sabato 29 settembre 2012

Cartoline dal Novecento. Quel secolo breve che non vuol mai finire


Una delle chiavi di lettura dell'ultimo saggio di Giampiero Mughini (Addio, gran secolo dei nostri vent'anni, Bompiani, pagg. 382, euro 17) sta nella frase «il Novecento, questo secolo da cui non mi riesce di traslocare». L'altra è una citazione di Carlo Mollino, geniale outsider artistico, che l'autore eleva a epitaffio del XX secolo: «Poter arrivare “più su” là dove non si vede che nebbia-chiarore-capire tutto-senza sapere nulla».

Mughini è un figlio del Novecento che non sa rassegnarsi alla sua scomparsa. Superficialmente, e complice anche il titolo del libro, si potrebbe pensare che il suo attaccamento a ciò che è stato abbia a che fare con la nostalgia della giovinezza, arrivati in un'età in cui guardando il futuro non si vede altro che il proprio passato. In realtà è qualcosa di più profondo, non facile da definire, una sorta di sindrome della grandezza, la consapevolezza di essersi formato e aver fatto parte di un'epoca terribile e insieme magnifica, una tempesta di idee e di fatti a petto della quale ciò che è venuto dopo è solo una risacca dove qua e là galleggiano relitti senza vita.

Prendiamo la politica e le ideologie. Il Novecento ha fuso la prima con le seconde, ha tenuto a battesimo, allevato e fatto alleare e/o confliggere gli “ismi” che hanno segnato il suo percorso, comunismo e fascismo, nazismo e capitalismo, terzomondismo. In loro nome e per loro conto, l'Europa si è suicidata in due guerre mondiali e si è spaccata in due blocchi contrapposti, gli Stati Uniti si sono illusi che quel secolo divenuto “americano” sarebbe rimasto tale per sempre, la decolonizzazione si è rivelata un sanguinoso cimitero di buone intenzioni...

Prendiamo le idee. La modernità artistica ne ha accompagnato l'intero percorso, in pittura come in letteratura, nell'architettura come nel design e nella moda, spostando sempre più avanti il traguardo, fino a ritrovarsi in una babele dove le distinzioni non esistono più, nessun linguaggio è più riconoscibile, la sperimentazione è un valore in sé, un fine e non un mezzo. Avendo predicato tutte le libertà, si è finiti con l'approdare in una sorta di dittatura della libertà che non tollera regole e si arroga ogni diritto, il privato divenuto pubblico dell'attuale società dello spettacolo e della rete.

Usciti dal Novecento (un secolo che comincia un quindicennio dopo la sua data storica e finisce un decennio prima, con la caduta del Muro di Berlino del 1989), conviviamo con i suoi residui passivi, senza nulla per cui esaltarsi e tutto per deprimersi. Secolo occidentale per definizione e, se si vuole, anche per convenzione eurocentrica, il nostro sguardo abbraccia una crisi economica di cui ci sfugge il senso, una costruzione europea miope e senza gloria, una decadenza generalizzata come di una civiltà giunta al suo epilogo. Visto dall'Italia, il panorama è ancora più avvilente, un Paese senza, svuotato da una diarrea politico-istituzionale, da un'assenza di prospettive e di progetti, intellettualmente miserabile quanto a risultati. Giustamente Giampiero Mughini se ne chiama fuori. E noi con lui.

Biografia intellettuale, Addio, gran secolo dei nostri vent'anni è un libro costruito per blocchi fatti di gusti e di disgusti. C'è l'intellettuale libertario di sinistra che, negli anni Sessanta, si scontra con «quel Corano a misura del Novecento detto marxismo-leninismo», e negli anni Settanta cerca di trovare una via d'uscita a quella guerra generazionale fra «opposti estremismi» che come una lebbra infetta l'Italia. Nei Settanta è anche la spiegazione di una passione dell'autore per la cultura francese fra le due guerre. «Me lo indicate un solo dei libri dell'una o dell'altra fazione politica italiana di allora che oggi valga la pena prendere in mano e sfogliare?». Laddove, invece, nella Parigi del Fronte popolare prima, dell'occupazione tedesca dopo, c'è comunque un livello intellettuale all'altezza della terribile grandiosità dell'epoca, Nizan e Maurras, Drieu e Aragon, Céline e Sartre, Souvarine e Malraux, Rebatet... I suoi eroi e le sue canaglie, insomma, rimandano a una terribile esemplarità di cui, quarant'anni dopo, da noi si vedrà solo la sanguinosa caricatura.

Figlio del secolo, Mughini lo è anche nella sua identificazione con ciò che nel secondo dopoguerra significò la rivoluzione dei costumi e dei consumi, la contestazione, il femminismo, la rivoluzione sessuale e le nuove mode musicali, l'entrata in scena della controcultura americana che da underground divenne poi icona del glamour, del successo e della fama, la celebrità secondo il suo profeta Andy Warhol. Eppure, in quella specie di cortocircuito artistico- esistenziale, c'era come la spia di un malessere tipicamente novecentesco da un lato, nella sua ansia di assoluto, e insieme ultima vampata di un secolo bruciatosi troppo in fretta, nel momento in cui la società di massa si prendeva la rivincita definitiva sulle élites: dalla droga all'arte, è il mercato la nuova divinità con cui si debbono fare i conti, la quantità che sostituisce la qualità, l'economia come unico metro di misurazione.

Ben scritto, con uno stile riconoscibilissimo nella secchezza del giro di frase e nella ricchezza dell'aggettivazione, brutale e poetico, il libro si chiude con quella citazione molliniana ricordata all'inizio e per Mughini epitaffio del XX secolo, quel «capire tutto-senza sapere nulla». Per certi versi, e l'autore non me ne vorrà, la si potrebbe rovesciare, perché poi di quel secolo oggi possiamo dire di sapere tutto, ma di non aver capito nulla. Guerre civili, odi ideologici, polarizzazioni estreme, culturali ritorni all'ordine e culturali fughe in avanti in cerca di nuove, impossibili sintesi, non c'è momento del Novecento che, basta volerlo, sfugga alla nostra conoscenza. Eppure continuiamo a scimmiottarlo quasi fosse un riflesso condizionato, il cane di Pavlov nell'esperimento omonimo. Il XXI secolo non fa che salivare, ma senza capire il perché. Ulteriore motivo per starsene alla larga.

(di Stenio Solinas)

mercoledì 26 settembre 2012

Donna Assunta Almirante contro la Polverini


La Polverini? Ormai può solo amministrare casa sua, se ne è capace”. Parla Donna Assunta Almirante, moglie di Giorgio Almirante, fondatore del Movimento Sociale Italiano. Eppure fu proprio lei, nel 2010, a sostenere con convinzione la candidatura alla Regione Lazio dell'allora segretaria del sindacato Ugl. Pentita? “Mortificata soprattutto, perché le feci la campagna elettorale credendola una donna all'altezza del compito”.

Raggiunta da Panorama.it Donna Assunta è un fiume in piena e ne ha per tutti: “Pd, Pdl, Udc sono tutti uguali, rubano tutti, ormai chi entra in politica lo fa solo per trovarsi un posto al sole di luglio e ottenere un tornaconto personale. Gli Almirante, i Berlinguer, i Pajetta non esistono più”. Suo marito, rivela, che girava in 500, non ha mai posseduto un'auto blu e faceva svolgere indagini accurate non solo su chi aspirava a candidarsi, ma anche su chi semplicemente chiedeva di iscriversi al suo partito.

Altri tempi, certo, “ma oggi si è superato ogni limite” e la soluzione appare una sola: non andare più a votare finché non sarà cambiata la legge elettorale e il popolo non avrà riacquistato la facoltà di scegliere i propri rappresentati.

Donna Assunta, chi ha la colpa maggiore di quanto accaduto nel Lazio?

Per me ce l'ha la Polverini, perché sarà pure vero che quel ciccione (Franco Fiorito ndr) ha rubato, ma un capo deve sempre essere al corrente di ciò che accade. Ma come ha fatto a non accorgersi che questi diventavano miliardari all'improvviso?

Lei alla buona fede di Renata Polverini non ci crede proprio?

No. E' come una madre che fa finta di non sapere cosa fa il figlio.

Doveva denunciare tutto prima?

Secondo me non doveva prendersi un incarico di questo genere se non si sentiva all'altezza.

Adesso che si è dimessa che altro può fare?

Dovrebbe andarsene solo che a casa e non avere altre aspirazioni. Pensi ad amministrare casa sua, se ne è capace, che a noi non serve più.

A casa anche Fiorito?

Visto che a Regina Coeli c'è già troppo affollamento, a casa sua con tutti gli altri.

Insomma, non salva proprio nessuno?

No, perché sono tutti uguali. Dopo il caso Lusi come fanno quelli del Pd a presentarsi come i serafini della politica? Tutta questa gente si butta in politica perché altrimenti non saprebbe di cosa vivere. Nessuno che si preoccupi davvero della povera gente che si spara perché non riesce più ad andare avanti mentre quegli altri si divertono alle feste in costume greco-romano. Ma ci rendiamo conto? La situazione è gravissima.

Se dovesse puntare oggi su un nome da candidare alla Regione?

Non c'è.

Nemmeno tra i giovani?

Ma a questi giovani oggi chi fa lezione di politica? Gli ospiti dei salotti buoni di Bruno Vespa e di Ballarò? Non ci sono più gli Almirante, i Berlinguer, i Pajetta che andavano continuamente nelle piazze facendo politica attiva. A quei tempi, è vero, i giovani di destra, di sinistra di centro, gridavano, si menavano, ma almeno apprendevano qualcosa.

Suo marito Giorgio Almirante cosa avrebbe detto di tutta questa situazione?

Le dico solo che mio marito aveva incaricato uno dei suoi, Donato Lamorte, di indagare sulla vita, la famiglia, la professione di chi anche solo voleva mettere piede nel partito. Mica bastava arrivare e dire “mi voglio candidare”.

Almirante ce l'aveva l'auto blu?

Ma quale auto blu! Girava in 500, tanto che l'allora ministro dell'Interno Francesco Cossiga era preoccupatissimo per lui perché temeva che facendo benzina qualcuno potesse aggredirlo.

E suo marito come rispondeva?

Che il popolo gli voleva bene e che nessuno lo avrebbe toccato. Mio marito voleva solo la scorta per non tardare alla manifestazioni e non non far aspettare il popolo in piazza.

