mercoledì 8 giugno 2011

L'anti Santoro di destra: Berlusconi non lo vuole

Con la migrazione di Santoro a La7, la tv italiana è così divisa: Mediaset fa in prevalenza intrattenimento, La7 fa in prevalenza informazione orientata a sinistra e la Rai prosegue anemica e lottizzata, due terzi a chi governa e uno a chi si oppone. Più Sky con un taglio asettico, e opinioni lievemente inclinate a sinistra. È curioso notare che le televisioni riconducibili a Berlusconi influenzano politicamente meno di tutte. La7 marcia verso la Repubblica e De Benedetti e assume ormai la guida del cartello antiberlusconiano in versione soft (Mentana), strong (Lerner), acida (Gruber), shakerata (Costamagna-Telese), comica (Crozza, Chiambretti e vari) e ora plateale-giacubbina (Santoro, Travaglio, Vauro, Celentano). Non sono passati ancora con gli insorti quelli di Raitre (Fazio, Littizzetto, Dandini, Floris, Annunziata ecc.). Ma la carovana è in marcia.

In Rai è da segnalare la patologia grottesca di Raidue: è un canale attribuito alla maggioranza ma ha avuto il suo programma di punta con Annozero di Santoro e un tg equidistante perché il suo ex-direttore Orfeo proveniva da sinistra (ex-Repubblica), è sponsorizzato da Fini e da Casini (presso il cui suocero è tornato a lavorare), ma era stato nominato dal centrodestra. Tre al prezzo di uno. Risultato, somma zero. Ora è nell’interregno ma Raidue dai tempi del craxismo ha perso la sua personalità di rete. È vero, tra Santoro e la Rai non si poteva più andare avanti. È una guerra che durava dal ’97 e la prima fuga dalla Rai di Santoro fu all’epoca di D’Alema premier: allora si rifugiò addirittura da Berlusconi (Italia uno). Ma al suo rientro la situazione incancrenì e cominciò la guerra decennale con Berlusconi.

Sulla permanenza in Rai di Santoro bisogna intendersi a proposito della missione del servizio pubblico: se il servizio pubblico deve tenere un profilo sobrio e il più possibile imparziale e deve tendere a rappresentare in tutti i suoi programmi tutti gli orientamenti, o perlomeno a non mortificarne nessuna area di utenti, allora Santoro era un corpo estraneo e ostile. Era un secessionista, si era creato una repubblica indipendente, faceva uso settario di un servizio pubblico.

Però c’è un’altra idea, che personalmente ho sostenuto del servizio pubblico. Visto che è impossibile e forse noiosa una tv tutta neutrale, innocua e cerchiobottista, allora cerchiamo di diversificare l’offerta. Magari una rete, l’ammiraglia, tenda all’obbiettività, e le altre due offrano punti di vista opposti, opinioni forti e schierate. Sì a Santoro se c’è un AntiSantoro, e il cittadino-utente decide sovrano con lo zapping.

Ma qui sorge un mistero. Il principale imprenditore di tv in Italia, il comunicatore politico per eccellenza, colui che avrebbe vinto alle elezioni per grazia di Dio e volontà della televisione, dico Berlusconi, non ha mai sfornato dalla sua premiata ditta o nella stessa Rai un AntiSantoro, un AntiBiagi, un AntiFazio e via dicendo. Da quel che ho visto e capito, mi sono fatto questa idea: Berlusconi non è incapace di farlo o di capirlo, ma non vuole farlo. Preferisce che la tv intrattenga e magari porti il consenso tramite l’evasione, salvo porgere ossequiosa e silente il microfono alla politica. Berlusconi non è interessato a conduttori, programmi, inchieste di opposta faziosità. Non è nelle sue corde, nella sua indole. Forse perché resta impolitico e anti-ideologico, forse perché è egocentrico e monarchico, forse perché preferisce le barzellette e le canzoni... Ma questa è l’asimmetria tra chi è di sinistra e chi non lo è. Resta il paradosso che il Telarca, il signore della Tv, non vuole figli in video.

La controprova è il profilo light di Mediaset sul piano politico. Sullo sfondo resta il problema della Rai arenata sulla spiaggia come una balena. Raccoglie carcasse di dinosauri come Costanzo e Amurri, magari Baudo e la Carrà. Ma è incapace di muoversi e di rischiare, paurosa di tutto e costretta a frenare e amputare perché in balia di ogni potere e sottopotere. Magari non è colpa di chi la guida perché non ha poteri per rischiare. Povera Lei e poveri noi.

(di Marcello Veneziani)

Non vado a La7: farei solo la foglia di fico


Anche Pietrangelo Buttafuoco era in trattativa avanzata con La7. Poi tutto si è fermato. Ora però hanno ripreso a cercarlo.

Andrà anche lei a La7?

«No. Gli ultimi contatti si sono rivelati inutili, simpatiche perdite di tempo officiate dal direttore di rete Tombolini».

Non era una cosa concreta?

«All’inizio. Poi si è trasformata in qualcosa di diverso. Volevano diluire la mia presenza con dei documentari per nottambuli».

Un suo talk show farebbe da contraltare a Santoro & Co...

«A loro interesserebbe per calmierare lo sbilanciamento a sinistra. Ma sarei una stupida foglia di fico circondata da ostacoli, utile a confermare il teorema che fuori da quel gruppo nessuno sa fare tv».

Invece?

«Approfitto per ringraziare Angelo Guglielmi non tanto per aver detto sul Fatto che sono l’unico che sa fare tv fuori dal circolo...».

Quanto per...

«Aver elogiato il difetto di non obbedire ai diktat della politica. Che sono quelli che in piena età berlusconiana mi hanno impedito di realizzare alcunché in Rai. Tant’è vero che quando sono arrivati quelli di destra, hanno cancellato Il grande gioco su Raidue».

Senza offrire alternative?

«Solita proposta: sofisticati documentari da mandare a tarda notte su reti secondarie».
Domenica sera ospite di «In Onda» ha detto che Santoro e Berlusconi si rafforzano a vicenda.
«Ritengo che, in tema di tv, la destra in genere e Berlusconi in particolare abbiano svolto un solo ruolo: fare da ufficio stampa a Santoro».

Addirittura!

«Ogni uscita contro di lui ne ha aumentato la potenza di fuoco».

