venerdì 31 dicembre 2010

Caso Battisti: lettera familiari Torregiani a governo, ora massima trasparenza


I familiari di Pierluigi Torregiani, il gioielliere assasinato da Cesare Battisti, hanno scritto una lettera aperta al presidente del Consiglio e a tutto il mondo della politica per invocare "trasparenza" dopo la decisione del governo brasiliano che ha negato l'estradizione dell'ex terrorista. La lettera aperta e' rivolta a tutti i ministri della Repubblica e, per conoscenza anche al Capo dello Stato e ai presidenti di Camera e Senato.

"I sottoscritti Alberto Torregiani, Adriano Sabbadin, Maurizio Campagna e Alessandro Santoro in qualita' di stretti familiari di Pierluigi Torregiani, Lino Sabbadin, Andrea Campagna e Antonio Santoro caduti per opera del terrorista Cesare Battisti, vogliono esporre le loro considerazioni. Gia' da ieri - si legge - si ha notizia, dai media italiani e stranieri, della ormai certa mancata concessione dell'estradizione del terrorista Cesare Battisti dal Brasile in Italia affinche' questi espiasse la giusta pena comminata dal nostro Ordinamento Giudiziario nell'ambito di ben tre gradi di giudizio".

"Si desidera concretamente conoscere nel dettaglio tutte le iniziative ed i relativi tempi che il nostro esecutivo intenda attuare, nella persona del Presidente del Consiglio e dei singoli Ministri degli Affari Esteri, di Giustizia, dello Sviluppo Economico e/o di ogni altro Ministero, in relazione alla vicenda in oggetto. Stante l'enorme rilevanza di quanto sta accadendo che lede lo stato di diritto Italiano, riteniamo che detta informativa, debba essere portata a conoscenza di tutto il Paese affinche' i nostri concittadini possano anche ritrovare un senso o una giustificazione che ha comportato la morte dei nostri cari".

Con il 2010 è finito l'anno dell'escort e di Nichi

È finito l’anno della Mignotta. Personaggio chiave della poli­­tica italiana, anel­lo di congiunzio­ne tra la stampa e la magistratura, punto di ristoro e di agguato per il premier, è stata la speran­za estrema della sinistra e dei poteri loschi per sovvertire la sovranità popolare. Dissento da Paolo Guzzanti, studioso del fenomeno, che usa la defini­zione di Mignottocrazia: riten­go che non si tratti di potere nel­le mani delle mignotte, ma di mignotte nelle mani del potere che le usano per allietare o ro­vesciare i governi e consentire l’alternanza a dispetto degli elettori.

Alla Mignottocrazia preferisco la definizione etni­co- paesaggistica di Zoccolan­dia, più ridente e più aderente a un paese in cui prostituirsi è mestiere diffuso non solo tra le donne. È finito l’anno di Italo Bocchi­no. Meteorite piovuto da una galassia lontana, l’asteroide ha assunto il nome del posto dove è precipitato, l’Italia, e l’accento del luogo in cui fu trovato, il Casertano. Fervo­no studi sull’origine del co­gnome. Nessuno sapeva a che titolo fosse divenuto il perso­naggio dell’anno. Il suddetto asteroide ha monopolizzato le telecamere più di Belen, im­perversando dappertutto, in­cluse le previsioni del tempo. La gente disperata si era ridot­ta a rifugiarsi nella pubblicità per non vedere e sentire il Boc­chino che sentenziava sulla vi­ta e la morte di governi, premier, partiti e alleanze, giornali e giornalisti, appalti in Rai e subappalti in Campania. Si confida nell’inceneritore di Caserta. È finito pure l’anno del suo seguace, il Bocchino-dipendente Fini, un tempo leader di un partito e ora libero professionista con studio in Camera. È finito l’anno di Nichi Vendola, l’omo della provvidenza, protagonista assoluto della sinistra. Auguriamoci che sia lui il candidato premier per quattro ragioni.

1-riporterebbe in politica l’alfabeto delle passioni ideali, se non i contenuti almeno le parole che danno dignità alla politica. 2-Da rompiscatole doc dimostrerebbe che il Pd è una scatola vuota. 3-Sarebbe divertente come avversario, con le sue «affabulazioni» e la sua curiosa personalità ben delineata da Galli della Loggia e Checco Zalone. 4-Libererebbe la mia Puglia da un governatore che non amministra e lascia malgovernare. Perciò lo vogliamo a Roma. Non so perché, ma lo vedrei bene con i capelli della Polverini. Quei capelli a tendina, tipo Cleopatra der Tufello, gli addolcirebbero lo sguardo inquietante e la testa bombata. È finito l’anno di Napolitano che oggi rivolgerà gli auguri agli italiani. Tutto sommato nel 2010 si è comportato in modo dignitoso ed equilibrato. Non ha colpa se è portatore sano della sinistra presente, del comunismo passato e della vecchia partitocrazia. E ancora meno ha colpa personale se la sua inflessione e perfino il suo cognome evocano a molti la monnezza e la camorra.Lo vedo un po’ accasciato; sarà l’amor patrio ma mostra tutti i 150 anni dell’unità d’Italia.

È finito l’anno di Mauro Masi, l’uomo più impotente d’Italia. Un tempo il direttore generale della Rai era ritenuto l’uomo più potente d’Italia. Invece il povero Masi deve prendere ordini dall’azionista, cioè il Tesoro, dal premier e il suo governo, dal Parlamento, dalla Commissione di vigilanza Rai, da una marea di authority, sindacati e associazioni, dai suoi stessi dipendenti, da primedonne e magistrati che decidono chi mandare in onda e che programmi fare. Subisce i programmi di successo della Rai, è costretto a opporsi agli ascolti. Un suo provvedimento contro qualcuno si trasforma in gratifica, una sua censura equivale a una promozione, i suoi ordini vengono coglionati anche nel video della sua stessa azienda, la sinistra lo disconosce, ma anche il centrodestra fa finta di non conoscerlo. Un magistrato di buon cuore lo reintegri con l’anno nuovo nell’ufficio reclami della Rai. È finito l’anno di Lady Gaga, eletta star numero uno del pianeta. Nata in laboratorio da un accoppiamento a distanza tra Madonna e Michael Jackson, frutto di una miscela chimica tra ormoni pop e ovuli rock, la sua esistenza è incerta.

C’è chi la reputa uomo, chi trans, chi ermafrodita, chi un fumetto, una bambola fatta di vestiti assurdi con la suoneria custodita tra le scapole. L’italoamericana Stefani Joanne Angelina Germanotta cerca ad ogni costo la trasgressione. Il sesso è poco, ci vuole altro per violare i tabù, e così si accanisce su religione, infanzia e morte. Troppo scontato. Oggi la vera trasgressione è la tradizione. Suor Germanotta prenda i voti e usi il cilicio, preghi col rosario. Sarà quella la vera trasgressione, se lo farà di nascosto dal pubblico, magari a casa sua appena finirà quest’anno di celebrità mondiale.

