domenica 8 gennaio 2012

Giovanna D'Arco, Santa ambiguità

Eroina per volontà di Dio o forse del Delfino di Francia, contesa dalla politica francese, canonizzata tra mille incertezze, vessillo di guerra e di campagne elettorali. E forse pure transessuale.

Giovanna D'Arco, patrona dei cugini d'Oltralpe, ha compiuto il 6 gennaio 600 anni. Sulla sua figura carismatica si è detto, scritto - e persino girato - di tutto. Eppure il suo mito, sospeso tra leggenda e storia, rimane ancora avvolto dal mistero. Tanto che ci si è interrogati pure sull'identità sessuale di un personaggio così particolare.

DUBBI SUL SESSO DELLA PULZELLA.

Vuoi vedere che la pulzella d'Orleans, che nella prima metà del XV secolo guidò l'esercito francese contro gli inglesi vestita da uomo, era in realtà un lui? La tesi è stata portata avanti da diversi storici e studiosi, drasticamente smentiti però dalle testimonianze dell'epoca del processo. Più difficile rifiutare a priori la tesi delle statunitensi Leslie Feinberg, attivista e autrice transgender, e della biologa Joan Roughgarden, ripresa il 7 gennaio da diversi quotidiani tedeschi, secondo cui Giovanna era una donna con l’identità sessuale maschile.
«Indubbiamente in quella ragazza c'era qualcosa di strano», ha spiegato a Lettera43.it il professor Franco Cardini, storico e saggista, tra i massimi esperti italiani dell'età medioevale.

Professore, cosa risponde a chi avanza l'idea che la pulzella fosse un uomo?

Prima bisognerebbe dimostrare in quali altri casi i documenti inquisitoriali, sempre accuratissimi, hanno preso papere così clamorose. Dalle visite mediche che furono fatte durante il processo, e la violenza che le fu probabilmente usata il giorno prima della morte, è chiaro si trattasse di una donna.

Come nascono allora queste teorie?

Da travisazioni. Dai documenti storici emergono solo elementi che potrebbero far pensare a squilibri ormonali, come l'eccessiva peluria e l'irregolarità delle mestruazioni.

Due studiose americane, citate dai giornali tedeschi, ipotizzano la sua transessualità.

Ma parlare della sessualità ambigua di Giovanna D'Arco è scoprire l'acqua calda, oltre che inutile da un punto di vista storico.

Cioè?

Suvvia, questa ragazza voleva rimanere vergine, rifiutava costantemente qualsiasi tipo di atteggiamento o di interesse sessuale, si vestiva da uomo. Non c'è bisogno di uno studio per capire che aveva qualche problema di identità, è chiaro a chiunque. Poi magari era bruttina e puzzava pure. Mica sappiamo com'era veramente.

Un modello di donna così lontano da quello attuale che però riscuote ancora molto successo.

Sì, ma ogni tentativo di attualizzare la sua figura, però, è un processo forzoso. Si fa diventare attuale ciò che si vuole, fraintendendo la storia.

Quindi non è un modello per il femminismo?

No, nel modo più assoluto. Giovanna era tutto il contrario.

Com'era?

Lei era d'accordo con le proibizioni bibliche e non ha mai preteso che le donne si equiparassero agli uomini. Agiva per volontà di Dio come portatrice di un carisma particolare, forse perché non c'erano uomini all'altezza o forse per dimostrare l'onnipotenza del Signore che affidava un compito simile a una donna.

Al di là dell'identità sessuale, la Pulzella è considerata anche icona del protonazionalismo.

Il discorso dell'urto tra nazioni è stato in parte superato con la creazione dell'Unione europea. Forse l'attualità che si cerca in Giovanna serve alle forze reazionarie. Di certo molti francesi la pensano così.

In Francia la Santa è infatti contesa dalle forze politiche.

Siamo alla vigilia delle elezioni, anche Giovanna può valere un pugno di voti e quindi il presidente Sarkozy è corso a prender freddo alle celebrazioni di Domremy. Che pagliacciata.

E se la Giovanna fosse d'origini italiane come sostengono alcuni storici? Bello smacco per Sarkò.

Non è così insensato pensarlo. Tuttavia i documenti del processo di inquisizione del 1431, di quello voluto dal re nel 1456 e di quello di canonizzazione del 1920 parlano chiaramente di una ragazza proveniente da una modesta famiglia del Giura, quindi francese.

Modesta ma con buoni appoggi politici.

Senza dubbio. Non per niente le diedero credito quando disse di aver avuto visioni divine. Aveva collaboratori di alto livello, che erano vicini al Delfino, il futuro re Carlo VII. Non sappiamo fino a che punto fosse un'autentica agitatrice o fosse una pedina manovrata. Di certo resta una figura al di sopra della sua era.

Basta a diventare santa?

Effettivamente non ci sono grosse testimonianze di santità e anche i miracoli che le si attribuiscono (qualche guarigione, ndr) sono piuttosto fumosi. La sua canonizzazione sembra più un favore di Papa Benedetto XV alla Francia, che nella I Guerra Mondiale si ritrovò unita attorno alla figura di Giovanna D'Arco.

(di Antonella Scutiero)

venerdì 6 gennaio 2012

De Benoist, una voce critica nel cuore dell’Occidente

Le modalità che hanno determinato l’insediamento di Mario Monti e di Lukas Papademos ai governi di Roma e di Atene hanno portato alcuni osservatori richiamare lo “stato di eccezione” analizzato da Carl Schmitt e a mettere in discussione l’esistenza stessa dell’Unione Europea. Quale è il suo giudizio in merito a ciò?