Finisce un’epoca?

«Finisce l’epoca della tv generalista e di Santoro conduttore unico delle coscienze. Gli uomini della destra continuano a non capire che dieci ore di marchette nei tg e altre diciotto di monologhi di Berlusconi sono annullate da un minuto di Santoro, Fazio, Dandini. E da mezzo di La7».

Chi ci guadagna e chi ci perde?

«Ora si può dire: c’era una volta la Rai prima industria culturale italiana. Sul piano del linguaggio subisce un danno maggiore a quello che ebbe quando nacque la tv commerciale».

Boom!

«Se la concorrenza ha migliorato le performance di tutti, ora la Rai dismette l’autorevolezza. Dopo la trionfale marcia di Mentana, con il probabile arrivo di Santoro, il rafforzamento di Lerner e lo charme di Daria Bignardi, per la parte più giovane e sveglia dell’opinione pubblica La7 è il marchio distintivo».

Per la tv di destra non c’è speranza.

«Ha ragione Ferrara: la tv è de sinistra».

Cause genetiche o storiche?

«Ha presente la magistratura, l’università, le élites culturali, la tribù azionista? La tv è come tutto questo: cosa loro».

Se hai una possibilità come l’ha avuta Sgarbi e la usi così...

«Quel programma è nato come capriccio del sovrano. Credo che Mediaset non l’avrebbe trasmesso».

Bisogna rassegnarsi?

«Per quel che riguarda la mia esperienza è una vicenda chiusa. Usando un linguaggio semplice, la destra troverà spazio in tv quando la sinistra tornerà a governare».

È un pronostico?

«È un fatto. Se non ci fosse stato Santoro non avremmo conosciuto dei fuoriclasse come Nicola Porro, Maurizio Belpietro e Daniela Santanchè, la nuova Sarah Palin. Renata Polverini è diventata governatore del Lazio grazie a Floris. Una trasmissione di destra non avrebbe mai saputo valorizzare simili talenti».

C’è anche la beffa...

«La sinistra è più professionale e ha bisogno di una contrapposizione per affermarsi. Ma così regala visibilità anche alla destra che pure ha un gruppo dirigente culturalmente inadeguato. Oggi, per esempio, saremo tutti all’adunata di Giuliano Ferrara, ma sono certo che i berlusconiani della Rai non si faranno vedere».

A proposito di Rai, autorevoli commentatori hanno scritto che dirigenti d’azienda che lasciano andare un professionista così andrebbero licenziati...

«Andrebbero licenziati i loro mandanti politici. Anche perché peccano di autolesionismo e di intelligenza con il nemico».

Per esempio?

«Nella sua azienda, col cavolo che Berlusconi si mette a censurare o controllare uno come Claudio Bisio che garantisce ascolti elevati. Gli concede persino il lusso di condurre la serata di festeggiamenti per Pisapia. E se questo da un lato dimostra che Berlusconi non è un liberticida, dall’altro scatena corti circuiti e schizofrenie nei suoi servi sciocchi. Bene, ciò detto, ho sicuramente chiuso con la tv. Da una parte e dall’altra».

(di Maurizio Caverzan)

martedì 7 giugno 2011

La politica del Conte Ugolino


Quello che ci aspetta nei prossimi due anni lo conosciamo già. Lo abbiamo visto tante volte nella vita politica e intellettuale italiana. I roditori che diciassette anni fa erano saliti sul rutilante Rex che doveva portare l'Italia verso non si sa quali meravigliosi lidi, dopo averne saccheggiato le stive abbandoneranno la nave che sta per affondare. No, non si butteranno in mare. Il coraggio del suicidio, nemmeno quello politico, non gli appartiene. Non sono sorci, son uomini. Prima che la nave vada sotto la linea di galleggiamento armeranno scialuppe di salvataggio, protenderanno passerelle, lanceranno gomene verso quella dei probabili vincitori. Fuor di metafora sarà uno smottamento lento, graduale, prudente (non si sa mai), la sagra dell'"io l'avevo detto" (vedi, per tutti, il fondo di Galli della Loggia sul Corriere di venerdì) per potersi trovare, al momento opportuno, se non fra i vincitori almeno nelle loro immediate vicinanze. E saranno accolti come il 'figli prodigo'. Non per carità cristiana, ma perchè la classe dirigente italiana è un sistema di oligarchie il cui obbiettivo primario è la propria autoconservazione. Quella politica e intellettuale è l'unica, vera, classe in termini marxiani rimasta su piazza. La presidenza di un Ente pubblico, l'ingresso in un prestigioso Consiglio di amministrazione, la conduzione di un talk show non si nega a nessuno. In modo che al prossimo giro, a parti invertite, sia restituito il favore. Questa è la democrazia liberale, bellezza. Non quella immaginata da Stuart Mill o da Locke che voleva valorizzare meriti, capacità, potenzialità dell'individuo, ma quella reale, vera, praticata, che pretende affiliazioni a questo o a quel gruppo di potere ed emargina chi conserva quel tanto di rispetto di se stesso per rifiutarsi a questi umilianti infeudamenti e che sarebbe il cittadino ideale di una democrazia, se esistesse davvero, e ne diventa invece la vittima designata.

Ma le lotte più feroci non si avranno fra gli sconfitti, ma fra i vincitori, scene dantesche, da Conte Ugolino, in cui non si esiterà ad azzannare il cranio del compagno di ieri pur di affermare la propria primogenitura nell'aver affondato il Rex e il Corsaro che lo capitanava.

Abbattuto il Corsaro certamente il Paese godrà di un restyling estetico, perchè l'uomo, negli ultimi anni, era diventato da neurodeliri, da autoambulanza oltre che da cellulare, ma nulla, nella sostanza, cambierà. Perchè il problema dell'Italia non è di uomini, anche animati da buona volontà, ma di un sistema marcio fino al midollo, che si è incistato nelle nostre fibre più intime, di una metastasi che nulla, se non un evento realmente traumatico, può estirpare, di un Paese che ha perso, non solo nella classe dirigente ma nel suo popolo, ogni etica, ogni valore condiviso che non sia il Dio Quattrino. Un Paese così non lo ha inventato il Corsaro, anche se ha contribuito a potenziarlo con le sue Tv, se lo è trovato già bell'e pronto e lo ha utilizzato, al peggio.

