domenica 26 luglio 2009

Diecimila sardi a Salò, un libro rompe il tabù

Vi proproniamo le librerie nelle quali è disponibile il volume “L’ultima frontiera dell’onore. I Sardi a Salò” di Angelo Abis


Vi riportiamo ora un articolo di Carlo Figari comparso su L'Unione Sarda del 27 maggio 2009.

F urono diecimila i sardi che aderirono alla Repubblica di Salò (Rsi). Un numero consistente e ben superiore ai sardi che confluirono nella Resistenza. In gran parte militari, di quei 60-70 mila che all'indomani dell'8 settembre si ritrovarono di fronte alla drammatica scelta: aderire alla Rsi o finire nei lager nazisti. Molti erano sbandati sui vari fronti di guerra, soprattutto nei Balcani, o nella penisola. Chi non veniva subito catturato dai tedeschi doveva decidere se darsi alla macchia tentando di unirsi ai partigiani oppure far parte del nuovo esercito fascista. Numerosi arrivarono in qualche modo a Civitavecchia per cercare di rientrare in Sardegna dove i tedeschi si stavano ritirando senza combattere, ma non trovarono possibilità di imbarcarsi. Oltre ai militari si conta qualche migliaio di civili al Nord impiegati nell'amministrazione pubblica e che costretti o per propria decisione si arruolarono nella repubblica sociale. «Non vi è dubbio che da un punto di vista quantitativo la partecipazione dei sardi al fascismo repubblicano fu rilevante. Ma ciò che desta sorpresa è la presenza qualitativa: a scegliere Salò furono il più grande musicista sardo del Novecento, Ennio Porrino, e il maggiore pittore, Giuseppe Biasi, morto tragicamente. E poi intellettuali, giornalisti, sindacalisti e militari di prestigio quali il generale Giuseppe Solinas. Comandante della divisione Granatieri di Sardegna dopo l'armistizio Solinas non solo non si defila, ma organizza la difesa di Roma contro i tedeschi. Dopo la fuga del re decide di stare con ciò che resta delle istituzioni e va con la Rsi». A raccontare una pagina sinora inedita o volutamente ignorata dalla storiografia contemporanea è il ricercatore cagliaritano Angelo Abis nel libro "L'ultima frontiera dell'onore, i sardi a Salò" (edizioni Doramarkus, pagine 181, euro 15). Appena uscito è stato presentato a Sassari e Cagliari dagli storici Aldo Borghesi (Istituto regionale per la Resistenza) e Giuseppe Parlato, dell'università di Roma. Un documentato volume che si propone come il primo studio su un argomento scottante e sino a ieri quasi tabù.
REVISIONISMO Oggi che diversi storici (anche non accademici) e autorevoli giornalisti come Giampaolo Pansa stanno rivisitando la storia della Resistenza liberi dagli schematismi ideologici del passato, si può parlare con distacco critico di quei sardi "dimenticati" o "bollati" perché repubblichini. Angelo Abis ha cominciato a coprire quel "buco nero" di oltre mezzo secolo di studi. Il suo lavoro non è un libro di storia, ma di storie di uomini. Raccoglie fatti di persone, legate - come emerge dalla letture delle singole biografie - non tanto dall'ideologia quanto dall'essere sardi. Così si ritrovano armati l'uno di fronte all'altro uomini che riescono a parlarsi e a capirsi per la loro sardità, un fattore che va oltre ogni schieramento.
Abis ha ricostruito le biografie di politici quali il prefetto Francesco Maria Barracu, che fu fucilato e poi appeso a Piazzale Loreto insieme a Mussolini, e il giornalista- scrittore Edgardo Sulis di Villanovatulo che a Salò divenne responsabile della propaganda. Numerosi i militari: i cagliaritani generale Enrico Adani Rossi, il capitano Guido Alimonda e il tenente Achille Manso, il tenente di Sant'Antioco Giovanni Biggio, il colonnello dorgalese Bartolomeo Fronteddu eroe della prima guerra. E c'è anche una donna, la nuorese Pasca Piredda. Imparentata con Grazia Deledda, fa parte di una famiglia sardista e antifascista: il che - racconta Abis - non le impedisce di intraprendere un percorso che la porta a diventare dirigente femminile del Guf (la gioventù universitaria fascista). Attraverso varie vicissitudini, degne di un romanzo, Pasca Piredda si arruola nella famosa X Mas comandata dal principe Junio Valerio Borghese che la incarica dell'ufficio stampa. Processata nel dopoguerra e assolta, è morta proprio quest'anno a Roma. Angelo Abis ripercorre la storia del battaglione tutto sardo denominato "G. M. Angioy" e costituito, fatto singolare, dal cappellano padre Luciano Usai che andò a prendersi i volontari uno ad uno nelle carceri e nelle caserme del Lazio. Due militari del battaglione, il celebre tenore Gavino Deluna (detto l'usignolo di Padria) e il sergente dei carabinieri Pasquale Cocco, furono arrestati dai tedeschi e fucilati alle Fosse Ardeatine.
500 NOMI «In mancanza di documenti la mia ricerca - spiega lo studioso - si è sviluppata soprattutto sulla raccolta di fonti orali, di notizie apprese dalla viva voce di familiari e testimoni». Nel libro figura l'elenco di 500 nomi di "sconosciuti" che si arruolarono nella Rsi con indicato il destino di ciascuno: uccisi in combattimento o fucilati, morti in agguati o incidenti, processati e condannati, finiti in carcere oppure deceduti nel dopoguerra in seguito a malattie e sevizie. Cinquecento sui diecimila stimati da Abis: «Questa cifra - afferma - è il risultato di una interpolazione statistica che parte da alcuni dati certi: sappiamo che i sardi catturati dai tedeschi furono almeno 20 mila ai quali si aggiungono altri 40-50 mila sbandati nei territori occupati dai nazisti. Confrontandoli con i numeri generali accettati dagli storici si arriva a quel dato». Un capitolo, questo, che non mancherà di far discutere. A rilevare l'originalità del lavoro di Abis e l'importanza del suo libro nell'attuale panorama storico è Giuseppe Parlato, allievo di Renzo De Felice: «Sino agli anni Novanta la storiografia sul fascismo si concentra sui fatti nazionali, perché visto come un fenomeno centrale. Invece ci sono declinazioni particolari e locali molto differenti. Una cosa è il sardofascismo, autonomista, nato dall'esperienza della trincea della prima guerra e dalla forte identità regionale, altri sono i fascismi che si sviluppano in Toscana, a Roma o a Milano. Oggi con lo studio di Abis e con altri che stanno venendo fuori riguardo alla repubblica di Salò si ribalta la storiografia tradizionale che inizia sempre da una storia generale. Qui succede il contrario, partiamo dalle storie locali per arrivare domani a poter ricostruire una storia della Rsi senza preconcetti».
DE FELICE Il docente romano ricorda che De Felice è scomparso nel 1996 mentre si accingeva a scrivere l'ultimo volume della sua monumentale opera su Mussolini, proprio quello che avrebbe riguardato Salò. «Lui aveva tutto nella sua mente, non ci ha lasciato documenti e tracce», sottolinea Parlato: «A sostenere che si trattò di una guerra civile per primo è stato Claudio Pavone nel 1992: sino ad allora lo diceva solo Giorgio Pisanò che essendo un ex repubblichino non veniva neppure considerato. Se i fascisti erano incivili, si ironizzava, come si poteva parlare di guerra civile?». Secondo Parlato tre furono le ragioni che spinsero i sardi ad arruolarsi nella Rsi: «L'onore, soprattutto fra i militari che nella confusione generale non vollero cambiare parte. In particolare nei sardi era alto il senso dello Stato. Per i vecchi fascisti, quelli della prima ora, della marcia su Roma, degli squadristi, del fascismo sardista e antiborghese, la Rsi rappresentò una rivincita su chi aveva portato allo snaturamento e allo sfascio del regime. Infine - conclude Parlato - i giovani appartenenti al Guf, gli unici ad avere un progetto politico, che credevano nei tedeschi e nell'Europa».
I SARDI La scelta dei sardi fu caratterizzata da altri due elementi: l'autonomismo e la componente sociale antiborghese, come testimoniano i numerosi sindacalisti e operai che aderirono alla Rsi. Il libro di Abis ha il merito di aprire una strada e un dibattito per arrivare - come dice Parlato - a scrivere una storia condivisa. «Dare voce a chi è stata negata» sostiene l'editore sassarese Paolo Buzzanca, ex consigliere regionale ed esponente del partito radicale. Che l'editore sia dichiaratamente di sinistra, ma altrettanto "libero" da vincoli di partito, è un fatto significativo. Forse ora anche le università sarde dovranno cominciare rompere tabù ormai superati dalla cronaca.

mercoledì 15 luglio 2009

Petrolchimico, la rabbia dei lavoratori

Occupato l' aeroporto Alghero Lo stabilimento Enichem di Porto Torres

Nuova azione di protesta dei lavoratori del petrolchimico di Porto Torres che questa mattina, dalle 6:15, hanno deciso di occupare con uno striscione e delle bandiere l'aerostazione di Alghero. La manifestazione è stata decisa per opporsi alla decisione dell'Eni che intende chiudere il cracking di Porto Torres, una scelta che metterebbe in crisi, a catena, migliaia di posti di lavoro. Lo stesso premier Silvio Berlusconi aveva chiesto ieri all'Eni di sospendere i provvedimenti annunciati in attesa della riunione del tavolo sulla chimica che si svolgerà in settimana.

VOLI IN RITARDO. E' riuscito a decollare regolarmente il primo volo per Milano. Mentre sono slittati i collegamenti per Bologna e per Roma i cui passeggeri verranno riprotetti sui voli successivi. In particolare il volo Ryanair per Pisa delle 8:05 è partito alle 8:40 con solo una decina di passeggeri, altri 125 sono rimasti a terra. Il prossimo volo è previsto per le ventidue di oggi ma i posti disponibili sono solo una cinquantina. Ne sono scaturiti momenti di tensione quindi, che hanno richiesto l'itnerento delle forze dell'ordine.
LA PROTESTA. Gli operai si sono quindi trasferiti a Sassari, al palazzo della Provincia. I dipendenti sono disposti a tutto per salvare il petrolchimico, destinato a morire. Attorno allo stabililmento di Porto Torres ruotano migliaia di buste paga.

Tratto da l'Unione Sarda

La storia del popolo Karen



Video tratto dal programma IL GRANDE GIOCO di Pietrangelo Buttafuoco.

Onore al parà Alessandro di Lisio



Oggi arriva la posta
e domani c'è doppia razione.
Non sai quanto mi costa
aspettare notizie, pregando che siano buone.
Mi hanno dato una nuova coperta
e riusciamo anche a farci un discreto caffè.
Cinque centesimi, un foglio di carta;
sto bene e così spero di te.