È finito l’anno di Elton John neo-mamma. Tutti a congratularsi con la rock star e con suo marito per il figlio in provetta. Nessuno che abbia avuto il coraggio di indignarsi per la mortificazione della donna, ridotta ad animale sfruttato, anzi a macchina per sfornare figli e poi cederli al danaroso acquirente. Il dogma gay schiaccia anche i diritti della donna e la denuncia dello sfruttamento biologico dei ricchi sui poveri. A proposito di figli, meglio l’esempio delle 113 mamme francesi che qualche giorno fa sono andate a prendersi i rispettivi bambini adottivi, rimasti orfani per il terremoto di Haiti. Erano belle a vedersi quelle mamme raggianti che hanno dato un futuro a quei bambini.

Erano belli a vedersi quei bambini benvestiti che guardavano con stupore l’aereo e poi Parigi, nei loro occhi splendeva l’incanto di una rinascita dopo il dolore e il terrore. Piuttosto che i capricci di una gay- star che vuole un bambolotto tutto suo e lo commissiona a un utero in affitto, meglio quelle mamme che hanno salvato dalla miseria e dai ricordi atroci quei bambini. Benvenuti in Europa, bentornati alla vita.

(di Marcello Veneziani)

mercoledì 29 dicembre 2010

Altro che Ruby, “donna Rachele” è vero feuilleton


Un soggetto del genere nessuno avrebbe avuto il coraggio di scriverlo, né tantomeno di metterlo in scena. L’ex ragazzo con il maxi cappottone di pelle, il delfino di Almirante, il protagonista dello strappo con qualsiasi cosa, compreso quello con il premier, ha strappato di dosso un completino di pizzo (lavoriamo di fantasia) a una escort di nome Rachele? E per rendere la pochade più iperrealista la ragazza sarebbe persino di Reggio Emilia. Potenza del feuilleton, magnetismo del nome della moglie di Mussolini, evocazione della terra che diede i natali al duce, qualcuno ci crede. Per le escort del premier nomi esotici o nella tradizione: Patrizia, Nadia, Ruby e Noemi. Per Fini un bel tuffo retrò nel passato: Rachele.

La notizia parte dal “Giornale”. Le foto di Rachele e il link al sito di appuntamenti Escort.inn circolano già sul web. «Rachele, italiana, Escort in Reggio Emilia / Splendida escort, appena tornata a Reggio Emilia. Ciao sono Rachele Italiana, giovane, elegante, molto sexy e provocante, sono una modella pronta ad esaudire ogni tuo più particolare desiderio, posso riceverti o raggiungerti con un pò di preavviso. Sono esperta di feet job e sono una severa padrona e se lo vuoi anche con pioggia dorata e cioccolata. Chiamami ti aspetto per farti godere!!! Disponibile anche per cene e spettacoli hard di alto livello».

A conoscere le lingue e le perversioni, la signorina dimostra di avere talenti, fantasia e disponibilità, anche culinaria. Ma la rete vomita annunci di gran lunga più fantasiosi di quello della bella Rachele. Nessuna certezza sui fatti e neppure sull’identità della signorina, ma grande scoop per la testata che lo ha lanciato e gran bella pubblicità per la misteriosa e versatile Rachele.
Sui trent’anni, tacchi vertiginosi e pantaloni di pelle, e una gran voglia di chiacchierare: «Il presidente della Camera è stato con me tre volte, pagava 2mila euro per il mio silenzio». Si definisce “di destra” e proprio per questo ha scelto come nome d’arte quello della moglie di Mussolini. Il primo incontro a novembre 2009. Fini con l’auto blu e la scorta fuori ad aspettare (come Marrazzo), la cifra 500 euro ma la cifra arriva rapidamente a 2.000 (la stessa di Patrizia, garanzie sul residence escluse). Altri due appuntamenti a maggio e a settembre di quest’anno. Poi il silenzio. Anche le escort, come le formiche, si incazzano. Molto più delle formiche e con più tempismo. Sono cicale loro, mica hanno tempo da perdere. Rachele sull’onda del fango fa il surfing da professionista. Il filmato gira da mesi nel suk degli scandali, ma questo è di sicuro il momento giusto.

Le bombe meglio farle espodere a grappolo. Mesi di gigantografie dalla piantina della casa di Montecarlo, delle stigliature della cucina Scavolini e del citofono con su scritto con grafia incerta “Tulliani”, non sono bastati. Il leader ribelle, sconfitto in aula, deve essere definitivamente annichilito. Finti attentati e bombe del sesso dovrebbero bastare a fare terra bruciata.

“Libero” e “il Giornale” in trincea, Fini il bersaglio, ma in ballo c’è anche la guerra degli scoop di due giornali che si litigano copie, firme, e persino i direttori. Chi vincerà nella guerra delle copie? Chi conquisterà stabilmente il target di centrodestra, quella pancia del paese evocata così di frequente da ricordare i macellai di una volta? Scivoliamo via dalla macelleria e ci rifugiamo nel gossip da parrucchiere. Non vogliamo più sentire i colpi di mortaio. Un momento, sembrano aver cambiato direzione… stanno sparando a Fini o i direttori si stanno sparando tra di loro?

(di Cinzia Leone)

Destra maldestra una lite da sinistra


Dal governo c’è chi ha chiesto le dimissioni di Fini da presidente della Camera, il quale aveva chiesto le dimissioni di Berlusconi. Anche tra i farefuturisti c’è chi preferirebbe un Fini dalle mani istituzionalmente libere.

Il centrodestra è diviso come neanche il centrosinistra prodiano. I giornali d’area, litigano tra loro come organi di correnti in lotta. I direttori fanno quel walzer di poltrone che hanno sempre rinfacciato a quelli di sinistra - coiè chiunque non fosse berlusconiano - come De Bortoli & Mieli. La casta dei progressisti, dicevano. Ma il ballo di fine impero piace anche a loro.

L'egemonia culturale, ottenuta attraverso i potenti mezzi di distrazione di massa del Cavaliere, sembra lasciare in eredità infrastrutture in abbondanza - tv e derivati, spesso utilizzate anche dagli avversari - ma poche idee. Al governo, è incarnata dal peggior poeta più conosciuto in Italia - Sandro Bondi non ha la colpa crociana d’esser poeta, ma di aver votato all’amor cortigiano-politico una produzione lirica cui fa velo, in negativo, solo la sua malagestione ministeriale. Ma di fatto, l’egemonia oscilla tra l’agonia - di idee e contenuti - e l’euforia - dei costumi, o malcostumi. In questa terra desolata della destra al potere, per volare alto bisogna probabilmente aspettare il ritorno, quasi annunciato, di Giuliano Ferrara in tv. Teo-cabarettista, intellettuale che da sinistra è andato a destra e poi in alto, ma che ha nostalgia del ventre, intellettualmente a terra, della tv, dove si vincono le vere battaglie.

