lunedì 18 luglio 2011

Nazisti senza prescrizione


Il Tribunale militare di Verona ha condannato all'ergastolo sei ufficiali, sottufficiali e soldati della Panzer-Division 'Hermann Goering' che nel marzo-maggio del 1944, quando i tedeschi erano in ritirata, incarogniti per il tradimento dell'alleato italiano che, in un momento cruciale della guerra, mentre si lottava per la vita o per la morte, li aveva pugnalati alle spalle passando dalla parte dei probabili vincitori, si rese responsabile, sull'appennino tosco-emiliano, di alcuni atroci eccidi di civili. I condannati sono tutti ultranovantenni, tranne il più giovane, il caporale Alfred Lhuman, oggi taglialegna in pensione, che ha 86 anni e all'epoca dei fatti ne aveva venti. Da allora sono passati infatti quasi settant'anni (quanto vivono questi nazisti, solo i partigiani gli stani pari).

Confesso che processi di questo genere, come altri che si sono celebrati nei confronti di criminali nazisti, mi lasciano perplesso. Non metto qui in discussione che il Tribunale di Verona, sia pur a tanti anni di distanza, sia riuscito a individuare con esattezza chi, in quei tragici frangenti, uccise e chi no. Non si tratta di questo. È che prima che, con la vittoria del 1945, si affermassero le democrazie occidentali, vale a dire la 'cultura superiore', non si erano mai visti nella Storia processi celebrati a settant'anni di distanza dai fatti, tantomeno per 'crimini di guerra', una categoria di reati, con efficacia retroattiva, nata con i processi di Norimberga e di Tokyo quando i vincitori non si accontentarono di essere i più forti ma pretesero di essere anche moralmente migliori dei vinti e quindi tali da poterli giudicare, invece di passarli per le armi come era stato fatto fino ad allora.

Per quanto si vada a scavare nel tempo e nelle varie storie e culture non si trovano precedenti. Forse l'unico è quello che riguarda Giulio Cesare che nel 63 a.C. volle trascinare in tribunale, per certi suoi motivi, il vecchio senatore Rabirio che nel 100 a.C. aveva partecipato al linciaggio del tribuno della plebe Aurelio Saturnino. Il tribunale competente in appello (in primo grado Rabirio era stato condannato) erano i comizi centuriati, una giuria popolare che certamente non aveva nessuna simpatia per un aristocratico come Rabirio che, per giunta, aveva ucciso uno dei loro. Ma il popolo si dimostrò saggio, 37 anni di distanza dai fatti gli parevano troppi. Con uno stratagemma si fece in modo che il processo non si celebrasse.

Anche a me settant'anni, o quasi, sembrano troppi per istruire un processo contro chicchessia. La prescrizione è sempre esistita, anche per il più orrendo dei reati. Ma i vincitori hanno deciso che per i crimini dei nazisti non c'è prescrizione. Su questo punto ci sarebbe da discutere perché viola il fondamentale principio di civiltà giuridica per cui la legge penale non può essere retroattiva. Che è uno dei motivi per cu il giurista americano Rusten Vambery, liberale (quando i liberali esistevano ancora e non erano le parodie di oggi), in un articolo pubblicato il 1 dicembre del 1945 sul settimanale The Nation, contestava la legittimità del processo di Norimberga:" Che i capi nazisti e fascisti debbano essere impiccati o fucilati dal potere politico e militare non c'è bisogno di dirlo: ma questo non ha niente a che vedere con la legge. Giudici guidati da 'sano sentimento popolare', introduzione del principio di retroattività, presunzione di reato futuro… ripristino della vendetta tribale, tutti questi erano i punti salienti di quella che la Germania di Hitler considerava legge".

Ma in fondo, oggi, nemmeno queste considerazioni sono importanti. Il fatto è che il processo di Verona contro dei fantasmi più che il sapore della giustizia ha quello amaro della rappresaglia. Proprio quella rappresagli in nome della quale, tante volte, abbiamo condannato i nazisti.

(di Massimo Fini)

Attenti, cari politici furbetti: qua tira l'aria del 1992


Attenzione alla rabbia dei moderati. Dovrebbero considerarla molto seriamente i nostri cari (nel senso del loro costo) parlamentari e ministri. L’indignazione sta montando sempre di più nel Paese.

Evidentemente nei palazzi romani non se ne rendono conto, ma chi vive fra la gente comune ne ha un fortissimo sentore già da alcuni giorni, precisamente da quando si è precisata, nei suoi contorni pesantissimi, la manovra di correzione dei conti pubblici.