Ta-pum……

Stanotte montavo di guardia
e ho visto una stella cadente.
Mi sembra ci fosse una lacrima
sul volto del signor tenente
e i crucchi cantavano piano
a trecento metri da me.
Vorrei che tu fossi vicino;
sto bene e così spero di te.

Ta-pum…..

La pioggia mi è entrata nel cuore
scendendo fino agli scarponi,
ma noi non abbiamo timore
dei lampi seguiti dai tuoni.
Ma quando mi sdraio per terra
con tutto quel fango che c'è,
io sogno finisca la guerra;
sto bene e così spero di te.

E sogno una nuova tradotta
riempita di commilitoni,
che mangiano pane e ricotta
e intonano vecchie canzoni.
E nell'ospedale da campo
i feriti che tornano in sé
e io che non sono più stanco,
sto bene e vengo da te.

Ta-pum……..

Ti lascio che arriva già il buio
e qui non si vede già più.
Salutami tutti e rispondi,
raccontami come stai tu.
C'è un coro che mormora piano
la più antica canzone che c'è.
Vorrei che tu fossi vicino;
sto bene e così spero di te.

Ta-pum…

martedì 14 luglio 2009

Con il caso Bianchini finisce il cliché dello «stupro nero»

Luca Bianchini, il presunto stupratore seriale dalla doppia vita (militante politico di giorno e aggressore di notte), dice che il partito lo ha abbandonato. Il partito è quello democratico, di cui Bianchini era dirigente, anzi per l’esattezza coordinatore di circolo, al Torrino (zona dove sono stati commessi almeno due stupri). E nel partito, in effetti, lo choc è grande. Tanto più che a speculare sul caso non sono stati gli avversari, bensì uno dei candidati alla segreteria, il senatore Ignazio Marino: «Trovo davvero incredibile che un criminale che già 13 anni fa era stato coinvolto in odiosi reati di violenza sessuale possa essere arrivato a coordinare un circolo del Pd. È evidente che nel Pd abbiamo una questione morale grande come una montagna». Ovviamente, la classe dirigente si è chiusa a riccio a difesa dell’onorabilità del partito, accusando Marino di essere uno squallido strumentalizzatore.
Per il Pd romano, in effetti, si tratta di una sorta di nemesi: appena poco più di un anno fa alti dirigenti capitolini si divertivano a gettare ombra su Gianni Alemanno candidato sindaco per lo stupro di una studentessa alla Storta, seminando veleni sui soccorritori della ragazza. In pratica, lavorarono sodo con e-mail, sussurri e dichiarazioni allusive, per far credere che l’episodio criminoso era stato organizzato ad arte per aiutare la campagna elettorale del futuro sindaco di Roma. Sarebbe facile, ma di cattivo gusto, far notare che in realtà potevano controllare meglio le abitudini dei loro iscritti e dirigenti anziché dilettarsi in pratiche diffamatorie. Ma in realtà quanto avvenuto si presta ottimamente a una riflessione importante: l’epoca della demonizzazione di una parte politica sfruttando i “vizi” e i reati dei singoli è definitivamente tramontata, ed è bene non risuscitarla. Questa è la lezione più importante, più significativa e più profonda che non solo il Pd ma la politica tutta intera deve trarre dal dramma romano. Un brutto fatto di cronaca che rovescia stereotipi che per decenni si sono abbattuti sulla destra dopo lo sciagurato eccidio del Circeo, il massacro in cui perì Rosaria Lopez e si salvò per miracolo Donatella Colasanti. Gli autori del misfatto, Angelo Izzo, Andrea Ghira e Gianni Guido divennero il simbolo allucinato della violenza neofascista. Ancora nel 2006 sul manifesto si leggeva che il massacro del Circeo ha rappresentato e continua a rappresentare «un evento dal fortissimo connotato politico e soprattutto sociale. Rivelava quel che erano allora i fascisti pariolini. Metteva a nudo un rapporto tra uomo e donna non ancora rivoluzionato dal femminismo. Inoltre, se non un delitto politico, fu certamente un delitto di classe reso possibile dalla farneticante e sadica violenza di tre ragazzi per bene che all’ideologia neofascista accompagnavano la certezza di poter restare impuniti dopo aver ucciso due ragazze di periferia conosciute per caso e attirate in una trappola con la scusa di una festa al mare. E non è certo un caso se proprio Ghira riuscì a fuggire quasi subito all’estero dove restò al sicuro».
Quell’atroce delitto a sfondo sessuale venne con grande superficialità associato ai desiderata ideologici della sinistra, sulla pelle di due sfortunate ragazze venne confezionato un cliché duro a morire che impedì a lungo di separare la follia del singolo dall’ambiente politico di riferimento, spesso scelto come cornice “teatrale” per dare sfogo a forme di esibizionismo malato. Un parallelo tra il caso Izzo (peraltro clamorosamente accreditato in seguito come supertestimone nei processi politici contro i terroristi neri) e quello di Bianchini, nonostante il contesto dei reati consumati sia diverso, risulta utile proprio come messaggio alla politica: evitare le strumentalizzazioni da ogni parte ma soprattutto evitare, da parte della sinistra, di cucire addosso all’avversario forme di devianza che nulla hanno a che fare con le tendenze politiche soprattutto quando si scopre che dietro la copertura della politica si nasconde l’abisso della turpitudine. È stato il caso di Izzo come oggi è il caso di Bianchini.
Ieri per il ragioniere romano è arrivata la convalida del fermo in carcere. Nella sua casa gli uomini della questura hanno trovato bamboline di cera rossa alle quali erano stati applicati aghi e chiodi, piccole bottiglie di vetro contenenti pozioni per ottenere amore e salute, guide per compiere riti esoterici. E poi ancora dvd pornografici aventi per oggetto violenze sessuali dai titoli eloquenti come «Stupri gallery» o «Realmente stuprate», fascette di plastica nera, simili a quelle utilizzate per immobilizzare le vittime, una pistola giocattolo, due coltelli avvolti nello scotch grigio e un braccialetto forse appartenente a una delle vittime. Gli inquirenti hanno inoltre chiarito che non esiste nessuna pista su un ipotetico secondo uomo ed è stata infine smentita la pista che condurrebbe a locali di scambisti frequentati dall’uomo arrestato.

(di Annalisa Terranova)

lunedì 13 luglio 2009

La doppia lettura del Muro crollato

Il Muro ha due versanti, due punti di osservazione, uno al di qua e l’altro al di là. Un Muro abbattuto dovrebbe al contrario unificare le vedute, sgombrate le macerie. La caduta del Muro di Berlino ha invece generato, al di là del senso comune, due punti di osservazione divergenti.
Quando è crollato è stato possibile affermare due cose opposte: non ci sono più barriere, si va verso la società globale e l’ordine mondiale a una dimensione. Ma si è detto anche il suo contrario: rinasce la Germania, riprendono quota le identità nazionali e territoriali, finiscono i blocchi ideologici e artificiali e risorgono gli Stati nazionali, figli della storia, della lingua, delle tradizioni. La caduta del Muro ha avviato o galvanizzato ambo i processi. Da allora in poi si è parlato di globalizzazione.
In quei giorni pubblicai un libro, Processo all’Occidente, dedicato - come scrivevo nel sottotitolo - alla società globale e i suoi nemici. Che prendeva le mosse proprio dalla caduta del Muro. Negli anni Novanta la parola “globale” diventò ossessiva, e si coniugava sempre alla caduta del Muro e di conseguenza del regime sovietico. Ma da allora in poi si parlò pure di leadership europea della Germania, si parlò di nuovi nazionalismi rinati all’est sulle rovine del comunismo, risorsero le piccole patrie; perfino da noi, il patriottismo locale trovò nella Lega il suo vettore.
Su quell’ambiguità fu fondato il processo di unificazione europea che prese le mosse proprio dalla caduta del Muro. Infatti l’Europa unita conserva alle sue origini due letture opposte: può essere intesa come la dis-integrazione degli Stati nazionali e il gradino verso la società globale e lo Stato mondiale. E può essere intesa all’opposto come Europa delle patrie, come la concepì De Gaulle, ovvero come argine e risposta alla globalizzazione e come rinascita della civiltà europea e della geopolitica.
Dagli Stati Uniti giunsero due teorici a legittimare entrambi i processi. Francis Fukuyama parlò di fine della storia con la caduta del Muro di Berlino e Samuel Hungtinton al contrario vide rinascere, sulla caduta dei due blocchi contrapposti, le differenti civiltà e il loro scontro.
Di quel Muro caduto conservo un’immagine riflessa: quella di Ernst Jünger, il grande scrittore tedesco quasi centenario, grande soldato che aveva vissuto e descritto nei suoi diari il crollo della Germania, che riceve in diretta una telefonata dei suoi pronipoti mentre danzano sulle rovine del Muro. Il suo fiero carattere di antico prussiano non seppe trattenere in quell’occasione una pur composta emozione ed una sofferta euforia perché una tragedia finiva e la linea finalmente era attraversata, per dirla col suo linguaggio di militare e sismografo del nichilismo. Del resto, Jünger aveva scritto Al muro del tempo (uscito in Italia pochi anni dopo l’edificazione del Muro, tradotto da Evola per le edizioni Volpe) in cui mostrava che non solo i muri spaziali ma anche i muri temporali possono essere abbattuti e varcati. In effetti unificandosi, le due Germanie abbatterono anche il muro del tempo, perché il tempo vissuto nella Germania est non ero lo stesso della sorella occidentale.
La Germania Orientale era anacronistica rispetto a quella Occidentale, il comunismo aveva come imbalsamato tracce di Prussia e persino di Terzo Reich, mentre la Germania Ovest si era americanizzata e modernizzata più velocemente. La caduta del Muro di Berlino fu comunque un crollo salutare per l’umanità, a differenza dell’altro crollo di dodici anni dopo, le due torri a New York. Il terzo millennio non è nato su atti di fondazione ma su due distruzioni. Poi ci chiediamo perché prevale la tentazione dissolutiva...
(di Marcello Veneziani)

