martedì 26 febbraio 2013

Chi ha scientificamente asfaltato la Destra


Ricorderemo a lungo le elezioni politiche che si sono appena svolte. E per tanti motivi che non starò qui ad elencare tanto sono noti e all’attenzione di tutti. Ma ce n’è uno che sarebbe storicamente ingiusto sottovalutare. Dai risultati emerge l’assenza dal Parlamento di un soggetto unitario di destra. Non era mai accaduto dal 1948.

Prima con il Movimento Sociale Italiano (sia pure nel 1976 con l’appendice scissionistica di Democrazia nazionale), poi con Alleanza nazionale, c’è sempre stata nelle massime assemblee rappresentative un movimento riconducibile ad una storia, ad una cultura, a dei valori che sono stati qualificati “di destra” e come tali sono stati percepiti  e riconosciuti da masse crescenti di cittadini.

Non saranno i nove deputati di Fratelli d’Italia e i pochi “destristi” sopravvissuti alla mattanza consumatasi nella compilazione delle liste del Pdl, a poter rappresentare la destra per quel che è o dovrebbe essere. Chi ritiene, mettendosi la coscienza a posto, che bastano appunto poche frammentarie e slegate, per quanto rispettabilissime presenze, riferite ad un mondo in via di estinzione (almeno dal punto di vista parlamentare), per poter sostenere che la destra esiste, vuol dire che si accontenta di poco. E magari cerca alibi alla propria inerzia.

La verità è che la destra è stata scientificamente asfaltata. Gli esponenti e gli aspiranti candidati esclusi che non hanno inteso seguire l’impervia e rispettabile strada intrapresa da Fratelli d’Italia, né si sono riconosciuti nel partito di Storace, adesso sono senza casa. Ma, a ben vedere, lo sono anche i pochi inquilini che hanno trovato posto nelle liste berlusconiane che tuttavia per le posizioni ottenute non sono stati eletti.

I parlamentari provenienti da An che si sono acconciati a testimoniare le loro differenze, dando vita a Fratelli d’Italia e a La Destra (che non ha ottenuto seggi), da quello che doveva essere il partito unico del centrodestra, non credo, comunque, che  possano sentirsi appagati della loro scelta. Immagino che registrino, come tutti, il fallimento di un progetto del partito unico del centrodestra che, a conti fatti, non era maturo, né culturalmente, né tantomeno politicamente. Fallimento suggellato dalla scomparsa politica di Gianfranco Fini e del suo velleitario movimento che, in verità, non è mai decollato proprio perché negava la destra in radice.

La storia di questi ultimi cinque anni la si può leggere in tanti modi, ma credo che con la piega che hanno preso gli eventi si possa dire che la destra è stata “cannibalizzata” per non aver saputo esprimere all’interno del contesto berlusconiano una propria identità, fattore  che ha pregiudicato il suo apporto alla costruzione del nuovo partito.

L’errore di sciogliersi in un indistinto movimento a vocazione carismatica nel febbraio 2008 ha segnato la fine di An e l’inizio della fase più acuta dello scontro tra Fini e Berlusconi con gli esiti che sappiamo. Il partito unico non era alla portata: operazioni del genere, che implicano la condivisione culturale e politica di un progetto che può affinarsi nel tempo attraverso una riflessione profonda, se non producono un amalgama sono destinati a fallire. Il “fusionismo” è una grande lezione che pochi a destra hanno appreso dal conservatorismo americano: esso si fonda sulla necessità di non disperdere energie e risorse unendo tutti coloro che sono animati da una stessa visione valoriale del mondo e della vita. Quando mai nel centrodestra è stata avviata una discussione sulla consistenza identitaria derivante dalle cessioni di identità dei vari soggetti che hanno concorso a formarlo? Pochi, e per di più inascoltati, hanno richiamato questa esigenza che, tradotta in termini politici, avrebbe portato ad una unione tra le diverse componenti fondata su una nuova cultura e su una più efficace e radicata rappresentanza territoriale.

