ha abolito i “pilastri” e si è presentato come una sostanziale “Costituzione dell’Europa”, nonostante proprio contro un’idea di costituzione europea si erano espressi i popoli europei, con il referendum tenuto in Francia e nei Paesi Bassi nel 2005.Si può uscire da questa situazione? Certo, liberandosi d’un colpo di questa doppia divinità malvagia: l’euro e l’Europa.

Confini perduti - Occorre l’immediato ripristino dei nostri confini nazionali, divenuti puri concetti geografici dopo gli accordi di Schengen, integrati a partire dal 1997 nelle strutture comunitarie. Nello “spazio Schengen” le frontiere esistono ancora solo come linee geometriche, prive di ogni rilevanza politica, del loro essere segno visibile della sovranità di ciascuno Stato. Lo Stato italiano cominci intanto a riprendersi la propria sovranità sul suo territorio nazionale. Occorre, inoltre, la fine di questo sistema parassitario ed usuraio di economia monetaria e finanziaria. Sono gli Stati ad essere i creditori dell’Europa, sono i popoli che anticipano ai banchieri il capitale di cui essi hanno bisogno, e soltanto con un gioco di prestigio questi stessi popoli e Stati ne divengono improvvisamente i debitori costantemente insolventi. Non c’è nessuna trattativa da intraprendere con i banchieri di Bruxelles. Il Trattato di Lisbona, all’art. 50, ha inventato un complicato congegno di «recesso dall’Unione»: lo Stato membro che decide di uscire dall’Europa, dovrebbe notificare la propria intenzione al Consiglio Europeo, e negoziare poi direttamente con l’Unione un accordo «volto a definire le modalità del recesso». Ma la denuncia dei trattati non si negozia, è una decisione del popolo sovrano che, una volta presa, si limita ad essere notificata alle altre parti. Non abbiamo bisogno né di revisioni né di accordi di recesso dai trattati, ma soltanto del loro stralcio. Un nuovo ordine politico a livello europeo è difficile da vedere, ma l’Europa dei banchieri è in agonia, bisogna avere il coraggio di darle il colpo di grazia.

(di Paolo Becchi - Ordinario di Filosofia del diritto all'Università degli studi di Genova)

Francia, altro che cambiamento. Hollande? Nel club di Bilderberg


Altro che cambiamento rivoluzionario. Il neoeletto presidente francese François Hollande è un globalista convinto. Come scrive senza giri di parole Paul Joseph Watson sul Los Angeles Times è un altro tirapiedi del Bilderberg. Questo si evince dal fatto che il nuovo inquilino socialista dell'Eliseo è un pro-europeo tutto d'un pezzo visto che ha sostenuto nel 1992 il Trattato di Maastricht e un acceso sostenitore dell'Euro

Ha inoltre sostenuto la Costituzione europea in un referendum del 2005, nonostante la maggior parte dei suoi alleati socialisti votassero contro di essa. Hollande, da portavoce dell’ex presidente Jospin ha partecipato alla riunione del Gruppo Bilderberg nel 1996.  Hollande ha mutuato il linguaggio e la tempra da quello che lui considera il suo mentore, Francois Mitterand. Il presidente socialista era un massone di 33° grado, lo stesso che commissionò la piramide del Louvre costruita con 666 pannelli di vetro. Assieme al Cancelliere tedesco Helmut Kohl (membro del Bohemian Grove), Mitterand generò il Trattato di Maastricht. Si dice che il Bilderberg sia stato l'artefice della vittoria presidenziale di Mitterand nel 1981.

Ma c'è di più il consigliere speciale di Hollande non è altro che Manuel Valls, ex massone e membro del Bilderberg, che appoggia apertamente la creazione di un superstato federale europeo a scapito della sovranità nazionale. Valls ha pubblicamente invitato la Commissione europea al controllo dei bilanci nazionali dei paesi membri dell’Unione Europea. In sostanza, secondo Watson, Hollande sarebbe un globalista e sostenitore entusiasta dell’etica dittatoriale dell’Unione Europea nell’eliminazione di ogni sovranità nazionale. In definitiva il neo presidente transalpino è un portatore d’acqua al mulino delle élites e tasserà a sangue la classe media portando avanti il sacrificio della sovranità nazionale francese sull’altare del superstato europeo.

martedì 15 maggio 2012

La Grecia come Weimar? Oggi l’Europa ha più colpe


Lo storico Franco Cardini analizza la crisi ellenica: «Il pericolo per Atene è l’ottusità di Bruxelles più che i neo-nazisti di Alba Dorata. L’unione europea prima chiede sacrifici poi alle prime difficoltà ti scarica. In mezzo secolo l’Europa non è diventata una patria. E ci si sacrifica per una patria, non certo per una banca».

Giornata cruciale, forse decisiva per la Grecia. Il futuro della più antica democrazia politica si decide nella disperata corsa contro il tempo promossa dal capo dello Stato, l’ottantaduenne Karolos Papoulias, per dare vita a un governo di responsabilità nazionale imperniato sull’alleanza tra i conservatori di Nea Dimokratia, i socialisti del Pasok, Sinistra Democratica e i populisti euroscettici dei Greci Indipendenti. Le trattative fra le formazioni favorevoli a un esecutivo in grado di allontanare lo spettro di un nuovo ricorso al voto anticipato e di porre fine alla paralisi parlamentare scaturita dalle urne appaiono incerte e aperte a ogni sbocco. Finora è caduto nel vuoto qualunque tentativo di sbloccare lo stallo e di ricomporre in una cornice coerente l’intricato mosaico ellenico. Così, la prospettiva della permanenza di Atene nell’Eurozona si allontana pericolosamente, la liquidità nelle casse dell’erario è agli sgoccioli, i gruppi e i movimenti estremisti e massimalisti aumentano i propri consensi (alle recenti elezioni l’organizzazione neonazista Alba Dorata ha preso il 7% ed è entrata per la prima volta in Parlamento), cresce la polemica e l’avversione contro governanti e istituzioni comunitarie pronti a abbandonare il paese al suo destino. Le ombre della Germania di Weimar si addensano sul Pireo? Linkiesta lo ha chiesto a Franco Cardini, principale storico italiano del Medioevo e spirito critico di una modernità occidentale “distruttiva delle singole identità culturali e religiose”, e di un’egemonia finanziaria “incontrollata e ostile alla costruzione di un’autentica patria europea”.