Il capitalismo che si autoassolve è la vera vergogna

Come al solito, il professor Franco Cardini, apprezzato storico e uomo di cultura non le manda a dire. Parla con fervore della recente Enciclica del Papa Benedetto XVI in tema di dottrina sociale della Chiesa.
"Guardi, so bene che per natura non piaccio a tutti, ma devo dire la verità".
Prego.
"Allora, questa Enciclica, che reputo interessante e figlia di grandi studi, è comunque profondamente pessimista sulla sorti di questo mondo. Mi dica lei se un pianeta che litiga per l'acqua ha fondate ragioni di andare avanti".
Una Enciclica sostanzialmente in linea con il Magistero della Chiesa.
"Segue le orme della Populorum Progressio e non poteva essere diversamente, vista anche la vicinanza con il G8. Affronta uno scenario internazionale davvero preoccupante che rischia di diventare il libro dei sogni".
In che senso?
"Apprezzo le buone intenzioni del Papa. Ma da molto tempo, il Cristianesimo è rimasto più una utopia che una realtà. I primi duemila anni dal punto di vista della giustizia sociale, sono stati un quasi fallimento".
Parola dure. Il Papa ha fatto notare tutte le carenze di un capitilasimo selvaggio.
"Bene, sono contento. Ma, mi passi l'espressione colorita, siamo stufi, delle solite critiche ai regimi dittatoriali. Non li difendo, ma oggi il vero scandalo non sono loro, quanto la vergogna, di un capitalismo rampante che si autoassolve alla ricerca del profitto. Ritengo questo modo di giustificarsi osceno ed offensivo, verso questi popoli, specie l' Africa nei confronti dei quali si fa della carità pelosa e ci si dimentica di averli depredati e spogliati decenza alcuna o scrupolo".
Il Papa ha puntato il dito anche sul precariato nel lavoro.
"Bene, applaudo. Ma spero siano in grado oggi di inventare un sistema migliore e non ne vedo all'orizzonte. Tutto questo è il frutto di una apostasia collettiva, il precariato dal punto di vista del profitto è una manna e per chi non ha denaro una salvezza. Ma contrasta con la giustizia. Del resto, in un Paese in cui le ferrovie sono al limite del collasso e causano morte, tutto è possibile. Chi viaggia in treno appartiene alla classe di coloro che non possono concedersi mezzi migliori, ma al sistema costoro interessano poco, solo quando accade la strage e si fa un bel funerale".
Tema corruzione.
"E' sotto gli occhi di tutti e non è una novità. La corruzione porta alla disaffezione alla politica e quindi alla alienazione".
Che cosa si aspettava dalla Enciclica?
"Premesso che la rispetto da cattolico, dico che non era lecito attendersi di più. In fondo l'Enciclica è una lettera pastorale, ma non un atto dogmatico quindi è anche possibile dissentire. Io non lo faccio, ma in fondo rappresenta un importante documento programmatico".
Ultimamente è tornato alla ribalta il tema dei tradizionalisti.
"Dunque, contestare il Vaticano II dal punto di vista dogmatico non è scandaloso, quel concilio dal punto di vista delle applicazioni concrete ha avuto anche delle conseguenze deleterie e se ne erano accordi Papa Paolo VI e Giovanni Paolo II. In sè stesso non è una rovina, ma certe interpretazioni fantasiose hanno danneggiato seriamente la Chiesa facendo perdere il rispetto della tradizione in nome di una modernità senza alcun senso e colore".

Chateaubriand, l’anti Robespierre colpisce ancora

Poche epoche della storia impressero il loro sigillo sul passato e sul futuro, mentre in fieri si abbattevano sul presente, quale quella che Marc Fumaroli evoca nel suo Chateaubriand. Poesia e terrore (Adelphi, 806 pagine, 55 euro). Avendo l’autore delle Memorie d’oltretomba per testimone, attore e interprete, lo studioso francese se ne serve per dipingere lo strepitoso affresco di quello che è stato il passaggio fra l’Ancien Régime e il Mondo nuovo. Ciò che ne emerge non riguarda tanto o solo un cambiamento di regime - una rivoluzione, una guerra civile - ma la fine di una Francia tradizionale e plurisecolare, con tutto ciò che essa significava in termini di arte, di cultura, di religione, di modo di vivere, insomma, e la modernità che ne prende il posto con al completo il suo corteo di novità: nuovi rapporti umani, nuovi rapporti sociali, nuove aspettative, una nuova cultura. Una fine e un inizio bagnati nel sangue e in qualche modo dal sangue eternamente segnati: l’Otto e il Novecento si portano dietro l’eredità degli Stati nazionali e della leva di massa, delle guerre patriottiche e della propaganda di parte, della tirannia della maggioranza e delle avanguardie intellettuali, dei totalitarismi ideologici e di quelli politici...
Conservatore, ma non reazionario, Chateaubriand vede là dove il democratico illiberale Robespierre e l’aristocratico illiberale Talleyrand non riescono ad andare. Non si tratta della «virtù in un solo Paese» teorizzata dal primo, o della «restaurazione in tutto il continente» perseguita dal secondo: «Io non credo nella società europea. Fra cinquant’anni non ci sarà più un solo sovrano legittimo, dalla Russia alla Sicilia... Non prevedo che dispotismi militari. E tra cent’anni... può darsi che noi stiamo vivendo non solo nella decrepitezza dell’Europa, ma in quella del mondo».
Solo chi ha virtù profetiche è in grado di analizzare cosa quel cambiamento, un vero e proprio olocausto etnico-culturale abbia provocato e ancora provocherà. I suoi artefici non se ne rendono conto e anche per questo Robespierre in fondo resta un mistero, perché nel suo inseguire una Francia virtuosa, austera e democratica, il suo modello non è in un futuro da costruire, ma in una Sparta da riportare in vita. È l’eterogenesi dei fini che si impone: la modernità che si spalanca mentre si cercava un’altra tradizione. Chateaubriand, che della Rivoluzione è vittima e testimone passivo, capisce invece che cosa da essa scaturirà: ne comprende anche l’ineluttabilità e l’impossibilità di tornare al mondo precedente come se nulla fosse. È anche per questo che, letti oggi, i volumi in cui Robespierre descrive la sua Repubblica ideale appaiono senza vita, laddove gli interrogativi sul destino e sul futuro della politica di Chateaubriand restano nostri contemporanei: «La democrazia non solo fa dimenticare a ogni uomo i suoi avi, ma gli nasconde i suoi discendenti e lo separa dai suoi contemporanei; essa lo riporta continuamente solo a se stesso e minaccia di rinchiuderlo per intero nella solitudine del proprio io».
Ogniqualvolta si ritorna a Chateaubriand, l’antica ammirazione e irritazione si ripresenta immutata. Fu il grande scrittore del proprio tempo, quello che la generazione successiva dei Flaubert e dei Baudelaire continuerà a celebrare, e sul quale però la maledizione di Stendhal, «a partire dal 1913 non lo leggerà più nessuno», opererà come una verità. Nel giro di secolo fra Otto e Novecento, la modernità letteraria si illude di poter fare a meno della storia e della politica. C’è l’arte per l’arte, c’è la sperimentazione, ci sono il poeta e il romanziere fini a loro stessi, torre d’avorio della propria unicità, del disinteresse nei confronti di ciò che c’è intorno: tradizioni e costumi, lingua e memoria. A Parigi il nume tutelare del primo dopoguerra è lo stendhaliano André Gide che dal suo orizzonte culturale scarta la storia perché le è contrario, la giudica fuorviante e noiosa. Il protagonismo di Chateaubriand, il suo gusto per la gloria e per le imprese, il suo mischiarsi con i fatti sono per lo scettico e disincantato Gide e per la cerchia intellettuale che gli fa corona, qualcosa di vecchio, di superato.

E però, mai come allora la storia aveva intanto ripreso a soffiare, distruggendo imperi, liberando nazioni, provocando catastrofi. La Grande guerra non è che l’aperitivo di ciò che s’abbatterà sull’Europa. In polemica con Gide, è Malraux a rendersene conto: «A vent’anni, ciò che ci distingueva dai nostri maestri era la presenza della storia. Per loro non era successo nulla. Noi, noi nascevamo nel cuore della storia, che ha attraversato il nostro campo come un carro armato». Chateaubriand, insomma, era tornato di moda e Malraux, senza renderlo noto, si industrierà a imitarlo.Il fatto è che l’autore delle Memorie d’oltretomba è troppo ingombrante per una società che della specializzazione ormai ha fatto un dogma e che guarda con diffidenza a ogni afflato di grandezza. Scrittore e agitatore, artista ossessionato dalla politica, romanziere in grado d’essere ministro e uomo di potere, intellettuale pronto a riscrivere il proprio tempo, cioè a falsificarlo, giramondo e vagabondo, a suo agio nei salotti come nei grandi spazi, giornalista d’effetto e saggista di pregio... Intelligentemente Fumaroli non sceglie la strada della biografia, ma scrive un libro che è «un invito a una traversata nella grande temperie poetica delle Memorie e del campo magnetico entro il quale si è formata», ovvero «la prima mappa dei conflitti fra modernità e anti-modernità, incunabolo del mondo che si lacera e scompare oggi un po’ dovunque sotto i nostri piedi».
È proprio il suo essere uomo di confine, «navigatore tra due rive», che fa di Chateaubriand un unico. È il primo dei romantici, ma anche l’ultimo dei classici, il che dà un tono di novità al suo stile, ma non lo invecchia nel nuovo allorché questi diviene un genere: l’antico gli ha dato i mezzi per crearsi uno stile che è senza tempo. Per nascita, educazione, gusti, appartiene al mondo antico che è andato in pezzi, ma la sua fedeltà al passato non gli impedisce di capire che è divenuto marcio, da supremazia meritata si è fatto prima privilegio ingiusto, poi sterile vanità: «Perché mi è toccato vivere in un’epoca in cui ero tanto fuori posto? Perché sono stato realista contro il mio istinto in un tempo in cui una miserabile genia di cortigiani non poteva né udire la mia voce né comprendermi? Perché sono stato gettato in quella torma di mediocrità che mi prendevano per un insensato, quando parlavo di coraggio; per un rivoluzionario, quando parlavo di libertà?».
Della definizione delle Memorie come «un Louvre della letteratura», Fumaroli accetta l’immagine, bella, ma non la sostanza, perché c’è nel suo autore l’arte «di far vedere in una sola ripresa, senza cuciture e interruzioni, un insieme e i suoi particolari, un’unità nella sua molteplicità, come un totum simul che lo sguardo e la mente hanno il potere di contemplare e di meditare». Ma un proprio Louvre della letteratura lo fa in fondo Fumaroli stesso: ogni capitolo di Poesia e Terrore è un quadro a sé, che si tratti del profilo di un grande autore classico, Milton, Rousseau, Tocqueville, di un personaggio storico, Talleyrand, di un autore misconosciuto, de Fontanes, Ballanche...Il saggio è anche un rosario di perle sgranate da Chateaubriand nel corso di una vita lunga e piena. «L’orgoglio è la virtù della sventura». «La morte è bella, è la nostra amica: ma non la riconosciamo perché si presenta mascherata e la sua maschera ci spaventa». «I dolori sono come la patria, ognuno ha il suo». «Un uomo vi protegge per ciò che vale lui, una donna per ciò che valete voi: ecco perché di queste due dominazioni l’una è così odiosa, l’altra così dolce». «Sventurato me che non so invecchiare e invecchio sempre». «Non ero bravo né come tiranno né come schiavo, e tale sono rimasto. C’è in me l’impossibilità di ubbidire».