Intanto alla Festa della Repubblica per i 150 anni dell'Unità d'Italia il presidente Napolitano ha ricevuto Hamid Karzai, l'emblema della corruzione 'democratica' che l'Occidente ha portato in Afghanistan, e ha elogiato le Forze Armate, sia italiane che alleate, per il coraggio e lo spirito di sacrificio con cui difendono la pace nel mondo. Non più tardi di domenica questi coraggiosi 'missionari di pace', non avendo il fegato di affrontare i guerriglieri talebani nemmeno ad armi impari, hanno chiamato in soccorso gli aerei della Nato che, bombardando a casaccio un villaggio, hanno assassinato dodici bambini afgani. Un giorno questo sangue innocente, sparso a piene mani in una guerra ignobile, ci ricadrà sulla testa.

(di Massimo Fini)

domenica 5 giugno 2011

L’importanza di essere democristiano



Il posto delle fragole di Ettore Bernabei, novantanni a maggio, quercia del 1921 indisponibile a perdere le foglie, è una casa in campagna al confine tra il Lazio e l’Abruzzo. È qui, in faccia all’A24, con il vento che accarezza l’erba e il conforto di Eschilo e Bernard Shaw, che Bernabei medita sulla resurrezione di Cristo e ricorda tutte le volte che, da direttore generale della Rai, venne messo in croce. Arrivò nel 1961, rimase fino al ’ 74. Innovazioni, censure, polemiche, lottizzazioni, lampi di pedagogica televisione. Tognazzi che faceva il verso a Gronchi, Carosello, le tribune politiche di Jader Jacobelli e Canzonissima. Il boom, il ’68 e piazza Fontana. Le tintarelle di luna e i drammi al sole.

Bernabei era ed è democristiano, anche se la Dc: “Era decotta già due decenni fa e nessuno saprà riproporne l’esperimento». Ha conosciuto e consigliato pontefici e cardinali, presidenti del Consiglio e capi di Stato, indirizzando carriere e frenandone altre. Ha vestito e continua a indossare il saio da ieratico, ascoltatissimo profeta dei piani alti, anche se assicura: «Per me il potere non è mai stato quello che Kissinger definiva l’afrodisiaco supremo». Riflette su ogni parola, quando cerca la concentrazione chiude gli occhi azzurri dietro la montatura degli occhiali e non di rado alza la voce e diventa porpora in corrispondenza di un concetto. Ha inventato dal nulla e affidato ai figli Matilde e Luca la Lux, produzione tv specializzata in plot graditi al Vaticano. Ha messo al mondo otto figli con la stessa moglie con la quale convive felicemente da più di 65 anni. Legge dieci giornali al giorno, prega e a tavola gareggia con Pantagruel. «In qualità, però». Porcini, bistecche, vino rosso. Poi si alza e cammina senza percepibili aggravi: «Sente che arietta rigenerante qui?».

La Rai non è più la stessa di Bernabei, dicono.

«Forse, ma io credo che la nostalgia sia il più inutile tra i sentimenti. Passano i decenni, cambiano le piattaforme, aumenta la scelta. Solo il ruolo di direttore generale è rimasto lo stesso di allora ».

Ovvero?

«L’orso del luna park da abbattere».

Cosa pensa della Rai diretta da Mauro Masi?

«Niente di particolare. Quella di Stato sopravanza la concorrenza privata, ma complessivamente ritengo la tv un prodotto della globalizzazione usato negli ultimi 25 anni per distrarre la gente dalle grandi manovre della finanza speculativa».

Assolve completamente il dg attuale?

«Non sono un giudice e non sono arrivato a novant’anni per apparire presuntuoso».

Masi però si è fatto notare.

«Se proprio desidera un po’ di frizione, le dirò che al suo posto, io la telefonata in diretta a Santoro non l’avrei fatta. Esistono questioni che si possono risolvere con il dialogo, senza che le orecchie indiscrete si contino a milioni».

Al chiuso delle stanze ne dipanò molte?

«Alla Rai sono rimasto per 13 anni. Mi hanno lasciato andar via nel ’74, nonostante fin dal ’71 chiedessi di lasciarla».

Rottura traumatica?

«I responsabili mi accontentarono per fare una bella figura dopo la sconfitta De sul referendum divorzista che segnò l’indebolimento di Fanfani. Ad assumere l’incarico, nonostante i miei dubbi, mi aveva proiettato proprio Amintore nel 1961 ».

Per Fanfani, la consultazione fu un duro colpo.

«Ma Casaroli, il segretario di Stato vaticano, mi consolò: “Mai avrei pensato che quattro donne su dieci non volessero cambiar marito a nessun costo”».

Ricordi all’ombra del cavallo di viale Mazzini?

«Lieti. Ero sotto attacco tutti i giorni, per un pezzo di Paese incarnavo il male, ma nella lotta cercavo di rimanere in piedi».

Come era considerato in azienda?

«Un terribile rompiscatole. (La parola è diversa, ndr.). Controllavo bilanci, copioni e scalette. Vigilavo sulla qualità. Un mio diritto e soprattutto un mio assoluto dovere nei confronti degli abbonati».

Quello che non doveva passare non passava.

«Ne è così sicuro? Voi giovani vi ispirate al manicheismo. Il bene, il male. Il buio, la luce. La realtà è più complessa, tiene conto di molti fattori. Sa cosa mi disse l’ex segretario della Cgil, Luciano Lama?».

Cosa le disse?

«Che le piazzate televisive a sfondo sociale, per la sua area di riferimento, erano pericolosissime: “Sentendo urlare in televisione, qualcuno potrebbe farsi venire il dubbio che vent’anni di battaglie sindacali non siano servite a niente”. Capisce?»

Però Dario Fo lo censuraste.

«Lo rifarei. Forse capitò anche con altri, ma lo sketch di Canzonissima del ’62, con il padrone felice per la morte di un suo operaio era indecente. Polizia ed edili si affrontavano davvero a colpi di sampietrini e Fo voleva a tutti i costi fare notizia. La tv ha doveri, responsabilità. Può e deve essere una guida, mai un cattivo esempio».

Nella sua Rai nuotavano contraddizioni. Il rigore alternato alle gemelle Kessler.