E’ un clima che ricorda moltissimo quello che si avvertiva nel 1992. Fu la rabbia del ceto medio che allora fece da detonatore facendo saltare per aria la classe politica della prima repubblica.

Oggi ciò che fa indignare non è il pur salatissimo costo – 80 miliardi di euro in quattro anni - della manovra economica. La necessità di farla, accollandosi dei sacrifici, è evidente a tutti e gli italiani non sono sciocchi irresponsabili. Sanno che bisogna tirare la cinghia e si sono sempre dimostrati pronti a farlo, sia pure con qualche mugugno, per salvare la “nave Italia”.

Quello che non riescono a digerire è l’atteggiamento della classe politica. A loro avviso mentre la cosiddetta “casta” impone pesanti sacrifici al paese, soprattutto i sacrifici più odiosi che vanno a gravare sui malati, sulle famiglie con figli, sui pensionati, sul terzo settore e l’istruzione non si mostra disposta a dare alcun segnale di partecipazione a questo sforzo nazionale e anzi sta attaccata con le unghie e con i denti a dei propri privilegi anacronistici.

Non che la gente dia ascolto al qualunquismo e allo sfascismo di certi demagoghi. Siamo un popolo realista e nessuno s’illude di ripianare il debito pubblico dimezzando le retribuzioni dei parlamentari. Così come nessuno pretende una classe politica fatta di virginali suore orsoline e asceti penitenti.

Tuttavia nessuno capisce perché mai dobbiamo avere i parlamentari più pagati d’Europa, oltretutto sapendo che hanno un carico di lavoro che li impegna solo qualche giorno la settimana, mentre evidenziano una preparazione media sotto la sufficienza.

Nessuno comprende perché debbano essere così tanti (i parlamentari) quando – considerate le altre democrazie – il loro numero potrebbe essere tranquillamente dimezzato, né si capisce come possano pretendere di usufruire di una sequela di immotivati e costosissimi benefici, a cominciare dalle pensioni facili (oltretutto non sono neanche stati scelti dagli elettori con le preferenze).

Così come nessuno comprende perché il presidente della provincia di Bolzano debba guadagnare più del presidente americano Barack Obama e un consigliere regionale italiano debba percepire più del governatore di New York (che è tra i più pagati degli Stati Uniti) o perché i nostri parlamentari europei siano tra i più remunerati del parlamento di Strasburgo o perché dobbiamo tenerci il costoso carrozzone delle province che servono solo ad ampliare il ceto politico degli amministratori che è già troppo vasto.

Se davvero siamo sul “Titanic” e rischiamo di fare la stessa fine – come dice il ministro Tremonti – tutti dovrebbero collaborare alla salvezza.

Dunque ragionevolezza, realismo e senso della decenza avrebbero dovuto consigliare un drastico taglio fatto dalla classe politica al proprio stesso costo. Sarebbe stato solo un segnale simbolico? Anzitutto quando i popoli passano brutti momenti e si chiede uno sforzo di coesione nazionale, anche i segnali simbolici di rigore e serietà sono importanti (come dimostra la storia). Inoltre sarebbe stata una dimostrazione di responsabilità, di intelligenza e di doverosa equità.

Invece non se ne parla nemmeno. L’idea di diminuzione dei parlamentari – sempre vagamente ventilata – resta nel libro dei sogni. La proposta di decurtare le loro retribuzioni o cancellare la loro incredibile previdenza viene accolta con pernacchie. Invece di fermare subito il continuo aumento dei costi di gestione di istituzioni come la Camera dei deputati rimandano tutto alle calende greche. Che è un modo per non farne nulla.

Sappiamo poi – lo ha raccontato benissimo su queste colonne Franco Bechis - come sono state bombardate a tappeto le proposte “rigoriste” di Tremonti, da quella – veramente minima – che proibiva i doppi incarichi (c’è chi cumula la carica di parlamentare con quella di sindaco o presidente di un’amministrazione provinciale) alla liberalizzazioni delle varie professioni, come quella degli avvocati. I quali avranno avuto anche delle ragioni, ma la reazione degli avvocati-parlamentari è apparsa a tutti odiosa.

Ad abolire le province del resto neanche ci provano… Le persone comuni hanno la sensazione di una casta – che è considerata (a torto o a ragione) di sfaccendati - che si mostra sempre prontissima nella difesa dei propri privilegi, mentre impone durissimi sacrifici a chi non può difendersi.