(di Stenio Solinas)

Attilio Deffenu e la rivoluzione autonomista


Di Romano Guatta Caldini
tratto da IL FONDO di Miro Renzaglia (www.mirorenzaglia.org)

Soberania, Democratzia, Sotzialismu

Forte di tradizioni e connotati etnici senza pari in Italia, la Sardegna è indubbiamente la regione dove si sono maggiormente sviluppate le pulsioni indipendentiste. Fra i padri storici dell’autonomismo sardo, probabilmente, il meno conosciuto è l’eroe della Grande Guerra Attilio Deffenu. Nuorese, di formazione socialista ma con forti influenze libertarie, Deffenu diviene in breve tempo la firma di punta de la Via. Supportato da Michele Giua e Lucio Secchi, nel ‘12, risolleva le sorti del socialismo isolano attraverso l’affermazione della “tendenza rivoluzionaria”.

Fra le varie mancanze del socialismo sardo, la più grave è la totale incomprensione della questione contadina, ed in particolare la facile liquidazione del problema della piccola proprietà rurale. Incomprensione che ebbe conseguenze di «estrema gravità in Sardegna, per la stessa struttura proprietaria delle campagne, dove i piccoli affittuari costituivano la quasi totalità degli addetti in agricoltura». La frammentazione fra dirigenza politica e base militante, costituì un elemento di non poco conto nell’affermarsi di uno spontaneismo che, se da una parte vivacizzava lo scontro, dall’altro disperdeva le forze d’opposizione. Vizi di “forma” che rifletteranno negativamente sulle sorti politiche del partito e sulle sue non lusinghiere battaglie elettorali. Tale situazione si capovolgerà, paradossalmente, all’indomani della guerra. Nonostante la vergognosa campagna anti-nazionale propugnata sia prima, che dopo e durante lo scontro bellico, sarà proprio dalla guerra che il movimento socialista sardo trarrà i maggiori vantaggi. Le plebi contadine, abbandonate dalla dirigenza giolittiana, saranno facile strumento d’agitazione in mano ai “barricadieri” locali. A influire sull’elettorato, oltre alla già citata latitanza statale, fu senza dubbio il ruolo assistenziale, ma sarebbe meglio dire assistenzialista, ricoperto dalla croce rossa civile nei comuni ad amministrazione socialista.

In tale contesto si erge cristallina la figura del giovane Attilio Deffenu che, stanco delle manovre di palazzo dei socialisti ufficiali, si sposta in modo progressivo verso posizioni sempre più radicali. Le sue vicende personali vanno di pari passo con la frenetica attività editoriale, dalla “Via” al “Giornale d’Italia”, fino a “La folla” di Paolo Valera. Sarà quest’ultimo, antico sodale di Mussolini dai tempi del soggiorno trentino, a indirizzare Deffenu verso le sponde anguste ma eccitanti dell’interventismo sindacale. Trasferitosi a Milano e divenuto in breve tempo legale dell’USI, non trascura la causa “identitaria” e dà vita alla rivista Sardegna, che diventa una palestra di discussione sui problemi dell’Isola in chiave anti-protezionista.

L’idea di fondo - scrive Gian Giacomo Ortu - è in verità luminosa: arrivare ad una «revisione critica di tutti i valori della vita sarda», utilizzando la leva dell’analisi economica in prospettiva storica per emancipare la Sardegna dal peso dell’interventismo statale (…). Soltanto la «divina tirannia del capitale» può, a suo avviso, strappare l’Isola dallo scoglio del tradizionalismo, liberandone le energie endogene, naturali ed umane. Della rivista escono appena quattro fascicoli, ma i contributi del solo Deffenu inaugurano una nuova stagione della questione sarda. «Anche se per arrivare a tanto, il nostro ha dovuto lasciare che il tema dello sviluppo economico rubi la scena al tema della rivoluzione sindacalista.» Non si trattava comunque di un’involuzione di tendenza in senso strettamente liberista, ma più semplicemente, Deffenu, come molti altri meridionalisti era convinto che solo attraverso lo smembramento della cappa statale si sarebbe potuta aprire la strada all’economia privata e locale, l’unica, in quel momento, capace di dare uno scossone ai circoli viziosi dell’economia isolana.

Nel ‘14, con i deambrisiani, Deffenu firma il manifesto programmatico del Fascio Rivoluzionario d’Azione Internazionalista: «Lavoratori, gli avvenimenti incalzano. L’Italia, a fianco delle potenze che combattono per la libertà e l’indipendenza dei popoli, renderebbe più sollecito e decisivo l’esito della guerra, attenuandone gli immani disastri. La neutralità armata non risparmia le gravi conseguenze che dalla guerra derivano al nostro paese e al tempo stesso non ci immunizza dal pericolo bellico: essa piuttosto dà al governo, con la mobilitazione dell’esercito, la possibilità di coglierci alla sprovvista domani con quella qualunque guerra che gli piacerà dichiarare, anche contro le ragioni della civiltà e i nostri stessi interessi, e inoltre - il che sarebbe ancor peggio - il mezzo di coprirci di vergogna, con un turpe ricatto mettendo a prezzo il nostro non intervento. L’imporre oggi la guerra contro il blocco austro-tedesco è il mezzo migliore per impedire che l’Italia possa domani subdolamente rimettersi al suo servigio. Noi rivoluzionari non abbiamo nessun interesse da conservare, non abbiamo alcun motivo per ingannare il popolo. Parlino pure di neutralità i partiti che hanno da conservare onori, stipendi, posizioni politiche, ciechi o interessati assertori di una grande viltà nazionale e di una grande infamia storica, alleati alla politica dinastica e clericale e complici degli scannatori e dei saccheggiatori. Noi rivoluzionari vogliamo che si riprenda la tradizione dei grandi intelletti e dei grandi cuori che seppero le voci dell’avvenire umano e previdero il destino dei popoli. Non cooperare alla vittoria del migliore significa recare aiuto al peggiore. I rivoluzionari non debbono aver dubbi di scelta. La nostra causa è quella di Amilcare Cipriani, di Kropotkine, di James Guillaume, di Vaillant, quella della rivoluzione europea contro la barbarie, l’autoritarismo, il militarismo, il feudalismo germanico e la perfidia cattolica dell’Austria. Ognuno compia fino all’ultimo e in tutti i modi il suo dovere. Tutte le forze vive del mondo, tutti coloro che augurano all’umanità lavoratrice un avvenire migliore e combattono per il trionfo della causa operaia e della rivoluzione sociale, per l’affratellamento dei popoli e la fine di tutte le guerre, debbono scendere in campo risolutamente. Noi dobbiamo imporre al governo di cessare di disonorarci o di sparire, e fin d’ora separare le responsabilità e prepararci all’azione»

Seguono le firme di Decio Bacchi, Michele Bianchi, Ugo Clerici, Amilcare De Ambris, Aurelio Galassi, A.O. Olivetti, Decio Papa, Cesare Rossi, Silvio Rossi, Sincero Rugarli e Libero Tancredi.

Interventista, Deffenu si arruola volontario, ma la sua fedina penale è macchiata dal sovversivismo politico che è causa di una snervante trafila nelle retrovie dell’esercito. Dopo due anni di attesa, nel ‘18 è finalmente al fronte come S.Tenente della Brigata Sassari. In questi termini, la sua figura è stata rievocata dal Generale Leonardo Motzo:

«Deffenu è stimato e conosciuto in Sardegna per la sua instancabile azione giornalistica tendente al rinnovamento del popolo Sardo. Egli vede nella Brigata Sassari lo strumento adatto per sviluppare nelle plebi lavoratrici sarde (…) le sue idee per la rinascita della Sardegna (…) Concepisce così la rinascita della sua isola, non soltanto nell’interesse sardo ma anche e soprattutto in quello d’Italia.

Nei suoi discorsi è preciso, sdegnoso, positivo, tratta i soldati da fratelli, spronandoli a un rinnovamento spirituale, sociale ed economico. Ha attirato su di se la simpatia degli ufficiali e dei fanti della Sassari. (…) Il Deffenu venuto a conoscenza della prossima offensiva nemica sul Piave, insiste per essere destinato al comando di un plotone dell’8° compagnia. In pochi giorni diventa padrone dell’animo dei suoi soldati che sono fieri ed orgogliosi di essere alle sue dipendenze. Con i suoi fanti passa lo scalo Palombo. Il suo compito è di arrivare al caposaldo di Croce per vedere come è predisposto il nemico. Giunto miracolosamente a destinazione si accorge, che ai suoi lati e alle sue spalle il nemico lo ha rinchiuso e isolato. Il suo battaglione è però compatto e deciso a raggiungerlo dove egli è con altri pochi. E’ necessario agire, i suoi sardi gli sono attorno frementi, lo guardano quasi per averne l’ordine atteso: “Avanti Sardegna!».

Muore a ventisette anni nei pressi di Fossalta del Piave il 16 giugno del 1918. Come nel caso di Filippo Corridoni, il corpo di Deffenu non verrà mai ritrovato. Esaltato durante il Fascismo come prototipo dell’Uomo Nuovo, dimenticato nell’Italia antifascista, il suo ricordo, come il relitto dell’incrociatore che porta il suo nome, vive nell’abisso della memoria di chi non l’ha dimenticato.