Io non sono molto sicuro che si possa parlare di “stato di eccezione” per descrivere le circostanze che hanno segnato l’ascesa al potere di Mario Monti e Lukas Papademos. Ma va comunque ricordato che per Carl Schmitt, lo stato di emergenza è volto principalmente a rivelare dove si situa la sovranità. “È sovrano – dice Schmitt – chi decide dello stato di eccezione”. Nel caso specifico, è ovvio che i mercati finanziari sono diventati sovrani, come è ovvio che i politici hanno abbandonato il campo. Gli Stati si sono indebitati per salvare le banche. Dopo di che finanzieri e banchieri hanno colto l’occasione per investire in posizioni strategiche in seno all’Unione europea.
Dovremmo pensare che la situazione attuale metta in discussione l’esistenza stessa dell’Unione europea? Non credo. L’eventuale fine della moneta unica non è la fine dell’Europa. L’attuale crisi è anche soprattutto una crisi del debito sovrano. Il problema dell’euro è solo una circostanza aggravante. E non si deve dimenticare che, contrariamente a quanto molti pensano, il dollaro si trova ora in una situazione peggiore rispetto all’euro. Questo significa che è soprattutto per salvare il dollaro che i mercati finanziari hanno ingaggiato una guerra contro l’euro.

La crisi che stiamo attraversando ha provocato una sorta di criminalizzazione della finanza, posta in antitesi rispetto all’economia reale. Un analista come Aleksandr Dugin ha però criticato questo atteggiamento, sottolineando il fatto che la finanza rappresenta la naturale evoluzione del sistema capitalista e che essa, come il sistema produttivo industriale, segue strategie politiche ben definite – decise nell’ambito dei consessi del Club Bilderberg e della Commissione Trilaterale – che indirizzano le tendenze di base. Quale è la sua opinione al riguardo?

Sono totalmente d’accordo con Alexander Dugin nell’affermare che la logica del profitto è il motore del capitalismo, e di conseguenza la distinzione comunemente fatta tra capitalismo industriale e capitalismo finanziario appare piuttosto artificiale. Non esiste un capitalismo “buono” e uno “cattivo”, non vi è che il capitalismo stesso. Detto questo, non si può negare che il capitalismo si sia evoluto negli ultimi trenta anni seguendo una direzione che ha sempre favorito l’autonomia del settore finanziario. Allo stato attuale, i mercati di scambio contrattano in certi giorni l’equivalente di dieci volte il PIL mondiale, che evidenzia l’entità del distacco con l’economia reale. La globalizzazione ha inoltre contribuito ad incrementare l’influenza dei mercati finanziari a livello planetario. Il capitalismo moderno è un capitalismo “deterritorializzato”, che ha ben poco a che fare – a parte la stessa tendenza a divorare tutto ciò che si ritrova davanti – con il capitalismo della fine del XIX secolo o dell’inizio del ventesimo secolo, che erano ancora legati agli Stati-nazionali. Il “turbo-capitalismo” investe e procede ovunque vi siano condizioni favorevoli. Ecco perché le classi medie, un tempo avvantaggiate dalla crescita economica, ora si trovano minacciate e in via di smantellamento.

Credere anche che il sistema capitalista obbedisca a strategie escogitate in seno al Club Bilderberg e alla Commissione Trilaterale mi sembra molto ingenuo, e anche un pò puerile. Questa inclinazione rappresenta un tratto classico delle “teorie della cospirazione” di destra. Le persone di destra tendono sempre a ridurre il tutto all’azione nociva di un piccolo numero di persone. È per questo che non hanno mai compreso gli effetti sistemici che derivano dalla progettazione di strutture. Organizzazioni come il Club Bilderberg e la Commissione Trilaterale sono al massimo i luoghi della concertazione, insieme con gli strumenti della forma-capitale. Ma non sono luoghi dove si decide. Nessuno sceglie di indirizzare la forma-capitale in una particolare direzione. E’ essa stessa che si sviluppa secondo la sua logica propria, che è la logica dell’illimitato. Il capitalismo è sia un sistema molto efficace di sfruttamento del lavoro, che genera il feticismo delle merci e la reificazione dei rapporti sociali, e un apparato autonomo d’accumulazione illimitata di capitale. Su questo punto, Marx aveva ragione. Quello che afferma sulla natura profonda del capitale potrebbe essere utilmente avvicinato a ciò che ha scritto Heidegger a proposito del Gestell.

Crede che l’uscita di scena di Dominique Strauss Kahn in seguito all’oscura vicenda di molestie sessuali sia da catalogare nel settore della cronaca o ritiene invece che contenga un ben definito significato politico?

Non sono propenso a credere alla teoria del “complotto” politico a danno di Dominique Strauss-Kahn. L’anziano direttore del Fondo Monetario Internazionale ha manifestato da molto tempo una tendenza a invischiarsi in situazioni difficili a causa delle sue abitudini e delle sue ossessioni sessuali. Il fatto è che gli americani sono meno tolleranti rispetto agli europei in merito a questi reati. Nessuno saprà esattamente ciò che è accaduto al Sofitel di New York il 14 Maggio 2011. Quel che è certo è che questo incidente ha rovinato le possibilità di Dominique Strauss-Kahn di essere eletto Presidente della Repubblica francese nella prossima primavera, che credo sia una buona cosa.

La guerra sferrata contro la Libia e le non troppo velate minacce rivolte contro Siria ed Iran hanno spinto alcuni analisti a segnalare una soluzione di continuità tra George W. Bush e Barack Obama per quanto riguarda la messa in atto del famoso “Greater Middle East Project” elaborato dagli strateghi neoconservatori. Condivide questa lettura della situazione?

C’è una netta differenza di stile, metodo e temperamento tra George W. Bush e Barack Obama. Le loro rispettive presidenze si sono svolte anche in momenti storici diversi. George W. Bush è arrivato alla Casa Bianca in un momento in cui, dopo il crollo del sistema sovietico, gli Stati Uniti potevano aspettarsi di emergere come l’unica superpotenza mondiale. Nel corso di questa fase “unipolare”, i neoconservatori hanno escogitato un “nuovo secolo americano”.

Questo sogno è crollato, prima con il fallimento delle guerre in Iraq e Afghanistan, ma anche a causa del crescente ruolo svolto dai paesi emergenti. Infine, gli Stati Uniti sono stati colpiti duramente dalla crisi finanziaria globale, che si aggiunge alle loro difficoltà interne e ora minaccia il ruolo internazionale del dollaro. Per queste ragioni Barack Obama non ha potuto porsi sulla scia del suo predecessore.