«Cosa vuole? Io vengo da una scuola austera, ma lo sgambettare delle Kessler in calzamaglia era elegante e non volgare».

Cosa campeggia ora al posto delle Kessler?

«Un panorama di sesso e violenza. Un osceno salto all’indietro, magari mi sbaglio».

Ancora convinto che il voto ai diciottenni rappresenti una follia?

«Su certe questioni non si cambia idea. Valutando poi che oggi ci si sposa a 35 anni e non a 24, non recedo di un millimetro».

Il peggiore direttore generale della Rai?

«Non glielo dico».

Il migliore?

«Dovrei dire Agnes e Pasquarelli, ma non lo farò. Sono amici, non sarebbe serio».

In arrivo, per sostituire Masi, sembrerebbe in prima fila Lorenza Lei. Una laica che si è avvicinata ai cattolici. Sarebbe il primo direttore generale donna della storia della Rai.

«Sono abbastanza convinto della diseguaglianza tra uomo e donna e non ritengo la discriminante sessista una medaglia in sé per sé. Ma Lorenza Lei appartiene a un nucleo di altissima professionalità che ancora pulsa in Rai. Farà bene».

Lei criticò aspramente il Grande fratello.

«Spazzatura pura, ma oggi, rispetto alla mia epoca, la differenza la fa il telecomando. Messaggi subliminali a parte, se lo spettacolo disgusta, si può sempre cambiare agevolmente canale. Il digitale ha mutato il contesto per sempre».

A viale Mazzini si fatica?

«Le giornate valgono per due. Dopo pochi mesi, mi feci una promessa: “A sessantanni, qualunque cosa accada, andrò in pensione”. Non è avvenuto, ma non tutte le aspirazioni si possono realizzare».

Durante la sua reggenza da direttore generale della Rai provarono ad allontanarla spesso.

«Forlani disse: “Se trovate qualcuno che curi meglio di Bernabei gli interessi della Dc, caccio Ettore in meno di 24 ore”».

Cosa accadde?

«Non lo trovarono. Però dipingermi soltanto come un uomo di parte sarebbe riduttivo. Cercavo un punto di interesse comune, mi avvalevo dei collaboratori laici, ascoltavo anche il Pci. Non dimentichi che alla Rai assunsi Biagi, Ronchey, Levi, Barbato e Furio Colombo».

La tv degli anni Sessanta alfabetizzò il Paese. L’obiettivo era educare milioni di Italiani?

«In parte, ma io il pubblico l’ho sempre rispettato. Non ho mai considerato né definito gli spettatori “teste di cazzo” come qualcuno, capziosamente suggerì. Però le rammento un princìpio basilare».

Prego.

«La tv è come l’atomica. Bisogna saper maneggiare il mezzo. Il problema non è tutelare un partito, ma proteggere dalla comunicazione deviata uomini e donne che davanti allo schermo si affacciano vergini».

La sua Rai era nota per le raccomandazioni.

«Ma io sono un fautore delle segnalazioni. (Alza il tono, sorride, batte i pugni sul tavolo ndr.). Senza quelle non avrei mai scoperto Fabiano Fabiani o Renzo Arbore. Ne arrivavano 20 mila l’anno. Per smistarle, esisteva un apposito ufficio con 6 impiegati».

Come funzionava?

«Superata la commissione esaminatrice, mi consultavo con il mio braccio destro, Gennarini. Gli chiedevo chi stessimo imbarcando e lui, secco: “Tranquillo direttore, è un democristiano”. Allora ribattevo: “Ma è credente? Perché che sia democristiano conta relativamente, l’importante è che il candidato creda in Dio”».

Quali erano le proporzioni spartitorie?

«Eque. Ragionevoli. Realiste. Tre posti alla Dc, due al resto del mondo».

Ricorda lamentele particolari?

«Ogni tanto, si manifestava la politica. Telefonava Rumor: “Sai Ettore, bisognerebbe essere più cauti a proposito di...”».

Arrivarono a Intercettarla. Vennero pubblicati giudizi non proprio benevoli su Zaccagnini.

«Ma ero già all’Italstat, dove arrivai in una holding che produceva 450 miliardi l’anno e la lasciai che ne fatturava 6 mila».

Le intercettazioni, dicevamo.

«Giorgio Dell’Arti calcolava che a Roma, nel ’76, trafficassero indisturbate 15 mila spie. È una cifra per difetto, credo. Portieri d’albergo e camerieri erano, in gran parte, informatori della questura. Tutti ascoltavano tutto. Da questo punto di vista, in quarant’anni, è cambiato poco».

Siamo il Paese dei dossier.

«E dei servizi con la S maiuscola. Nel ’59, da direttore del “Popolo”, ci cascai anche io. Ci diedero una informativa con la firma di Pajetta. Riguardava le armi che dopo la Liberazione i comunisti si erano rifiutati di consegnare agli alleati. La firma sì rivelò falsa. Dovetti chiedergli scusa».

La dietrologia comunque non le dispiace.

«Spesso converge con la verità. Pensi al povero Aldo Moro. Io credo ai solerti 007 che hanno ubicato il suo barbaro omicidio tra le mura di Palazzo Caetani».

Lei Moro lo conosceva bene.

«Benissimo. Lui e la sua calligrafia. Le lettere dalla prigionia, ad esempio, non sono scritte dalla sua mano. Se si vuole intuire qualcosa della recente parabola italiana, bisogna partire dal sogno energetico di Enrico Mattei».

Perché proprio Mattei?

«Il suo progetto, l’autosufficienza a basso costo per l’Italia, irritò le grandi potenze. Disturbavamo. Da allora, il progetto di de-stabilizzazione del Paese non conobbe soste. Lo sapevano in Vaticano e ne tenevano conto in Piazza del Gesù».

Tra il tramonto dei Sessanta e i Settanta l’Italia fu scossa da tragedie. Anni di caos.
«Stragi, bombe, terrorismo. I brigatisti rossi erano omuncoli di rara modestia. Mai avrebbero potuto sostenere lo sforzo economico e ideologico della loro mattanza».

Quindi?

«Erano eterodiretti. Qualcuno ha calcolato che l’operazione costò in termini economici tra covi, armi e coperture, più della guerra del Vietnam».

Se le dico lobby cosa le viene in mente?