domenica 12 luglio 2009

Ecce dono

Per comprendere in profondità il significato dell’enciclica di Benedetto XVI “Caritas in veritate”, occorre situarla all’interno di un dibattito che da oltre un secolo traversa il pensiero cattolico. Il problema nasce verso la metà dell’Ottocento, con il sorgere della cosiddetta “questione sociale” e con essa di una serie di nuove dottrine, come il liberalismo e il socialismo. L’enciclica “Rerum Novarum” (1891) di Leone XIII, considerata la prima risposta cattolica a tali sfide, è in realtà l’approdo di un ampio dibattito che vede confrontarsi due scuole di economisti e sociologi cristiani. I primi sostengono che la questione sociale va affrontata innanzitutto alla luce del primato della virtù teologica della carità; i secondi affermano invece il primato della virtù morale della giustizia.
Dalle due posizioni discendono inevitabili conseguenze. Il primato della giustizia porta a enfatizzare il ruolo dello stato come soggetto chiamato a regolare la vita pubblica, attribuendo a ciascuno il suo. Il primato della carità porta invece a sottolineare il ruolo dell’individuo, come attore decisivo di ogni relazione sociale. Ne conseguono nel primo caso lo stato pianificatore, tendenzialmente socialista; nel secondo, la tutela del mercato, della proprietà privata, della libera impresa. La soluzione più sicura, adombrata dalla “Rerum Novarum”, resta quella di una sintesi tra giustizia e carità, con prevalenza di quest’ultima, secondo la bella formula di Giuseppe Toniolo: “Chi più può, più deve; chi meno può, più riceve”. La carità è essenzialmente il dono di sé e di ciò che si possiede: essa ha la sua origine nello spirito di rinuncia e di sacrificio proprio del Cristianesimo. Nel 1967, la“Populorum progressio” di Paolo VI, rovesciando la tradizione che si era fino ad allora delineata nel pensiero della chiesa, proclamò il primato della giustizia sulla carità. L’enciclica formulava un giudizio negativo sul capitalismo liberale (n. 26), criticava il “libero scambio” (n. 58), auspicava programmazione e pianificazione (n. 33), prevedeva la limitazione della proprietà privata e la ridistribuzione dei redditi (nn. 23-24), esprimeva il culto del progresso, del lavoro, della “solidarietà mondiale” (nn. 58-59).
Il documento di Benedetto XVI ripropone invece in termini nuovi la dottrina tradizionale, sviluppando i paragrafi 26-31 della sua precedente enciclica “Deus caritas est”, relativi proprio al rapporto tra giustizia e carità. E’ interessante paragonare gli Incipit delle encicliche di Benedetto XVI e di Paolo VI. La Caritas in veritate afferma che “la carità nella verità è la principale forza propulsiva per il vero sviluppo di ogni persona e dell’umanità intera” (n. 1) e costituisce “la via maestra della dottrina sociale della Chiesa” (n. 2). Essa “è il principio non solo delle micro-relazioni (rapporti amicali, familiari, di piccolo gruppo), ma anche delle macro-relazioni: rapporti sociali, economici, politici” (n. 2).
La “Populorum progressio” lanciava invece fin dall’inizio un appello alla liberazione dei popoli “dal giogo della fame, della miseria, delle malattie endemiche, dell’ignoranza” (n. 1), riecheggiando le utopie postconciliari, secondo cui sarebbe stato possibile assicurare pace e benessere alla società intera. “Giustizia e pace” era il programma proposto da Papa Montini per “lo sviluppo integrale dell’uomo e lo sviluppo solidale dell’umanità” (n. 5). E’ importante notare come la carità a cui si richiama Benedetto XVI si radica nella verità, perché “un Cristianesimo di carità senza verità può venire facilmente scambiato per una riserva di buoni sentimenti, utili per la convivenza sociale, ma marginali” (n. 4). La dottrina sociale della chiesa è dunque “caritas in veritate in re sociali”: annuncio della verità dell’amore di Cristo nella società. Tale dottrina “è servizio della carità, ma nella verità” (n. 5). “Senza verità, la carità scivola nel sentimentalismo. L’amore diventa un guscio vuoto, da riempire arbitrariamente. E’ il fatale rischio dell’amore in una cultura senza verità. Esso è preda delle emozioni e delle opinioni contingenti dei soggetti, una parola abusata e distorta, fino a significare il contrario” (n. 3).
Anche la giustizia è naturalmente presente nel documento pontificio. Essa non solo non è una via alternativa o parallela alla carità, ma è inseparabile da essa (n. 6). Tuttavia “la carità eccede la giustizia, perché amare è donare, offrire del ‘mio’ all’altro; ma non è mai senza la giustizia, la quale induce a dare all’altro ciò che è ‘suo’, ciò che gli spetta in ragione del suo essere e del suo operare” (n. 6). In questo senso, al concetto di carità si collega quello di dono. “La carità è amore ricevuto e donato” (n. 5). Nella giustizia rendiamo al prossimo ciò che è suo, mentre nella carità gli doniamo ciò che è nostro.
Nei confronti dell’enciclica del suo predecessore, Benedetto XVI ha una posizione analoga a quella assunta nei confronti del Concilio Vaticano II: essa va recuperata interpretandola alla luce della Tradizione. Il Papa sottolinea come la “Populorum progressio” è in grado di parlare ancora a noi, solo se “inserita nella grande corrente della Tradizione” (n. 12). Per comprendere il significato e il ruolo dello sviluppo di cui parlava Paolo VI, “il corretto punto di vista, dunque, è quello della Tradizione della fede apostolica, patrimonio antico e nuovo, fuori del quale la Populorum progressio sarebbe un documento senza radici e le questioni dello sviluppo si ridurrebbero unicamente a dati sociologici” (n. 10). La “Populorum progressio”, ad esempio, influenzata dalle teorie neomaltusiane degli anni Sessanta, alludeva non tanto velatamente alla necessità di limitare responsabilmente le nascite (n. 37). L’enciclica di Benedetto XVI si richiama apertamente alla “Humanae Vitae” (1968) dello stesso Paolo VI affermando che i problemi toccati in quest’ultimo importante documento non riguardano la morale meramente individuale, ma concernono i “forti legami esistenti tra etica della vita ed etica sociale” (n. 15).
Il Papa è consapevole del fatto che l’incremento demografico non produce povertà, ma ricchezza. L’apertura moralmente responsabile alla vita è dunque una ricchezza sociale ed economica (n. 44) ed è al centro del vero sviluppo (n. 28). Per questo gli stati sono stati chiamati a varare politiche che promuovano la centralità e l’integrità della famiglia, “fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna, prima e vitale cellula della società” (n. 44). Benedetto XVI sottolinea quindi il valore positivo del mercato e dell’impresa, che però deve essere fortemente ancorata all’etica. E’ certamente vero che il mercato può essere orientato in modo negativo, perché una certa ideologia lo può indirizzare in tal senso, ma questa non è la sua natura (n. 36). Il mercato è uno strumento: ciò che deve essere chiamato in causa non è esso, ma l’uomo, la sua coscienza morale e la sua responsabilità personale e sociale (n. 36). Rispondere alle esigenze morali più profonde della persona ha anche importanti e benefiche ricadute sul piano economico. “L’economia infatti ha bisogno dell’etica per il suo corretto funzionamento”; non di un’etica qualsiasi, bensì di un’etica amica della persona (n. 45).
Per molti economisti la difesa della libertà economica si unisce con una assoluta libertà in campo morale. In campo liberale, ad esempio, molti sono a favore della liberalizzazione della droga, dell’aborto e di ogni sperimentazione nel campo della bioetica. Per chiarire bene questo punto, Benedetto XVI afferma che “la questione sociale è diventata radicalmente questione antropologica” (n. 75) nel senso che essa implica il modo stesso di concepire la vita umana, minacciata dalle tecniche di manipolazione genetica e dalla “mens eutanasica”. “Non si possono minimizzare – egli afferma – gli scenari inquietanti per il futuro dell’uomo e i potenti strumenti che la cultura della morte ha a disposizione” (n. 75). Infine un’affermazione ricca di profonde conseguenze: Dio deve trovare un posto “anche nella sfera pubblica, con specifico riferimento alle dimensioni culturale, sociale, economica e, in particolare, politica” (n. 56). “Senza Dio – infatti – l’uomo non sa dove andare e non riesce nemmeno a comprendere chi egli sia” (n. 78). In questa riga sta tutta l’enciclica e forse il nucleo dell’intero Magistero di Benedetto XVI.
(di Roberto de Mattei)

L’ultima frontiera dell’onore – I Sardi a Salò

Vi consigliamo questo interessantissimo libro di Angelo Abis che tratta la presenza sarda a difesa della Repubblica Sociale Italiana.

Dalla “quarta” di copertina riportiamo:

"La ragione è sempre dei vincitori, ma Francesco Maria Barracu e gli altri impiccati la ragione l’hanno conquistata a Piazzale Loreto. La barbarie delle spoglie esposte alla pubblica vergogna non può essere contenuta nella ragione politica del pareggiare i conti, perché è l’equivalente dei campi di sterminio.
La barbarie, per essere perfetta, non si misura a chili, eppure per molti Piazzale Loreto è stato ed è un mito, né questo ci ha spinto a guardare con compassione alle vittime, né a ricercare le loro ragioni; anzi, sempre più il fascismo è la bestia nera da cui prendere le distanze: scomunica inappellabile da sinistra, abiura frettolosa da destra.
Questo libro, invece, si immerge nel fascismo, si appassiona alle ragioni di chi è stato sconfitto. Sicuramente il lavoro di Abis non ci chiarirà tutte le idee, né ci convincerà ad essere ciò che non siamo. Però ci fa riconoscere Fratelli d’Italia uomini e donne che con ogni mezzo hanno tentato di non far crollare i pilastri sui quali la loro vita poggiava e mostra quale straordinario contributo di sangue e di intelligenza la Sardegna abbia dato alla storia d’Italia.

sabato 11 luglio 2009

Identità europee - identità sarda


Branduardi: un antimoderno che si diverte ancora

Scritto da Gabriele Marconi tratto da Area

Angelo Branduardi è un caso unico in Italia, per il tipo di musica che ha portato avanti e, soprattutto, perché la sua musica ha avuto così vasto successo in un’epoca in cui stava per esplodere il ciclone punk. Nel 1974, infatti, esce il suo primo 33 giri, mentre negli Stati Uniti nascevano i Ramones e in Inghilterra Malcom McLaren si apprestava a “partorire” i Sex Pistols. Branduardi, invece, sceglie di seguire non la moda bensì la sua sensibilità, che guarda decisamente all’antico. Certo, la Francia aveva ad esempio Alain Stivell; e il mondo celtico, Irlanda in primis, aveva una lunga storia di folk tradizionale con grande seguito di pubblico. Per loro, però, c’era appunto quel forte legame popolare della musica che suonavano e cantavano, un legame quasi ininterrotto e saldato da feste che, spesso, corrispondevano a diffuse rivendicazioni identitarie. In Italia non esisteva niente del genere e il genere fu inventato da Branduardi. E mai più imitato…

Perché, proprio in un momento in cui si correva in avanti, ha voluto “tornare indietro”?

Sinceramente non so dare una risposta. Molto spesso il musicista nasce con un “naso” che non si è scelto, con una musicalità che non si è scelta. Io ho fatto normali studi di conservatorio, perciò sono partito dalla musica barocca, la più antica che viene insegnata in conservatorio. Niente che facesse riferimento alle radici della musica antica. Certe cose sono venute dopo, per mio gusto personale e anche per l’incontro con un personaggio molto importante, Diego Carpitella, morto qualche anno fa, che è stato probabilmente uno dei più grandi musicologi del ’900, oltre che straordinario esperto di musica sarda, e che mi onorava della sua stima e della sua amicizia. Ho cominciato ad intuire la crisi che la musica occidentale (crisi che ha addirittura una data precisa: quella del famoso Tristan Accord, ossia l’Accordo di Tristano, di Wagner) ha portato molti artisti, autori sia colti che non, a guardare indietro, prima del grande sviluppo della musica occidentale, quando venne inventata la musica verticale, cioè il “do maggiore”, cioè l’armonia. Ecco quindi a livello tecnico perché io sono tornato indietro.
Un po’ come i preraffaelliti per la pittura…
Un po’ sì. Ma questo lo possiamo registrare ora, a livello di logica. C’è poi un livello di “pancia”, che è molto più importante, per cui quando ho sentito quella musica ho trovato che facesse parte di me. Semplicemente, mi piaceva in una maniera straordinaria.