Andrà ancora a votare?

No, se non cambia la legge elettorale. E faccio appello a tutti gli italiani a non entrare in cabina se non potranno scegliere i nomi delle persone.

Però Fiorito è stato votato dal popolo con ben 26mila preferenze. Come la mettiamo?

Le preferenze danno comunque maggiori garanzie.

Ma che gli farebbe lei a Fiorito?

Con tutta quella ciccia non lo si può nemmeno prendere a schiaffoni. Mi farei più male io.

(fonte: www.panorama.it)

lunedì 24 settembre 2012

Mistico e tollerante, ecco l'altro islam


Le vicende degli ultimi anni e le drammatiche notizie che oggi arrivano da Siria, Nigeria e altri Paesi musulmani, appiattiscono l'Islam, agli occhi di molti occidentali, sulla minaccia tirannica e bellica. 

Ma c'è un abisso fra un militante di Al-Qaeda e un mistico sufi, fra uno sceicco arabo e un giovane imam di periferia europea. Un abisso nell'interpretare il Corano, nelle scelte di vita, nel rifiutare o meno la violenza, nel rispettare le altre confessioni. La religione fondata da Maometto è complessa e contraddittoria, quanto l'universo cristiano, forse ancora di più. Dell'Islam quasi tutti sappiamo il minimo indispensabile, ovvero la divisione in due tronconi: Sciiti e Sunniti. Qualcuno sa che Osama bin Laden seguiva, come la famiglia reale saudita, la corrente del Wahhabismo, estrema e letterale applicazione della legge coranica e odio sistematico verso i non musulmani. Molti però ignorano che la tradizione sciita contiene un mondo intero, decisamente meno inquietante e con altre profonde differenze sul piano teologico, mistico e spesso politico. La posizione dell'Italia, al centro del Mediterraneo, come ponte fra Oriente e Occidente, ci deve stimolare a conoscere l'altro monoteismo universale. Ne abbiamo bisogno per combattere chi fa davvero del male e dialogare con chi è interessato alla convivenza pacifica.

Non sarà forse un caso che il nostro Paese abbia avuto l'onore di ospitare la vita terrena e la carriera saggistica del conte Pio Flippani-Ronconi. L'orientalista scomparso nel 2010, infatti, scrisse parecchio su buddismo e pensiero cinese, ma anche di Islam, in particolare delle sue manifestazioni più eretiche. Proprio Un altro Islam. Mistica, metafisica e cosmologia, si intitola la sua raccolta postuma di scritti in libreria dal 26 settembre (ed. Irradiazioni, pagg. 200, euro 16), curata dal professor Angelo Iacovella. È il primo volume (arricchito dalla prefazione dell'islamologo di fama mondiale Seyyed Hossein Nasr, persiano di nascita ma esule negli Usa) dell'edizione critica di articoli e contributi inediti dedicati al mondo musulmano medioevale (il secondo tomo, Regalità iranica e gnosi ismaelita, è previsto per il 2013). Una delle prime cose che ci insegna Flippani-Ronconi è che fu proprio l'imporsi della rigidezza giuridica da parte dei Sunniti che permise, per reazione, l'esplosione dell'esoterismo e del misticismo incarnato da Sciiti, Ismaeliti e confraternite sufi. Spesso la differenza, le tensioni e le lotte erano anche di natura etnica: gli Arabi, musulmani originari che conquistarono e convertirono l'intero Medio Oriente, riducevano la religione al rispetto della Legge, gli eterodossi, quasi sempre combattuti e perseguitati, popolavano invece Persia e Asia minore. Lì le tradizioni religiose pre-islamiche erano ancora vive e contaminarono la purezza coranica, con influssi zarathustriani, cristiani, greci, addirittura induisti. Non mancarono sette gnostiche, come quella degli Ismaeliti, guidata dal «Vecchio della Montagna» citato anche nel Milione di Marco Polo, che infrangevano le prescrizioni del libro sacro.

I mistici estremisti consideravano abrogate tutte le religioni, Islam compreso, superate da un culto più interiore e spirituale. Proprio l'atteggiamento opposto dei wahhabiti, dei fanatici che vorrebbero sgozzare ogni infedele. Nell'introduzione al volume Iacovella ricorda che l'attenzione del conte «per la religione in generale, e l'Islam in particolare, non si esauriva nella sola prospettiva accademica, ma coinvolgeva anche quella personale ed esistenziale». Filippani-Ronconi era «sensibile, in modo straordinariamente profondo, alla grazia, o barakah, della spiritualità islamica e alle sacre atmosfere evocate da quell'arte e da quell'architettura». Insomma, coglieva ciò che può funzionare da antidoto alle semplificazioni occidentali fondate sull'ignoranza, sulla malafede e sulla disinformazione e al fondamentalismo.

Gli islamici si accorsero presto del lavoro pionieristico svolto dal professore italiano. Fu lui, molto probabilmente, l'unico studioso di casa nostra a venire insignito del titolo di dottore honoris causa in «Teologia e Scienze dell'Islam» dall'Università di Teheran. Quella stessa università e quella stessa città che lo avevano accolto nei primi anni '50 grazie a una borsa di studio conferitagli dal governo iranico. In patria seminò molto fra i suoi allievi dell'Istituto Orientale di Napoli, dove insegnò per molti anni e godette della stima di sommi orientalisti come Giuseppe Tucci e Alessandro Bausani. Ma una buona parte dell'accademia italiana si dimostrò meno prodiga di lodi. Non si vedeva di buon occhio un'identificazione stretta con la materia d'insegnamento, ancora meno la lontananza dalle mode ideologiche e dal conformismo storicistico che dominavano negli atenei. È però probabile che Filppani-Ronconi poco si preoccupasse dei pregiudizi dei colleghi. Forse reagiva alle critiche con seraficità sufica, o al massimo facendosi scappare qualche espressione in antico avestico o in sanscrito.

(di Luca Negri)

domenica 23 settembre 2012

Salvo D'Acquisto, metà eroe metà santo


Immerso nella fogna del presente, av­vilito da storie miserabili, desidera­vo storie gloriose, cielo e aria pura. E qualcuno mi ha ricordato che come og­gi, il 23 settembre del ’43, si sacrificò Sal­vo d’Acquisto, il carabiniere che a Pali­doro, nel Lazio, offrì la sua vita ai tede­schi evitando l’eccidio per rappresa­glia di 22 italiani.

Me lo ha ricordato Monsignor Ga­briele Teti che ha avviato, in veste di po­stulatore, la causa di beatificazione del giovane milite. Mi ha mandato copiosi documenti su d’Acquisto che si auto­accusò dell’attentato contro i tedeschi, facendo così liberare gli altri ventidue ostaggi che stavano già scavandosi la fossa sotto lo sguardo armato delle SS. Loro rimasero attoniti, ridevano e pian­gevano mentre venivano liberati e lui veniva ucciso, in camicia bianca e pan­taloni di carabiniere.

D’Acquisto era napoletano, aveva combattuto in Africa. Ricordo che negli infuocati diverbi tra neofascisti, antifa­scisti e afascisti, era l’unica figura che metteva d’accordo tutti. Salvo morì a occhi aperti, guardando il mare e il cie­lo, nel nome della fede e dell’amor pa­trio. Ebbe la medaglia d’oro al valor mi­litare, ma forse il suo valore fu più civile e cristiano.

Non so se possa considerarsi più un eroe o più un santo, come pensano Monsignor Teti e l’Arcivescovo Vincen­zo Pelvi dell’Ordinariato Militare: sì, forse gli eroi muoiono combattendo, lui invece si sacrificò disarmato, come i martiri. Salvo - un nome un destino - se lo contendono i cieli. Tra tanti processi infami, finalmente uno di beatificazio­ne.

(di Marcello Veneziani)

I pachidermi delle regioni


Lo scandalo che travolge la giunta Polverini non è certo un buon motivo per abolire la Regione Lazio. Né la Lombardia o la Sicilia, dopo le peripezie di Formigoni e di Lombardo. Ma sta di fatto che le Regioni sono diventate molto impopolari; e il popolo è pur sempre sovrano. Di più: nei termini in cui le abbiamo costruite, le Regioni sono un lusso che non possiamo più permetterci. Non solo in Italia, a dirla tutta. Ne è prova, per esempio, il no di Rajoy alla Catalogna, che reclamava una maggiore autonomia fiscale. Ma è qui e adesso che il decentramento dello Stato pesa come una zavorra. È qui che la spesa regionale è aumentata di 90 miliardi in un decennio. Ed è sempre qui, nella periferia meridionale dell'Europa, che i cittadini ne ottengono in cambio servizi scadenti da politici scaduti.

Sicché dobbiamo chiederci che cosa resti dell'idea regionalista, incarnata nei secoli trascorsi da Jacini, Minghetti, Colajanni, Sturzo. Dobbiamo domandarci se quell'idea abbia ancora un futuro e quale. Intanto ne conosciamo, ahimè, il passato. L'introduzione degli enti regionali costituì la principale novità della Carta del 1947, ma poi venne tenuta a lungo in naftalina, perché la Democrazia cristiana non voleva cedere quote di potere al Partito comunista. Quando tale resistenza fu infine superata - all'alba degli anni Settanta - le Regioni vennero al mondo zoppe, malaticce. Da un lato, il nuovo Stato repubblicano aveva occupato ormai tutti gli spazi; dall'altro lato, i partiti politici avevano occupato lo Stato. Ed erano partiti fortemente accentrati, dove i quadri locali prendevano ordini dall'alto. Le Regioni si connotarono perciò come soggetti sostanzialmente amministrativi, dotati di competenze legislative residuali e senza una reale autonomia.

Poi, nel 2001, grazie alla bacchetta magica del centrosinistra, scocca la riforma del Titolo V; ed è qui che cominciano tutti i nostri guai. Perché dal troppo poco passiamo al troppo e basta; ma evidentemente noi italiani siamo fatti così, detestiamo le mezze misure. E allora scriviamo nella Costituzione che la competenza legislativa generale spetta alle Regioni, dunque il Parlamento può esercitarla soltanto in casi eccezionali. Aggiungiamo, a sprezzo del ridicolo, che lo Stato ha la stessa dignità del Comune di Roccadisotto (articolo 114). Conferiamo alle Regioni il potere di siglare accordi internazionali, con la conseguenza che adesso ogni «governatore» ha il suo consigliere diplomatico, ogni Regione apre uffici di rappresentanza all'estero. Cancelliamo con un tratto di penna l'interesse nazionale come limite alle leggi regionali. E, in conclusione, trasformiamo le Regioni in soggetti politici, ben più potenti dello Stato.