«Il clan dei sardi è stato, in Italia, l’unico vero gruppo di potere degli ultimi 50 anni. Politica, massoneria, matrimoni in chiesa, parentele, trasversalità. Berlinguer, Siglienti, Segni, Cossiga. Ricorda le picconate?».

Certo.

«Chi le scriveva per lui, sapeva quali messaggi trasmettere. Tra le righe, si sostenevano cose enormi, ma non c’era un solo passaggio che lo avrebbe potuto trascinare all’impeachment. Il Cossiga scosso dal caso Moro e messo a terra dalla vicenda Donat Cattin-Prima Linea, seppe poi adeguatamente risorgere».

Divenne presidente della Repubblica.

«All’unanimità. Dovrebbe far riflettere».

Lei parla di lobbisti, ma qualcuno potrebbe farle notare che fa parte dell’Opus Dei.

«In assoluta coscienza posso testimoniare che l’Opus Dei non è una lobby di mutuo soccorso. Ci ritroviamo frequentemente in chiesa per esercizi spirituali. Ci rasserena».

Torniamo a lei. Negli anni Ottanta la processarono per i fondi neri dell’Iri.

«E poi mi assolsero. Puntavano alla Dc. Era una Tangentopoli anticipata di dieci anni. Lo dissi al partito e anche a Craxi. Bettino non ci credette, pensò a una oscura manovra della Fiat».

È vero che prega per Berlusconi?

«Prego per molte persone».

È vero o no?

«È vero. Prego perché possa avere la grazia di perdonare i suoi persecutori e conquistare il rispetto dei suoi avversari».

Chi sono i poteri forti, oggi, in Italia? (Lunga pausa, ndr.).

«Non lo so, so però che in certi ambienti si respira l’esigenza di ristabilire nuovi equilibri nel Mediterraneo. Sono partiti dalle coste meridionali e arriveranno in breve a quelle settentrionali. Quando decidono di cambiare cavallo o mutare il quadro generale, sanno agire».

Chi sono queste persone?

«Gruppi di influenza transnazionale, diciamo cosi».

Cambiamo argomento. Ha paura della morte?

«Paura no, ci penso spesso però. E ogni sera, mi dichiaro pronto ad andare».

Lei parla con Dio, Moretti Indaga sul tormenti di un pontefice. Ha visto “Habemus Papam”?

«Ancora no, però vidi il “Caimano”. Certi film, anche se postulano il contrario, sembrano girati per eternizzare Berlusconi».

A proposito: come vorrebbe essere ricordato?

«Come un uomo che provò a dare una mano a quelli rimasti più indietro e in certi casi a offrire un consiglio ritenuto utile a chi marciava in testa al corteo».

venerdì 3 giugno 2011

Emilio Salgari, ovvero dell'equivoco


Perché sono ancora in molti a chiamarlo Sàlgari, quando invece si chiamava Salgàri. Poi, con tutte quelle avventure che racconta, ce lo immaginiamo a giro per il globo, tuffato nei più misteriosi e insidiosi paesaggi esotici, magari immerso nei misteri della jungla nera e alle prese con animali feroci, o costretto a respingere gli assalti di sanguinarie tribù, dedite ai più terribili rituali.

Oppure, ecco, ci pare di vederlo veleggiare su ampie, assolate distese marine, in compagnia di corsari dal cuore intrepido e con una bella serie di conti da regolare con chi ha cercato e cerca di infangare il loro onore. Ma Salgàri non ebbe una vita avventurosa. E viaggiò davvero poco, visto che, studente del Regio Istituto Tecnico e Nautico Paolo Sarpi di Venezia, non arrivò ad essere capitano e si limitò a navigare per tre mesi lungo le coste dell'Adriatico a bordo della nave «Italia Una». Avventure «vissute» zero, dunque, e un solo viaggio decisamente «domestico». In compenso, tante letture nelle biblioteche che insonne frequentò, dalla natìa Verona a Torino dove andò ad abitare dopo il matrimonio con l'attrice teatrale Ida Peruzzi: libri di geografia, carte, mappe, racconti di viaggi e resoconti di esplorazioni, e una fantasia fervida e fertile che «vedeva» e «si impadroniva» degli ambienti più sconosciuti, e li ricreava mettendoci dentro eroi all'altezza delle più ardue e intricate situazioni da sciogliere, appunto, a colpi di coraggio e intelligenza.

Partorì avventure su avventure - quelle dei Pirati della Malesia, dei Corsari delle Antille, dei Corsari delle Bermuda, quelle ambientate in India o nel Far West o addirittura in paesaggi fantascientifici - il nostro Emilio, senza alzarsi dalla sedia a cui era condannato, legato quasi, da contratti editoriali-capestro: perché Speirani e Donath e Bemporad volevano tre libri all'anno, e lui lavorava come un matto, fumando cento sigarette al giorno e bevendo marsala per tenersi su e onorare i suoi impegni con gente che di senso dell'onore ne aveva poco. Non era facile far fronte a quel lavoro massacrante con una moglie mezza matta (e infatti sarà ricoverata in manicomio) e una famiglia numerosa cui non far mancare il sostegno: ma ad arricchirsi erano i vampireschi editori che lo spremevano goccia a goccia. E proprio a loro Salgàri, facendo harakiri con un rasoio giusto cent'anni fa, indirizzò il suo violento «j'accuse«: «A voi che vi siete arricchiti con la mia pelle, mantenendo me e la mia famiglia in una continua semimiseria o anche più, chiedo solo che per un compenso dei guadagni che vi ho dati, pensiate ai miei funerali. Vi saluto spezzando la penna». C'è chi dice che Salgàri la morte se la portasse addosso come un «vizio assurdo», al pari di quel che capiterà a un altro torinese di adozione, Cesare Pavese, suicida nel 1950. Chissà.

Certo è che la nera ala della tragedia gli batteva accanto, non risparmiando né ascendenti né discendenti: il padre si era ammazzato, e, della numerosa prole, Fatima morirà vittima della tisi, Nadir in un incidente in moto, Romero ed Omar entrambi suicidi. Il «tragico» come condizione esistenziale, dunque. Spiriti nobili, ma deboli, e decisamente «umiliati e offesi», fino alla morte, scelta come occasione di riscatto. Però non è questa la lezione che ci viene dalle decine e decine di romanzi salgariani che, nell'era di Harry Potter, continuano ad essere riproposti, come se, nonostante i cambiamenti epocali, Sandokan, Yanez e il Corsaro Nero dimostrassero di avere una marcia in più.