Cos’è che non le piaceva della musica moderna?

Penso in tutta franchezza che la musica abbia dimenticato le proprie radici, le proprie tradizioni… Il nostro mondo ha sostituito la musica come fatto storico, che accompagnava ogni momento della vita dell’uomo, con l’arte per l’arte, che è una cosa bella, niente da dire, ma in un certo senso fine a se stessa. La musica extraeuropea (e la nostra antica) non scinde mai la musica da quello a cui la musica serve: c’è la musica per nascere, per sposarsi, per festeggiare il raccolto… e quella per morire. In Africa, ad esempio, a nessuno verrebbe mai in mente di andare a sentire una messa da requiem se non c’è un morto. Queste considerazioni mi hanno convinto della necessità di tornare a guardare indietro. La tradizione e la cognizione del proprio passato sono assolutamente necessarie alla cognizione del presente e a maggior ragione del futuro. Questo vale per la musica e vale per qualsiasi altra forma della cultura umana.

L’ha sempre pensato?

Sì, sono una sorta di antimoderno, per certi versi.

Perché nessuno ha seguito la strada che lei aveva aperto?

Be’, il fatto che nessuno mi abbia imitato lo capisco, perché io sono “al limite” e a me si concedono certe cose che fatte da altri verrebbero probabilmente considerate grottesche e ridicole. Io stesso, lo ammetto (e una certa parte della critica lo ha rilevato), sfioro a tratti dei lati per i quali vengo preso in giro, anche bonariamente, come fa il mio amico Davide Riondino quando canta La canzone della foca, piuttosto che altre… Però c’è stato un giornalista che ha detto una cosa giusta su di me: «Branduardi è come l’aglio, un gusto unico e inconfondibile che piace o fa schifo». Questa è la migliore definizione della mia musica che abbia mai sentito. È difficilissimo trovare una cosa che assomigli all’aglio, no? Ed evidentemente è più difficile ancora trovare qualche musicista disposto ad essere paragonato all’aglio…

Pensa che negli anni Settanta, quando ha cominciato a incidere dischi, ci fosse un pubblico più sensibile a questo tipo di musica rispetto al pubblico di oggi?

In realtà, quando portai il nastro finito di Alla fiera dell’Est alle case discografiche ci fu addirittura chi si mise a ridere, perché era il momento “dell’impegno” e di parole d’ordine molto precise, mentre quella canzone era a sfondo religioso, spirituale… cosa a cui la musica per me è legatissima. Il mio maestro diceva che il talento senza il carattere non serve a niente, ed io, ammesso che avessi talento, di sicuro avevo originalità e carattere. Quindi riuscii ad impormi anche se ero diverso dagli altri. Oggi, invece, mi rendo conto che nonostante la diffusione clamorosa dei media, paradossalmente l’originalità, che dovrebbe pagare di più aiutando ad uscire dalla massa, paga di meno.

Come mai?

Perché al tempo in cui cominciavo io, parlando brutalmente, venivano dati cinque anni di tempo: si diceva “col primo album si perde, col secondo si va alla pari, col terzo si guadagna”. Oggi ci sono solo due possibilità: la prima e l’ultima. Per cui ora posso giocare in scioltezza i tempi supplementari e fare anche qualche golden goal, ma sicuramente se dovessi cominciare adesso sarebbe molto più difficile. In radio i tempi dei brani devono rispettare dei canoni precisi, che alla fine consegnano all’ascolto delle orecchie umane dei prodotti tutti simili, dai quali è inutile pretendere l’originalità. Viceversa, l’originalità ha bisogno di tempo per coltivarsi, non cresce dal nulla… solo i geni come Bach crescono dal deserto, mentre noi musicisti popolari abbiamo bisogno di tempo, di assorbire un’aria che magari sia ricca moralmente, razionalmente e soprattutto irrazionalmente.

Uno dei suoi ultimi lavori è stato la Lauda di Francesco. Come si è trovato a dover esprimere in musica un componimento interno a una religione definita come il cattolicesimo?

Molto bene! Io mica sono contrario alle religioni. Non ho mai detto se sono o no praticante, semplicemente perché la ritengo una cosa molto privata. Ma ho ben presenti le radici giudaico-cristiane del nostro vivere. Vede, ci ho messo mesi prima di dire di sì ai francescani, perché ritenevo la cosa un po’ al di là delle mie possibilità, non perché fosse lontana dalla mia sensibilità o dalle mie convinzioni. Poi c’è da fare una netta distinzione tra la musica spirituale - perché tutta la musica lo è - e la musica devozionale, che a volte purtroppo è molto brutta… come la famosa “messa beat” e altre cose scritte adesso, che non sono ispirate da Dio. E quindi io non volevo fare una cosa del genere.

Come ha reagito alla richiesta dei francescani?

Ho chiesto: «Ma perché lo proponete a me che sono un peccatore?». E padre Paolo Fiasconaro che è diventato un mio carissimo amico, ha risposto: «Lo chiediamo a te perché Dio sceglie sempre i peggiori», che è una frase geniale, piena di humor francescano. In Francesco ho visto tre cose, ho visto il santo, ho visto l’uomo e ho visto l’artista… perché molto spesso la gente dimentica, ma è scritto in tutte le antologie delle scuole medie, che il primo poeta della letteratura italiana è Francesco d’Assisi e la prima poesia della nascente letteratura italiana è il Cantico di Frate Sole o Cantico delle Creature. Questo l’ho tenuto ben presente. Quindi è stata un’operazione sì divulgativa ed evangelizzatrice come dicono i francescani, ma anche rigorosissima, nel senso che non mi sono inventato niente, è assolutamente aderente alle fonti francescane.
Tra le sue canzoni “storiche”, le mie preferite sono Confessioni di un malandrino e Il Signore di Baux, che rappresentano due aspetti della musica di un bardo: il sentimento, sia d’amore che di memoria, e la marzialità.
E anche esotericità… La leggenda racconta che i signori di Baux, sparirono dal castello in una sola notte, quindi la canzone è carica anche di potere emotivo, emozionale. La leggenda di Baux tocca le corde più nascoste, ecco perché in un certo senso fa venire il brivido.

Certe musiche riescono a toccare corde completamente opposte, spesso presenti in una stessa persona. Come è possibile, per un musicista, riuscire a rendere al meglio sentimenti tanto diversi?

Basta abbandonarsi. A differenza del mio amico Ennio Morricone, che ogni giorno si applica alla scrittura per tre o quattro ore, io non cerco: mi lascio un po’ trovare… Come si suol dire, non sei tu che suoni il violino ma è il violino che suona te: quindi lascio che arrivi la cosa e poi va da sé, è un mistero che voglio lasciare tale. Morricone dice che il 10 per cento è ispirazione e il 90 per cento è traspirazione, certo, ma quel 10 per cento è indispensabile per creare l’altro 90, sennò diventa musica puramente accademica, che non serve a nulla. In realtà io… con il piacere anche un po’ di tormento ed estasi, senza retorica… lascio che arrivi quello che deve arrivare, poi lo lavoro e magari lo getto, perché sono uno molto cattivo con me stesso… I kill my baby, come dicono gli americani… oppure lo accetto e allora vado avanti. Comunque monto e smonto il giocattolo tante volte prima di renderlo pubblico.
È un po’ l’immagine che il pubblico ha dell’artista…
Allora è quella giusta.
Negli ultimi tempi, grazie al cinema con i film su Il Signore degli Anelli, c’è stata una grande riscoperta di Tolkien…
Credo di essere stato uno dei primi a leggerlo in Italia.

… e come mai Branduardi non ha mai inciso una canzone ispirata da Tolkien? D’altra parte sarebbe un luogo ideale per le sue ispirazioni…

Ci ho provato con alcuni testi, scritti da Tolkien come canzoni, che erano già state musicate, secondo me male. Ho qui da qualche parte gli spartiti… ci ho provato a lavorare perché la musica era scritta da un signore del quale non ricordo il nome e non mi pareva bella, ma non sono mai arrivato a capo di nulla. Quindi confesso di non essere stato in grado. Farmi ispirare da un’opera letteraria così corposa, per comporre canzoni con testi scritti da me, mi avrebbe dato la sensazione di tradirla. Avrei voluto mettere in musica le sue parole, ma non ci sono riuscito D’altronde quando ho fatto la Lauda, non mi sono “ispirato a” San Francesco, ma ho ripreso le sue fonti.
Un cantante di successo può avere spesso molta influenza sui giovani. Ha mai avuto la tentazione di “lanciare messaggi” o esprimere una presa di posizione, come fanno molti suoi colleghi?
No, non mi ha mai neppure sfiorato la mente. Io ritengo la musica uno sguardo gettato al di là della porta chiusa: la musica è l’oltre o, senza essere retorico, il trascendente. Per me non è mai la realtà (per altri lo è), non corrisponde alla descrizione pratica di una realtà sociale, politica, economica… È Picasso, è la faccia con tre occhi… è uno sguardo gettato al di là del visibile. Quindi non mi interessa ciò che è qui ed ora, insomma, perché la musica è da un’altra parte ed estranea al momento. E poi non andrei mai a profetizzare… Vede, i musicisti sono persone un po’ border line, è il caso che siano loro ad essere presi per mano e portati da qualche parte. Spesso hanno bisogno che gli si insegni, molto più che viceversa.

Questo per il Branduardi artista. E per il Branduardi cittadino?

Be’, seguo molto quello che succede in Italia e nel mondo, mi documento, ho le mie idee, molto precise ma… posso dirle i giornali che leggo: il Corriere della Sera e il Foglio. Però non mi troverà mai a far casino. Perché, vede, spesso l’artista e l’uomo non coincidono. Infatti chi è inquieto cerca la pace e chi è in pace cerca l’inquietudine. Quindi diffidi molto di me che cerco la pace! Perché significa che sono un artista e un uomo inquieto.

Sassari Olbia subito!