In occasione dell’uscita di “Cabaret Voltaire. L’islam, il Sacro e l’Occidente” due anni fa, Pietrangelo Buttafuoco parlava di una destra che assomigliava alla sinistra, ma in maniera senile. E non si riferiva all’età di Berlusconi, seppure si presti come metafora biecamente biologica, ma a quella destra, finiana e non solo, che tradiva la difesa della tradizione per un giro, preso all’ultimo, di trasgressione. Di fatto, imitava la sinistra nei suoi tic, faceva proprie le sue categorie, sdoganava - ad esempio con l’attivismo pop culture de Il secolo d’Italia e i libri di Luciano Lanna e Angelo Mellone. Togliattiano è stato il legame tra Fini e molti suoi intellettuali, almeno in una certa fase, quella bocchiniana: pifferai della rivoluzione farefuturista (non senza spunti originali, di vitalità e, in un certo senso, regalando reminescenze, si parva licet, della figura archetipica dell’intellettuale organico, Martinetti: e infatti, un comunista siciliano, italiano, come Elio Vittorini coniò il famoso motto degli intellettuali che non devono suonare il piffero).

Destra e sinistra sono categorie ormai geneticamente modificate, assi cartesiani un po’ sballati, già posti male con il socialismo mussoliniano, fino al trasformismo di Berlusconi, passando per il cerchiobottismo Dc e recenti anni di neo-qualunquismo vario – prima Lega, FI, Idv, Grillo… - ma sembrano, oggi, come scrisse Valerio Magrelli in una poesia adattata come proprio laico addio al Pd binettiano, due guanti uguali. Perché uno, a turno, viene rivoltato e, dunque, è del tutto identico all’altro. Per Magrelli e altri, il Pd assomigliava, come partito, al centro-destra. Per Buttafuoco è la destra occidentalista, anti-tradizionale, alla Fini, ad assomigliare alla sinistra.

In maniera senile. Dai risultati, non ultime le reciproche campagne Feltri vs. Sallusti, Belpietro vs. Fini, Sallusti vs. Belpietro, si direbbe che la senilità della destra è molto attiva. Ma forse per l’ e-lettorato, moderato e non amante delle risse, dello scissionismo del capello, potrebbe sembrare qualcosa di maldestro, più che destro. Come maldestra è la destra che dopo la sortita antiberlusconiana di Fini, lo smarcamento, assiste ad un attendismo che è quasi un riposizionamento fallito.

(di Luca Mastrantonio)

L'antiberlusconismo nasconde l'assenza di idee


La sinistra sta implodendo. Perduta l'ultima occasione, quella della sfiducia a Berlusconi, è ripresa la guerra intestina che da quattro anni e mezzo la lacera. Prodi è stato la vittima più illustre dell'insana ordalia, ma anche altri leader sono stati bruciati nel rogo di una coalizione senz'anima, popolata da tanti rancori. Qualcuno, comunque, forse per disperazione, ritorna. L'ultimo è Walter Veltroni, senza dubbio il più dotato del Pd, mentre il suo antagonista D'Alema, sempre più allergico alle critiche, sta inabissandosi nel suo narcisismo. Veltroni, nonostante gli errori commessi, complice anche Repubblica, non è detto che non ce la faccia a risalire la china e riprendersi il partito che ha contribuito più degli altri (insieme con Fassino) a fondare.

Se l'operazione non dovesse riuscirgli, è probabile che se ne inventi una tutta nuova, lasciando l'evanescente Bersani al guinzaglio della vecchia nomenklatura. L'ex-segretario può contare su una settantina di parlamentari e su una vasta rete di supporter in tutt'Italia: la prospettiva inquieta i dirigenti del Pd i quali, per di più, sono scossi dalle iniziative dei "margheritini" di Fioroni e Marini e dai prodiani ulivisti doc. Sia gli uni che gli altri sono ad un passo dall'abbandono del Pd. I primi cercano sponde nel fronte moderato (non è escluso che qualcuno approdi addirittura alla corte del Cavaliere); i secondi non sanno bene dove collocarsi ma accusano il segretario di aver «perso il bandolo della matassa» e non gradiscono che «le decisioni vengono prese ovunque tranne che nelle sedi competenti».

Perciò Parisi, Barbi, Soliani, Santagata, La Forgia e qualcun altro si riservano «il diritto di decidere caso per caso sulla linea da tenere sui provvedimenti che arriveranno in Parlamento». Berlusconi, assistito dalla fortuna, incassa divertito. Bersani, oltretutto, non sa che pesci prendere. Se si avventura ad ipotizzare un'alleanza con Vendola e la sinistra estrema è certo di perdere consensi moderati; se, al contrario, corteggia Casini e l'inesistente, per adesso, Terzo Polo, sa che dovrà rinunciare ad una buona fetta di elettori post-comunisti: lo zoccolo duro, insomma. Mai come in questi frangenti ci viene di consigliargli la rilettura di Che fare? di Lenin, consapevoli che comunque non l'aiuterà. Sul fronte dipietrista gli scontri, cominciati oltre un anno fa con un'inchiesta corrosiva pubblicata da Micromega sulla questione morale nell'Italia dei Valori, si susseguono senza esclusione di colpi. Le recenti fuoriuscite dal partito di due deputati hanno attizzato i livori contro il leader molisano. Dal suo delfino Luigi De Magistris, spalleggiato dall'eurodeputata Sonia Alfano e dall'animatore della rivista che aprì il contenzioso, Paolo Flores d'Arcais, viene, infatti, additato come responsabile di tutti i mali che stanno minando le basi di un movimento che aveva fatto della moralità e della legalità i capisaldi della sua azione politica. In soldoni: i "dissidenti" non tollerano più che Di Pietro, custode della cassaforte del partito, continui ad essere il padre-padrone dell'Idv e gli imputano candidature a dir poco avventate posto che in pochi anni otto parlamentari hanno cambiato casacca.

L'ex-magistrato non è rimasto inerte e, privo del microfono che Santoro gli offre quasi ogni giovedì, ha replicato dal suo blog a De Magistris rinfacciandogli velleità golpiste; insomma gli ha detto chiaro e tondo che il suo posto non è a disposizione e la cessione non è all'ordine del giorno. Flores d'Arcais, non vola più tanto alto nei cieli della filosofia e, sceso dalla Repubblica di Platone tra la feccia di Romolo, ha fatto sapere a Di Pietro che il 74% dei lettori di Micromega, tutti giustizialisti di provata fede, ritiene che una grave questione morale nell'Idv esista. La telenovela andrà avanti chissà per quanto. Insomma, la coalizione sconfitta nel 2008, non soltanto risulta, con tutta evidenza, incapace di produrre una chiara proposta politica, ma è costretta a rimettere insieme i cocci per tentare di sopravvivere all'implosione che si è sviluppata al suo interno. Molte sono le cause di tale disastro, dalla gestione ai personalismi, dall'amalgama non riuscito nel Pd all'autoritarismo selvaggio nell'Idv. Ma ce n'è una che spiega il fallimento di questa sinistra: l'assoluta mancanza di idee nascosta, neppure tanto abilmente, dietro ad un antiberlusconismo ossessivo che le ha impedito di costruire un'alternativa. Con questi avversari, la navigazione del Cavaliere non sarà perigliosa come qualcuno, nello stesso centrodestra (ed oggi nella terra di nessuno), si augurava.