E non ci sono solo i romanzi, ma anche i film, con relative icone: basti pensare al più celebre tra i Sandokan massmediatici, e cioè a Kabir Bedi, che, anche oggi, fa la sua bella figura, dopo aver spopolato, trentacinque anni fa, sul piccolo e sul grande schermo (con la direzione di Sergio Sollima), conquistando il cuore della tenera Lady Marianna - Carol André e tantissimi altri cuori di studentesse e casalinghe adoranti (non va dimenticato che la fortunata coppia Kabir-Carol fu riproposta anche nel «Corsaro Nero», diretto nel 1976 dallo stesso Sollima). Non basta: infatti, e non poteva essere diversamente, Salgàri viaggia anche su Internet, tra compatte schiere di aficionados di tutte le età. Beato il mondo che, a dispetto di Bertold Brecht, ha ancora bisogno di eroi e li cerca dappertutto, magari tornando a saccheggiare l'immaginario dei papà e addirittura dei nonni? Forse è proprio così. L'avventura, il sogno, il coraggio virile nonostante tutto, «tirano».

E il mai sopito bisogno di valori cui attingere alimenta le «attese». Salgàri, in fondo, ci insegna ad andare all'assalto della realtà, a scommettere sulle nostre risorse - e sull'«ideale» - per trasformarla. Il Corsaro Nero e Sandokan non si accontentano dell'esistente: lo sfidano. Se ingiustizia, menzogna e mediocrità sembrano prosperare, loro, i Cavalieri dell'Ideale, non ci stanno. E continuano a piacere proprio per questo: non si arrendono, combattono. Anche, come nel caso di Yanez (seppe dargli volto e «spirito» adeguati il bravo Philippe Leroy), con le armi dell'ironia che, adeguatamente affilate, fanno a fette i cattivi come lame di spada. Salgàri non resse alla sfida della realtà? Bè, gettò in faccia la sua morte a chi, in qualche modo, l'aveva provocata. Affermazione per negazione, eroismo disperato con qualche nostalgia romantica, un po' «alla Iacopo Ortis». La dignità della sconfitta. Gli eroi salgariani, però, sono dei vittoriosi.

Anche un po' guasconi, col gusto del «colore», della rissa e della beffa. Piacevano a Mino Maccari che, raccontandomi il «suo» fascismo, mi spiegò che a fornirgli abbondante alimento erano stati proprio i libri del Salgàri. Da lì aveva imparato che non bisogna piegarsi agli eventi, ma «cavalcare la tigre». Dopo quelle della Malesia, ci siamo fatte tutte quelle del Novecento, mi disse. Mai dimenticando di essere «corsari». Con tanto di bandiere nere, di teschi e di ossa. E di navi da abbordare. E anche da antifascisti, aggiunse, siamo stati pirati, sempre liberi, sempre contro i sistemi di potere. Ma sembra che Salgàri abbia acceso anche le fantasie dei «rossi».

Si dice che il «barbudo» Ernesto Che Guevara avesse letto oltre sessanta dei suoi romanzi. Avevano contribuito ad eccitare i suoi bollenti spiriti rivoluzionari, ispirandogli il desiderio di lotta contro l'ingiustizia? Probabilmente. Probabilmente c'è un Salgàri «giovanilista» e «movimentista» ancora tutto da scoprire. Probabilmente dietro uomini ed eventi del Novecento più appassionatamente «militante», c'è anche Salgàri. E l'irruenza del Manifesto futurista e dell'impresa fiumana - dove non casualmente campeggiavano gli «uscocchi», i pirati adriatici dannunziani - si spiega anche con i sogni d'avventura alimentati da Salgàri. Davvero uno straordinario «viaggiatore».

(di Mario Bernardi Guardi)

Il mercato non rende felici ma nemmeno la povertà


La felicità sorge dalla miseria e dalla catastrofe. Prima di chiamare la neuro per farmi ricoverare lasciatemi spiegare. Innanzitutto non sono io a dirlo ma sto riferendo una tesi che sta conquistando giovani più o meno indignados e intellettuali in mezzo occidente. La tesi è fondata su due elementi, uno statistico e uno psicologico: il primo si basa sull’happy planet index che misura, al contrario del Pil, le condizioni di felicità nel mondo. Bene, questo felicitometro ha decretato che il Paese più felice del mondo è il Costa Rica, seguito da Santo Domingo, Giamaica e Guatemala. Paesi poveri ma caraibici, scassati ma solari. Anche Cuba sarebbe in testa se non ci fosse Fidel a castrare la felicità. I Paesi ricchi sono infelici, come nelle favole di Andersen.

La via alla catastrofe felice attiene invece a una scuola, inaugurata da Denis de Rougemont che già negli anni Settanta scriveva giulivo: «Sento venire una serie di catastrofi organizzate dalla nostra azione deliberata anche se inconsapevole. Se saranno abbastanza gravi da risvegliare il mondo e non abbastanza gravi da schiacciarlo, le definirei pedagogiche, le sole capaci di farci superare la nostra inerzia».
Alla paura della catastrofe come pedagogia della felicità si rifà il teorico della decrescita felice, Serge Latouche, economista ed ex marxista, che si eccita alla crisi economica recente e alle previsioni catastrofiche del futuro. Sarà una perversione sadomaso, ma anche a me quelle previsioni catastrofiche mettono addosso una strana euforia, l’allegria dei naufragi direbbe Ungaretti, un cosmico momento-verità o forse la consolazione di finire col mondo e non da solo.

Latouche descrive i pilastri del sistema consumistico: la pubblicità, che accende le brame di consumo, il credito, che rende consumatori indebitandosi, e l’obsolescenza programmata, cioè l’invecchiamento precoce degli oggetti in modo da spingere a comprare di nuovo. Di fronte alla follia della crescita incessante del tardo capitalismo, Latouche sogna la felicità nel senso della misura, del limite, della sobrietà, immagina una decrescita gioiosa, secondo natura ed etica, come una paideia ecocentrica. Traduco: un’educazione a considerare il mondo e non il consumo o l’individuo al centro di tutto. E sulla decrescita costruisce pure un’estetica, un’arte di vivere, quasi marcusiana. Fuori dalla modernità e dal capitalismo, anche se non indietro. Abitare la terra con affetto, amare il locale contro il globale, la cucina secondo natura e non secondo industria, l’economia del dono e l’anti-utilitarismo, la società conviviale, anzi la comunità. Rispetto al vecchio socialismo che sognava con Lenin socialismo più elettrificazione, i decrescisti sognano socialismo più natura.