Anche sacrifici veramente ingiusti, lesivi dell’interesse nazionale, come il taglio delle (già esigue) detrazioni per i figli a carico, cosicché l’Italia, che ha già la maglia nera per le politiche familiari e ha il record della denatalità, correrà ancor più speditamente verso l’estinzione. Puniamo l’istituzione famiglia che ha il merito di averci fatto resistere alla crisi?

C’è persino qualche dettaglio che sembra sia stato pensato con la deliberata intenzione di accrescere l’indignazione “antipolitica”. Come l’aggravamento delle pene pecunarie previsto per chi attacca manifesti pubblicitari fuori dagli spazi e dalle regole, aggravamento delle pene da cui però sono stati esentati i manifesti politici (che poi sono la maggior parte dei manifesti abusivi).

Di questa situazione sono responsabili tutti, anzitutto forse di governo, ma anche di opposizione. Infatti la rabbia della gente – che capisce al volo come stanno le cose è generalizzata, verso tutti. Però oggi la si percepisce più fortemente proprio in quel corpaccione del ceto medio che perlopiù vota i partiti moderati.

Così il centrodestra potrà vantare il merito – di enorme importanza – di aver salvato i conti pubblici e il futuro del Paese, ma –come il pentapartito nel 1992 – sta seriamente compromettendo il rapporto di fiducia con la sua base sociale.

Nelle gravissime tempeste finanziarie del 1992-1993 fu il pentapartito che salvò il paese dal crollo, con misure drastiche come la manovra di Amato da 90 mila miliardi di lire e quella successiva di Ciampi, ma lo fece con delle modalità (penso al prelievo forzoso sui conti correnti e alla minimum tax) che suscitarono indignazione per l’iniquità (nel primo caso) o (nel secondo) interpretarono male la situazione sociale del Paese: vi fu infatti il crollo del consumi privati del 2,5 per cento (il dato peggiore dal dopoguerra), il crollo del pil dell’1,2 per cento, quello del 20 per cento degli investimenti in macchinari e attrezzature, chiusero centinaia di migliaia di partite Iva e si ebbero 611 mila posti di lavoro in meno.

Tutto questo accadeva proprio mentre emergeva il fenomeno del finanziamento illegale dei partiti (spesso la corruzione) e il perverso “effetto tangenti” sull’economia nazionale in quegli anni veniva quantificato in dimensioni colossali.

La frattura che si produsse con le rispettive basi sociali portò alla delegittimazione morale dei partiti che a quel punto poterono facilmente essere spazzati via dalle inchieste giudiziarie.

Sulle loro ceneri e in polemica con le degenerazioni del “ceto politicante” e con il peso della politica e dello Stato sulla società, nacque nel 1994 una nuova compagine di centrodestra, che da Berlusconi, alla Lega ai post-missini aveva un forte accento “antipolitico”, così come forti accenti “antipolitici” sono presenti nel centrosinistra.

Si sperava dunque che fosse questa classe dirigente a riformare il sistema e alleggerire il peso della politica. Ma non l’ha fatto. Potrebbe e dovrebbe farlo almeno oggi, per giustizia, nelle attuali ristrettezze finanziarie. Se non ora, quando?

(di Antonio Socci)

Padre Pio è scappato dalla sua tomba d’oro

Padre Pio ha compiuto un miraco­lo a rovescio e a sue spese. Da quando l’hanno imbottito d’oro in una tomba faraonica, il pellegrinaggio dei devoti è crollato. Stimmate di rabbia e di dolore avranno ripreso a sanguina­re al burbero e schivo frate cappucci­no. Jatavenne , avrà detto nel suo ruvi­do gergo. Padre Pio è a disagio in quella cripta d’oro che sembra il caveau della banca mondiale, circondata da un business osceno, un’ottantina di alberghi or­mai vuoti, una marea di statue kitsch diffuse ovunque e in particolare a Sud, pompe di benzina incluse, più pile di superstiziosi gadget ormai invenduti. A San Giovanni Rotondo l’oro di Pa­dre Pio è crollato in borsa. La gente pre­ferisce visitare il vecchio sepolcro vuo­to piuttosto che quella cripta da Pape­rone estesa quanto una trentina di ap­partamenti.