Ma se si vuole comprendere la politica estera degli Stati Uniti, non dobbiamo solamente tener conto della congiuntura storica. Dobbiamo anche ricordare che gli Stati Uniti hanno sostanzialmente mantenuto gli stessi obiettivi di politica internazionale. Che siano guidati da repubblicani o da democratici, che si ritirino nell’isolazionismo o privilegino invece l’interventismo di tipo “wilsoniano”, il loro obiettivo principale rimane sempre quello di promuovere gli interessi del potere del Mare (“isola” americana) a discapito di quelli del potere della Terra (il continente eurasiatico), per prevenire l’apparizione, in qualsiasi parte del mondo, di un concorrente in grado di competere con loro, e di lavorare per l’unificazione planetaria diffondendo in tutto il mondo il loro stile di vita e il loro modello di”sviluppo”. Si potrebbe dire che gli americani hanno la tendenza a considerare che il mondo non diventerà per loro veramente comprensibile finché non sarà stato completamente americanizzato.

Le rivolte che hanno scosso parte significativa del Nord Africa e del Vicino Oriente hanno diviso il fronte degli analisti in due fazioni principali; l’una che tende a considerare la voglia di democrazia quale vero motore della cosiddetta “primavera araba”, mentre l’altra è portata invece a parlare di “risveglio islamico”. Quale è la sua personale opinione?

Mi sembra che la questione non si ponga più oggi. I recenti avvenimenti hanno dimostrato l’errore commesso dagli analisti del primo tipo, dal momento che sono islamisti, e non sostenitori della “democrazia liberale” americana, che ha vinto tutte le “libere elezioni” che hanno avuto luogo lo scorso autunno.

In Marocco, gli islamisti del Partito di Giustizia e Sviluppo (PJD) sono arrivati in testa alle elezioni. In Tunisia, il partito islamista Ennada e i suoi alleati hanno ottenuto più del 50% dei voti. In Egitto, sono la Fratellanza Musulmana e i movimenti salafiti ad imporsi come grandi vincitori delle elezioni, con oltre il 70% dei voti. Si commetterebbe però un errore anche interpretando il successo dei movimenti islamici da un’angolatura esclusivamente religiosa. L’islamismo è, a mio avviso, un fenomeno politico e culturale molto più che religioso in senso stretto, anche se prende in prestito liberamente il linguaggio della religione. Gli islamisti sono coloro i quali ritengono che la decolonizzazione è stata raggiunta, sinora, solo nel campo politico (con la conquista dell’indipendenza da parte delle ex colonie) e, in alcuni casi, anche in campo economico, ma che la decolonizzazione culturale non si sia ancora verificata. L’Islam fa ormai parte dell’identità dei paesi del Maghreb e del Medio Oriente. Si tratta di un elemento fondatore di tale identità che, in quanto tale, va ben oltre la sola religione. In passato, gli Stati Uniti hanno sempre sostenuto i movimenti islamisti per contrastare l’ascesa del nazionalismo arabo laico, che sospettavano essere troppo legato all’Unione Sovietica al tempo della Guerra Fredda. L’islamismo costituisce oggi soprattutto una rivendicazione identitaria. Che questa rivendicazione si esprima contro le potenze occidentali è nella natura delle cose.

Iran, Israele e la Turchia stanno ridefinendo radicalmente le proprie posizioni diplomatiche. L’Iran sostiene la Siria di Bashar Al Assad e avversa irriducibilmente Israele, la Turchia ha abbandonato la politica di “buon vicinato” inaugurata dal Ministro degli Esteri Ahmet Davutoglu per scagliarsi contro il regime baathista siriano e per rompere insanabilmente le relazioni con Israele, mentre Benjamin Netanyahu appare estremamente rigido sia nei riguardi della Turchia che dell’Iran che della Siria che di Al Fatah, specialmente dopo la richiesta di riconoscimento della Palestina avanzata da Abu Mazen in sede ONU. A cosa crede che sia dovuta questa rivoluzione?

L’unico vero cambiamento riguarda la Turchia, che ha effettivamente adottato da qualche tempo delle posizioni anti-israeliane, o addirittura anti-americane, inedite tra i paesi membri della NATO. Ma la reale portata di questo cambiamento è ancora da determinare. A livello militare, per esempio, la cooperazione tra Israele e la Turchia sembra continuare. E ‘probabile che i leader turchi siano abbastanza divisi, e che dietro le quinte si affrontino diverse fazioni opposte fra loro. Penso anche che questo nuovo orientamento della politica estera turca possa significare che la Turchia ha verosimilmente perduto la speranza di vedere la sua candidatura per l’ingresso nell’Unione Europea accettata dagli europei.

Pertanto, sfruttando la propria posizione geopolitica, sta sviluppando una politica “pan-turca” (“Turanista”) verso le repubbliche turcofone dell’ex Unione Sovietica, e anche nei paesi vicini.

Da questo nuovo corso della politica estera turca l’Iran avrebbe tutto da guadagnare, non fosse che i due paesi si attestino su posizioni opposte per quanto riguarda la Siria. Teheran non nasconde il suo sostegno al presidente Bashar al-Assad, mentre i turchi, al contrario, portano aiuto all’opposizione.

Quanto allo Stato di Israele, esso continua a mantenere le sue politiche repressive nei confronti dei palestinesi. La reazione di Benjamin Netanyahu dopo mossa fatta da Abu Mazen alle Nazioni Unite, la sua furia dopo la decisione dell’Unesco di riconoscere uno Stato palestinese, la ripresa degli insediamenti nei territori occupati nonostante gli avvertimenti della comunità internazionale mostrano che gli israeliani sono meno disposti che mai ad accettare la nascita di uno Stato palestinese dotato di tutti i crismi di sovranità.

Nei prossimi mesi si terranno le elezioni presidenziali in Russia, che molto probabilmente confermeranno il primato del partito Russia Unita e consacreranno il ritorno di Vladimir Putin – favorito su Zhirinovskij, Zjuganov e Prokhorov – alla Presidenza della Federazione. Mikhail Gorbaciov ha però cavalcato l’onda delle contestazioni di cui l’indebolito Putin è bersaglio invitandolo a “Lasciare subito il potere”. Quale è il suo giudizio politico su Gorbaciov e quale pensa che sarà l’esito delle elezioni russe?