(di Gennaro Malgieri)

Querelano ma hanno ucciso la Destra


Ho trovato divertente il finto scoop sul finto agguato al finto leader, il presidente GianFi­tzgerald Fini. Dopo la finta indignazione aspettiamo ora la finta rivendicazione del­­l’attentato, e magari il finto arresto, così com­pletiamo il circolo della finzione. Io però vor­rei tornare alla realtà per capire cosa c’è di vero e di vivo nella destra di oggi, dopo un anno terribile che l’ha de­capitata, lacerata e mozza­ta. Dico la destra, non il centrodestra nel suo com­plesso, non il Pdl berlusco­niano. Ne ricostruisco la storia per capire il presen­te.

C’era una volta una de­stra piccina ma compat­ta, che però riduceva la più ampia e più variegata destra al piccolo mondo missino, animato dalla nostalgia e da un ra­dicalismo politico, etico e ideologico tipico di chi vuol testimoniare un’idea e un’appar­tenenza, senza modificare la realtà. In quel tempo c’era una fiorente galassia di piccoli giornali, riviste, aree che si definivano di de­stra. Poi venne la mutazione necessaria e sa­lutare in un partito di destra più ampio e me­no retrospettivo, chiamato Alleanza nazio­nale. Un partito che non seppe darsi conte­nuti all’atto della svolta, ma compì un salto nel tempo e nel modo di pensare la politica. Il suo ruolo nell’ambito del centrodestra non fu mai egemone ma via via decrescente; fino a diventare quasi irrilevante sul piano politico, culturale e pratico. L’omologazio­ne di An andò di pari passo con l’insofferenza crescente del suo leader verso Berlusconi, fino a remare contro (ricorderete le elezio­ni del 2006).

Divenuto ormai un pallido clone di Forza Italia, incapa­ce di bilanciare il ruolo della Lega, avvertendo un’immi­nente emorragia di consen­si, An si sciolse come burro e confluì nel Pdl, metà soddi­sfatto e metà malvolentieri. Vinte le elezioni, incassati i dividendi e gli incarichi, a co­minciare dalla presidenza della Camera, avviò la mar­cia contro Berlusconi.

Resto dell’idea che sia stato un erro­re l’estate scorsa non acco­gliere la critica di Fini all’inesistenza del Pdl: primo per­ché era motivata, secondo perché poteva essere l’occa­sione per rifare il Pdl; terzo, perché trasferiva la tensione dal governo al partito, argi­nando la bufera. Ma la storia non si fa con i se, e Fini ormai da troppo tempo non soppor­tava Berlusconi, sperava nei giudici e nello sfascio. La sua operazione ha avuto un sostegno mediatico senza precedenti, branchi di lupi si sono raggruppati per attacca­re il governo: giornali, cortei, partiti, lobby, poteri. Però do­po la sconfitta del 14 dicem­bre i lupi si sono dispersi o sono rientrati nelle loro ta­ne. E i fuoriusciti finiani han­no dovuto rinunciare pure al racconto consolatorio che stavano dando vita a una destra nuova, autonoma e mo­derna, perché sono finiti co­me una costola di quel che re­sta della vecchia dc, sotto la leadership di Casini, al fianco di Rutelli, La Malfa e Lom­bardo (baciamo le mani).

Certo, la polverizzazione del­la destra è avvenuta di pari passo con la mortificazione della sinistra. E tutto questo è accaduto per un parados­so: il passaggio dal bipolari­smo al tentato bipartitismo ha prodotto la scomparsa della destra e della sinistra. Per la prima volta nessuna formazione politica in Parla­mento si definisce aperta­mente di destra o di sinistra. Veltroni liquidò la sinistra, facendo nascere il P d e azze­rando la sinistra. E Fini ha completato l’opera sull’al­tro versante, liquidando la destra in tre mosse: scioglie An, sfascia il Pdl e convoglia i residui del Fli nel terzo po­lo. Entrambi incolpano il ber­lusconismo del duplice omi­cidio, ma si tratta di due sui­cidi. Ora si pone un problema: fallito il Fli, cosa resta della destra in Italia? Vedo singo­li, a volte rispettabili, politici che provengono da quella storia e fanno il loro mestie­re. Vedo frammenti, piccole fondazioni che ricalcano gli ultimi scampoli delle vec­chie correnti di An, ma non c’è un soggetto che le coordi­ni, non un’area, non un gior­nale, una rivista, una fonda­zione, una cabina di regia che dentro il centrodestra co­stituisca il suo riferimento. Il nulla. Allora pongo alcune do­mande finali a i signori di de­stra, di vertice e di base, elet­tori inclusi. Vi sta bene così? Ritenete che la destra abbia ormai esaurito la sua missio­ne storica e politica e che al­tre debbano essere oggi le fonti della politica e, se pos­so permettermi di sapere, quali? Preferite riconoscervi dentro un gran contenitore e poi ciascuno coltiva private predilezioni e civetterie? Sie­te in attesa vigile sotto coper­ta e aspettate di riaffiorare quando finirà questo ciclo e allora giocoforza da qualche punto fermo bisognerà parti­re? Rispondete a vostra scel­ta a solo una di queste do­mande. Qualunque sia la ri­sposta sarà benvenuta, per­ché vorrà dire che nel frat­tempo non vi siete liquefatti o assiderati.

P.S. Per tornare a divertirci come all’inizio, ripenso al fin­to incontro del finto leader con una sedicente escort. La storia mi sembra finta per tante ragioni, ma per una so­pra tutte: mai Fini andrebbe con una donna di nome Ra­chele. Il suo antifascismo gli impedirebbe di imitare il creatore del Male Assoluto.

(di Marcello Veneziani)

martedì 28 dicembre 2010

La disoccupazione? Colpa dei genitori


Bei tempi quando il famoso «pezzo di carta» dava il diritto ad entrare tra la gente che conta! Un lavoro importante, un bello stipendio: per molti era il biglietto da visita dell’emancipazione sociale oppure la conferma di appartenere alla classe dirigente della nazione. Era un altro mondo. Brutta cosa avere nostalgia del passato, ma quando lo sguardo all’indietro spiega un percorso sbagliato, la nostalgia si prende la rivincita. Cosa si è sbagliato? Ma, intanto, perché si è sbagliato?

Nella media europea l’Italia ha pochi laureati e molti disoccupati laureati. Senza scomodare ancora le statistiche, è invece sotto gli occhi di tutti l’assenza di artigiani qualificati. In questi ultimi cinquant’anni, abbiamo avuto un grande sviluppo di impiego «astratto» e una perdita secca di lavoro «manuale». È il risultato di una visione culturale messa in atto dalla politica più vicina all’idea che lo sviluppo egualitario della società fosse la scelta giusta da perseguire attraverso lo studio universitario. La laurea diventa così, per molti genitori di umili origini, l’obiettivo che i propri figli avrebbero dovuto raggiungere per riscattare la povertà famigliare.

Quante volte nei miei anni di insegnamento mi sono sentito dire: «Abbiamo fatto tanti sacrifici che lei neppure se lo immagina, professore, per far studiare nostro figlio. E adesso che si è laureato - l’ha laureato lei, si ricorda? - è disoccupato da più di un anno. Ci aiuti: cosa dobbiamo fare?». E io non posso farci, purtroppo, niente.