Per carità, ha ragione il mio amico Frate Antonio Belpiede, portavoce dei frati, che l’oro ha sempre gremito le chiese e i culti. Ma nella Chiesa fatta da Renzo Piano non si respira il sacro, non si avverte il santo,non c’èspiritua­lità e religione. E un francescano me­dievale come Padre Pio non può finire in una roba asettica da Manhattan o nella riserva aurea di Fort Knox. Così Padre Pio è scappato dalla sua tomba, disperdendo anche i suoi fede­li. Andatelo a cercare nelle campagne e nei silenzi assolati del sud, tra i poveri e nei ricoveri, nelle chiese agresti e nel­le cattedrali antiche, nei corpi malati, nei cuori devoti e nei cieli gloriosi. Non lì, nella cripta d'oro. Non prendete la fe­de per il loculo.

(di Marcello Veneziani)

giovedì 14 luglio 2011

Dove va la Nuova destra


Il domani appartiene al Noi. Tale il titolo del libro scritto da Federico Eichberg e Angelo Mellone, il cui sottotitolo scandisce 150 passi per uscire dal presentismo (Soveria Mannelli, Rubbettino Editore, 2011, pp. 180, 14 euro). Un sottotitolo che suona come una sacrosanta promessa: non c’è dubbio che sia necessario uscire dalla “deriva presentista” fatta di piccoli e bassi egoismi, di mancanza di capacità di comprendere il passato e di progettare il futuro, di voglia di apparire e di possedere senza nessun riguardo per l’essere (vi ricordate del vecchio Erich Fromm?), di bisogno di “visibilità” e di effimero.

Ma rivelatore è il titolo, parafrasi del verso conclusivo di un canto per certe persone e in certi ambienti molto rivelatore e dannatamente serio. E più ancora il Prologo, segnato da due sentenze, la prima delle quali appartiene a don Giussani (e fin qui...) e la seconda a uno – ebbene, sì! – dei miei più cari e venerati Maestri, il “fascista di sinistra” (quasi un fasciocomunista) Beppe Niccolai, leggendario deputato missino di Pisa degli anni Sessanta-Settanta rispetto al quale Bordiga era un liberista.

«Il domani appartiene a noi» era il verso finale ed entusiasticamente reiterato di una bella canzone, il cui testo ricordava, su una tastiera dall’elegiaco- romantico all’eroico, un Lied tedesco. Et pour cause. La sua musica era difatti quella di un bel canto eseguito da un ragazzo della Hitlerjugend, reso celebre fin dagli anni Settanta perché parte di una scena-chiave del film Cabaret.

In realtà, non apparteneva al vero repertorio nazista: s’intitolava Tomorrow belongs to me ed era stata composta dai due originali, formidabili autori della colonna sonora del film, John Kander e Fred Ebb.

Quella canzone, con un testo più o meno liberamente tradotto in italiano, divenne l’inno ufficioso dei “Campi Hobbit” della Nuova destra che s’ispirava – ma con molta originalità e libertà – ad Alain de Benoist e a quello ch’era allora il G.r.e.c.e. e che in Italia aveva trovato allora un leader prestigioso e carismatico nel poco più che ventenne Marco Tarchi, un brillante universitario lombardo naturalizzato fiorentino che, come capo dei giovani missini, aveva quasi soffiato a furor di popolo il posto al suo coetaneo Gianfranco Fini, il quale era stato tuttavia insediato d’autorità come delfino di Giorgio Almirante.

Quei ragazzacci scrivevano di letteratura e di musica; amavano Conrad, Melville e Kerouac; organizzavano concerti di rock alternativo; si dicevano nemici al tempo stesso del liberismo americano e del collettivismo sovietico. Non erano clericali e non facevano professione di cattolicesimo militante: ma puntavano a una «risacralizzazione della vita» e per questo il loro autentico nume tutelare era il Tolkien del Signore degli Anelli, il padre degli Hobbit sui quali avevano incentrato il mito fondatore della loro esperienza comunitaria e ai quali dedicavano i loro “Campi”.

Eichberg e Melloni sono tra i più intelligenti sostenitori d’una linea di recupero politico e intellettuale, all’interno del Pdl di almeno qualcosa dell’eredità della “Nuova destra”: alla quale si rifanno tuttavia solo implicitamente, con molta cautela e non senza reticenze. Ma è proprio questo il punto debole del comunitarismo del quale Eichberg e Mellone si fanno testimoni.

