Una delle chiavi di lettura dell'ultimo saggio di Giampiero Mughini (Addio, gran secolo dei nostri vent'anni, Bompiani, pagg. 382,
euro 17) sta nella frase «il Novecento, questo secolo da cui non mi
riesce di traslocare». L'altra è una citazione di Carlo Mollino, geniale
outsider artistico, che l'autore eleva a epitaffio del XX secolo:
«Poter arrivare più su là dove non si vede che nebbia-chiarore-capire
tutto-senza sapere nulla».
Mughini è un figlio del Novecento che non sa rassegnarsi alla sua
scomparsa. Superficialmente, e complice anche il titolo del libro, si
potrebbe pensare che il suo attaccamento a ciò che è stato abbia a che
fare con la nostalgia della giovinezza, arrivati in un'età in cui
guardando il futuro non si vede altro che il proprio passato. In realtà è
qualcosa di più profondo, non facile da definire, una sorta di sindrome
della grandezza, la consapevolezza di essersi formato e aver fatto
parte di un'epoca terribile e insieme magnifica, una tempesta di idee e
di fatti a petto della quale ciò che è venuto dopo è solo una risacca
dove qua e là galleggiano relitti senza vita.
Prendiamo la politica e le ideologie. Il Novecento ha fuso la prima
con le seconde, ha tenuto a battesimo, allevato e fatto alleare e/o
confliggere gli ismi che hanno segnato il suo percorso, comunismo e
fascismo, nazismo e capitalismo, terzomondismo. In loro nome e per loro
conto, l'Europa si è suicidata in due guerre mondiali e si è spaccata in
due blocchi contrapposti, gli Stati Uniti si sono illusi che quel
secolo divenuto americano sarebbe rimasto tale per sempre, la
decolonizzazione si è rivelata un sanguinoso cimitero di buone
intenzioni...
Prendiamo le idee. La modernità artistica ne ha accompagnato l'intero
percorso, in pittura come in letteratura, nell'architettura come nel
design e nella moda, spostando sempre più avanti il traguardo, fino a
ritrovarsi in una babele dove le distinzioni non esistono più, nessun
linguaggio è più riconoscibile, la sperimentazione è un valore in sé, un
fine e non un mezzo. Avendo predicato tutte le libertà, si è finiti con
l'approdare in una sorta di dittatura della libertà che non tollera
regole e si arroga ogni diritto, il privato divenuto pubblico
dell'attuale società dello spettacolo e della rete.
Usciti dal Novecento (un secolo che comincia un quindicennio dopo la
sua data storica e finisce un decennio prima, con la caduta del Muro di
Berlino del 1989), conviviamo con i suoi residui passivi, senza nulla
per cui esaltarsi e tutto per deprimersi. Secolo occidentale per
definizione e, se si vuole, anche per convenzione eurocentrica, il
nostro sguardo abbraccia una crisi economica di cui ci sfugge il senso,
una costruzione europea miope e senza gloria, una decadenza
generalizzata come di una civiltà giunta al suo epilogo. Visto
dall'Italia, il panorama è ancora più avvilente, un Paese senza,
svuotato da una diarrea politico-istituzionale, da un'assenza di
prospettive e di progetti, intellettualmente miserabile quanto a
risultati. Giustamente Giampiero Mughini se ne chiama fuori. E noi con
lui.
Biografia intellettuale, Addio, gran secolo dei nostri vent'anni è un
libro costruito per blocchi fatti di gusti e di disgusti. C'è
l'intellettuale libertario di sinistra che, negli anni Sessanta, si
scontra con «quel Corano a misura del Novecento detto
marxismo-leninismo», e negli anni Settanta cerca di trovare una via
d'uscita a quella guerra generazionale fra «opposti estremismi» che come
una lebbra infetta l'Italia. Nei Settanta è anche la spiegazione di una
passione dell'autore per la cultura francese fra le due guerre. «Me lo
indicate un solo dei libri dell'una o dell'altra fazione politica
italiana di allora che oggi valga la pena prendere in mano e
sfogliare?». Laddove, invece, nella Parigi del Fronte popolare prima,
dell'occupazione tedesca dopo, c'è comunque un livello intellettuale
all'altezza della terribile grandiosità dell'epoca, Nizan e Maurras,
Drieu e Aragon, Céline e Sartre, Souvarine e Malraux, Rebatet... I suoi
eroi e le sue canaglie, insomma, rimandano a una terribile esemplarità
di cui, quarant'anni dopo, da noi si vedrà solo la sanguinosa
caricatura.
Figlio del secolo, Mughini lo è anche nella sua identificazione con
ciò che nel secondo dopoguerra significò la rivoluzione dei costumi e
dei consumi, la contestazione, il femminismo, la rivoluzione sessuale e
le nuove mode musicali, l'entrata in scena della controcultura americana
che da underground divenne poi icona del glamour, del successo e della
fama, la celebrità secondo il suo profeta Andy Warhol. Eppure, in quella
specie di cortocircuito artistico- esistenziale, c'era come la spia di
un malessere tipicamente novecentesco da un lato, nella sua ansia di
assoluto, e insieme ultima vampata di un secolo bruciatosi troppo in
fretta, nel momento in cui la società di massa si prendeva la rivincita
definitiva sulle élites: dalla droga all'arte, è il mercato la nuova
divinità con cui si debbono fare i conti, la quantità che sostituisce la
qualità, l'economia come unico metro di misurazione.
Ben scritto, con uno stile riconoscibilissimo nella secchezza del
giro di frase e nella ricchezza dell'aggettivazione, brutale e poetico,
il libro si chiude con quella citazione molliniana ricordata all'inizio e
per Mughini epitaffio del XX secolo, quel «capire tutto-senza sapere
nulla». Per certi versi, e l'autore non me ne vorrà, la si potrebbe
rovesciare, perché poi di quel secolo oggi possiamo dire di sapere
tutto, ma di non aver capito nulla. Guerre civili, odi ideologici,
polarizzazioni estreme, culturali ritorni all'ordine e culturali fughe
in avanti in cerca di nuove, impossibili sintesi, non c'è momento del
Novecento che, basta volerlo, sfugga alla nostra conoscenza. Eppure
continuiamo a scimmiottarlo quasi fosse un riflesso condizionato, il
cane di Pavlov nell'esperimento omonimo. Il XXI secolo non fa che
salivare, ma senza capire il perché. Ulteriore motivo per starsene alla
larga.
(di Stenio Solinas)