Quella divisione sociale, che certa politica di sinistra pensava di superare facendo tutti dottori, non soltanto non è stata superata, ma è diventata molto più crudele di un tempo. Adesso abbiamo laureati, avvocati, ingegneri, architetti, che hanno buoni guadagni perché lavorano nello studio del padre; e poi abbiamo il gran numero di laureati disoccupati semplicemente perché sono figli di nessuno, di nessun professionista. Sono senza lavoro e, per di più, frustrati, delusi: forse ancor più delusi e frustrati i genitori rispetto ai figli con quel «pezzo di carta» che è costato tanto e che non serve a niente. Ovvio, la regola ha le sue eccezioni: per fortuna e per bravura c’è ancora chi, pur figlio di nessuno, riesce ad aprirsi la strada. Ma è una piccola minoranza.

D’altra parte, cosa dovrei dire a quei genitori sconsolati, talvolta - vi assicuro - disperati, che vengono a chiedermi aiuto? Dovrei spiegare che le lauree universitarie sono cose per disoccupati, quando nell’università sorgono come funghi le più allettanti (in apparenza) «offerte formative», che prevedono i più impensabili, fantasiosi e assolutamente inutili corsi accademici come, per esempio, quello sul «benessere dei cani e dei gatti» (giuro che è così)?

Il ministro della Pubblica istruzione sta facendo un po’ di repulisti in questi corsi di laurea velleitari che, comunque, non si dimentichi, non sono sorti per colpa di un destino cinico e baro, ma dalla testa dell’ex ministro della Pubblica istruzione, Luigi Berlinguer.

Finalmente, quello che con franchezza non riesce a dire il professore, lo dice adesso il ministro Sacconi. È stata sistematicamente distrutta la cultura del lavoro; è stato umiliato il lavoro dell’artigiano, quasi fosse un’attività per deficienti e, di conseguenza, è stata costruita un’impalcatura scolastica con cui si è azzerato il valore dello studio che preparava alla professione dell’artigiano. Politica e sindacato hanno meticolosamente costruito l’idea che il diritto allo studio fosse il diritto a laurearsi. Ottima la convinzione che la laurea diventasse un obiettivo per chiunque, ma deleteria la comunicazione sottostante a quella convinzione, e cioè che soltanto i laureati avrebbero potuto avere un lavoro dignitoso.

Naturalmente in questa trappola ideologica ci sono caduti per primi i genitori più sprovveduti, proprio quelli che più andavano difesi. I genitori, cioè, che sognavano per i propri figli una vita migliore della loro, proprio grazie al «pezzo di carta». Ma non soltanto loro sono stati ingannati dall’idea che solo la laurea potesse rappresentare un dignitoso punto d’arrivo scolastico per i propri figli.

Va cambiata una mentalità; solo una cultura politica che restituisca significato e valore sociale al lavoro artigianale può modificare quella mentalità. I genitori, a cui sta a cuore la sorte dei propri figli, devono essere aiutati a capire, attraverso iniziative politiche e sindacali nel mondo della scuola e del lavoro, che il «pezzo di carta» è oggi, sempre più spesso, un qualunque pezzo di carta.

(di Stefano Zecchi)

Parlato, Pennacchi e il fascismo: di "sinistra"


Uno dei più importanti storici italiani, Giuseppe Parlato, esperto di fascismo e postfascismo. Uno scrittore divenuto finalmente celebre, Antonio Pennacchi, vincitore del premio Strega e dell’Acqui Storia 2010 con il romanzo Canale Mussolini. Libero li ha messi a confronto, seduti in una stanza della Fondazione Spirito-De Felice presieduta da Parlato (che di questo giornale è collaboratore) mentre fuori, per le strade di Roma, gli studenti sfilavano protestando contro la riforma Gelmini. La sollevazione studentesca ha assunto anche forme parecchio violente e qualche opinionista ha avuto il fegato di giustificarla, con la scusa che l’Italia è vittima di un regime - quello berlusconiano - e contro i regimi ogni mezzo è lecito. Il punto è sempre quello: siamo ancora bloccati a parlare di fascismo, non riusciamo a fare i conti con il Ventennio, se non dividendoci e scambiandoci mazzate.

GIUSEPPE PARLATO: «Il fatto è che quando si parla di fascismo il buon livello di alcuni storici nell’aver analizzato, per esempio, il tema del consenso al regime non è stato recepito a livello di vissuto comune del Paese. Nei libri di testo delle scuole questo discorso fa fatica a passare. Così come la differenza tra fascismo e nazismo. Io vado nelle classi a parlarne e vengo guardato in modo strano».

ANTONIO PENNACCHI: «Le riflessioni sul consenso sono assodate, a sinistra, solo per i gruppi dirigenti Per i giornali, come per esempio l’Unità, no».

Resta il fatto che il suo romanzo, col nome di Mussolini nel titolo, ha trionfato nel salottino dello Strega. Segno che qualcosa è cambiato, in Italia. Anni fa non sarebbe stato possibile.

PENNACCHI: «Io penso sia più dirompente e scandaloso che un operaio possa vincere lo Strega. Tanti si sono incazzati per questo. Ma non è colpa mia...».

PARLATO: «Sicuramente qualcosa è accaduto. Intanto è caduto il muro di Berlino, non c’è più bisogno di costruire una verità rivoluzionaria per coinvolgere e convincere le masse. E questo ha determinato una frana all’interno della storiografia marxista che è diventata laica, ha subìto un processo di secolarizzazione, in alcuni casi. Accetta di affrontare certi argomenti».

PENNACCHI: «Infatti trovo che siano più retrivi gli antifascisti di matrice cattolica, cattolico-democristiana. Quelli ancora intignano».

PARLATO: «Vero. Sia l’antifascismo liberale che l’antifascismo cattolico sono i più restii a recepire le riflessioni sul regime».

PENNACCHI: «Stiamo parlando di Giustizia e libertà, di Repubblica. Gli azionisti, insomma».

PARLATO: «Appunto. Gli azionisti nascono liberali e questo atteggiamento dipende dal fatto che i liberali e i cattolici hanno le maggiori responsabilità in ordine all’avvento del fascismo in questo Paese. Intanto perché hanno votato i pieni poteri a Mussolini nel 1923, quando nessun medico lo chiedeva. Poi non hanno saputo sfruttare la vicenda dell’assassinio di Matteotti. Per loro dichiarare che il fascismo fu un fenomeno di consenso di massa diventa un problema. Ricordiamo che Palmiro Togliatti, fin da subito, parla di “regime reazionario di massa”, aveva già capito tutto».

PENNACCHI: «Quello era il migliore per davvero...».

PARLATO: «Più della metà delle lezioni sul fascismo di Togliatti era dedicata al corporativismo e al rapporto fra massa e regime. Una volta finite le incrostazioni di carattere ideologico, da parte marxista c’è stata più ricettività su questi temi. Da parte delle forze che una volta si chiamavano borghesi molto meno».

PENNACCHI: «Io ho notato un cambiamento a Latina. Da tutto il Paese e da tutti i latinensi è sempre stata considerata come una città brutta da far schifo e fascista. Quando si parlava di architettura fascista solo Sabaudia veniva salvata e considerata bella. Questo perché l’ha progettata Luigi Piccinato, che era fascista, ma poi si è riallineato col Partito socialista e con Zevi. L’orgorglio cittadino a Latina nasce col binomio Pennacchi-Finestra. Nel 1995 esce il mio romanzo Palude (anch’esso sulle bonifiche volute dal Duce, ndr) e per la prima volta c’è un sindaco fascio, Ajmone Finestra appunto. E si comincia a dire che la città è bella». Allora la percezione del fascismo cambia quando arriva il centrodestra al governo.