La “Nuova destra” tarchiana si era smarcata con decisione dai vecchi limiti e dalle vecchie frontiere tra “destra” e “sinistra”; aveva un taglio decisamente anti-occidentalista; non si occupava di mantener rapporti con la cucina politica del Belpaese; puntava con decisione a un nuovo «patriottismo europeo» che avrebbe dovuto superare l’impasse nel quale il continente era caduto in seguito ai patti di Yalta che lo avevano irrimediabilmente spaccato in due e condannato alla fine di ogni processo di unificazione che non fosse quello di Bruxelles/Strasburgo sorvegliato a vista da Washington e dalla Nato.

Il comunitarismo della “Destra nuova”, il “Noi” proposto da Eichberg e Mellone, punta a rispolverare il micronazionalismo italiano, tacendo del tutto sull’Europa, non dicendo una parola sui grandi problemi del mondialismo e della globalizzazione, parlando sì di comunità ma senza alcun accenno (in tempi di crisi morale e occupazionale dei giovani, in tempi di indignados) alla questione sociale.

Dove andava la “Nuova destra”? Senza dubbio nella direzione di un’identità etico-politica solida, incurante però di approdi politici realistici e concreti. Dov’è andata e dove continua per ora ad andare la “Destra nuova”? Nella direzione di scelte tattiche fondate sul recupero implicito e il più asettico possibile di valori comunitari che sarebbero in sé anche vino nuovo, se non venissero immessi nel vecchio otre di un nazionalismo italiano di stampo superficiale e convenzionale, che tace sui contesti europei e mondiali e che – non pronunziandosi – non disturba i manovratori del centrodestra occidentalista, atlantista, liberista: manovratori ancor in grado di spartire fettine della torta del potere, posti di sottogoverno, incarichi in enti e istituzioni statali, parastatali e privati.

Questo libro è un tentativo intelligente e non privo di spunti degni di discussione: il cui scopo ultimo è però quello di dare una risposta non scandalosa a una certa “nostalgia” non già del futuro, bensì del passato prossimo di una generazione di giovani ormai non più giovanissimi che da adolescenti hanno aderito al sogno di una “destra diversa”, in grado di uscire senza equivoci dal tunnel del neofascismo mantenendo una sua specificità che, nei “Campi Hobbit”, si era espressa nei termini del comunitarismo a forte connotato europeistico, sociale e – sul piano internazionale” – terzaforzistico.

Eichberg e Mellone, nonostante gli elementi di simpatìa e di affinità con l’esperienza dei Campi Hobbit ne restano estranei.

Nipoti dei missini micheliniani degli anni Cinquanta che sognavano la Grande destra con monarchici, liberali e democristiani conservatori, figli della “svolta di Fiuggi” che un buon trentennio più tardi ne portò qualche epigono al potere, essi hanno di fatto poco a vedere con don Giussani; e nulla con Niccolai, che li avrebbe presi (ed essi lo sanno benissimo) a parolacce pisane.
Loro scopo è dare una qualche anima a quel che resta dell’ostinata volontà di dirsi “di destra” da parte di giovani e d’intellettuali ai quali in realtà la “destra” è sempre andata stretta (specie da quando il liberal-liberismo l’ha decisamente egemonizzata), ma che sono in cambio ben consapevoli che in “quella” destra sussistono ancora e nonostante tutto possibilità di gestire un potere e di costruirsi delle carriere.

(di Franco Cardini)

domenica 3 luglio 2011

Un Cav. che decade ma non cade


Solo perché è ricco assai non decade Silvio Berlusconi. E non perché ieri ha celebrato il suo congresso di gemmazione. Dalle spine di un disastro politico è nata la leadership del simpatico e spedito Angelino Alfano, rosa purissima tra pungenti roveti ma Berlusconi, malgrado le rovine di una stagione altrimenti solida di rappresentanza parlamentare, non crolla perché ancora oggi può dispensare dindini.

Seppure rabbioso in quel suo dragare Montecitorio – in quel suo cercare fino all’altrieri i mangiapane assenti al voto, quelli che “prendono lo stipendio e non lavorano”, colpevoli nell’aver mandato sotto il governo – lui è sempre quello che appena può mette mano al portafoglio. Figurarsi cosa possono essere per lui degli elicotteri. Se ne porta almeno una dozzina in tasca.