I risultati li abbiamo sotto gli occhi. Non solo gli sprechi, i ladrocini, i baccanali. Non solo burocrazie cresciute a dismisura e a loro volta contornate da un rosario di consulte, comitati, consorzi, commissioni, osservatori. Quando il presidente Monti, nel luglio scorso, si mise in testa di chiudere i piccoli ospedali, il ministro Balduzzi obiettò che la competenza tocca alle Regioni, non al governo centrale. Negli stessi giorni la Corte costituzionale (sentenza n. 193 del 2012) ha decretato l'illegittimità della spending review , se orientata a porre misure permanenti sulla finanza regionale. Costituzione alla mano, avevano ragione entrambi, sia la Consulta sia il ministro; ma forse il torto è di questa Costituzione riformata.

La Costituzione ha torto quando converte le Regioni in potentati. Quando ne incoraggia il centralismo a scapito dei municipi. Quando consegna il governo del territorio alle loro mani rapaci, col risultato che il Belpaese è diventato un Paese di cemento. Quando disegna una geografia istituzionale bizantina (sul lavoro, per esempio, detta legge lo Stato, ma i tirocini sono affidati alle Regioni). Quando mantiene in vita anacronismi come le Regioni a statuto speciale. Quando pone sullo stesso piano il ruolo delle Regioni virtuose (per lo più al Nord) e di quelle scellerate (per lo più al Sud). Infine, ha torto quando nega allo Stato il potere di riappropriarsi di ogni competenza, se c'è una crisi, se la crisi esige un'unica tolda di comando.

C'è allora una lezione che ci impartiscono gli scandali da cui veniamo sommersi a giorni alterni. Vale per le Regioni, vale per i partiti. Perché viaggiamo a cavalcioni d'un elefante, ecco il problema. E l'elefante mangia in proporzione alla sua stazza. Quindi, o mettiamo a dieta il pachiderma o montiamo in sella a un animale più leggero. Quanto alle Regioni, vuol dire sforbiciarne le troppe competenze. Se non altro, gli incompetenti smetteranno di procurarci danni.

(di Michele Ainis - fonte: www.corriere.it)

Qualcuno prenda il timone di questo Paese


Consiglieri regionali. Abbiamo visto Er Batman-Fiorito difendere i suoi magheggi bancari con forza leonina in tv, poi De Romanis, l’altolocato de noantri, rivendicare l’innocenza bambocciona della sua festa suina. E la Polverini chiedere al consiglio regionale del Lazio una piega qua e un bigodino là; e la Guardia di Finanza fare toc toc alla porta del consiglio regionale della Campania, si salvi chi può, siamo alla sagra del pecorino marcio. Nel frattempo il mondo va avanti e l’Italia, come nel 1992, sta perdendo il treno delle riforme.

Anche allora un governo tecnico ci mise la toppa, ma solo quella. Andava fatto ben altro per non ritrovarsi vent’anni dopo in uno scenario postbellico. I tecnici di allora cercarono di salvare la lira sotto attacco, controllare (si fa per dire) la spesa e avviare un piano di dismissioni delle Partecipazioni Statali che non è servito a niente. I tecnici di oggi sono ancor più nei guai e senza grandi idee: il sistema politico è alla deriva, gli scandali hanno nauseato l’opinione pubblica a tal punto che due italiani su tre sarebbero tentati dal voto di protesta o dall’astensione, la crisi dell’economia reale galoppa, le stime del Pil sono al ribasso e tutto questo costituisce un formidabile carburante per avventurieri, salvatori della Patria in maschera e ciarlatani che vendono pozioni magiche. In questa fiera carnevalesca, Mario Monti ha fatto pesare il suo indiscutibile prestigio internazionale e la sua capacità di relazione con l’establishment. Ma ha sbagliato a non pungolare il suo ministro dello Sviluppo Economico, Corrado Passera, (il quale ieri s’è beccato la giusta critica di Sergio Marchionne) e ha sottovalutato la spirale recessiva e le difficoltà della miriade di imprese italiane non orientate all’export.

È un esponente della tecnocrazia e non è di certo uno che ha gran fiducia nel popolo. Ma ditemi: che c’è di meglio in campo? Niente. L’Italia ha un bisogno disperato di cambiare passo. Ci provò negli anni ’80 Bettino Craxi a lanciare la Grande Riforma, ma i suoi propositi s’infransero sul muro eretto dai due titani che co-governavano l’Italia: la Dc e il Pci.

Quelli che prendono in esame il ventennio berlusconiano (e anti) commettono un errore, perché l’immobilismo ha una storia più che trentennale e la cosa surreale è che la riforma più significativa approvata in questo lungo intervallo di tempo, è quella del Titolo V della Costituzione, votata dal solo centrosinistra nel 2001, che ha dato più poteri alle Regioni, cioè a quegli enti che sono tra i principali responsabili dello sfibramento dello Stato e della progressione del debito pubblico. Più poteri a Er Batman... pazzesco. La realtà è che le Regioni sono da abolire e l’Italia è dei Comuni. Tra un baccanale e l’altro è ora che qualcuno prenda il timone di questo Paese e lo riporti sulla terra.

(di Mario Sechi - fonte: www.iltempo.it)

venerdì 21 settembre 2012

Alle prossime elezioni si spegnerà del tutto la credibilità dei partiti


I partiti che si accapigliano sulla riforma elettorale, sulla Rai, sulla giustizia, sulle tasse, sul rigore, per accaparrarsi ancora qualche fettina di potere e nell’illusione di conquistare consenso, assomigliano molto ai polli di Renzo che si beccavano l’un l’altro senza rendersi conto che sarebbero presto finiti sullo spiedo dell’Azzeccagarbugli. Se non proprio allo spiedo i partiti rischiano di finire sulla padella dell’irrilevanza. È infatti molto probabile che alle prossime elezioni, si tengano in autunno o nel 2013, le astensioni e i voti dati a Grillo riducano il parterre degli elettori ai minimi termini. Certo il Pd, il Pdl e gli altri potranno ancora ottenere, dal punto di vista puramente matematico, percentuali di una certa consistenza, ma su un numero di elettori più che dimezzato. E se dal calcolo si detraessero gli uomini degli apparati, gli adepti e tutti coloro che sono legati alla classe politica per ragioni clientelari, si vedrebbe che il voto liberamente dato, quello che esprime un vero consenso, riguarda ormai una percentuale infima e che la credibilità dei partiti è ridotta a un lumicino cimiteriale, sul punto di spegnersi del tutto. Ed è quanto i partiti si meritano; dopo trent’anni di grassazioni, di latrocinii, di spudorato clientelismo, di lottizzazioni, di abusi, di soprusi, di prepotenze, di disinteresse per il bene pubblico e anche della totale mancanza di quella capacità di previsione che dovrebbe essere, forse, il compito principale di una classe dirigente. 

Prendiamo, ad esempio, il drammatico problema delle pensioni. A metà degli anni ’80, non ci voleva un indovino per sapere quale sarebbe stata la composizione per età della popolazione italiana del Duemila. Bastavano le statistiche demografiche. È da allora che si sarebbe dovuto metter mano alla questione invece di sperperare denaro, per ragioni clientelari, nelle pensioni baby, nelle pensioni d’oro, nelle pensioni di anzianità fasulle, nelle pensioni di invalidità false.

Per trent’anni la classe politica non solo si è rifiutata di autocorreggersi, ma ha impedito in tutti i modi qualsiasi cambiamento dello «statu quo». Un esempio emblematico viene dalle inchieste di Mani Pulite. Un’occasione unica per una correzione del sistema, per un giro di boa. Invece bastarono pochissimi anni alla classe politica, con la complicità di quasi tutti gli intellettuali, per trasformare i ladri di regime in vittime e i magistrati nei veri colpevoli. 

Ancora oggi Piero Ostellino scrive sul Corriere della Sera che la «ragion di stato» deve prevalere sull’etica e il diritto (quale «ragion di stato» legittimi i furti alla collettività è davvero difficile da capire). Così si è continuato come prima, peggio di prima perché da metà degli anni ’90 si è aggiunta una devastante campagna, di matrice berlusconiana, di delegittimazione della magistratura italiana che, insieme ad altri fattori, ci ha impedito di arginare la frana che ci sta rovinando addosso. 

Sono trent’anni che noi cittadini veniamo trattati come sudditi, privi di capacità politica che non sia quella di andare ogni cinque anni a legittimare, col voto, i padroni di turno. E dai e ridai ci siamo stufati. Non ci crediamo più. Non alla politica, come surrettiziamente ci si vuol far credere, ma ai partiti, che è cosa diversa. E la crisi economica ha contribuito a incrementare questo discredito, questo disprezzo nei confronti di coloro che dovrebbero essere i nostri rappresentanti. E io penso seriamente che le prossime elezioni segneranno la fine della democrazia rappresentativa, almeno così come l’abbiamo conosciuta e, purtroppo, subita.

(di Massimo Fini)

La prevalenza del maiale


Non bisogna farsi ingannare da quelle fotografie. Il martedì grasso della destra romano-laziale non è soltanto una mascherata tardo felliniana, non è un dramma satiresco: è uno stato dell’essere. E il segreto per comprenderlo sta nel maiale, nella maschera suina indossata sulla scena dai protagonisti maschili di una carnevalata che si può anche equivocare come parodia di un’epoca storica – l’antichità declinata nella penombra inconscia di riferimenti cinematografici moderni: dal toga party di “Animal House” alla lubricità di certi filmetti adolescenziali americani degli anni Ottanta – e che invece rinvia a significati più profondi. La scelta di una maschera obbliga al disvelamento del proprio sé. Il tradizionalista René Guénon utilizzò al riguardo parole illuminanti: “Le maschere di carnevale sono genericamente orride ed evocano il più delle volte forme animali o demoniache, tanto da essere quasi una sorta di ‘materializzazione’ figurativa di quelle tendenze inferiori, o addirittura ‘infernali’, cui è permesso così di esteriorizzarsi”. “Del resto – conclude il Guénon – ognuno sceglierà naturalmente fra queste maschere, senza neppure averne una chiara coscienza, quella che meglio gli conviene, cioè quella che rappresenta quanto è più conforme alle sue tendenze, sicché si potrebbe dire che la maschera, che si presume nasconda il vero volto dell’individuo, faccia invece apparire agli occhi di tutti quello che egli porta realmente in se stesso, ma che deve abitualmente dissimulare”. Questo spiega la presenza di maschere cornute e faunesche nelle celebrazioni primaverili dei paesi mediterranei, lì dove l’uomo (non il maiale) si riappropria di una funzione fecondatrice ancestrale e propizia l’uscita dal buio.