PENNACCHI: «Finestra non era di centrodestra. In ogni caso il centrodestra nasce dopo la crisi della Prima repubblica, c’è un ripensamento complessivo del Paese».

PARLATO: «Non bisogna dimenticare nemmeno la scomposizione della Dc. Era un partito interclassista e interpolitico, nel senso che aveva una destra e una sinistra. Non avrebbe mai potuto accettare una riflessione del genere sul fascismo. Quando si formano centrodestra e centrosinistra la situazione cambia talmente. Col centrodestra al governo poi anche la sinistra moderata comincia a cambiare. Le posizioni di Gianni Oliva e di Luciano Violante sono state molto interessanti. Io con Violante ho avuto dialoghi pubblici e ho trovato aperture molto forti, che non c’erano prima».

PENNACCHI: «Le cose stanno assieme. Sono questi cambiamenti che hanno determinato la nascita del centrodestra... E viceversa. Poi c’è il contributo delle nuove generazioni, quelle che nascono dalla terra e per cui l’ideologia non vuol dire più un cazzo. Tu parli di centrodestra... L’unico periodo in cui la sinistra è stata al potere è stata in quei vent’anni là, sotto il fascismo. Le riforme di struttura sono state fatte là». Dunque lei vede il fascismo come una sorta di rivoluzione sociale.

PENNACCHI: «Nel fascismo c’è stato tutto. Però non può essere definito un regime di destra. Perché modifica le classi sociali, modifica i rapporti di produzione. Quando tu prendi un contadino e gli dai la proprietà della terra, hai fatto una rivoluzione... L’unica cosa che non si può dire del fascismo è che sia stato un cancro che si è formato un bel giorno... È un’età della storia d’Italia, c’è nel fascismo il flusso del tempo in cui vengono a compimento fenomeni iniziati prima e nascono altri che si compiranno dopo. Tant’è che strutture come l’Iri sono sopravvissute anche in seguito».

PARLATO: «Io non penso che il fascismo sia stato una rivoluzione. A me sembra che l’analisi di Pennacchi sia molto agricolo-centrica. Il sistema corporativo ha funzionato bene solo nella risoluzione delle vertenze di lavoro... Questo è un po’ poco per dire che c’è stata una rivoluzione strutturale. C’è stata l’intenzione di farla, probabilmente, ma non è avvenuta in maniera compiuta».

PENNACCHI: «Non si può negare che il fascismo abbia modernizzato il Paese. Nel 1938 si entra per la prima volta fra i grandi Paesi industriali. Questa è una rivoluzione. L’Alfa Romeo a Pomigliano D’Arco la fa il fascismo. Il fascismo si pone il problema della delocalizzazione. Si occupa di progetto del territorio, di industrializzazione... Lo Stato industriale nasce là. Come si evince dai diari di Bottai ma anche dalle conversazioni di Mussolini con Ludwig, il fascismo ha una visione strutturale della crisi del 1929, pensa che in crisi sia il capitalismo e si pensa già come oltre il capitalismo. E, alla fine, si esce dal fascismo con classi sociali diverse da prima».Per molti, tuttavia, il fascismo resta solo un cancro.

PARLATO: «Il discorso del cancro è importantissimo. La tesi di Benedetto Croce, che descrive il fascismo come una parentesi infausta nella storia italiana, è una tesi a cui non ha mai creduto nessuno, forse nemmeno lo stesso Croce».

PENNACCHI: «Ha fatto finta di crederci Norberto Bobbio, però».

PARLATO: «Molti hanno fatto finta. Perché pensavano che fosse l’unico modo per riprendere il discorso. Si dissero: evitiamo di interrogarci sulle cause dell’avvento del fascismo; dopo questa parentesi, quasta malattia di vent’anni, l’Italia nuova può ripartire. È una tesi etico-politica non storiografica. A livello storiografico invece è prevalsa l’idea di Gobetti, azionista, per cui dal Risorgimento al fascismo c’è una decadenza dello spirito pubblico, il fascismo è il precipitato di tutti i mali di questo Paese. Viene tolto da qualunque cornice storica e dipinto come il male assoluto. E ogni volta che l’Italia è messa male si dice che è colpa del fascismo. Non del fascismo storico, ma di un’idea di fascismo che aleggia». Qualcuno sostiene che anche oggi ci sia un fascismo: una nazione fondata sull’antifascismo per reggere ha bisogno di un fascismo permanente. E quindi chi va in piazza a menare fa bene, poiché contro un regime tutto è lecito.

PARLATO: «Certo».

PENNACCHI: «Eh, no! Non toccamo ’sto tasto, però. Gli studenti fanno bene a menarse, oh. Se no chi li sente? Il fatto che si picchino prescinde da questioni ideologiche e politiche. Riguarda il funzionamento dell’essere umano. Alla base ci sono motivazioni preideologiche. Per un giovane che si affaccia alla vita, e che ha i coglioni, c’è sempre un regime da abbattere. Il regime del padre, della madre, dello Stato, eccetera... La massa non è qualcosa di uniforme o amorfo. è sempre composta da un grande centro, una destra e una sinistra. Funziona così. Nel giorno che in centomila scendono in piazza avrai il centro che sta buono, una destra che starà ancora più buona e una piccola minoranza di... Hai letto Il fasciocomunista? Hai presente il personaggio di Accio?».Un bell’attaccabrighe, che sta a destra e poi a sinistra. E non teme di menare.

PENNACCHI: «Ecco. Normale che in una manifestazione ci siano degli Accio che si svegliano alla mattina già incazzati col padre, con la madre, con la fidanzata che gli ha detto di no...Quando si trovano davanti i poliziotti che gli impediscono di passare, s’incazzano ancora di più. Una rabbia prepolitica. I giovani si devono far girare i coglioni. Loro hanno il diritto e il dovere di fare gli Accio. Il poliziotto ha il dovere di menarli. È il gioco sociale da sempre. Questa è la realta. Uno di sessant’anni è saggio e non violento, non un giovane. Ma vaffanculo Borgono’. Quando avevo diciotto anni stavo col casco e col bastone...». Resta che chi va in piazza generalmente non sa un tubo della riforma che contesta.

PENNACCHI: «Certo, e allora? Secondo te quando io facevo fare sciopero agli studenti medi a Latina li convincevo uno per uno spiegandogli perché era giusto? Andavo là e gli dicevo: “Basta, c’è sciopero”. Una parte scioperava perché aveva voglia di fare sega a scuola, gli altri perché se no li menavamo».

PARLATO: «Io ho solo un timore. Che a forza di fare insurrezioni che prescindono dalle cose che accadono ci s’imbarbarisca. Qui parliamo di persone che fanno l’università che tra un po’, si spera, andranno a lavorare. La strada per pensare l’Italia di domani non è certo quella dell’insurrezione».