Gorbaciov è un uomo completamente screditato, che non ha più alcuna influenza in Russia. Gli occidentali si rivolgono a lui per criticare Putin, ma ciò non cambierà il corso delle cose. È pur vero che c’era frode nelle elezioni dello scorso 4 dicembre, e le successive manifestazioni testimoniano una certa perdita di popolarità di Putin. L’intera questione è qual era l’entità della frode e se Putin ha davvero perso l’appoggio del popolo russo.

Dalle informazioni che ho potuto ottenere, le frodi hanno effettivamente favorito il partito Russia Unita in misura abbastanza marginale. Senza queste frodi, Russia Unita avrebbe ottenuto il 2 o il 3% dei voti di meno, ma sarebbe comunque arrivata in testa. Per quanto riguarda popolarità di Putin, vedremo i risultati delle prossime elezioni presidenziali.

Penso che Putin raccoglierà meno voti rispetto al 2004 (allora ottenne il 71% dei voti), ma sarei molto sorpreso se egli non dovesse essere rieletto. I russi non hanno dimenticato che è a lui che si devono la loro prosperità economica e il ripristino dell’autorità dello Stato. Il problema è che gli osservatori occidentali replicano nei confronti della Russia esattamente lo stesso errore commesso sulla “primavera araba”. Si immaginano che gli avversari siano sostenitori della “democrazia liberale” all’americana! Nulla di più lontano dalla realtà. Gli eventi dello scorso dicembre – che sono stati incoraggiati dagli americani, che in passato avevano fatto proprio la stessa cosa sostenendo le “rivoluzioni colorate” in Europa orientale – hanno dimostrato che coloro che criticano Putin lo fanno per motivi diversi e anche diametralmente opposti. Alcuni lo accusano di essere un “autocrate”, altri di non essere abbastanza nazionalista, altri ancora di non essere abbastanza comunista, di non essere abbastanza liberale, di essere troppo pragmatico, di non criticare più radicalmente gli Stati Uniti, ecc. L’opposizione a Putin non è un programma ma una cacofonia politica. Non dimenticate, inoltre, che i liberali del Movimento Yabloko godono appena del 4% delle preferenze secondo i sondaggi. Tutti gli altri partiti principali sono anche meno “occidentali” rispetto a Russia Unita, che si tratti di Russia Giusta, del Partito Comunista di Gennady Zyuganov o del movimento nazionalista guidato dallo stravagante Zhirinovsky. Gli americani non tengono conto di questa realtà, perché credono ancora che gli altri siano come loro. Non capiscono l’alterità. Questa è una delle cause dei loro problemi nelle relazioni internazionali.

Negli anni Settanta Richard Nixon ed Henry Kissinger sfruttarono le tensioni tra Cina e Vietnam per riconoscere la legittimità di Mao Tze Tung per assestare un duro colpo all’alleanza comunista condannando l’Unione Sovietica all’isolamento internazionale, e pochi anni dopo il Consigliere per la Sicurezza Nazionale (sotto l’amministrazione Carter) Zbigniew Brzezinski mise a punto una strategia che attirò l’Armata Rossa nel terribile pantano afghano. Crede che il ritorno di Brzezinski e il recupero di una politica meno muscolare rispetto a quella propugnata da George W. Bush segnalino l’intenzione statunitense di contrastare il riavvicinamento tra Russia e Cina attualmente in atto?

Gli Stati Uniti faranno l’impossibile per contrastare un riavvicinamento tra Cina e Russia. Faranno ugualmente di tutto per limitare le zone d’influenza di questi due paesi. Nel suo libro “La Grande Scacchiera”, pubblicato nel 1997, Zbigniew Brzezinski enumera gli “imperativi geostrategici” che gli Stati Uniti devono rispettare per mantenere la loro egemonia mondiale, mettendo in guardia contro “la creazione o l’emergere di una coalizione eurasiatica” che “potrebbe cercare di sfidare il primato dell’America”. “Chiunque controlli l’Eurasia, ha aggiunto, controlla il mondo”. Le cose sono dunque chiare. L’obiettivo si riassume in tre parole: accerchiare, destabilizzare, balcanizzare.

La strategia di accerchiamento della Russia prevede l’installazione di nuove basi militari in Europa orientale, la creazione di sistemi di difesa missilistica in Polonia, Repubblica Ceca e Romania, il supporto per l’adesione di Ucraina e Georgia nella NATO, il perseguimento di una politica aggressiva volta a spezzare l’influenza russa nelle tormentate regioni del Mar Nero, del Mar Caspio e del Caucaso. In materia di approvvigionamenti energetici, questa strategia si è dispiegata attraverso numerosi tentativi di porre sotto controllo gli oleodotti di un’Asia centrale trasformata in protettorato americano, per favorire lo sviluppo dell’oleodotto che, partendo dal Caspio, aggira la Russia a raggiunge la Turchia, e attraverso la limitazione dell’accesso delle petroliere russo negli stretti del Bosforo e dei Dardanelli. La creazione di un “arco di crisi” per destabilizzare la tradizionale area di influenza della Russia nelle regioni del Caucaso, dell’Afghanistan e dell’Asia centrale può essere compresa solo in questa prospettiva.

Parallelamente, è in atto il progetto riguardante il massiccio allargamento della NATO verso Europa orientale, i Balcani e i confini della Russia, anche all’interno della stessa ex Unione Sovietica, per dissuadere l’Unione Europea ad adottare una capacità di difesa indipendente, e frenare, per quanto possibile, la riconciliazione tra Germania e Russia attualmente in corso.

L’ascesa dei cosiddetti “BRICS” (Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa) e la parallela crisi profonda in cui versano gli Stati Uniti stanno modificando l’assetto geopolitico mondiale in una direzione che rispecchi i reali rapporti di forza internazionali. Quale crede che sarà la struttura del nuovo ordine mondiale e quale ritiene che sarà il destino degli Stati Uniti?