Di qui proviene, oggi, la facile impressione che il generone laziale di centrodestra (ma non solo quello) abbia trasceso il ciclo delle stagioni e abbandonato la finzione di un civismo politico ed esistenziale mal sopportato per troppo tempo: la liberazione notturna nell’indistinto, ove non vige più l’ordine delle regole solari, visibili e dunque responsabilizzanti, li ha precipitati nella più limpida autorivelazione. Maiali, dunque, nemmeno per libera scelta ma per una vocazione intima e occulta. Stabilito questo, ritrova forse senso la citazione antiquaria? I compagni di Ulisse tramutati in porci dalla maga Circe, costretti a grufolare nel suo orto, sono la condensazione simbolica della natura inferiore (“l’animale che mi porto dentro me”, cantò Battiato quando aveva voce), il vortice degli istinti bassi e vischiosi dell’uomo/verro. Del resto è noto a chiunque che il maiale non gode di ottima fama un po’ in ogni latitudine. L’imperatore Giuliano, nel Quarto secolo dell’èra volgare, spiegava così l’interdizione delle carni suine durante le feste patrizie in onore della Grande Madre: “… è bandito dal sacro cibo in quanto totalmente ctonio, sia per la forma, sia per il tipo di vita, sia per il carattere stesso del suo essere. (…) Questo animale non può guardare il cielo, non solo perché non vuole, ma anche perché, per natura, è tale che non può mai sollevare lo sguardo”. Triste condizione, quella del maiale. Ma non bisogna esagerare. La bestia è priva di colpa, come ogni fatto di natura. La porchetta è pur sempre un pasto gioviale e richiama il banchetto sacro dei popoli laziali che si radunavano sul Monte Albano per le feste. Se poi è ancora vero, come usa dire, che del maiale non si butta via niente, non c’è motivo di disperare per il futuro del generone di centrodestra.

(di Alessandro Giuli)

martedì 18 settembre 2012

L’oltraggio di Venezia e il Crocifisso di Vienna


E’ difficile immaginare un oltraggio contro la fede cristiana più blasfemo e provocatorio di quello che si è avuto al Festival del Cinema di Venezia il 31 agosto con la proiezione del film Paradise Faith, Fede nel Paradiso, di Ulrich Seidl, film  che ha il suo punto culminante in una sequenza in cui la protagonista, l’attrice Maria Hoffstatter, si dedica all’autoerotismo utilizzando come strumento un crocifisso. E’ inutile entrare nei particolari, che sono raccapriccianti, ma sarà bene ricordare che per un cristiano non c’è simbolo più sacro del Crocifisso, che rappresenta Gesù Cristo, l’uomo-Dio, morto sulla Croce per redimere i peccati degli uomini. Tutta la fede cristiana si riassume nella predicazione di Cristo crocifisso.

Lo scandalo di Venezia non è un episodio isolato, ma si inserisce in un quadro di cristianofobia dilagante. Lo spettacolo teatrale di Romeo Castellucci Sul concetto di Volto di Dio, messo in scena a Milano a gennaio, ha aperto quest’anno le danze. Il Festival di Venezia però è una ben più ampia cassa di risonanza, una vetrina internazionale, che ha visto accorrere giornalisti di tutto il mondo, per riferire senza alcuna indignazione della proiezione del film blasfemo, che ha avuto il premio speciale dalla Giuria.

La Santa Sede, il 12 settembre è intervenuta con un comunicato dal tono fermo: “Il rispetto profondo per le credenze, i testi, i grandi personaggi e i simboli delle diverse religioni è una premessa essenziale della convivenza pacifica dei popoli.” A dichiararlo è stato padre Federico Lombardi, portavoce della Sala Stampa Vaticana, che non si è riferito però alla blasfemia di Venezia, ma ad un altro film, Innocence of muslims, prodotto in America e considerato alle origini delle violente manifestazioni in Libia ed in altri paesi arabi.

Le conseguenze gravissime delle ingiustificate offese e provocazioni alla sensibilità dei credenti musulmani - ha scritto in una nota padre Lombardi – sono ancora una volta evidenti in questi giorni, per le reazioni che suscitano, anche con risultati tragici, che a loro volta approfondiscono tensione ed odio, scatenando una violenza del tutto inaccettabile“. Quanto è accaduto in Libia non sarebbe stato pianificato da mesi da Al Qaida in odio all’Occidente, ma sarebbe stato l’inevitabile conseguenza di “ingiustificate offese e provocazioni alla sensibilità dei credenti musulmani”. Ma perché non vengono definite “ingiustificate” le offese e le provocazioni alla sensibilità dei credenti cattolici come quelle del Festival di Venezia? Solo perché non provocano conseguenze, né gravissime, e neppure modestissime?

Ben pochi hanno ricordato che quanto è accaduto, nella città di Bengasi, è la conseguenza non dell’insulso film anti-Maometto, ma della politica franco-americana di cessione del Medio Oriente all’Islam, che, per nemesi storica,  ha avuto il suo momento principale proprio nel sostegno dato dalla Nato ai fondamentalisti di Bengasi contro Gheddafi. E se tutto il mondo ha protestato contro il film anti-islamico, che per ora è semi-clandestino, e presumibilmente non sarà mai proiettato, nessuno ha protestato contro il film anticattolico, che ha avuto tutte le luci della ribalta ed è destinato a larga circolazione, senza alcuna opposizione.

Il vero problema oggi è questo. Non esiste solo la persecuzione dei cristiani nelle terre di Islam, esiste anche la cristianofobia in Occidente. Ma soprattutto esiste l’arrendismo e la complicità dell’Occidente di fronte a questa cristianofobia. L’autolesionismo degli ambienti ecclesiastici fa parte purtroppo di questo sistema di complicità.

Il Beato Marco d’Aviano sulle colline del Kahlenberg, che dominano Vienna, brandiva il Crocifisso come strumento di lotta e di vittoria, per incitare i combattenti cristiani a liberare la città occupata dai musulmani. Oggi il Crocifisso è ridotto a strumento di sordido piacere da una società edonista che si autodistrugge consegnandosi all’Islam.

(di Roberto de Mattei)

La maschera sarda di Juan Domingo Perón


“Ah! Lei è argentina! Lo sa che il vostro grande presidente Juan Domingo Perón era nato proprio qui!”. “A Mamoiada! E com’è che noi argentini non ne sappiamo niente?”. “Be’, perché sono stati i vostri servizi segreti a nasconderlo!”. Scrittrice di Buenos Aires finita in Barbagia per una ricerca sul Carnevale sardo, Luisa Valenzuela forse esagera volutamente nel riferire della sua assoluta sorpresa. Ripetuta dai giornali sardi fin dal 1951, la storia, o leggenda, era stata in effetti oggetto di un libro del 2000 del sardo Peppino Caneddu di cui la stampa argentina aveva parlato ampiamente, discutendo delle prove in pro e in contro. Tra queste, però, non c’era quella da cui Luisa Valenzuela ha tratto l’improvvisa intuizione proprio grazie allo studio che stava facendo. Fateci caso anche voi: la maschera lignea di un Mahmutone, non è forse identica al volto del generale dei descamisados?  E di che è fatta poi, se non di legno di pero selvatico? Pero, Perón. Ma chi raffigurano poi i Mahmutones se non Bacco-Dioniso, antica divinità pagana delle forze della natura? E cos’è il populismo peronista, se non un’irruzione del dionisiaco in politica? La folla in perpetuo delirio, la redistribuzione delle risorse trasfigurata in consumo e spreco orgiastico, e perfino quella meravigliosa Arianna abbandonata e poi incoronata dal Presidente a santa degli oppressi, corrispondente al nome di Evita.

Ovviamente, non sono “prove” da saggio storico. Ma da romanzo sì: e “La  máscara sarda” è appunto il titolo del romanzo storico che è uscito ad agosto per Seix Barral (248 pagine, 99 pesos). Era stato lo stesso Perón a spiegare che il suo cognome era in realtà una deformazione dell'italiano “Pieroni”. Il suo bisnonno sarebbe stato un medico “di un Paese vicino a Sassari” emigrato a Buenos Aires nel 1860. Ma quando lui era giovane le leggi impedivano agli immigrati di entrare all’Accademia Militare. Nato a Mamoiada nel 1892, emigrato a 17 anni in Argentina e sposatosi con la figlia del facoltoso possidente di origine italiana presso la cui impresa si era impiegato, Giovanni Piras sarebbe stato dunque aiutato a studiare da ufficiale dal suocero, impressionato per la sua brillante intelligenza. Ma prima avrebbe dovuto occultare la sua origine, cambiando il nome. Va ricordato che questo Giovanni Piras nato a Mamoiada nel 1892 è esistito davvero, e le foto lo mostrano somigliante al generale in modo impressionante. Emigrò nel Chubut, la regione in cui Perón trascorse la sua infanzia; ma dopo il matrimonio non diede più notizie di sé. Davvero era diventato Perón? O semplicemente aveva interrotto i rapporti con la famiglia perché non informato della morte della madre.

Luisa Valenzuela ci ha poi  mescolato l’altra leggenda di Juancito Sosa: figlio illegittimo di una teuhelche, che avrebbe cambiato nome perché in Accademia avevano problemi anche bastardi e meticci. Immagina dunque Piras che si fa adottare dalla madre dell’indio, morto a 17 anni. E poi sostituisce una terza identità alla seconda che ha già sostituito la prima: una delle pagine più suggestive mostra Perón davanti alla tomba dove è scritto il nome di Giovanni Piras, e dove è invece seppellito Juan Sosa.  “Lei è trino mio generale”, gli dice poco prima della morte José López Rega: il Rasputin che lo tiene in pugno proprio perché conosce l’intricato mistero delle sue origini. “Lei è Juancito Sosa ed è Juan Perón, naturalmente, ma non dobbiamo dimenticare che prima di tutto lei è Juanne di Mamoiada, quello che chiamavano anche Juvanneddu o Jovennu. Lei è la reincarnazione di Dioniso, colui dai molteplici nomi”.