Il Cavaliere, infatti, non è esattamente un morto appeso a un destino. Il Cavaliere, agli occhi dei suoi vicinissimi, è solo una cassaforte che cammina. Questo sovversivo che tanto ci piace, questo smoderato fatto leader dei moderati, non è poi uno tenuto in piedi da una nomenclatura. Non ha un gruppo, un clan o un “cerchio magico”. Non ha neppure una corte né cortigiani, ha forse pochi amici, messi ai margini dell’estremo circo dei gironi infernali e se nessuno dei Fedele Confalonieri o dei Marcello Dell’Utri può più prenderselo sotto braccio, fosse solo per leggere e cantare, al Cavaliere resta la compagnia di ladri d’anime e di succhiapozzi perché, infine, non è neanche più un carro da dove scendere. Vincente o perdente che sia, di fatto, è egualmente solvibile. Non è, ovviamente, per tutti così: il nostro amico Angiolino (per dirla con Paolo Conte), ci mette di suo la liberalità di una strana avventura, e perciò auguri ma il Cavaliere è una ghiotta occasione perfino per i suoi acerrimi nemici: cosa sarebbe tutta la pubblicistica giustizialista, il messianismo televisivo dei Michele Santoro e l’antipolitica di un Beppe Grillo senza di lui?

Ed è solo uno da soccorrere e da abbracciare stretto tanto da sfilargli il contante. A maggior ragione nel perdurare del tramonto. E così come certi miliardari malati si fanno ancora più prodighi nel pagarsi farmaci e terapie, tanto da tentarle tutte, anche con maghi e fattucchiere, così il nostro – eroe di una singolarità tutta italiana, con una punta studentesca, quella del suo sorriso – accresce la propria disponibilità illudendosi in politica di prendersi questo e quello. E tutti quelli che se la ridono perché un altro eroe a noi caro, Mimmo Scilipoti, era sì alla Camera quel giorno, ma a quella dei Lord, dovrebbero saperlo che sono ben altri “gli irresponsabili”, quelli dell’altra gamba del traballante tavolo della maggioranza. Traballante, ben intesi, perché sovraccarico di danari il benedetto tavolo. Traballante per menar le danze nell’imbuto di un turbinio fatto di interessi, carriere, vanità e quella continua fabbrica di scontenti che è il governare.

E poi dice che non è un generoso il Cavaliere, disposto a svenarsi, il Cavaliere. Se si pensa che, perfino alla vigilia del voto del 14 dicembre scorso, oltre ai “Responsabili”, dovette risolvere un pari e patta anche con quei truffaldi che, fingendo di avere cospicue offerte politiche altrove – tra promessa e certezza – trattavano la propria fedeltà mettendogli sotto il naso la cambiale della lealtà a termine. Alle solite: un caso di sfacciata simonia. Con losco sotterfugio – questi signori – si guadagnavano l’indulgenza, ma sempre per campare inguattati dentro a una promessa.
E sono quelli che per amarlo fino all’ultimo momento hanno bisogno di soppesarne il guadagno baciandolo. E così, quest’uomo – del quale ancora oggi ammiriamo la sua sfida all’inosabile, ovvero la sua guerra all’establishment – è diventato rotondetto come un soldino moltiplicatore di infiniti soldini. E i suoi vicinissimi, che non hanno la spavalda follia dei fedelissimi, sono solo occhiuti ragionieri.

In questa Italia del declinar berlusconiano nessuno glielo racconta il declino perché per conoscerla a fondo, Berlusconi non ci va in incognito per strada, ma se la fa raccontare. Si affida a ciò che gli raccontano e tutti quelli che se lo vogliono vicino per continuare a piluccare dall’imbuto raccontano solo quel che può rallegrarlo.
Ed è così che in questa Italia del berlusconismo compiuto ma in accanimento terapeutico non ci sono topi che se la filano via. Nessuno abbandona la nave che affonda perché la stiva, sebbene allagata, abbonda di formaggio. E questi fedelissimi sono un inedito antropologico. Non assomigliano agli autenticissimi seguaci di altre cadute e di altre decadenze perché questi non si schierano al fianco del proprio capo in virtù di un’estrema illusione o di una follia.

Non sono, insomma, i Dario Fo e i Giorgio Albertazzi arrivati all’adunata dell’ultima raffica a Salò. Non sono neppure come Alda D’Eusanio che corre ad Hammamet accecata di generosità perché da quei capi in disgrazia, poveri – poveri al punto di affermare quale rito l’appenderli per i piedi per non sentirne cadere nessun soldino – non c’è da scucire una sola lira o euro che dir si voglia. Quando Bettino Craxi è spiaggiato in Tunisia è un uomo finito. E così Benito Mussolini a Piazzale Loreto. Berlusconi, invece, malgrado la smobilitazione di tutta la sua stagione non finisce perché – ciclope con un occhio solo – vede solo chi gli sta davanti e che chiede, pretende e riscuote e non riesce ad accorgersi di quello che gli precipita a destra come a sinistra.