Ci troviamo in un periodo di transizione, in un interregno. L’ordine bipolare stabilito a Yalta alla fine della seconda guerra mondiale è crollato assieme al muro di Berlino. Il nuovo ordine geopolitico planetario deve ancora nascere, ma è già chiaro che il nuovo “Nomos della Terra”, per riprendere un’espressione di Carl Schmitt, non sarà unipolare ma multipolare. Non sarà un Universum, ma Multiversum. In questo contesto, la lotta tra il potere del Mare e il potere della Terra, le contraddizioni tra Stati Uniti e il “resto del mondo”, sono destinate ad esacerbarsi. Il ruolo che svolgerà l’Europa è il segreto del futuro.

(di Giacomo Gabellini)

La storia dei Magi


L’unico Vangelo, che parla dei magi è quello di Matteo in cui si legge: «Gesù nacque a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode. Alcuni magi giunsero da oriente a Gerusalemme e domandavano: «Dov’è il re dei Giudei che è nato? Abbiamo visto sorgere la sua stella, e siamo venuti per adorarlo». Erode, naturalmente, come qualsiasi potente che tiene alla poltrona, si allarma. E li convoca segretamente per conoscere il luogo di nascita e la residenza del nuovo Re dei Giudei. Il resto è storia nota: i magi non informano il Re, che è costretto a scendere in campo e compiere una orribile strage di innocenti bambini.

«Quei magoi – scrive Franco Cardini ne Il giglio, la stella e le tre corone – potevano essere degli indovini e astrologi, di solito “caldei”, che riempivano allora l’Oriente; ma resta il dubbio che si trattasse di veri e propri magi iranici, che negli astri scrutavano la venuta di un futuro Saoshyant, il Difensore-Salvatore-Vincitore periodicamente atteso nel mazdaismo».

Nel Vangelo di Matteo non si indicano i nomi che la tradizione indica in Melchiorre, Gaspare e Baldassarre traendoli da una lunga serie di testi evangelici apocrifi. Sono tre perché, probabilmente, erano tre i doni: oro, incenso e mirra. Tra le poche certezze è che venivano da Oriente, perché i caldei si trovano a Est della Palestina, ma l’indicazione geografica è talmente vaga, come dire oggi che un immigrato viene dall’Asia.

I magi erano, comunque, degli indovini d’origine siro-mesopotamica che «detenevano il monopolio di rituali e pratiche a carattere magico-astrologico-divinatorio nel mondo persiano mazdaico». Tra le varie interpretazioni sui magi può darsi si trattasse di una casta sacerdotale «all’interno della quale –spiega Franco Cardini – si custodiva il nucleo di un messaggio in grado di superare il dualismo mazdaico riconducendo luce e tenebra a un originario principio superiore, Zurvan Akarakana, (“Il Tempo Increato”), signore di tutte le cose».

In questo senso, davvero, i magi ebbero, forse, l’intuizione, anche con l’arte di saper leggere le stelle, di aver trovato il loro «soccorritore divino». Il termine magi, inoltre, si collega anche ad un altro significato, perché il termine maga indica il dono sia quello sacrificale dell’offerta, sia nel senso sapienziale di sapere. I tre doni: l’oro, l’incenso e la mirra erano prodotti commerciati che abitualmente dall’Oceano Indiano giungevano alla penisola araba e da lì al mondo mediterraneo. Era la cosiddetta "via dell’incenso".

La festa dell’Epifania rappresenta «la manifestazione di Dio» e i magi furono i primi pagani ad aver adorato Gesù e per questo il loro culto fu molto fortunato tra i convertiti al cristianesimo che non provenivano dal mondo giudaico. In Italia il culto dei magi resta oscuro fino all’XI secolo, fino a quando le reliquie dei magi furono traslate da Costantinopoli a Sant’Eustorgio a Milano.

Le reliquie erano datate con molta incertezza tra il IV e il VI secolo, ma, come per altri casi illustri, vedi le spoglie di San Nicola trafugate da Mira a Bari, così avvenne per i Re Magi. Rainaldo di Dassel le portò via da Sant'Eustorgio e le trasferì nel Duomo di Colonia, in Germania. Da allora, Colonia divenne meta di pellegrinaggi tra i più importanti del medioevo.

(di Aurelio Molé)

giovedì 5 gennaio 2012

Ungheria: la nuova Costituzione invisa all'alta finanza


In Ungheria, cuore della Mitteleuropa, sta avvenendo qualcosa di atipico, che l’opinione pubblica occidentale ha finito per considerare estraneo e finanche pericoloso, a seguito di un addomesticamento culturale passato negli anni attraverso fitte campagne mediatiche atte a promuovere quello liberista come l’unico, valido modello di sviluppo.

Succede che il tricolore magiaro sormontato dalla corona di Santo Stefano è tornato a sventolare nel cielo plumbeo di Budapest, per affermare una sovranità nazionale che favorisce il popolo e terrorizza i banchieri.