"Civiltà cattolica" sdogana l'icona di Che Guevara

Adesso che lo fa anche La Civiltà Cattolica è davvero la fine per l’appropriazione esclusiva e ideologica di una delle icone più popolari del Novecento, quella di Ernesto Guevara de la Serna detto il Che, medico argentino, poi guerrigliero e anche giovane ministro dell’Economia – dimissionario per scelta a soli 38 anni – nella Cuba castrista, infine caduto in combattimento il 9 ottobre 1967 in Bolivia. L’autorevole rivista della Compagnia di Gesù elogia infatti il film che il regista Steven Soderbergh ha dedicato alla figura del Che Guevara (suddivisa in due film: Che-L’argentino e Che-Guerriglia), un lavoro che mostra «il doppio volto» di una delle figure emblematiche del XX secolo: il trionfatore dellarivoluzione cubana e lo sconfitto della guerriglia boliviana. «Il lavoro del regista conferisce alla lotta delle idee un peso superiore a quello della lotta dei corpi» scrive quindi padre Virgilio Fantuzzi, critico cinematografico della Compagnia di Gesù, in una recensione della pellicola che uscirà sul prossimo numero della rivista. Come a dire: c’è nella vicenda di Che Guevara qualcosa che cozza contro le interpretazioni rigorosamente marxiste della storia umana. «A cinquant’anni di distanza dalla rivoluzione cubana, oggi si può dire che le idee del Che e la sua strategia di lotta non sono più in auge anche perchè la storia le ha dimostrate fallimentari.
Eppure, la figura di quest’uomo – ricorda infine il gesuita Fantuzzi – ha esercitato un indubbio fascino sui suoi contemporanei e sui giovani delle generazioni successive». E qui ci torniamo su quel fascino dell’uomo- Guevara che non ha proprio niente a che vedere con l’adesione alle ideologie marxiste o leniniste e che – come ha ricordato bene Mario La Ferla in un reccente bel libro, L’altro Che (pubblicato da Stampa Alternativa) – s’è verificato anche a destra. Lo ha spiegato Francesco Guccini: «Guevara è ormai un mito fuori delle appartenenze politiche». Potenza e realtà dell’immaginario condiviso.

Di Luciano Lanna da Il Secolo d'Italia

venerdì 10 luglio 2009

Contrordine compagni

Lavoratori organizzati manifestano contro i manifestanti della sinistra terminata

Dalle prime ore del mattino di ieri circa 200 operai della centrale a carbone pulito di Torrevaldaliga nord a Civitavecchia hanno manifestato contro l'intrusione degli attivisti di Greenpeace avvenuta intorno alle 5 di mattina. I lavoratori hanno issato sulle gru dell'impianto grandi striscioni lunghi alcune decine di metri con scritto "Go Home!", "Bugiardi", "Sì al lavoro, no al blocco del cantiere"

"100% carbone pulito". Greenpeace, dicono i lavoratori, "rinfaccia la scelta di incrementare la produzione di energia elettrica con le centrali a carbone, ma non dice che la conversione a carbone pulito della centrale di Civitavecchia abbatterà le emissioni dell'88% e avrà valori di emissioni di

C02 ridotti del 18% rispetto al vecchio impianto".


I lavoratori non sanno però quanto Green Peace sia caro alle Sette Sorelle

Scritto da omniroma (tratto da Noreporter.org)


mercoledì 8 luglio 2009

Io sono un reazionario!

Io sono un reazionario.
Talmente reazionario che quando prendo il treno mi siedo di spalle alla direzione di marcia: così, tanto per avere l’impressione di procedere al contrario... Sono bigotto e conservatore, non me ne vergogno: conservo pure la carta igienica che uso per pulirmi il culo... Sono un po’ ecclesiastico, ma solo fino a quando madre chiesa condanna al rogo i peccatori e non se li perdona...

Io sono un reazionario.
Per me, anche il fascismo era troppo di sinistra progressista: con tutte quelle fisse d’essere proletario e quei richiami al popolo sovrano... lo stato sociale mi fa orrore e la socializzazione, un’aberrazione... Per non dire del nazismo che già dal nome si dichiarava socialista... A guardare bene dentro ai fatti della storia, io sto con Stalin... Baffone, sì, che era di destra e reazionario come me: lui di rivoluzioni ne stroncò due: quella russa e quella fascista... Eppoi, le masse sapeva tenerle a freno... Infatti, è morto nel suo letto: mica come quei sovversivi di Hitler e Mussolini...

Io sono un reazionario.
Ordine e disciplina, innanzi tutto: ogni movimento mi dà il mal di mare con annesso voltastomaco... Perché rimanere semplicemente fermi, quando si può restare assolutamente immobili? ...E giro armato: ho il porto d’armi perché la sicurezza, cari miei, è una gran cosa... Io sto coi tabaccai, coi gioiellieri pistoleri: a ogni azione, risponde una reazione uguale e contraria... "O la borsa o la vita", dicono i rapinatori? Eccola la mia eguaglianza: non ti do la borsa e ti tolgo la vita... Tanto, ci sarà sempre un magistrato che mi assolverà perché sono io, con tutte le tasse che pago (quando le pago...), a stipendiarlo.

Io sono un reazionario.
Sono antidivorzista ma per il ripudio della moglie fedifraga... Vado a puttane, qualche volta, ma sono contro la prostituzione... Sono abortista - dio mi perdoni - perché, tanto, ad abortire è chi non può permettersi nemmeno il lusso di avere un figlio: un peso per la società. Che, poi, alla fine, dovrei accollarmi io: meglio evitare... Sono contro l’immigrazione, anche se nella mia fabbrichetta ne ho assunti una trentina d'immigrati clandestini: li pago niente e non possono neanche rompermi i coglioni col sindacato...

Io sono un reazionario.
Benché ecclesiasta, sull’ama il prossimo tuo come te stesso ho delle resistenze: amo il lontano, l’irraggiungibile, l’incommensurato, l’iperuranio, il regno dei cieli. Perché, se io sono lontano da loro, loro sono lontani da me e non mi tangono... Il prossimo, invece, sì che mi tange: e mi infastidsce... Sono platonico e pure evoliano. Adoro San Francesco, ma non la povertà. Son finanziario. Aiuto il debole ad indebitarsi per comprarsi casa: sono umanitario. E, se non vuole il mutuo, ho pure una soluzione di riserva: ho 300 case. Sono affittuario... Lo faccio un po’ per celia e un po’ per non morire di quella miseria che chiamano pensione...

Io sono un reazionario.
Guardo il mondo con l’occhio americano: il terrorismo lo sconfiggiamo se facciamo finta che venga da lontano: mettiamo dall’Iraq o dal popolo afghano... Non siamo noi occidentali che lo procreiamo, sono gli altri che pretendono la luna: gestirsi i cazzi loro in casa loro. Roba da matti... Ve la portiamo noi un po’ di democrazia: che vuoi che sia se ti torturiamo un po'? Guantanamo, Abu Grahib sono le tappe della civiltà... Un giorno, non lontano, ci ringrazieranno. Come ringrazio ancora io chi m’ha liberato: in nome del popolo italiano...

Io sono un reazionario.
Tutti in galera quelli che difettano la legge. Oddio, non proprio tutti: che ci va a fare al fresco uno che ha fatto bancarotta? Anche se ha mandato per stracci qualche migliaio di lavoratori e famiglie annesse, Lui, mica può delinquere di nuovo... Mica ha sparato, mica ha spacciato cocaina: al massimo se l’è tirata su per le narici, la cocaina... Mica s’è sognato di fare la rivoluzione. La rivoluzione: che brutta parola, la parola "rivoluzione"... Io li impiccherei tutti quelli che vogliono fare la rivoluzione:

io sono reazionario...

Di Miro Renzaglia (http://www.mirorenzaglia.org/)

martedì 7 luglio 2009

Non fidatevi dei pensatori in carriera

Intellettuale e ribelle. Due «etichette» che un sacco di gente ha voglia di appuntarsi al petto, quasi fossero medaglie. Abbiamo provato a chiedere un parere a Massimo Fini. Uno di quei giornalisti e scrittori che davvero non sono abituati ad avere un padrone (per rendersene conto basta leggere la sua rivista, La voce del ribelle, o i suoi libri come Il dio Thoth, appena pubblicato da Marsilio).
Ha visto «Nemici pubblici» il carteggio appena pubblicato di Bernard-Henri Lévy e Michel Houellebecq?
«Certamente».
Sono due intellettuali «contro»?
«Onestamente no. Houellebecq lo conosco meno ma, certamente, Bernard-Henri Lévy è tutto fuor che un ribelle...».
Perché?
«Non ci si può fidare di quegli intellettuali che fanno parte di un sistema di potere. Lévy è un intellettuale molto inquadrato che dice delle cose ben precise e che vanno in una direzione sola: è filoamericano, filoisraeliano... Sarà mica essere scomodo questo... Un pensatore dovrebbe essere capace di prendere posizione di volta in volta...».
Eppure piace raccontare di essere perseguitati dal sistema...
«Fa fine essere “ribelli”. Però bisognerebbe essere staccati dai partiti... Questa è la vera caratteristica dell’outsider. Se io attacco Berlusconi e poi sono organico al Pd cosa conta? E viceversa ovviamente... Chiamiamola politica ma non lavoro intellettuale. Come diceva Stuart Mill, uno dei pericoli da cui il liberale si deve difendere è quello di farsi schiacciare dal peso della communis opinio...».
Ma in Italia c’è spazio per gli outsider?
«Molto poco. Una volta ce ne era di più, nei giornali piaceva avere almeno un bastian contrario... Era una foglia di fico ovviamente, una mezza porcheria, ma insomma...».
Spieghi...
«Per fare un esempio: quando lavoravo al Giorno diretto da Zucconi il giornale era dell’Eni. Il che vuol dire che era sotto il più totale controllo dei partiti. Io dalla mia rubrica, si chiamava Calcio di rigore, sparavo a zero su tutto il mondo della politica. Così se qualcuno accusava Zucconi di essere schiavo del potere lui rispondeva; “Ma se c’è Fini che dice e fa quello che vuole”. E quando qualche politico voleva la mia testa lui rispondeva: “Ma via, è una rubrichina, quel che conta è il resto del giornale...».
E oggi?
«La politica schiaccia tutto, restano degli spazzi minimi. Per portare avanti la mia rivista la Voce del ribelle io conto su un sacco di giovani che scrivono gratis. E sugli abbonamenti... Ma è una cosa per 4mila lettori, non di più...».
Giocando un po’: mi faccia il nome di qualche intellettuale italiano veramente ribelle.
«Siamo sinceri, non c’è bisogno di parlare di ribellione. Semplicemente l’intellettuale dovrebbe pensare e poi dire quello che pensa, esattamente come il giornalista. Non dovrebbe nemmeno essere considerata ribellione la scelta di non farsi ingabbiare dagli schieramenti».
Dei nomi...
«L’ultimo vero pensatore libero è stato Pasolini. Tra i giornalisti, per lungo tempo, riuscirono a smarcarsi Bocca e Montanelli. Oggi mi verrebbe da dire Ceronetti. È così atipico, o forse Severino...».
E di finti ribelli?
«Ma di quelli ne trova dove vuole... Sarebbe un elenco del telefono...».