Ritiene plausibile ipotizzare un’analogia tra la Grecia di oggi e la fase conclusiva della Repubblica di Weimar?

Generalmente sono contrario ai paragoni storici, che zoppicano sempre. Non va però dimenticato che un inquietante parallelo esiste: la Grecia di oggi, sia pure in modo diverso, è rimasta priva dell’appoggio dell’Europa esattamente come avvenne alla Germania weimariana. Ovviamente, i vertici dell’Ue negherebbero una simile analogia. E non mi interessa sapere se siano o meno in buona fede.

Quali affinità individua fra le due realtà storiche?

La crisi economica e sociale, che provoca l’impoverimento della classe media. La debolezza e il crollo di credibilità dei grandi partiti, fino a ieri assi portanti della Repubblica e guide indiscusse delle sue istituzioni in una logica di tendenziale bipartitismo. Una caduta aggravata dalla contemporanea avanzata delle formazioni estremiste, massimaliste e populiste, con una accentuata divisione e radicalizzazione a sinistra e l’aumento esponenziale di voti per Alba Dorata sul versante opposto. Quindi rilevo la frammentazione della realtà parlamentare, che impedisce la creazione di un governo efficace e incisivo anche grazie a una legge pienamente proporzionale. E infine l’ostilità diffusa contro un’Europa percepita come “matrigna” e contro le istituzioni economiche internazionali che “vogliono ridurre la Grecia allo stremo”. Fattori che contribuiscono a determinare l’incremento della disaffezione verso la democrazia politica da parte dei cittadini.

Gli esponenti di Alba Dorata presentano inquietanti somiglianze con i nazionalsocialisti tedeschi, dalla simbologia alla propaganda contro i “traditori responsabili della crisi”, i “nemici della patria che devono cominciare ad avere paura”.

I neo-nazisti di Alba Dorata sono caricature, anche se per ora hanno l’aria di essere più seri e concreti di quanto non siano abitualmente i loro colleghi sparsi un po’ dappertutto in Occidente. Le loro idee sono grossolanamente scioviniste e xenofobe, punto e basta. La Nsdap aveva ben altre serie e profonde radici, specie nel combattentismo e nel mondo sindacale e operaio. Alba Dorata è un aperto remake, una specie di copia: le copie non hanno mai fortuna, e nella migliore delle ipotesi fanno una fine ridicola.

Riscontra analogie tra l’atteggiamento della Ue, della Bce, del Fmi verso la Grecia, e quello delle potenze occidentali che nel 1919 imposero alla Germania condizioni umilianti e intollerabili attraverso il trattato di Versailles?

Analogie formali, nell’intransigenza e nell’ottusità. Ma i contesti sono del tutto diversi. E anche il ruolo della Grecia di oggi nei confronti dell’Europa, paragonato a quello di una Germania pur in ginocchio negli anni Venti e Trenta, è ben diverso. Per rovinata e disperata che fosse, la Germania dell’epoca restava una colonna d’Europa. Semmai, c’è da chiedersi se l’affinità più impressionante sia quella tra la crisi del 1929 e la tempesta finanziaria in corso. Ma, anche qui, le equiparazioni storiche non risolvono granché.

Rispetto agli anni di Weimar esistono l’Unione europea e l’euro. Non è una differenza fondamentale?

La differenza sta nel fatto che, nonostante la Società delle Nazioni, negli anni Venti gli stati erano indipendenti l’uno dall’altro, mentre oggi viviamo in un regime di sovranità limitata. Il che rende l’Europa ben più responsabile di quanto non fosse allora. Ma l’Ue non può comportarsi come un corpo unico e solidale quando si chiedono sacrifici e poi mollare chi dimostra di faticare a tenere il passo.

Come può Atene allontanare lo spettro di Weimar ed evitare la catastrofe?

È l’Unione Europea che deve impedire a chiunque - Atene, Madrid, Roma - di cadere nel baratro, a costo di ridefinire tassativamente il suo livello di vita. I passi compiuti verso l’integrazione comunitaria sono irreversibili, pena un tracollo del quale sarebbero inimmaginabili le conseguenze. Anzi, la crisi dovrebbe essere una ragione per passare finalmente da un’unione economico-finanziaria a una seria unità politica dell’Europa. Mancano però le premesse di un simile percorso. Nell’ultimo mezzo secolo non si è fatto nulla per preparare la maturazione di un senso civico europeo, di un patriottismo europeo. E nulla è stato fatto per edificare istituzioni politiche, giuridiche, diplomatiche e militari che sarebbero indispensabili a una federazione o a una confederazione europea. Ora è chiaro che nessuno vuole sacrificarsi per le banche. Potremmo sacrificarci per una patria: ma non si è riusciti a far divenire patria l’Europa.

(fonte: www.linkiesta.it - di Edoardo Petti)