Il primo gennaio è entrata in vigore la nuova Costituzione ungherese, voluta dal governo di Viktor Orbán (nella foto ndr) ed approvata nell’aprile scorso dal Parlamento (dove il partito di governo Fidesz gode di due terzi della maggioranza). La nuova Carta, redatta con accenti che rievocano antichi lustri d’identità nazionale, è contraddistinta da una serie di provvedimenti che mirano a ricostruire un potere sovrano. Al suo interno spiccano tuttavia misure controverse, che hanno generato malumori giacché limitative di alcune, definite da molti “derive etiche” e da altri “libertà individuali”. In nome della tradizione cristiana, cemento dell’unità e motore dello sviluppo storico dell’Ungheria, l’esplicita frase iniziale “Dio benedica gli ungheresi” indica l’assetto culturale su cui si basa tutto l’impianto della nuova Costituzione. L’embrione, anzitutto. La nuova Carta lo considera un essere umano fin dal suo concepimento, così sgomberando il campo della discussione sulla liceità dell’aborto da equivoci derivanti dal mese di gravidanza. Il matrimonio, poi. E’ autorizzato espressamente solo quello tra un uomo e una donna. Inoltre, le comunità religiose che potranno beneficiare di sovvenzioni pubbliche vengono portate da 300 a 14, un taglio che va a discapito solo di ristrettissime minoranze e che consente cospicui risparmi per le casse dello Stato, dunque per la comunità tutta. Sempre a vantaggio del popolo ungherese, spunta una norma che fissa per tutti l’aliquota fiscale al 16% (attualmente l’Ungheria, con il suo 27% di valore normale dell’aliquota, è il Paese dell’Unione europea con la percentuale di imposta più alta). Le misure in ambito economico sono proprio quelle che maggiormente preoccupano l’estero, rappresentato soprattutto in questa campagna anti-ungherese dalle lobby della finanza, colpite nei loro interessi particolari dalla svolta costituzionale di Viktor Orbán. Con la nuova Carta, infatti, la Banca centrale ungherese dipende direttamente dal governo: il Primo ministro sceglie i suoi assistenti, inoltre sei dei nove membri del consiglio monetario della Banca centrale sono nominati dal Parlamento. Questo cambio di registro non fa che complicare i già tormentati rapporti tra la Banca centrale ungherese e agenti esterni della finanza, ovvero Fondo Monetario Internazionale e istituzioni finanziarie europee. Nel settembre scorso il sistema bancario internazionale è entrato ufficialmente in rotta di collisione con l’Ungheria. Durante quel mese, per arginare la crisi derivante dal debito pubblico più alto in un Paese dell’Est, il governo Orbán ha favorito i suoi cittadini che avevano contratto un debito con le banche in valuta straniera svalutando forzosamente la moneta nazionale. Lo strappo ha generato una svalutazione del fiorino ungherese di circa il 23%, di oltre il 12% se in euro. Ciò significa che occorrono meno fiorini per ripagare il debito, di fatto la svalutazione si trasforma in uno sconto. Come se non bastasse questa rivoluzionaria riforma finanziaria, si è imposto per legge che la differenza tra il valore nominale del cambio monetario e quello reale venga imputato agli istituti di credito che sono detentori dei debiti.

Quella manovra approvata a Budapest a settembre ha creato intorno all’Ungheria uno stuolo di nemici acerrimi facenti capo all’alta finanza, molto temibili per via del loro indiscutibile potere economico e pronti a sferrare un agguato non appena si fosse presentata occasione propizia. Solo oggi, un’ondata di costernazione popolare contro la nuova Costituzione - fisiologica in ogni Paese democratico, specialmente in tempi di crisi - è diventato lo strumento che questi nemici stanno brandendo all’indirizzo dell’Ungheria. La stampa occidentale finanziata dal grande capitale trasforma così la pur partecipata manifestazione di dissenso in riva al Danubio dello scorso 2 gennaio in “oceaniche sfilate di massa”, tacendo invece su un consenso equivalente al 52,7% dei voti che hanno consentito ad Orbán e al suo governo, nell’aprile 2010, di insediarsi. Ma non solo. La stampa occidentale, pur di diffamare il presidente magiaro e il suo governo, rispolvera anche l’evidentemente mai sopito (dalle coscienze di certi intellettuali) nostalgismo vetero-marxista. Ecco che una colpa di Orbán diventa quella di aver nominato personalità nuove in settori dirigenziali della cultura, sinora monopolio assoluto di ristrette cerchie legate al cupo passato comunista del Paese. Un’altra colpa? Quella di voler rimuovere la statua, piazzata proprio davanti al Parlamento, del poeta di origini rumene Attila Jozef, celebre cantore dell’ideologia marxista. La quale ideologia marxista - è bene ricordarlo agli smemorati - ha causato all’Ungheria, durante la sola insurrezione ungherese del 1956, l’orrore di 2.652 morti e 250.000 feriti (il 3% di tutta la popolazione).

Intanto, la guerra contro l’Ungheria è iniziata anche su altri fronti, oltre a quello giornalistico. Le speculazioni finanziarie che hanno colpito il mercato ungherese sortiscono effetti devastanti. Standard & Poor’s, a seguito delle recenti dinamiche borsistiche che hanno sfavorito Budapest, ha definito il rating (l’affidabilità economica) dell’Ungheria uno “junk”, ossia spazzatura. In campo politico, invece, è l’Unione europea che fa la sua parte, avendo minacciato il Paese magiaro di sospendere gli aiuti economici dopo l’entrata in vigore della nuova Costituzione. Dal canto suo, il governo di Orbán non sembra intimorito e invita la Commissione europea al dialogo. “Abbiamo inviato il testo (della nuova Costituzione, ndr) a Bruxelles. Se la Commissione troverà punti di cui discutere, noi siamo pronti alle consultazioni, siamo aperti” ha riferito Peter Szijjarto, portavoce del premier.

Questo scenario di ostracismo anti-ungherese rende legittimo un quesito: più corretto definire dittatura la svolta nazionale, autoritaria e sociale di Viktor Orbán o le bieche operazioni della finanza internazionale che mirano a soffocarne le aspirazioni sovrane?

(di Federico Cenci)

lunedì 2 gennaio 2012

Quando Fellini disse: "Tremaglia, lei merita un film"



Era diventato un ricordo lontano e il vecchio Mirko lo raccontava agli amici senza pathos, come una delle tante cose originali che gli erano capitate nella vita. E invece il suo incontro con Federico Fellini era stato come un sogno ad occhi aperti. Era capitato una trentina di anni fa, anni nei quali i missini - dirigenti e militanti - vivevano una sorta di apartheid in patria, tenuti fisicamente e moralmente a distanza. Un’attitudine che non poteva riguardare un uomo curioso come Fellini. Tanto è vero che alla fine di una chiacchierata con Tremaglia, il più celebrato regista italiano se ne era uscito con una proposta spiazzante: «Lo sa che, prendendo spunto da alcuni episodi della sua vita, potremmo fare un film?». Difficile immaginare come si fosse dipanato nei dettagli il dialogo tra personalità così diverse. Eppure, anche se il film non si fece, si può capire come la vita di Mirko Tremaglia (scomparso tre giorni fa e di cui oggi si sono celebrati i funerali a Bergamo) possa aver solleticato l’immaginazione di un poeta come Fellini. Vita avventurosa, quella di Tremaglia, ma soprattutto segnata da un sentimentalismo sanguigno e anacronistico, che seppe superare confini e ideologie.