domenica 5 luglio 2009

Solitudine filosofica e politica dei fedeli della tradizione

A Genova c'è un pensiero della destra cattolica e nazionale, con caratteristiche peculiari, che Piero Vassallo continua ad onorare con ricerche robuste e coraggiose. Si avverte in lui la cospicua eredità della scuola del cardinale Siri, che con la rivista Renovatiò, diretta da Baget Bozzo tentò il rinnovamento spirituale nella fedeltà della tradizione cattolica. Egli, laico fedele, affronta ora, dopo il fatuo trionfo suicida del progressismo babelico, la solitudine filosofica e politica degli autentici fedeli della tradizione... Egli non gode degli allori e delle prebende post mortem di certo clero che della lungimirante battaglia antimodernistica di Siri ha fatto, occasione di carriera nella fase di freno tardivo delle derive dei novatori secolaristi. Siri rimane un vero tomista non adulterato e camuffato tra i teologi presenti nell'episcopato dell'epoca conciliare. E tomista rimane Vassallo, pur tra pensatori cristiani che hanno profuso altri rivoli nelle acque limpide del rigoroso realismo del grande Aquinate. Mi riferisco alle scuole di Federico Sciacca, Cornelio Fabro, e Augusto del Noce, che da Rosmini e Kierkegaard hanno tratto movenze moderne. Nella specifica tradizione filosofica italiana Vassallo colloca come guide Giambattista Vico e Gentile, soprattutto l'ultimo Gentile, come filosofia cattolica italiana, vera cultura di una destra vera e giusta. Vera e giusta è la filosofia cattolica italiana se è logicamente e metafisicamente libera del tutto di ogni veleno gnostico, arcaico, moderno o postmoderno. Nell'economia di un dibattito sulla cultura di destra elencherò alcune conclusioni di Vassallo e qualche cautela sul sostegno da lui individuata in autori cristiani contemporanei.
Stupende la pagine sulla bellezza e la bontà della creazione della materia e della natura contro la svalutazione catara che giunge fino a Nietzsche e all'agonia illumininistica rovesciata in Novalis, e i falsi mistici del Grund primigenio. E pagine splendide si trovano sul cesarismo, sulla rivelazione primordiale. Storicismo senza storia, progressismo senza progresso, naturalismo senza natura, tradizionalismo codino e settario. La vera tradizione metafisica e cattolica è l'unica fonte di vero progresso civile, morale, spirituale per Piero Vassallo.
Il realismo gnoseologico si esalta in realismo politico nelle magistrali pagine in cui Vassallo analizza le derive occidentaliste e orientaliste che per eccesso o difetto non colgono il significato provvidenziale dell'impero americano di fronte ai totalitarismi del novecento e alla tenebrosa minaccia islamista, che sintetizza col giudizio dell'immoralismo maomettano segnalato da San Tommaso. E quando pone la netta distinzione (non separazione) tra l'ordine della mitezza della carità soprannaturale della Chiesa e l'ordine dell'impero nella storia. Egli richiama Sant'Agostino ai dossettiani che vedono l'alternativa europea all'impero americano, come se gli tati europei attuali fossero librati sul giusto riconoscimento dei principi cristiani! Contro un prevalente pericolo «sionista» Dossetti come Guénon, Garaudj, Alain de Benoist insieme allo storico medievalista Cardini e altri destri italici finiscono sognare una superiorità morale dell'islam ad uso dell'antiamericanismo europeo! Dunque la buona tempra del pensiero genovese rinverdisce nella solitaria testimonianza di Piero Vassallo. Egli mi fa rileggere l'Ultimo Maritain delle «cose del Cielo», che ha rotto con i fatui tomismi della nouvelle théologie che ha inquinato il concilio e i papi, si, caro Piero anche i papi, che mai tu vuoi toccare, distinguendo funzione carismatica e dottrina privata. Eppoi rileggo di un altro solitario, Andrea Galimberti, che da Aristotele, Leibniz e Kant, giunse a un realismo della «filosofia trascendentale del linguaggio» - ed. Paideia che lo introdusse nella genuina fede cristiana, ma non fu capito dal mondo di «giustizia e libertà» del suo cugino Duccio di Cuneo, da cui proveniva con Baratono e dal mondo cattolico, tra Siri e Sciacca, che all'università gli fecero ostacolo. E ancor meno capirono le schiere di neoteologi di galli e balletti della setta montiniana genovese, che combatteva Siri e Sciacca per motivi politici coperti dal tomismo prima maniera di Maritain, anche quello banalizzato nel sincretismo di babele. Solitudini che s'intrecciano e s'incontrano, a Genova fuori del potere della casta sinistro-gnostica con la filosofia del vangelo. Con Piero, come maccabeo del cattolicesimo, si può discutere in verità. Le pagine di «Memoria e progresso» (ed. Fede cultura) bolla a fuoco le tentazioni nefaste che la falsa filosofia ha scatenato nella chiesa di Roma.

La tradizione ha un grande futuro


Le interessanti considerazioni di Marcello Veneziani sul conservatorismo, ricche di suggestioni, meritano qualche approfondimento in un Paese, come l’Italia, dove la “sfortuna” di questa teoria è nota. Quasi una “maledizione”, infatti, si è abbattuta su di essa, impedendo la costruzione di un partito autenticamente conservatore come nelle grandi democrazie occidentali.
Forse perché si è sempre, sbagliando, associato il conservatorismo a modelli culturali reazionari o sterilmente tradizionalisti. Invece esso, prima che una dottrina politica, è un sentimento spirituale e una vocazione culturale. La consapevolezza di vivere per lasciarsi qualche cosa dietro, formare un’eredità riconoscendo, al tempo stesso, di essere eredi, è un modo di guardare alla vita in una forma che la trascende e contemporaneamente la rinnova.
«Chi non pensa che lo scopo dell’esistenza si realizzi nel breve istante, nel momento, nel tempo dell’esistenza stessa è un conservatore», scriveva Arthur Moeller van den Bruck. Da questo punto di vista, egli possiede il senso della storia a differenza del progressista che lo nega e del reazionario che neppure si pone il problema di salvaguardare ciò che merita di essere salvaguardato, ma si limita a reagire, con un moto contrario, a eventi che tendono a modificare l’ordine costituito quale esso sia.
Se il progressista disconosce continuità alla storia perché convinto che soltanto da un certo momento in poi è sorto ciò che merita di essere preservato e considera tutto ciò che c’è stato in precedenza come avvolto nelle tenebre, il conservatore sa distinguere ciò che è caduco da ciò che bisogna conservare in quanto valore; riconosce, insomma, ciò che permane e che è destinato a durare, combinandolo con l’innovazione senza tradire i principi ispiratori delle società organizzate.
In questo senso, un conservatorismo che potremmo definire “creativo”, che non si appaga della contemplazione del passato, ma sa far vivere ciò che merita nella modernità, si distingue dal tradizionalismo inerte in quanto in esso domina la componente dinamica a differenza del secondo caratterizzato da un atteggiamento puramente di rifiuto che lo condanna all’impotenza.
Ciò non vuol dire che la difesa della Tradizione non sia uno degli elementi qualificanti il conservatorismo, tuttavia non lo esaurisce. Coerente con il ripudio della staticità, il conservatorismo assume le fattezze politiche - come accade negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e in parte anche in Francia - a cui si è naturalmente portati a ricondurlo anche perché, come ha scritto Karl Mannheim, esso implica «un’omogeneità inerente più generalmente alla visione del mondo e ai sentimenti, che può spingersi fino alla costituzione di una determinata forma di pensiero». Da qui l’irriducibilità del conservatorismo al tradizionalismo e la differenza tra l’agire dell’uno rispetto all’altro. Il conservatorismo, sempre secondo Mannheim, «esprime una continuità storicamente e sociologicamente afferrabile, che è sorta in una determinata situazione storica e sociologica e si sviluppa in diretta connessione con la storia vivente».
Basterebbero questi riferimenti per fugare l’immagine “passatista” del conservatore e della sua conseguente improponibilità nel lessico e nella prassi politica del nostro Paese. Com’è facile intendere, in Italia il conservatorismo non ha avuto fortuna poiché è mancata un’adeguata riflessione su questa formula. Tanto la scienza politica quanto la pubblicistica non l’hanno degnata della considerazione che meritava, non foss’altro per aver avuto padri nobili e indimenticabili come Edmund Burke, François-René de Chateaubriand e, più vicini al nostro tempo, Leo Strauss, Eric Voegelin, Russell Kirk; senza dimenticare gli italiani Giuseppe Rensi e soprattutto Giuseppe Prezzolini, il quale ammoniva che il «vero conservatore si guarderà bene dal confondersi con i reazionari, i retrogradi, perché intende “continuare mantenendo” e non tornare indietro e rifare esperienze fallite, sa che a problemi nuovi occorrono risposte nuove, ispirate a principi permanenti, si sente rinnovatore delle leggi eterne dimenticate stupidamente, nascoste ipocritamente, trascurate impotentemente, violate quotidianamente».
È immaginabile una “rivoluzione conservatrice” in Italia? Se le forze politiche e culturali che si oppongono alle devastazioni della decadenza e del nichilismo prendono contentezza che è necessario agire sul piano delle idee per trasformare il Paese, al di là dell’ordinaria amministrazione, qualche speranza è possibile nutrirla. Se, al contrario, si abbandonano nel deserto del politicismo sperando che le piante del rinnovamento spuntino senza coltivarle, è fatale che la prospettiva conservatrice resterà sullo sfondo del palcoscenico della cultura a rappresentare impotentemente uno stato d’animo, un sentimento, nella migliore delle ipotesi una visione del mondo, per quanto nobile, comunque impraticabile.
Nonostante tutto, continuiamo a credere che l’etica pubblica, la sovranità dei popoli, la salvaguardia delle identità culturali non siano anticaglie delle quali poter fare a meno: poco male se appartengono all’universo conservatore verso il quale i “fabbricanti di opinioni” possono opporsi con la fragilità delle loro ideologie destinate a sbriciolarsi davanti alla forza di idee vitali e perenni. Perciò un movimento che voglia assumere come suo modello il paradigma conservatore in qualche modo ipoteca il proprio futuro spazzando via le piccole ambizioni peraltro storicamente superate. All’insegna, ci auguriamo, di quel che diceva Paul Claudel: «Prima che si modifichi il mondo, sarebbe forse più importante non distruggerlo». Un conservatorismo creativo, ma anche “ecologico”, insomma.
(di Gennaro Malgieri)