(di Maurizio Stefanini)

venerdì 14 settembre 2012

Pound, la «Carta da visita» straccia le banche usuraie



Lunedì, 17 settembre, uscirà Carta da visita di Ezra Pound, a cura di Luca Gallesi (Bietti, pagg. 106, euro 14). l libro fu scritto nel 1942 dall'autore direttamente in italiano, ed ebbe una seconda edizione (in sole in mille copie) per Scheiwiller nel 1974. Pubblichiamo parte dell'introduzione di Gallesi e alcuni brani di Pound.

 «Socrate fu accusato di empietà e di voler sovvertire le leggi del suo paese; eppure non era né empio né sovversivo, e la storia successiva lo ha dimostrato. Io sono accusato di tradire il mio paese, che amo tanto quanto voi italiani amate il vostro. Ma chi, come me, agisce alla luce di una verità percepita e pre­vista interiormente, anticipa nel presente una realtà futura molto certa». In queste parole, tratte da un’intervista del 1955, quando era ancora detenuto con l’accusa di tradimento a Washington, nel manicomio criminale di St. Elizabeths, c’è tutta la tragica grandezza di Ezra Pound, poeta, profeta e, soprattutto, patriota americano.

Pound si è sempre considerato, infatti, un leale cittadino statunitense, fedele ai principi della Costituzione americana, che i suoi governanti avevano, invece, manipolato e sovvertito. Come era già accaduto in occasione del primo conflitto mondiale, anche nella Seconda guerra mondiale gli Usa erano stati trascinati in un conflitto non voluto, che avrebbe arricchito pochi speculatori sulla pelle di milioni di vittime.

Proprio l’inutile strage della Grande guerra, che aveva mietuto le vite di molti suoi amici artisti, spinge Ezra Pound ad abbandonare il ruolo di esteta distaccato che aveva ricoperto fino ad allora per dedicarsi allo studio delle cause delle guerre, che sono spesso legate alla speculazione: «si fanno le guerre - scriveva ancora nel 1944- per creare debiti». Così, accanto alla sua infaticabile attività di talent scout, che favorì, tra gli altri, Eliot, Joyce ed Hemingway, e mentre cerca di dare con i Cantos un poema epico nazionale all’America, Pound denuncia la «guerra perenne» tra oro e lavoro, tra chi specula e chi fatica, tra gli usurai e gli uomini liberi, e decide di schierarsi a fianco di questi ultimi, scelta mai rinnegata e di cui pagherà dignitosamente tutte le conseguenze fino alla «gabbia per gorilla» in cui fu rinchiuso nel carcere militare statunitense allestito vicino a Pisa.

Prima di giudicare qualcuno, come il poeta stesso amava ripetere, bisogna esaminare le sue idee una alla volta, e quindi è necessario avvicinarsi alle sue opere senza pregiudizi, collocandole nel contesto storico generale e in quello biografico particolare. Riproporre, oggi, la sua Cartadavisita, che Pound scrisse direttamente in italiano, è dunque, innanzitutto, un’occasione per conoscere direttamente il pensiero di Ezra Pound, e confermarne, eventualmente, la profetica attualità.

Nel 1942, quando Carta da visita viene pubblicato la prima volta, il mondo è dilaniato dalla più spaventosa guerra mai combattuta, una tragedia che Pound aveva ingenuamente cercato di evitare con tutti i mezzi, incluso un viaggio intercontinentale per incontrare il presidente Roosevelt e convincerlo dell’importanza della pace.

Oggi, l’Europa non è in guerra, ma la situazione generale non è meno drammatica; il colonialismo si è trasformato in «delocalizzazione», i signori dell’oro sono diventati operatori di Borsa, e i popoli sono sull’orlo di un tracollo economico disastroso, esattamente come Pound aveva immaginato: «Il nemico è Das Leihkapital - tuonava il 15 marzo 1942 dai microfoni di Radio Roma - . Il vostro nemico è Das Leihkapital, il Capitale preso a prestito, il capitale errante internazionale. [...] E sarebbe meglio per voi essere infettati dal tifo e dalla dissenteria e dalla nefrite, piuttosto che essere infettati da questa cecità che vi impedisce di capire quanto siate compromessi, quanto siate rovinati ».

Sicuramente, in quegli anni, quando molti intellettuali impegnati si baloccavano con il mito della lotta di classe, Pound doveva risultare quantomeno eccentrico, con il suo insistere nella guerra contro la speculazione finanziaria, ricordando che «una nazione che non vuole indebitarsi fa rabbia agli usurai». Oggi, invece, il suo avvertimento contro «la banca che trae beneficio dall’interesse su tutta la moneta che crea dal nulla», come recita il Canto 46, risulta ben più efficace del rimedio allora auspicato da mol­ti, e cioè la «dittatura del proletariato».

I brani -  La Nazione non deve pagare l'affitto sul proprio credito

Risparmio. Abbiamo bisogno d’un mezzo di risparmio e d’un mezzo di scambio, ma non è legge eterna che ci dob­biamo servire dello stesso mezzo per queste due funzioni diverse. La moneta affrancabile (ovvero prescrittibile) si adoprerebbe come moneta ausiliaria, mai come moneta unica. La proporzione fra la moneta consueta, e l’affrancabile, se calcolata con perizia e saggezza, potreb­be mantenere un rapporto equo e quasi invariabile fra la quantità delle merci disponibili e desiderate, e la quantità della moneta della nazione, o almeno raggiungere una stabilità di rapporti sino al grado conciliabile.  Bacon ha scritto: «moneta come concime, utile solamente quando sparsa». Jackson: «il luogo più sicuro di deposito: le braghe del popolo».

Sociale. Il credito è fenomeno sociale. Il credito della nazione appartiene alla nazione, e la nazione non ha necessità di pagare un affitto sul proprio credito. Non ha bisogno di prenderlo in affitto da privati. [...] La moneta è titolo e misura. Quando è metallica, viene saggiata affinché il metallo sia di finezza determinata, nonché di peso determinato. Adoprando una tale moneta siamo ancora nel dominio del baratto. Quando la moneta viene capita come titolo, sparisce il desiderio di barattare. Quando lo stato capisce il suo dovere e potere, non lascia la sua sovranità in balìa di privati irresponsabili (o che assu­mono responsabilità non giustificate). È giusto dire che «la moneta lavoro» è «simbolo del lavoro». E ancor più è simbolo della collaborazione fra natura, stati e popolo che lavora. La bellezza delle immagini sulle monete antiche simboleggia, a ragione, la dignità della sovranità inerente nella responsabilità reale o imperiale. Collo sparire della bellezza numismatica coincide la corruzione dei governi.

Dichten=Condensare. La parola tedesca Dichtung significa poesia. Il verbo dichten = condensare. Per la vita, o se preferite per «la battaglia», intellettuale, abbiamo bisogno di fatti che lampeggino, e di autori che mettano gli oggetti in luce serena. L’amico Hulme ben disse: «Quello che un uomo ha veramente pensato (per sé) si scrive su un mezzo foglio. Il resto è spiegazione, dimostrazione, sviluppo». Chi non ha forti gusti non ama, e quindi non esiste.

(fonte: www.ilgiornale.it)

mercoledì 12 settembre 2012

CasaPound: un nuovo Iri per salvare l'Alcoa


“Temporeggiare e reprimere: sull'Alcoa, come su tutti gli altri fronti del conflitto sociale, il governo Monti sa proporre solo queste due ricette”.  Non c’è diplomazia, ma solo determinazione nelle dichiarazioni di Simone Di Stefano, vice presidente nazionale di CasaPound Italia sulla proroga di venti giorni della procedura di spegnimento dell'impianto di Portovesme.

“I professori bocconiani? Sembravano avere tutte le ricette in tasca, ma alla prova dei fatti si stanno comportando come un qualsiasi “governicchio democristiano” degli Anni '50: da una parte la concertazione infinita e inconcludente, dall'altra la repressione brutale delle istanze operaie che abbiamo visto ieri nelle strade di Roma”.

Simone Di Stefano, adesso che  cosa teme Casapound?

La Cina. Il vero fantasma che aleggia sulla nostra economia è proprio Pechino. Monti è andato in Cina oppure no per chiedere di “comprare” il nostro debito pubblico? Se riflettiamo un attimo ci rendiamo conto che dalla chiusura delle nostre industrie di alluminio e acciaio la Cina potrebbe trarne enorme vantaggio. Perché saremmo costretti a  comprare queste materie prime da loro

Secondo voi, come si potrebbe risolvere la questione Alcoa? 

La verità è che se la vendita alle multinazionali Klesch e Glencore non andasse in porto, l'unica soluzione sarebbe quella di nazionalizzare il comparto.

Ma questo è il contrario di quanto prevede l’Unione europea...

È vero. È una ricetta che purtroppo ci è arbitrariamente vietata dai diktat suicidi di un'Unione Europea che fa del liberismo sfrenato ormai una religione dogmatica senza alcuna plausibile motivazione razionale.

E Casapound propone di ricreare l’Iri, l’istituto nato durante il Fascismo…
                       
Non siamo solo noi di Casapound a sostenere che 'sarebbe necessaria la ricostituzione dell'Iri'. Anche 'Il Manifesto' ha recentemente sostenuto la stessa tesi. Del resto, una riconversione industriale con industrie a capitale pubblico fu la fortuna dell’economia dell’epoca. Oggi servirebbe la stessa ricetta. Purtroppo  i Paesi dell’Unione Europea vogliono trasformare l’Italia in un centro turistico dove trascorrere le vacanze al mare, mangiare spaghetti e sentirci cantare. Ma se non vogliamo perdere l’identità industriale ed economica che abbiamo faticosamente ottenuto, dobbiamo trovare un modo per difenderci. Altrimenti i cinesi finiranno per comprarci tutti.

(fonte: www.panorama.it)

lunedì 10 settembre 2012

"Sfiorando il muro" per ricordare i danni della violenza proletaria


Ai protagonisti della surreale polemica di fine estate, occupati l'un l'altro a darsi, da sinistra, del «fascista» per stigmatizzarne l'indole violenta e antidemocratica, suggeriamo di andarsi a vedere Sfiorando il muro di Silvia Giralucci, presentato fuori concorso al Festival. 