Una vita attraversata da tantissimi frangenti unici, così numerosi da essersi dispersi persino nelle tante ricostruzioni della sua esistenza, comparse sui giornali di questi giorni. Per lui tutto era cominciato in quei mesi terribili dell’estate del 1943, durante i quali rischiò di dissiparsi, assieme allo Stato, anche il senso dello Stato e della Patria. Quando il cavalier Mussolini fu costretto a dimettersi, Mirko Tremaglia era un ragazzo bergamasco di 17 anni e poiché il papà era partito per le colonie eritree nel 1940, a lui non restò che comunicare alla mamma l’irrevocabile decisione: «Mi arruolo come volontario nella Repubblica di Salò». Decisione controcorrente, quella di difendere la continuità di un regime in disfacimento e che aveva lanciato il Paese in un una guerra disastrosa. E infatti il 25 luglio del 1943 l’Italia fascista non si era mobilitata per difendere Mussolini: tantissimi ragazzi avevano scelto la via della Resistenza e 650.000 militari, rifiutandosi di aderire alla Rsi, furono deportati nei lager nazisti.

Ma per i ragazzi di Salò, per gli ardimentosi che mettevano a rischio la propria vita, c’erano da difendere, «onore e dignità» della Patria. Gli andò male e non solo perché la storia andava da un’altra parte. Il camerata Mirko viene presto arrestato dagli Alleati e nel giro di pochi mesi perde prima il papà, morto in Africa e presto anche la mamma. Ritrovatosi orfano, costretto a lasciare l’Università Cattolica di Milano per il suo passato repubblichino, nel 1963 Tremaglia parte per l’Eritrea, alla ricerca del luogo nel quale era sepolto il padre. E qui si consuma un altro di quei momenti commoventi di cui è stata piena la sua vita: «In quel Paese, non conoscevo nessuno, ma finalmente trovai la tomba di mio padre, restando sbalordito: sopra c’erano dei fiori freschi, messi dagli italiani che erano restati lì». E’ in quel momento - come ha raccontato lui - che Tremaglia decide di trasformare la propria vita in una missione: valorizzare l’epopea dei tantissimi italiani emigrati, costretti a lasciare la propria casa, per trovare pane e lavoro in una terra lontana. Tremaglia impiegherà 43 anni per dare il voto agli italiani all’estero, ma per raggiungere quell’obiettivo sarà protagonista - in giro per il mondo - di una quantità senza fine di discorsi commoventi, eventi restati memorabili per ciascuno degli emigrati che vi partecipava, tanta povera gente che "rivedeva" il suo Paese grazie alle parole visonarie di quel missino pieno di nostalgie.

Certo, come ha scritto Marcello Veneziani, Tremaglia era rimasto «l’ultimo fascista dichiarato e non pentito che sedeva in Parlamento». Ma Tremaglia, pur ammirando intimamente il fascismo e suo Duce, aveva fatto proprio il motto di Giorgio Almirante, che ripeteva spesso: «Non rinnegare, non restaurare». Per questo motivo non si ricordano espressioni esteriori del suo credo, saluti romani come quelli che lo hanno salutato durante i suoi funerali. E come tutti i missini nostalgici, Tremaglia aveva orrore per i traditori, per tutte le possibili reincarnazioni del "badoglismo". Per questo motivo, oltreché per una inossidabile ammirazione per Gianfranco Fini, nel 1990 Mirko Tremaglia è l’ unico tra i vecchi notabili missini che non partecipa alla defenestrazione del giovane Fini, a favore di Pino Rauti. Una ammirazione (ricambiata da Fini, pur assente ai funerali) che lo porterà a seguire il suo amico Gianfranco anche in occasione del divorzio da Berlusconi, un leader che Tremaglia non aveva mai amato, al punto che fu il primo a criticarlo pubblicamente in anni nei quali non era semplice farlo.

Se non fosse stato per la sua battaglia per gli italiani all’estero e per l’appassionata missione di tener vivo il ricordo del figlio Marzio, scomparso ancora giovane, nella vita di Tremaglia una certa qual perdita di prospettiva era iniziata una ventina di anni fa. Nell’estate del 1993, mentre la Prima Repubblica stava crollando, Gianfranco Fini, ai tempi leader dell’Msi, si ritrovò a ragionare assieme al professor Domenico Fisichella attorno all’idea di un partito che superasse il vecchio Movimento sociale, così intriso di nostalgia per il fascismo. E tra gli argomenti che realisticamente consigliavano la svolta (che si sarebbe completata sei mesi dopo col varo di Alleanza nazionale), ce ne era uno, legato ai cicli della vita: i reduci della stagione fascista e repubblichina erano destinati ad assottigliarsi nel giro di qualche anno. Tre giorni fa Adolfo Urso, commentando la morte di Tremaglia, ha detto: «Era l’ultimo dei grandi di una fulgida stagione politica: la sua scomparsa segna la fine di un’epoca per la destra italiana».

Parole che evocano il finale di un film di un regista, Pupi Avati, che - guarda caso - era legato a Federico Fellini. Avati chiude la sua "Gita scolastica" con le immagini della morte dell’ultima alunna reduce di una scampagnata di tanti anni prima. Con queste parole: «Laura fu l’ultima a partire» e quando raggiunse gli altri, «furono tutti assieme, nessuno era rimasto indietro».