E’ come un palazzo scoronato, il Cavaliere. Destinato allo sbadiglio di un museo, con le stanze numerate come in un penitenziario o come in un convento (una per ogni coordinatore, più la cella nobile riservata al segretario), il Cavaliere è perciò pronto a un priorato e non alle sedizioni della politica.
Solo che non è il tempo dei voltagabbana questo, ma quello degli avvoltoi. Berlusconi che non ha la solitudine shakespeariana del tiranno, accigliato com’è adesso – abbottonandosi la giacca, aggiustandosi la cravatta, lisciandosi il mento raso – deve soccombere all’affollarsi della clientela giunta sotto casa sua perché non c’è una sartoria a disposizione di chi vuol cambiare casacca.

Tutti gli si accostano sebbene lo vedano già lebbroso. Anche chi lo considera “bollito” fuori da ogni riserbo. E tutte quelle ulcere – si chiamino Tremonti, Draghi, Casini e financo, per chi ne serbi ancora un ricordo, Fini – su quel suo corpo segnato dalle stanchezze, all’occorrenza del pronto accomodo, diventano belle pietre preziose degne del Sardanapalo.
Sembra che Berlusconi riviva quelle giornate di attesa nell’apnea del 1920 quando a un Duca d’Aosta immalinconito dall’immobilità dell’Italia appena ebbra del ricordo di Fiume e dei legionari, accarezzando l’idea di una repubblica proclamandosi presidente incontrò una sola obiezione, quella dell’aiutante di campo: “Altezza, per fare il Napoleone terzo, prima della presidenza della repubblica, bisogna aver fatto un po’ di carcere”. Ed egli soggiunse: “Questo non mi si confà”.

E non si confà a Berlusconi il ruolo di un Napoleone terzo. E, dunque, è fuori catalogo anche rispetto al “cesarismo”. Non vogliamo certo esagerare dicendo che i nostri studi marxiani franano di fronte al suo interessante caso perché il caso, per l’appunto, è assai speciale e poco arcitaliano. Qui, infatti, non si può fare il lungo viaggio attraverso il berlusconismo in un solo giorno. Qui non c’è un Ruggero Zangrandi che esce da villa Torlonia per entrare dritto a Botteghe oscure. Qui non ci sono le poesie mistiche e fascistissime di Pietro Ingrao perché qui – in questa Italia che si congeda dal berlusconismo – non c’è un fascismo che diventa comunismo.

Specialissimo e complicatissimo caso. Non c’è una totalità da cui uscire per entrarsene in un’altra e l’accozzaglia non avrà alcuna amnistia, sarà tutto una Expositio super Apocalypsim e non sarà mai smaltita, piuttosto imbalsamata dalla ferocia del paragone proprio impari. Mussolini che vedeva ogni sera l’Italia come un giornale da fare e da impaginare, due o tre idee al giorno, per poi, la sera dopo, ricominciare è agli antipodi di un Berlusconi che, ogni giorno, si ritrova un’Italia in attesa di ereditarne l’impronta, fosse pure per un contravveleno, un antidoto ma quando poi si deve dare un successore o, un prosecutore, il Cavaliere gli è come quel tale, “Si filium habuero, facili me non utetur patre”, se avrò un figlio, facilmente non sarò suo padre.
Ferocissimo e assai dolente destino. E tutti quelli che, al mattino, si svegliano con la voglia di diventare berlusconiani della prima ora, tutte le sere se ne vanno a letto umiliati.
E’ l’ora dei bilanci, dunque, e la passione sfuma. “Voglio un partito degli onesti”, ha detto Alfano, “e non tutti lo sono”. Nella Summa theologica della politica tutti siamo peccatori e si fa dottrina solo di ciò che non è sfogo lirico o visionario ma di companatico, motivo per cui, alle solite: vince solo quello che fa uno sproposito di meno.