La loro idea è che la felicità si moltiplica se condivisa, se include gli altri. Bello, bellissimo, ne sono innamorato. E ancor più mi piace quando Latouche racconta che smise di essere comunista quando nel Laos vide un contadino inerte in una risaia e gli chiese cosa facesse: «Niente. Ascolto il riso crescere». Su una risposta così, puoi costruire un magnifico testo sulla saggezza di vivere; ma non si può costruire un sistema economico e sociale. Una risposta del genere ci insegna che si può essere felici anche fuori dai nostri canoni e che popoli interi hanno vissuto con quella filosofia di vita; ma non possiamo pensare di esportarla in questo Occidente. La storia, l’indole, l’abitudine sono diverse.

Sono con Latouche nel sogno; poi mi sveglio, vedo la realtà, e dico: no, la vera critica al capitalismo occidentale non può essere di natura economica e sociale, perché là ogni alternativa al capitalismo è perdente; ma è di natura culturale e spirituale. È lì che ha perso il capitalismo, non sul piano della tecnica e del benessere, della libera iniziativa e del miglioramento delle condizioni di vita. Sì, certo, il mercatismo va respinto, perché il mercato deve essere dentro la società e non la società dentro il mercato. Sì, certo, l’economia di mercato deve essere sociale, compatibile con l’ambiente, generosa con chi è più debole, e solidale. Ma non si può pensare di abolire il capitalismo e adottare la saggezza del contadino del Laos a Manhattan o a Milano. Nessun socialismo finora è riuscito a far star bene un gran numero di persone come il sistema capitalistico, ammettiamolo. È il sistema che ha dato di più a più gente. E il consumismo seduce, persuade, forse aliena ma non violenta, non costringe.

Quel che manca, quel che non sa dare, o che ha tolto, è invece sul piano dell’anima, del mito, della cultura: quel che il nostro occidente ha spalancato è la disperazione, il nichilismo, l’egoismo, l’incapacità di addomesticare la morte, il dolore, la vecchiaia, la solitudine, i quattro cavalieri dell’Apocalisse moderna. Riusciamo a tardarli, attutirli, nasconderli, non riusciamo a farcene una ragione. Lì si annida l’infelicità. E allora è più realistico proporre la funzione sociale del capitale e della proprietà privata, la necessità di bilanciare la crescita della tecnica e del mercato promuovendo la cultura e la tradizione, il primato della comunità sugli interessi individuali pur legittimi, il valore della bellezza e dell’impresa eroica, la priorità dell’essere sull’avere, l’amor fati come accettazione della vita.

La decrescita sarà felice e realistica se si fonderà su quella crescita di beni immateriali ma vitali, non quotati in Borsa ma generatori di senso. Vogliamo motivi per vivere più che cose per riempirla.

(di Marcello Veneziani)

Sconfitto, il Cav. resta il più fico


Chi ce lo vede uno come Giulio Tremonti che alla vigilia del voto amministrativo telefona a Tersigni Ernesto da Frosinone, nel mezzo del suo comizio da candidato sindaco del Pdl, e lo incoraggia a “riportare il buon governo a Sora e realizzare la statale per Avezzano”, e poi accetta l’invito a festeggiare assieme la vittoria a condizione che “gli invitati non siano soltanto uomini”?

Silvio Berlusconi lo ha fatto – e Tersigni in effetti ha vinto – pur di raddrizzare queste amministrative. Ha fatto anche questo, il Cav., e ancora una volta si è dimostrato più generoso e temerario della sua schiera. Dovrebbero tenerlo a mente le anime vagolanti di centrodestra che ora pretendono d’insegnargli in pubblico come si abdica alla propria sovranità. Loro, i dirigenti beneficati, creati dal nulla o rifatti a nuovo dal Demiurgo delle libertà, non hanno l’obbligo della gratitudine; ma un grammo di obiettività, quella sì.

L’obiettività è una figura alta e penetrante, potendo ascoltarla ci direbbe che il ciclo berlusconiano si sta chiudendo (secolo più, secolo meno); ma poi affilerebbe le orbite aggiungendo che Berlusconi è il migliore e tale rimarrà negli annali. Migliore degli avversari, di quelli che lo contornano e di coloro che non gli sono più accanto. Il più intelligente nel cogliere il kairòs della politica, momento perfetto in cui aprire la porta della storia nazionale e buttarcisi dentro; il più sensibile nell’ascolto umorale del suo popolo; il più destro nel dosaggio di strategia e tattica; il più cinico nel voler apparire uguale ai suoi elettori, fino al punto da confondere la sua intenzione di voto con la loro; dunque anche il più ingenuo (con la sua incapacità di accettare l’irriconoscenza).

Non basteranno cento furbissimi Casini, mille civil servant e diecimila presidenti della Camera per eguagliare la statura del superbo, infaticabile, narcisista e geniale gaffeur di Arcore uscito sconfitto da se stesso. Perché i grandi si fanno vincere soltanto dal proprio doppio, da quella parte migliore di sé che – in assenza di contendenti all’altezza – a un certo punto dice basta e vela la mente inducendo all’errore fatale. Così è successo al Cav., malgrado tutto il migliore.