La regista aveva tre anni quando, nel 1974, le Brigate rosse le ammazzarono il padre, Graziano, agente di commercio e militante missino. Lo freddarono nella sede del Movimento sociale. Spararono a lui e al custode, Giovanni Mazzola, il secondo morto di un'«esecuzione politica» in seguito rivendicata, ma derubricata a «incidente di percorso». Fra il '74 e il '77 nella città ci furono circa 500 attentati, Autonomia Operaia fece da collante fra contestazione e terrorismo, si sprangava la gente con la stessa facilità con cui ci si cambia camicia. Dapprima «sedicenti», poi «compagni che sbagliano», poi «oggettivamente controrivoluzionarie», alle Bierre così come agli altri gruppuscoli extraparlamentari di sinistra venne concesso una sorta di salvacondotto della morale ideologica: la loro era una violenza sana, dalla parte dei lavoratori e dunque proletaria: il male assoluto stava dall'altra parte, così come la vera violenza da condannare: il fascismo e quella dei fascisti. Anche per questo, come recitava allegramente uno slogan del tempo, «uccidere un fascista non è un reato».

Ha fatto più danni la «lingua di legno» del comunismo di quanto non si sia ancora disposti ad ammettere. Perfino ora si preferisce non sfogliare «l'album di famiglia» della violenza che ne ha contrassegnato la storia e pasticciare con la dialettica per cui l'olio di ricino, lo squadrismo e il manganello appartengono al campo avverso. Come se questo bastasse a dimenticare che i processi-farsa, le «purghe», le esecuzioni con un colpo alla nuca, i gulag ce li avevano in casa propria. Nel lager nazista di Buchenwald dov'è rinchiuso, il giovane Jorge Semprún osserverà stupito e ammirato come i prigionieri russi riuscissero ad adattarsi e a sopravvivere al meccanismo tipico di un universo concentrazionario. Solo più tardi si renderà conto che gli era naturale, era lo stesso meccanismo burocratico-dispotico-repressivo che prima Lenin e poi Stalin avevano imposto al Paese. Membro del Partito comunista spagnolo in esilio, Semprún romperà con i vecchi compagni di lotta su questo, l'illegalità violenta e connaturata di un sistema politico e ideologico. Venne trattato da rinnegato.

Sfiorando il muro non è un film apologetico e si capisce che Silvia Giralucci è lontana mille miglia dalle idee che al padre costarono la vita. Stefania Paternò, un'amica di Graziano Giralucci, anche lei militante missina in quegli anni di piombo, dice in proposito cose sensate: una «guerra civile» non dichiarata, ma strisciante fra bande giovanili opposte, una sorta di insanguinati «ragazzi della via Paal» alle prese con un gioco crudele più grande di loro. La sua consapevolezza critica rende semmai più sinistro il reducismo di Toni Negri e di quelli dell'Autonomia Operaia trent'anni dopo. Nel film, le riprese della celebrazione dei fatti del 7 aprile 1979 in una sala comunale, con il professor Negri che firma autografi e stringe le mani dei suoi sostenitori, e che equipara la violenza di allora a «quattro schiaffi a un professore» rimanda a quei capolavori della «lingua di legno» ricordata prima: c'è sempre una spiegazione, una contestualizzazione, un a monte e una misura in cui, un ma anche e un ma non è questo il punto che lava ogni responsabilità, assolve da ogni colpa. È lo stesso meccanismo per cui, crollato il Muro di Berlino sulla testa di chi l'aveva eretto, dall'oggi al domani i comunisti hanno mutato nome e sbuffano con insofferenza se qualcuno gli ricorda che cos'erano prima. Sono cambiati, dicono, e le tante, successive sigle della loro formazione politica sono lì a dimostrarlo. Hanno ragione, naturalmente, ma immutata è rimasta la struttura mentale, quel combinato disposto di retorica e malafede politica, di bis-pensiero e di neo lingua, per dirla con George Orwell, che li rende catafratti al cambiamento. Diversi ma eguali, insomma. I miracoli della dialettica marxista.  

(di Stenio Solinas

Ma è stata la democrazia a rivalutare il fascismo


"Fascista!" ha urlato Bersani a Beppe Grillo. Sembra essere tornati agli anni ’70 quando chi non si "dichiarava, laico, democratico e antifascista" era di per sè un fascista. Usare il termine "fascista" come insulto e strumento di lotta politica nell’anno di grazie 2012 non solo è un "non sense" è ridicolo. Evidentemente nella generazione dei Bersani, scatta ancora un riflesso, pavloviano dovuto all’età (a un Matteo Renzi, sindaco di Firenze, che di anni ne ha 37 e che pure è un Ds, non verrebbe mai in mente da dare del "fascista" a chichessia) e alla lunga militanza del Pci, che rischia di dare ragione a Berlusconi quando diceva che gli ex comunisti, nonostante tutti i cambi di sigle, erano rimasti, nel fondo della loro animuccia, comunisti. 

Ma io vorrei spostare la questione su un altro piano. Alla luce dell’esperienza storica di quest’ultima secolo, "fascista" ebbe un’idea di Stato e di Nazione e cercò di attuarla con coerenza. Non fu solo treni che arrivavano in orario. L’Iri nel dopo guerra democratico diventò un indegno carrozzone, partitocratico, ma quando venne creato, nel 1931, fu un’intelligente risposta alla crisi del 1929 e infatti l’Italia non ne subì i contraccolpi se non marginalmente. Alberto Beneduce, che oltre all’Iri diresse altri importanti Istituti pubblici, fu uno straordinario "grand commis" che godette sempre di un’amplissima autonomia (la leggenda vuole che fosse il solo a poter di "no" a Mussolini). Le prime leggi a tutela dei beni culturali e artistici sono del ’39, come quelle ambientali e paesaggistiche, mentre dal ’42 ogni comune dovette dotarsi di un piano regolatore. Le bonifiche in Agro Pontino e in Maremma furono un modello di organizzazione anche se al prezzo dello spostamento forzoso, vagamente staliniano, di migliaia di contadini veneti. Mussolini aveva pronto anche un piano di frantumazione e redistribuzione del latifondo in Sicilia, cosa che ovviamente non piaceva ai baroni nè alla mafia (che il fascismo, col prefetto Mori, fu il solo a combattere seriamente). E i baroni e la mafia aprirono l’isola agli angloamericani, peccato d’origine le cui conseguenze, come si può ben vedere, scontiamo ancora oggi.

Il fascismo esercitò una censura sulla stampa feroce e stupida con esiti, spesso, esilaranti, ma in campo culturale ci fu sempre una certa libertà. L’architettura fascista può piacere o meno ma, a differenza di quella d’oggi, ha uno stile e in quegli anni fummo i primi nel design industriale (una vivacità culturale che la coraggiosa mostra milanese "Annitrenta" del 1982 osò mostrare per la prima volta). Anche l’idea della valorizzazione dell’agricoltura e di una ragionevole autarchia alimentare non era sbagliata, anzi è estremamente attuale. Certo poi ci sono gli orrori: il carcere di Gramsci ("dobbiamo impedire a questo cervello di funzionare per almeno vent’anni") l’omicidio Matteotti, quello dei Rosselli, il criminale uso dell’iprite in Abissinia, le leggi razziali. E l’errore fatale: entrare in guerra impreparati, Mussolini, che da maestro era diventato succube di Hitler, credeva che i tedeschi avrebbero vinto la guerra in quattro e quattr’otto ("ci basteranno poche centinaia di morti per sederci al tavolo della pace"). Questo riluttante cinismo gli italiani l’avrebbero pagato carissimo. Ma oggi dopo gli ultimi quarant’anni di Italia repubblicana, dobbiamo ammettere, con amarezza, che è stata la democrazia a rivalutare il fascismo.

(di Massimo Fini)

Il transfert psicoanalitico del Pdl


Matteo Renzi non è uno statista. Almeno per ora. Forse lo diventerà. Ma non è neppure un guastatore, per quanto la sua fama sia legata all’idea di rottamare il vertice del Pd. È semplicemente un giovane politico che ha capito, diversamente da tanti altri, a destra come a sinistra, che il tempo delle oligarchie è finito, i cittadini vorrebbero partecipare maggiormente alla vita pubblica stupidamente negatagli dagli apparati, il rinnovamento generazionale marcia di pari passo con l’evoluzione tecnologica e con le aspirazioni di un nuovo protagonismo da parte di quanti vorrebbero impegnarsi politicamente senza passare sotto le forche caudine del servilismo. Non sono grandi idee, ma nella palude partitocratica appaiono addirittura rivoluzionarie. Perciò Renzi piace trasversalmente. E, di conseguenza, preoccupa chi riteneva di tenerlo al guinzaglio fin da quando manifestò la sua eterodossia diventando prima presidente della Provincia e poi sindaco di Firenze. Non saprei dire se ha governato bene o male, da quel che sembra pare che se la sia cavata egregiamente. Adesso aspira a concorrere alle primarie e a battere i vecchi mandarini del Pd. Se dovesse farcela e se la legge elettorale dovesse permetterglielo (in un sistema proporzionale la candidatura a premier non ha senso, come si sa) guiderebbe il centrosinistra alla conquista di Palazzo Chigi. Operazione tutt’altro che impossibile a giudicare dai tremiti che percorrono la nomenklatura del Pd. Ma se anche non dovesse riuscire nell’intento, Renzi di fatto ha già vinto la sfida con Bersani e con gli oligarchi i quali, demonizzandolo, hanno dimostrato di tenere più al loro potere che al necessario cambiamento politico dando, in tal modo, ragione al giovane competitore che la sua battaglia ha inteso farla nel partito, osservando le regole e producendosi in un leale confronto. 

Nel Pdl, purtroppo, una tale condizione non si è realizzata e tra chi ha deciso di traslocare altrove invece di battersi coerentemente e chi ha accettato lo squagliamento di tesseramenti, congressi e primarie, improvvisamente ritenuti inutili, si è realizzato il vuoto perfetto. Perciò tanti pidiellini guardano a Renzi come a uno loro: un transfert psicoanalitico che testimonia l’aspirazione impossibile a essere ciò che non si è o a stare dove non si può. La politica vive di queste schizofrenie e quando viene fuori chi è in grado di evidenziarle si ha come una rivelazione che avvilisce più che consolare. 