Ma forse è solo una faccenda di trasposizione dantesca. E non per via del contrappasso, ma per struttura e contenuto perché se non si cade, quantomeno ci si svela. Ed è apocalisse ciò che si dispiega in queste giornate del doloroso rio. Non c’è ministro che, in privato, non faccia spallucce per poi dire: “Dio mio, adesso anche le mani gli sudano”. Il mondo perbene del berlusconismo non avrà da presentarsi ai posteri con le eroiche angustie di una dinastia scomparsa. Un tempo lunghissimo è trascorso: guardavamo ancora Drive In quando lo incontrammo la prima volta. E chi gli vuol bene vive questa decadenza senza caduta con lo sgomento di un mancato rancore: tutto quello che si poteva fare non si farà mai. Né una Salerno-Reggio Calabria, né il Ponte di Messina, meno che mai meno tasse per tutti e giammai una classe dirigente in grado di raccoglierne valori che non siano i “pagherò”, le “cambiali” e “le liquidità”.

La vicenda di Emilio Fede in triangolazione con Lele Mora (e non in quel senso, di triangolo…) pare che non abbia insegnato nulla al Cavaliere e tutta la gens nova attorno a lui brulicata – sbucata come da un colpo di scena, quali topi intorno ad una sugnosa polla di ricco lardo – si scatena senza più freni quasi a replicare tutti i gironi danteschi. E così, dagli iracondi ai lussuriosi, dagli accidiosi ai violenti, dai golosi ai simoniaci di cui abbiamo detto appena sopra, mancano sempre all’appello i traditori ma solo perché trasfigurati in tutte le altre fraudolente virtù, avvitacchiati come sono al capo fattosi sempre più moneta sonante.

La più divertente delle storielle in tema d’ira è quella che vede protagonista un assai attivo parlamentare, telegenico e già collaboratore di un ministro, coautore con lui di libri dati in lettura al popolo e il ministro stesso. Succede che il deputato, non potendone più delle bizze del titolato di dicastero, gli prende il telefonino dalla scrivania e glielo frantuma sul muro. Quindi gli scaraventa sul pavimento il personal computer, quindi gli fa crollare lo schermo al plasma e, poi, tutto uno scagliare telecomandi, fascicoli e soprammobili. E tutto nel frattempo che gli agenti di scorta restano impietriti non potendo che assistere alla sfuriata, pronti a intervenire solo nel caso che tra gli oggetti volanti – a caso – venisse preso lo stesso ministro.

Tutto si placa quando il parlamentare, quale Attila dopo aver rasato per benino il prato, se ne va via soddisfatto ma per esplodere ancora quando, allo squillo del telefono, sente una voce: “Buongiorno onorevole, sono il maresciallo T. T., capo scorta del signor ministro”.

L’onorevole non può che ruggire: “Guardi che io non ho torto un solo capello al signor ministro, possono testimoniare i suoi uomini”. L’agrodolce di ogni decadenza, anche di quella che non cade, è sempre nell’avanspettacolo. E il capo scorta, infatti, risponde: “Guardi che io sto chiamando solo per congratularmi con lei, onorevole”.

E’ un peccato non mettere i nomi ma gli è che non vogliamo mettere in difficoltà la scorta. E neppure l’onorevole. Il ministro, invece, un poco sì, un poco di difficoltà se la merita, non fosse altro per l’umana commedia di chi sta in mezzo al tenebroso cerchio degli iracondi che si picchiano troncandosi co’ denti a brano a brano.

Non tocchiamo che solo sfiorandolo l’argomento della lussuria per abuso di letteratura sul tema. Un’amica che ci fa racconti su racconti intorno a quest’uomo, pur grande e geniale, quando s’immagina distesa e gemente sul lettone assai noto, per l’appunto racconta: “Quando s’è spogliato e dopo i risucchi di sbadigli mi dorme e russa e ha la tosse è solo un uomo del nostro livello. E io lo stringo a me, come per ritrovarlo snello, bello e insolente. E tale mi diventa”. Davvero?

Le rivolgiamo la domanda mostrandoci curiosi, ma solo per cortesia, in omaggio alla sua gioiosa vocazione di filosofa. E lei, soddisfatta, risponde: “E’ tutta una faccenda di psicologia”. Insomma, la rilasciatezza dei costumi è pittoresca, non tragica – “Amore e Psiche” dice ancora la dolce amica – e Berlusconi non decade perché è ricco ed è anche così che si compra l’opinione sbagliata che s’è fatta di se stesso: e il danno è che non si va più in là del poter finalmente cadere e andare. E che il caso resta padrone della famosa cassaforte. Quella che cammina.

(di Pietrangelo Buttafuoco)