PENNACCHI: « Il fatto è che oggi per lavorare come ricercatore universitario hai bisogno di una famiglia ricca che ti sostenga. Altrimenti non riesci, non puoi scrivere, studiare e avere anche una vita normale».

PARLATO: «Io vivo dentro l’università, sono stato ricercatore vent’anni. E dico che i ricercatori riescono a mantenersi. Si possonomantenere con altri lavori, avere una famiglia. Certo, devono tirarsi su le maniche, lavorare fino a tarda sera. È un luogo comune che non sia possibile. Esiste anche in Italia la possibilità di studiare e fare ricerca: bisogna darsi molto da fare, pubblicare articoli».Dicono che ci sono tantissimi ricercatori i quali rimangono tali per anni e anni...

PARLATO: «Ci sono anche ricercatori che rimangono tali perché non scrivono, non fanno nulla, come pure alcuni ordinari e associati. Prendono anche 3000 euro al mese. Chi ha messo incentivi sulla pubblicazione e la ricerca? Questo governo. Dimostrare che si produce qualcosa è giusto: c’è gente che lavora in fabbrica, guadagna meno ed è precaria. Io vedo come funzionano i concorsi universitari e noto che negli ultimi due anni sono cambiate molte cose. E poi, a creare l’università bloccata di oggi è stato l’accordo tra Dc e Pci negli anni Ottanta. Questo sistema qualcuno lo deve smontare e lo sta facendo la Gelmini, sostenuta peraltro da tecnici di sinistra moderata. Quello che stupisce è che i ragazzi che protestano difendano l’università che stanno contestando... Loro non lo sanno».Secondo la logica di Pennacchi, è naturale che protestino.

PENNACCHI: «Sì, certo. Io non conosco bene la situazione come Parlato. So solo che a me non piace l’università di oggi. Di più: non mi piace l’intera società italiana. E mi sembra giusto che i giovani si incazzino contro la società italiana. Guarda, a me nemmeno piace il presidente del Consiglio. Ma se dicessi che è tutta colpa sua direi una grande puttanata».

PARLATO: «Io vorrei che protestassero anche contro i governi di sinistra...».

PENNACCHI: «Ma l’han fatto».

PARLATO: «Non così».

PENNACCHI: «Il dramma nostro, a sinistra, è che abbiamo avuto i ministri in piazza contro i nostri governi, siamo così bravi a menarci da soli sui coglioni...Lascia perdere».

Anno nuovo è progresso?

Tra le molte contraddizioni nelle quali si dibatte il nostro Occidente, ce n'è una particolarmente drammatica, che nasce dal diffuso concetto di "progresso". Il termine, ormai generalizzato, indica il procedere, "l'andare avanti": ma non stabilisce alcun senso alla marcia che indica. Qual è il fine del nostro progredire?

Da circa tre secoli, anzi qualcosa di più, lo si è indicato ripetutamente: al punto che ormai tale traguardo è implicito. Un mondo migliore: di pace, di libertà, di fratellanza, di conquiste scientifiche, di benessere, di scienza, di ragione. Un tempo a questo lungo elenco di bellissime cose si aggiungeva l'uguaglianza: ma essa era troppo legata all'utopia giacobina prima, socialista e comunista poi. L'abbiamo perduta per strada. Dal momento che libertà ed uguaglianza non potevano essere scopi conseguibili insieme, abbiamo privilegiato la prima. Solo che anche così le cose non tornano. Se la libertà si fa assoluta per tutti e ciascuno, essa finisce con l'aggredire la fratellanza e con lo stabilire il regno del benessere dei pochi eletti - perché migliori, o solo perché più ricchi e più forti -, quindi del disagio per tutti gli altri.

E chi ha mai detto che scienza e ragione vadano, di per sé, d'accordo con libertà e fratellanza? E infine, come eliminare la contraddizione tra un mondo che dovrebbe procedere illimitatamente verso il miglioramento - anche nel senso dello sviluppo, alla faccia delle risorse che si esauriscono? - e il destino di ciascuno di noi, che inevitabilmente porta (nei casi più fortunati) all'invecchiamento, all'indebolimento, alla fine della vita? Si può conciliare l'ottimismo cosmico e universale con il pessimismo esistenziale, a meno che una ragione di tipo superiore, ad esempio religioso, non intervenga a far quadrare i conti?

Il punto è che l'idea di progresso illimitato punta anch'essa, implicitamente, a un fine: che può essere la "società senza classi" proposta da Marx o il raggiungimento del migliore dei mondi possibili e quindi l'amministrazione di un esistente liberale e liberistico secondo la visione - andata di gran moda una ventina di anni fa e poi rivelatasi effimera - di Francis Fukuyama. Ma tutti sanno che visioni del genere altro non sono se non laicizzazioni dell'idea ebraica e quindi cristiana della "fine dei tempi" e del "regno dei cieli".

Per i nostri antichi padri - su una linea che dall'India e dalla Persia passa al mondo greco e quindi ellenistico-romano - le cose stavano altrimenti. Il cosmo era una specie di grande essere vivente ("macrocosmo", appunto): e, come quel piccolo universo ch'era l'essere umano ("microcosmo"), degenerava, invecchiava, moriva. Alla fine di ogni ciclo, si situava una catastrofe universale, un caos dal quale nasceva però un universo nuovo: e i cicli ricominciavano. Li abbiamo studiati a scuola: età dell'oro, età dell'argento, età del bronzo, età del ferro. D'altronde, in un universo retto dall'energia dei corpi celesti, dove a ogni stella corrispondeva sulla terra un minerale, una gemma, un fiore, una pianta, un animale. E l'uomo stesso, costituito dai quattro elementi naturali (terra, acqua, aria, fuoco) ma animato da un soffio vitale, poteva rinnovarsi e riacquistar forza, giovinezza e salute esattamente come il mondo, ogni volta che la rotazione di stelle e di pianeti lo riportavano sotto la costellazione che lo proteggeva. Nacque e si sviluppò così l'idea di un tempo "ciclico", nel quale non s'invecchia ma ci si rigenera. L'anno venne diviso in stagioni e organizzato secondo il rapporto tra la terra e la più grande stella dell'universo (o quella che si credeva tale): il sole, la cui forza cominciava a decrescere a ogni solstizio d'estate e giunta al minimo riprendeva a rafforzarsi a ogni solstizio d'inverno. I romani avevano posto il momento della fine dell'anno sotto il dominio contiguo di Saturno (il Chronos dei greci: il dio della distruzione, il tempo che tutto divora a cominciare dai suoi figli) e di Giano, il signore delle porte, il dio bifronte dell'inizio e della fine. Negli ultimi giorni di dicembre, si assecondava il feroce potere del vecchio Saturno: si distruggevano le scorte alimentari attraverso orge di cibo, si assecondava il caos cosmico invertendo l'ordine costituito anche nei rapporti umani. I servi diventavano padroni per un giorno, i signori li servivano. Si prendeva un bambino, la cosa più piccola e priva di potere al mondo, e lo si eleggeva "re per un giorno" porgendogli giocoso omaggio: ci si scambiavano dei doni augurali, in quanto si erano dissipati tutti i beni accumulati in un anno durante quelle "libertà di dicembre" e si aveva bisogno di reintegrare le ricchezze attraverso il tradizionale sistema dello scambio gratuito reciproco, il dono.