Indipendentemente dalle appartenenze, infatti, le oligarchie del Pd e del Pdl sono letteralmente, e per motivi chiaramente diversi, soggiogate dal fenomeno Renzi. Entrambe lo vedono come un «alieno»: l’una perché ne teme l’impatto innovatore da cui può derivare il pensionamento di buona parte del suo vertice; l’altra perché vorrebbe averne uno (magari senza traumi) in grado di rompere il bozzolo dal quale veder volare finalmente una farfalla. In mancanza di meglio i berlusconiani devono accontentarsi di assistere al raro spettacolo del piccolo amministratore che sfida il segretario del partito, al di là delle liturgie congressuali precotte, ed esaltando così la pratica della democrazia diretta a cui ideologicamente, se non ricordo male, erano un tempo affezionati. Ma non è detto che un processo imitativo nelle file del Pdl non si metta in moto. E se dovesse accadere l’apparato monarchico di via dell’Umiltà e di Palazzo Grazioli come si comporterebbe? Asseconderebbe le velleità di qualche lucido folle finalmente consapevole che il centrodestra lo si può rimodellare e farlo rivivere soltanto a patto di parlare direttamente alla gente, di scendere in mezzo al popolo, di farsi largo tra cortigiani e ciambellani guadagnando finalmente il proscenio? Per come si sono messe le cose ho i miei dubbi. 

Credo che il vertice del Pdl si specchierebbe in quello del Pd vivendo le medesime ambasce che oggi neppure intravede esaltando Renzi come se fosse uno dei suoi, tessendone le lodi perché ha sfidato Bersani, lodandone il coraggio fino a trovarlo «eccitante» per essersi messo contro tutti come un guerriero che a mani nude sfida una potente armata. A parte il fatto che la presunta armata è in rotta da tempo, Renzi ha colto il lato debole della nomenklatura del suo partito - che vede in pericolo gli organigrammi già elaborati in vista della vittoria di primavera - nel legame che si logorato con l’elettorato. Lui intende rinsaldarlo. E a nulla vale l’accusa di inesperienza rivoltagli da D’Alema, né l’interrogatorio a cui vorrebbero sottoporlo analisti politici come Antonio Polito: il suo editoriale di ieri sul Corriere della sera, nel quale chiede conto a un semplice candidato alle primarie di rispondere a tutto (o quasi) è sul tavolo della politica italiana ed europea, è prezioso per comprendere che cosa ha smosso Renzi rivolgendosi ai militanti del Pd senza intermediazioni o protettori. 

Il sindaco di Firenze per adesso non deve offrire ricette economiche e monetarie per uscire dalla crisi: a questo ci pensa Draghi, né fornire indicazioni per la crescita di cui si sta occupando Monti. Il compito che si è prefisso è quello di costruire un modo nuovo per rinnovare i partiti, consapevole, come lo sono tutti cittadini, che essi sono morti o, nella migliore delle ipotesi, narcotizzati, a cominciare dal suo. E ritiene, come chiunque, tranne gli oligarchi probabilmente, che una democrazia senza partiti è destinata a deperire. Dunque, o si ristrutturano con il concorso popolare o la Repubblica dovrà ancora far ricorso ai tecnocrati, mettersi nelle mani di chi non viene votato per risolvere le questioni più gravi. Ma guardateli come sono ridotti e poi riflettete se è Renzi l’alieno o non lo sono coloro che lo guardano con sospetta ammirazione o con crescente preoccupazione: parlano un linguaggio incomprensibile, almanaccano di alleanze improbabili, giocano con la legge elettorale come se fosse una partita di burraco, già si accapigliano sul prossimo presidente della Repubblica e ipotizzano addirittura le date di scioglimento delle Camere e loro successive convocazioni valutando se convenga lasciare a Napolitano l’incarico di conferire il mandato di formare il nuovo governo o al suo successore. Incredibile, ma è così. Perciò, comunque vada, Renzi ha già vinto. E non soltanto contro gli oligarchi del Pd.

(di Gennaro Malgieri)

mercoledì 5 settembre 2012

Addio al repubblichino romanziere


È morto Ugo Franzolin, giornalista e scrittore, nato a Correzzola l’8 ottobre 1920, autore di numerosi libri, tutti sugli anni della giovinezza, sulla sua esperienza di soldato in Africa e sui mesi della Repubblica sociale italiana, trascorsi con la X Mas come corrispondente di guerra. Il suo libro più noto è quel “I Giorni di El Alamein”, basato sui suoi ricordi personali di sopravvissuto, pubblicato nel 1966, che gli valse un elzeviro laudativo di Indro Montanelli.

Franzolin amava ripetere di essere «morto il 25 aprile 1945», quando venne arrestato e rinchiuso nel carcere di San Vittore, a Milano, accusato di collaborazionismo con i tedeschi. Lo scrittore è venuto a mancare in una casa di cura a Grottaferrata, in provincia di Roma, dove era costretto dalle sue condizioni di salute, e fino all’ultimo ha lavorato ad un nuovo libro, dedicato alla sua esperienza di scrittore. La morte lo ha colto quando gli mancava un solo capitolo alla conclusione.

Ecco un ritratto dell’autore de “I giorni di El Alamein” scritto da Pietrangelo Buttafuoco per “Il Foglio” nel 1997

Roma. Camminano come camminano i vivi. E saluta al modo dei vivi. Passa una signora e si leva il cappello. Accenna un inchino. Ugo Franzolin che aveva diciannove anni quando, «marinaio e figlio della Serenissima», andò in Africa settentrionale, anche adesso che scrive romanzi, anche adesso che ha raccontato “I giorni di El Alamein” meritevoli di un elzeviro di Indro Montanelli, anche adesso che prende il caffè a via Del Lavatore, va in lungo e in largo per le strade contorte del centro con la mazzetta dei giornali sottobraccio e fa colazione con Aldo Giorleo, «il paracadutista», dice di essere solo «un morto, uno che è morto il 25 aprile 1945». Dice: «Lì finisce la mia storia». Il 26 aprile, arrestato e rinchiuso a San Vittore, «collaboratore con il tedesco invasore». Lui aveva creduto di combattere contro «un mondo che arrivava per sommergere la nostra vita e le nostre tradizioni». Aveva le idee chiare: «Ritenevo che il mio nemico fosse la V e la VIII Armata».

Cammina sollevando da terra i suoi pensieri. È un ragazzo che ha chiuso la sua partita a Salò. Oggi vive a Roma, ci arrivò inseguito dalla «Volante Rossa», che aveva «un fare che non ammetteva repliche». Una sera andò da lui Peppino Farina, partigiano liberale del CLN. Gli disse: «Vogliono farti fuori, salvati». Pino Fraschini, uno di Pavia, gli scrisse una lettera: «Trasferisciti a Roma, qui se ne fregano dei partigiani». Franzolin spesso incontra i suoi camerati, anche gli amici marinai tedeschi che lo vengono a trovare e anche quelli «che vincendo hanno perso». Tedeschi, fascisti e comunisti insieme guardano al mondo con un occhio che non è invecchiato, ma fermo a quello Zenit particolare della giovinezza: «II nostro ideologico s’è bloccato». E infatti non si fanno più la guerra. A lui e agli altri, anche «ai comunisti», l’età della Parietti e di Prodi evoca uno scenario «mediocre». Gli ex-combattenti della RSI sono una lobby di mutua rammemorazione. Tra loro, «luminari della scienza medica». Si prendono cura l’uno dell’altro. Discutono del mondo che va avanti senza di loro. Hanno parlato a lungo, per esempio, di Adriano Sofri: «Rispetto chiunque rischia per la propria idea» dice Franzolin. E gli ex di tutte le battaglie, infatti, si assomigliano sempre, quasi si annusano, si riconoscono nel lampo che portano dentro gli occhi. Come gli amici di Sofri, i camerati di Franzolin chiedono «il riconoscimento della dignità combattente».

Avendo ancora la divisa, sarebbe tale e quale Bepi Faliero, il soldato raccontato da Hugo Pratt, quello di Sirat al Bunduqiyyah, e cioè Eja eja alala, la Fiaba di Venezia, la storia di Hipazia e la Clavicola di Salomone. Inchiodata sul palmeto, «con quel deserto che arriva fino al mare», veglia immobile la sua luna di «figlio della Serenissima in terra calda». I cieli del Veneto, le passeggiate ai Colli, la campagna che abbaiava rotolando fino in Laguna. Venezia città dei mari: «Con noi altissime personalità del censo nobiliare: il conte Foscari, il figlio di Nazario Sauro, Urbano Rattazzi». Acque sulla sabbia. Tripoli, Bengasi, Tobruk, Marsa Matruk, i ragazzi dell’Afrika Korps. Vivere non è più vivere: «Nel bene e nel male abbiamo conosciuto dei giganti». L’universo di Franzolin è costellato di giovinezze, di «fratelli d’arma», di «giornate durissime» e di dolcezze fatte scivolare nei ricordi dell’infanzia: «il mio paese in Veneto, Villa del Bosco, e poi Viadana, vicino Mantova, sfiorata dal Po». E stato un amico di Osvaldo Valenti e Luisa Ferida, i due incolpevoli tenebrosi prestati a Salò, quel mondo strafottente di ex-combattenti portati dal destino per condividere sberleffo, eroismo e forse finzione. Marinetti ovviamente, Marco Ramperti, il poeta delle dive cinematografiche. Tanti gli attori: Walter Chiari, Giorgio Albertazzi, Enrico Maria Salerno, un ambiguo Dario Fo, e giustamente Ugo Tognazzi, fascistissimo Primo Arcovazzi, nel film di Luciano Salce, “Il Federale”. Arcovazzi, mani sui fianchi, fa un ritmato e marziale piegamento in basso, un-duè. Su e giù, su e giù come da esercitazione. A chi gli chiede , «cavalleria?», lui risponde: «No, coglioni sudati». A Franzolin piace una scena, quella del professore antifascista desideroso di un sospiro di tabacco che, pur di non fumarsi le sigarette regalate dagli americani, strappa la pagina de “l’Infinito” dal libro di Leopardi, arrotola e fuma paglia. «Tanto lo conosco a memoria», dice. Proprio come gli aveva insegnato l’Arcovazzi Primo. Ognuno insegna ciò che può. E spésso, i morti, insegnano ai vivi.