(di Alessandro Giuli)

mercoledì 1 giugno 2011

E i comunisti presero la provetta


Uno degli episodi più esilaranti e geniali della contestazione del 1977 fu la comparsa nelle librerie di un volume Einaudi a firma di Enrico Berlinguer: Lettere agli eretici. Epistolario con i dirigenti della nuova sinistra italiana. Un falso di ottima fattura – prefazione di Giulio Einaudi, veste grafica identica a quella della collana Nuovo Politecnico, numero 99 – tanto che è facile trovarlo ancora nelle biblioteche catalogato per autore sotto il nome di Berlinguer. Fu ritirato dalla circolazione e ci furono strascichi legali. I libri di cui era annunciata l’uscita sulla quarta di copertina non videro (purtroppo) mai la luce: 100. Antonio Negri, La tutela del posto di lavoro durante i sommovimenti sociali. Considerazioni personali; 101. Umberto Eco, Trattato del saper scrivere di nulla; 102. Longo, Vidali, La soluzione finale della questione anarchica in Spagna…

Lo scritto fu partorito dal milieu situazionista, oggi viene attribuito a Pierfranco Ghisleni, ed era un’analisi politica spietata sotto il velo della parodia. Il plumbeo segretario del Pci, attaccato dalla sinistra movimentista per l’immobilismo e il tradizionalismo piccolo-borghese, si rivolgeva ad alcune figure simboliche della sinistra «eretica» e dell’ondata libertaria post-sessantottina: Marco Pannella per i radicali, Adele Faccio per le femministe, Andrea Valcarenghi per la liberalizzazione delle droghe, Angelo Pezzana per la rivoluzione omosessuale, gli indiani metropolitani, eccetera. A tutti costoro, tra distinguo e surreali rilievi critici, il moralista Berlinguer apriva le porte del dialogo auspicando – come oggi si suol dire – una contaminazione culturale.

Era in sostanza la messa alla berlina dell’ambiguità del Pci e del suo leader nello specifico, che si ponevano di fronte alle masse come difensori dei valori della classe operaia mentre lavoravano alla diffusione delle più venefiche tossine del capitalismo nel corpo della società italiana. Un anno dopo Augusto Del Noce avrebbe formalizzato la tesi ne Il suicidio della Rivoluzione: il comunismo in versione gramsciana era un fenomeno intrinseco alla società radicale, il suo esito era quello di permettere allo spirito borghese di realizzarsi allo stato puro. Il Berlinguer delle Lettere agli eretici torna in mente leggendo Bioetica come storia, a cura di Lucetta Scaraffia (Lindau, pp. 246, euro 23): un saggio a più mani frutto di un progetto di ricerca finanziato dal Centro universitario cattolico. In particolare il primo capitolo firmato da Andrea Possieri, che si sofferma sugli anni ’70 e su come i temi bioetici furono trattati da due riviste di sinistra: Noi donne, periodico dell’Udi (Unione donne italiane), la più grande organizzazione femminile, e Donne e politica, rivista della sezione femminile del Pci. La prima era una rivista «ponte» con il mondo femminista, ruotava nell’orbita culturale comunista ma a debita distanza e aveva un taglio molto popolare.

Nel 1972 era possibile trovare nella sua rubrica delle lettere un’apologia della fecondazione assistita, allora agli albori, in chiave di liberazione della donna: «Prima o poi dovrà pur essere possibile mettere in un’incubatrice un uovo femminile e un seme maschile e tornare 9 mesi dopo a ritirare il bambino; se ne parla ancora per scherzo, ma non credo sia più difficile che andare sulla Luna. A questo punto non ci sarebbero più che delle differenze insignificanti fra l’uomo e la donna». Nel 1973 sempre Noi donne dedicava un’entusiastica attenzione al medico statunitense John Mooney, il primo a formulare il concetto di identità di genere, e al suo libro Man and Woman, boy and girl, tradotto più tardi da Feltrinelli. In quel testo veniva presentata la vicenda di un bambino, Bruce Reimer, che aveva perso l’uso del pene a causa di un incidente durante una circoncisione chirurgica. I suoi genitori avevano chiesto ausilio al luminare Mooney, che aveva sperimentato in corpore vili le sue teorie. Aveva convinto cioè i genitori a procedere con una castrazione e a crescere il figlio come una figlia, per dimostrare che l’identità di genere era una questione eminentemente culturale e non di natura. Il finale della storia sarebbe stato scritto nel sangue oltre trent’anni dopo: Bruce, cresciuto come Brenda, si sarebbe suicidato nel 2004 dopo aver scoperto di essere stato vittima di un esperimento psico-sessuale e aver tentato di recuperare la sua identità maschile, con un travaglio esistenziale indicibile.

Con lo stesso piglio Noi Donne si occupò anche di contraccezione chimica, di tecniche abortive, di Ru486. L’anticipo sui tempi era tale che quando nel 1978 nacque Louise Brown, la prima bimba concepita in provetta, mentre il mondo rimase stupefatto o scioccato, la rivista dell’Udi accolse favorevolmente la notizia ma con aplomb, ricordando come l’obiettivo di slegare totalmente la maternità dal sacrificio della gravidanza era lungi dall’essere raggiunto. Parallelamente negli anni ’70 Donne e politica, riflettendo l’atteggiamento «moderato» sulle questioni etiche del Pci e della sua pubblicistica ufficiale, si tenne sostanzialmente alla larga dalla nuova frontiera della bioetica, continuando ad occuparsi della condizione femminile in chiave di conquiste della classe lavoratrice. Un tema come la contraccezione, presente in pochissimi articoli, veniva trattato con un’ottica banalmente marxista, che tendeva a sottolineare soltanto il privilegio di pochi e il rischio del mercantilismo. Di discorsi futuristici su provette e ricerca sugli embrioni nessuna traccia. Sull’aborto, ancora nell’agosto del 1980, in prossimità del referendum, la rivista pubblicò un duro editoriale contro sia Carlo Casini che Marco Pannella, colpevoli in pari grado di mettere in discussione la legge 194. Ma il gioco delle parti durò poco. Già a metà degli anni ’80, con i muri delle ideologie ormai scricchiolanti, Donne e politica dedicò un intero numero alla fecondazione assistita («L’autodeterminazione non è a senso unico – scriveva Livia Turco nell’editoriale –, vale anche per la procreazione»).

Nel 1988 all’Istituto Gramsci dialogarono su «Questioni di vita. Scienza, etica e diritto» Maurizio Mori e Luciano Violante, Stefano Rodotà e Giovanni Berlinguer (quest’ultimo, guarda un po’, era stato anche il primo nell’ambito delle Frattocchie ad occuparsi di bioetica). Nel 1989, all’ultimo congresso del Pci, le tematiche femministe entrarono nella nuova carta d’identità comunista. E in quella post-comunista entrò la tecnoscienza a servizio della democrazia dei desideri. Le eresie fintamente temute in passato divennero alla fine magistero.

(di Andrea Galli)