La destra, forse più strutturata anche “ideologicamente”, avrebbe potuto offrire un apporto decisivo alla composizione di un movimento che, in senso europeo, si sarebbe potuto qualificare e rappresentare come “conservatore”, dinamico e riformista nella sfera della modernizzazione istituzionale e sociale ed al tempo stesso custode dei principi della tradizione nazionale e popolare.

Diciamocelo francamente: non è stata all’altezza appiattendosi su un berlusconismo di comodo che non ha giovato neppure allo stesso Berlusconi il quale avrebbe, molto probabilmente, tratto maggiori vantaggi politici dal contributo di una destra che non dimenticava se stessa ed era perciò in grado di intercettare quel suo elettorato che con fatica si è visto trascinare nell’indistinto di un sistema partitico che non gli apparteneva, che sentiva estraneo.

Non sarebbe stato certo un dramma se, constatata l’impossibilità della convivenza, si fosse dato luogo, nell’ambito del centrodestra ad una federazione di soggetti, ognuno legato ad una ben precisa porzione di opinione pubblica. Dal punto di vista elettorale avrebbe consentito a tutti di cooperare per il bene comune di una coalizione composita e plurale nella quale le differenze sarebbero state il lievito della crescita fino a quando non fossero maturate le condizioni, in un sistema effettivamente bipolare, per la costruzione di quel “partito degli italiani” che è sempre stato l’obiettivo di una destra attestata sul fronte della pacificazione, alla quale nulla è risultato in questi anni più estraneo della contrapposizione muscolare tra avversari.

La destra, dunque, si è sostanzialmente dispersa, un po’ per il fatto di non aver creduto nelle sue potenzialità, e un po’ perché ha smarrito la sua strada  cadendo in azzardi politicisti che hanno finito per perderla come comunità. Dopotutto, checché se ne dica, questa era la sua forza: una comunità di destino nella quale i principi dell’autorità, della gerarchia, del libero dialogo tra pari, il culto della memoria storica e del primato della politica, della lealtà e della fedeltà valevano più di ogni altra considerazione rispetto alle logiche di potere che l’hanno snaturata ben oltre la volontà di chi, probabilmente, si è distratto rispetto alle prospettive che il suo mondo nutriva.

Detto degli errori, su cui chi vorrà avrà tempo e modo di indagare, non è scusabile l’atteggiamento di vera e propria ostilità di quanti la destra l’hanno marginalizzata in vista delle elezioni. Utilizzando criteri a dir poco discutibili, smentiti da deroghe arbitrarie, si è fatta macelleria politica con allegrezza quasi. Tanto da ritenere che quella destra che Fini portò in dote a Berlusconi e che poi abbandonò non per fare un’altra destra, ma qualcosa di indistinto, confuso, incomprensibile, come si è visto, non ritenuta più utile ad un qualche scopo è stata senza eleganza messa fuori dal Parlamento.Tutti adesso, provenienti da uno stesso mondo, sono “fratelli separati”: una storia che abbiamo già visto consumarsi a sinistra, ma ripetendosi a destra non si palesa come una farsa, contraddicendo per una volta il vecchio Karl Marx, bensì come una fuga dove non c’è niente e nessuno.

La fine di un movimento politico, comunque, non dà automaticamente luogo alla fine delle idee che storicamente lo hanno caratterizzato e che, bene o male, ha rappresentato producendosi, tra l’altro, in un lungo lavorio teso all’elaborazione culturale e al superamento di anticaglie che ne pregiudicavano l’agibilità sul terreno della partecipazione alla vita pubblica. Esiste una “destra diffusa”, insomma. Attende che qualcuno la ricomponga sotto un tetto. E le dia un avvenire sia pure in un tempo che i protagonisti di oggi forse non riusciranno a vedere.

(di Gennaro Malgieri)

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