sabato 31 dicembre 2011

Tremaglia e i paradossi del fascista duro e puro

Sì, è morto l’ultimo fascista dichiarato e non pentito che sedeva in Parlamento. Mirko Tremaglia, vecchio leone, fascista indomito, per dirla nel suo linguaggio da combattente e camerata. Espansivo ed estroverso, ricco di umanità, non sembrava ai miei occhi terronici un bergamasco. Di lui molti ammiravano la coerenza e altrettanti deploravano la testardaggine. Ma dietro la fedeltà al Duce, Tremaglia viaggiò molto dal suo fascismo rivoluzionario della gioventù; lasciò le originarie posizioni sociali da fascismo di Salò, Corporativismo&Socializzazione, per sposare un fascismo d’ordine, giustizialista e filoamericano. Fu fascista ma non di quelli crepuscolari o catacombali; sapeva farsi valere anche da missino, intrecciava relazioni politiche e rapporti personali anche con avversari e uomini delle istituzioni. Fu tra i primi sponsor di Di Pietro, Cossiga e Mani pulite. Fu fascista di Salò ma accettò le cure termali di Fiuggi e aderì ad Alleanza Nazionale. Fu fascista repubblicano ma sostenne Israele e i falchi americani. Patì la perdita di suo figlio Marzio ma anche il suo prestigio, che oscurava quello di suo padre. Quella morte prematura lo invecchiò di colpo, e per anni visse nel ricordo di lui, con una teatralità del dolore tipica delle culture siculomediterranee. Ricordo una grandiosa manifestazione a Bergamo, stracolma di gente, in cui parlammo di Marzio, con Fassino, Fini e Cardini. Per lungo tempo lui portò il suo dolore paterno, genuino e plateale, in processione per l’Italia e in ogni occasione.Ricordo un suo pianto anche in una manifestazione al Vittoriano da Ministro per gli italiani all’estero.

Sanguigno e tuonante, incline al fascismo duro e puro e al pianto tenero e sentimentale, la parabola politica ed esistenziale di Tremaglia è segnata da tre paradossi. Fu Irriducibile fascista, militante fedele del fascismo di Salò, del vecchio Msi e poi di An, ma alla fine seguì il becchino di tutti e tre, Fini, aderendo a Futuro e Libertà; lui che era tutto Nostalgia e Autorità. Secondo paradosso: spese una vita per gli italiani all’estero, si prodigò per loro, fondò i comitati tricolore e volle la legge che consentiva il voto ai nostri emigrati; pensava a un trionfo ma la sua lista ottenne un solo seggio su 18 e grazie alla sua legge il governo Prodi ebbe la maggioranza assoluta in Senato. Terzo paradosso: era un fascista d’azione, diffidente verso le elucubrazioni degli intellettuali e il culturame, ma il destino gli giocò uno scherzo feroce e benedetto: suo figlio Marzio tradì il cliché del fascista attivista, fu un raffinato intellettuale prestato alla politica, gran promotore di idee e assessore lombardo alla cultura. Anzi «il miglior assessore alla cultura d’Italia » disse una volta Walter Veltroni, e non lo disse in un elogio funebre, ma quando Marzio era ancora assessore in carica (lo disse anche a me, ricordo, eravamo a Parigi e lui era ministro dei Beni culturali). In fondo, la più grande eredità di Mirko è morta prima di lui: è Marzio, suo figlio, politico colto e illuminato.

I saluti romani sono fuori luogo, fuori tempo e fuori legge ma consentite almeno l’estremo saluto romano per i fascisti morenti, unito al congedo che lui avrebbe voluto: camerata Mirko Tremaglia presente.

(di Marcello Veneziani)

mercoledì 28 dicembre 2011

Presepe gay, Blondet: l’attacco ai valori cristiani prolungherà la crisi


Anche il centro sociale Paci Paciana, tra i più noti di Bergamo, per Natale ha realizzato, come da tradizione, il classico Presepe. Il bue, l’asinello, Gesù Bambino, San Giuseppe e un altro San Giuseppe. In effetti, di classico, non ha niente. Ma, convinti che i cattolici e la Chiesa debbano adeguarsi ai tempi, han pensato bene di adeguarvi, nel frattempo, la Sacra Famiglia. E hanno realizzato un presepe gay.

«Mi pare un bersaglio molto facile. E’ semplice e un po’ meschino colpire in questo modo elementi del cristianesimo, ritenuti, da chi pratica queste iniziative, semplici credenze, come la verginità di Maria», commenta, raggiunto da ilSussidiario.net, Maurizio Blondet. Sta di fatto che la messa in scena farà parecchio discutere. Quanto meno per il fatto che, avvalendosi di un facile paravento come la lotta alla discriminazione sessuale, si è offeso il sentimento religioso di molti senza che ce ne fosse alcun motivo.

Secondo Blondet, «chi mette in atto simili aggressioni culturali non si rende conto che sta segando l’albero in cima al quale si trova. Queste “credenze” che durano da 2000 anni hanno determinato gran parte di quanto nella società vi è di buono». Qualche esempio chiarisce meglio il ragionamento: «un tempo, anche nelle famiglie che si professavano non cristiane, atee, o comuniste, si viveva, più o meno consapevolmente, secondo valori e virtù originate dal cristianesimo: lo spirito di sacrificio, l’idea di lavorare per i propri figli e non per sé stessi o la consapevolezza che l’egoismo fosse una colpa. Tutto ciò, oggi, sta scomparendo».

Il fenomeno appare ancora più controverso, se lo si legge alla luce della crisi che le famiglie stanno vivendo; e considerando il fatto che ne è l’origine: «La finanza speculativa –dice Blondet -, se questo orizzonte valoriale non si stesse sempre più riducendo, non potrebbe neanche esistere. La finanza, infatti, oggi, è una pratica a bilancio zero: se qualcuno guadagna, è perché qualcun altro ha perso. Si è dissolto il concetto in virtù del quale la natura buona dell’arricchirsi consiste nel generare ricchezza anche per gli altri. Un tempo, del resto, il ricco ci teneva a far sapere che era diventato tale con il sudore della sua fronte».

Oggi, invece, sembra quasi che «la massima di Gordon Gekko, nel film Wall Street, secondo cui l’avidità è bene, sia stata assunta anche nella realtà. Un modo di pensare che fino a pochi anni fa sarebbe stato ritenuto semplicemente vergognoso». Resta una nota positiva: «In questo Natale, un po’ più povero per tutti, il tepore delle famiglie che, per un giorno, tornano insieme, ha rappresentato, come in tutti i Natali, il segno che alcune consapevolezze non sono venute ancora meno del tutto, anche tra i non credenti».

(fonte: www.ilsussidiario.net)