(di Pietrangelo Buttafuoco)

martedì 4 settembre 2012

Perché ad Alemanno una sconfitta a Roma fa meno paura dell’ignoto


Il problema di Gianni Alemanno è anche la sua piccola fortuna politica: nessuno al mondo pare sia disposto a candidarsi al suo posto per scalare il Campidoglio nel 2013. Tanto basta per concedere credibilità alla foto pubblicata ieri su Twitter – corredata dal motto dannunziano “hic manebimus optime” scolpito sulla sedia del sindaco di Roma ritratto di spalle, per fare il verso alla replica di Obama a Clint Eastwood – con la quale Alemanno ha smentito un articolo di Repubblica secondo il quale sarebbe stato nientemeno che Silvio Berlusconi a sollecitare garbatamente un suo passo indietro.
Alemanno ironizza sulla propria sfortuna e lo fa sapendo d’essere prigioniero d’un ruolo ingrato certificato da sondaggi che non lasciano spazio alle fantasticherie: la sfida con Nicola Zingaretti è perduta in partenza, si tratta semmai di guidare con ordine le truppe pidielline e limitare le perdite. Una soluzione alternativa non era immaginabile? Sì, ma è stata dissolta dal preannunciato ritorno del Cav. alla guida del centrodestra. Se Berlusconi avesse scelto per sé il ruolo di garante d’un cartello elettorale a trazione moderata da affidare ad Angelino Alfano (o chi per lui), recuperando alla causa il mondo centrista e qualche frattaglia montezemoliana, a quel punto sarebbe stato più facile fare di Roma un laboratorio di avanguardia post berlusconiana e reperire una candidatura extraterritoriale. La soluzione, se pure non priva d’incognite, avrebbe trovato nel sindaco in carica il primo sostenitore.

Una volta tramontata l’ipotesi, in primo piano sono rimaste le macerie di una sindacatura ormai impopolare, politicamente avviticchiata sul nulla e mediaticamente percepita come poco meno d’una calamità naturale. Fra queste rovine si aggira un Pdl solitario e ammaccato, incapace di triangolare con gli ex alleati e di pescare assi convincenti nella propria nomenclatura. In effetti le rilevazioni dei sondaggisti segnalano che, malgrado tutto, il nome di Alemanno avvicinerebbe un consenso maggiore rispetto a quello raggiungibile da Giorgia Meloni, Andrea Augello o Sveva Belviso. Di qui l’impasse sulla quale i dirigenti pidiellini hanno steso il manto pietoso delle primarie di centrodestra, costringendo gli osservatori ad almanaccare sulla consistenza di eventuali sfidanti. Sarà o no, per esempio, l’ex ministro Meloni capace di rompere a proprio vantaggio gli equilibri interni agli ex di An? Chi ne conosce le segrete aspirazioni risponde con il motteggio: “Giorgia è una ragazza sveglia. Chiedetele in via informale che cosa pensa di una sua possibile candidatura romana e minaccerà di citarvi in giudizio per danni”. A questo punto, in mancanza di vie d’uscita e vista anche la carenza di contenuti politici sui quali pronunciarsi, è anzitutto interesse di Alemanno tenere in vita un minimo d’incertezza sull’intero dossier.

Ma in fondo che cosa conviene davvero ad Alemanno? Il paesaggio politico nazionale è troppo vaporoso e cangiante per esporsi in prima fila nel tentativo di sostenere, oppure scongiurare apertamente, l’ultimo colpo di teatro berlusconiano. Se bene amministrata, una sconfitta contro Zingaretti (magari al secondo turno) lascerebbe ad Alemanno spazi di manovra per conservare alcune rendite nella Capitale, senza con ciò ostacolarne le chances di rientrare nel gioco più grande in una prospettiva nazionale grancoalizionista non del tutto improbabile. A ben vedere, questo è lo stesso ragionamento che agita i pensieri degli altri colonnelli aennini come Maurizio Gasparri e Ignazio La Russa. Loro vedono nell’attuale legge elettorale (il così detto porcellum), o in una che non le sia troppo dissimile, la chiave per conservare il controllo su una rappresentanza berlusconiana in Parlamento. Un blocco fedele con il quale navigare contro la corrente del Pd di governo, senza precludersi la scia dell’esperimento tecnocratico in corso. Perché in Italia i voti necessari (ma non sufficienti) li porta ancora il Cav., e a Roma Alemanno. Sarà anche pura strategia della sopravvivenza, ma è così.

(di Alessandro Giuli)

lunedì 3 settembre 2012

L'ipocrisia di chi lo osanna perché faceva il laico in tonaca


Il papa dei non credenti. Così è stato celebrato il Cardinal Martini dai giornali, dai telegiornali e dagli intellettuali. Salutandolo come capofila del cattolicesimo progressista, sono stati elencati i suoi principali meriti: istituì la cattedra dei non credenti, preferì rivolgersi ai pensanti piuttosto che ai credenti, si distinse dalla Chiesa aprendo all'eutanasia, al preservativo, alle coppie gay, agli atei, rifiutò la messa in latino e sostenne la necessità di «superare le tradizioni religiose». Un curriculum notevole per un intellettuale, con i suoi dubbi e le sue aperture; ma per un sacerdote, per un cardinale, per un uomo della Chiesa, può dirsi altrettanto? Certo, il Cardinal Martini non fu solo questo, fu anche un biblista insigne, una figura carismatica, si ritirò a Gerusalemme; ma la ragione per cui è stato osannato dai media è questa e l'ha ben riassunta un intervistato: «Non ragionava come un uomo della Chiesa, non sembrava un Cardinale». 

Ma è davvero un elogio non sembrare quel che si è, mimetizzare la propria missione, confondersi con il proprio tempo e tingersi dei suoi colori? E allora torno a domandare: ma è questo che chiediamo a un pastore, a un uomo di fede e di chiesa, di parlare come tutti gli altri, di assecondare lo spirito del tempo anziché invocare il tempo dello spirito? Non ci bastano e ci avanzano le tante cattedre di ateismo, di laicismo e di progressismo che ci sono in giro per chiedere che anche dentro la religione vi siano spazi e argomenti in favore dei non credenti e delle loro tesi? Siamo bombardati dai precetti laici della modernità miscredente e dai canoni del progresso; non avremmo piuttosto bisogno di qualcuno che ci rappresenti l'amore per il sacro, per la trascendenza e per la tradizione? E chi dovrebbe farlo se non un uomo della Chiesa, un Arcivescovo, un Sacerdote?  

É demolita ovunque l'Autorità e l'autorevolezza delle istituzioni, anche se poi al loro posto ci sono nuovi canoni obbligati, nuovi poteri dominanti a volte più dispotici e intolleranti degli altri: non si chiede oggi a chi rappresenta la religione di assumersi sulle spalle la croce di contravvenire a questi nuovi dispotismi nel nome perenne della Tradizione e della fede in Dio?

Un conto è dialogare con i «gentili», come fa anche Ratzinger, un altro è sposare il loro punto di vista o scendere sul loro stesso terreno, fino a omologarsi, e rappresentare soltanto la versione religiosa all'interno dell'ateismo dominante. Non si tratta di barricarsi nella Chiesa degli anatemi e dell'integralismo e di ignorare il mondo e il nichilismo che avanza; si tratta di affrontare il mondo a viso aperto, testimoniando la passione di verità e non la priorità del dubbio, testimoniando l'amore per l'eterno e non solo per il proprio tempo. Una scelta spirituale che si incarna, e non una scelta intellettuale, o peggio ideologica, che si storicizza.Giunge a proposito la questione sollevata da Papa Ratzinger su Giuda. Secondo Benedetto XVI, Giuda tradì Gesù perché voleva spingere Cristo non a fondare una nuovo religione, ma un movimento politico ribelle contro l'impero romano. La lettura di Ratzinger lancia un forte messaggio al nostro tempo: chi riduce Gesù a un rivoluzionario e il cristianesimo a messaggio di redenzione politica e di riscatto sociale, tradisce Cristo come Giuda. Il ribelle zelota Giuda nega il valore religioso del cristianesimo e lo riduce a rivolta politica, attaccando l'impero romano ma non intaccando la religione ebraica. Viceversa, Cristo secondo Ratzinger non è avversario di Roma e non è un rivoluzionario, ma fonda una nuova religione, e dunque dissente dal sinedrio, che lo condanna al patibolo. 

Su la Repubblica Gustavo Zagrebelsky ha scritto un dotto excursus tra le interpretazioni di Giuda per sposare alla fine la tesi di don Primo Mazzolari di un Cristo ribelle, distruttore, liberatore e nemico del potere. Un Gesù giacobino, da popolo viola, «uno come noi», scrive il professore giustizialista. Uno come noi, è anche la parola d'ordine per elogiare il cardinal Martini dal punto di vista dei non credenti. Il Cristo di Mazzolari-Zagrebelsky è una versione opposta a quella di Ratzinger. E si sposa assai bene con l'elogio progressista di Martini. Peccato che il giurista non citi tra le interpretazioni di Giuda come esecutore del disegno divino quella di Giuseppe Berto (ripresa da scrittori cattolici come Mario Pomilio e Francesco Grisi): Giuda tradendo provoca la morte e la resurrezione di Cristo. Come in una vera eterogenesi dei fini - espressione del cattolico Augusto del Noce che però piace a Zagrebelskj - il tradimento di Giuda ha un movente politico ma produce un risultato escatologico: non provoca la ribellione degli zeloti ma la salvezza del mondo tramite il sacrificio di Cristo sulla Croce. Perché la promessa cristiana è la resurrezione, non la rivoluzione; è l'eternità, non il progresso. 

Post scriptum. A proposito di Crocifisso, avrete letto la profanazione di Ulrich Seidl alla Mostra del Cinema di Venezia. Una trovata miserabile, non solo perché offende i credenti e coloro che, pur non credenti, sono nati e cresciuti in una civiltà cristiana. Ma per due altre ragioni: la sua profanazione non ha nemmeno l'alibi di sfidare coraggiosamente un regime teocratico, ma infierisce contro una fede debole, soccombente, e su questo piano, inoffensiva. E poi non ha nemmeno il crisma dell'originalità, perché arriva dopo decenni di profanazioni spettacolari, dai film di Pasolini, che però erano almeno tormentati vangeli, alle esibizioni di Madonna, Lady Gaga e dei Soliti Idioti. Quel film rientra nello squallido conformismo della profanazione contro una fede inerme, come Colui che fu inchiodato sulla croce.

(di Marcello Veneziani)