Il cristianesimo, affermatosi nel IV secolo - non dimentichiamolo - anche e soprattutto per volontà di alcuni imperatori che scelsero il Cristo, procedette tra IV e VI secolo (diciamo tra il regno di Teodosio e quello di Giustiniano, i due sovrani che organizzarono la nuova fede come "religione di stato" proibendo progressivamente le altre: anche con la forza), si guardò bene dall'abolire quell'equilibrio cosmico ed esistenziale fondato sul morire e sul rinascere, che del resto ricordava da vicino anche l'esperienza del Dio incarnato su questa terra. Recuperò quindi i Saturnalia romani inserendoli in un nuovo ciclo sacrale che aveva come termini il Natale di Gesù - fissato in Occidente in coincidenza con la grande festa solstiziale del Sol Comes Invictus - e l'Epifania, il momento del riconoscimento del Bambino come vero Dio, vero Re e vero Uomo, stabilito il 6 gennaio in coincidenza con quella che, in Egitto, e quindi in tutto il Mediterraneo, era la grande Festa delle Acque sacra alla dea Iside, molti connotati della sacralità della quale passarono alla Beata Vergine Maria. Fu un modo geniale di obliterare le tradizioni pagane e al tempo stesso di riassumerle ed ereditarle con pienezza, mutandone di senso e facendo delle feste pagane altrettanti momenti di attesa e di preveggenza della Verità cristiana.

Al centro del sistema di 13 giorni - e delle fatidiche "Dodici Notti": ricordate Shakespeare? - tra il natale e l'Epifania si trovavano le Calende di gennaio, stabilite ab antiquo e confermate dal calendario approvato da Giulio Cesare come giorno d'inizio del nuovo anno. Giano, da vecchio tornato bambino (il dio bifronte, appunto...), apriva le porte dell'anno nuovo, che trascorrendo attraverso al sequenza del rinnovarsi del passaggio delle costellazioni avrebbe rafforzato, non usurato, il ciclo della vita. Era una grande battaglia contro il tempo che usura, nel nome del Tempo che rinnova. Regali e consumo festivo del cibo avevano questo senso: erano la festa che allontanava il freddo, il male, la morte.

Oggi, nel nostro Occidente, sopravvive il guscio esteriore di quell'antica sostanza sacrale. Consumiamo, ma abbiamo perduto il senso di quel consumo e l'augurio profondo di vita che la consapevolezza di esso comportava. La festa si è disciolta nel "tempo libero" e ogni anno che passa ci avvicina malinconicamente alla fine di tutto. Il cristianesimo aveva salvato il nucleo vitale del paganesimo conservandolo per l'eternità: tornando pagani, ma senza l'ormai perduto senso del Sacro, sappiamo soltanto sprecare ricchezze e accumulare colesterolo. La notte di san Silvestro, il santo della fine e dell'inizio, è solo una notte in più, una tacca sul malinconico calendario della nostra esistenza che si spenge. Reagire? Bisognerebbe cominciare con la riconquista del senso simbolico riposto negli atti che eseguiamo, nei regali e negli auguri che ci scambiamo, nelle buone cose che mangiamo. Le lenticchie, si sa, portano soldi. Ma attenti a non buttar via la vita in cambio di un piatto di lenticchie. È già successo.

(di Franco Cardini)

lunedì 27 dicembre 2010

Uccidono i cristiani ma è l'Europa ad essere morta


Per l’Unione europea il Natale non esi­ste, la Pasqua nemmeno, e se uccidono i cristiani in Nigeria e nelle Filippine, co­me è accaduto nel giorno di Natale, chi se ne frega, la cosa non ci riguarda. I cri­stiani saranno una setta del posto. Noi europei ci occupiamo di misurare le ba­nane, mica di religioni, superstizioni, stragi e amenità varie. Noi siamo civili, lavoriamo in banca, mica pensiamo alle festività religiose. E poi in questi giorni la Commissione europea non lavora, è in vacanza natalizia, anche se non si sa uffi­cialmente la ragione di queste festività, sarà l’anniversario dell’euro o l’onoma­stico di Babbo Natale...

Non sto vaneg­giando per overdose di spumanti e pa­nettoni. È stata diffusa in milioni di copie e in migliaia di scuole, in tutta Europa e forse anche nei Paesi islamici, l’agenda ufficia­le dell’Europa, firmata della Commissione europea. Nel diario europeo, che mi è capitato di vedere, c’è traccia delle più estrose festività relative alle più minoritarie religioni, ma non c’è alcun riferimen­to alle festività antiche, canoniche e ufficiali della cristianità europea. Non si sa perché festeggiamo Natale e le altre festività religiose, nulla è ac­cennato sull’agenda che ricordi la Natività, la Resurrezione e tutto il re­sto, nulla che segni in rosso una san­­ta festività. Ma quale Natale, Pasqua, Epifania, diceva Totò, a cui evidente­mente si ispira l’Unione Europea. L’ha fatto notare, protestando, il mi­nistro degli Esteri Frattini, ma in que­sti giorni l’Unione europea è chiusa per inventario merci (non esistendo il Santo Natale) e dunque la protesta affonda nel vuoto vacanziero di que­sta vuota Europa.

A ragion veduta possiamo perciò accusare l’Unione europea di nega­zionismo. L’Unione europea è un’as­sociazione vigliacca di smemorati banchieri fondata sul negazioni­smo. Nel giro di poche ore, l’Unione eu­ropea ha infatti negato le festività cri­stiane e dunque la sua tradizione principale ancora viva da cui provie­ne e nel cui nome ha un calendario e un sistema di festività. Ed ha pure ne­gato ai Paesi dolorosamente usciti dal comunismo il diritto di conside­rare i loro milioni di vittime sullo stes­so piano delle vittime del nazismo. Come sapete, la Commissione eu­ropea ha nega­to che si possano equi­parare gli stermini comunisti a quelli nazisti e possa dunque scattare an­che per loro il reato di negazionismo. Pur avendo commesso «atti orren­di », i regimi del gulag, secondo la Commissione europea, «non hanno preso di mira minoranze etniche». E che vuol dire, sterminare i borghesi o i contadini è meglio che sterminare gli appartenenti a una razza? Uccidere chi non la pensa come te è un cri­mine meno efferato che uccidere chi è di un’altra razza? Tra le fosse di Ka­tyn, le foibe e le camere a gas di Da­chau, qual è la differenza etica, giuri­dica ed umana? Tra chi nega gli ster­mini di popolazioni civili di Paesi in­vasi dal comunismo e chi nega gli stermini etnici, qual è la differenza? È ideologica, signori, puramente ide­ologica. Come ideologica è la nega­zione delle tradizioni cristiane più popolari. Non parliamo infatti del dogma trinitario o di altri quesiti teo­logici, qui parliamo di Natale e Pa­squa, avete presente? Alla base del­l’Europa c’è un negazionismo vi­gliacco e bugiardo, che non è solo quello di negare alcuni colossali orro­ri per riconoscere e perseguirne de­gli altri; ma negare l’Europa stessa, la sua vita, il calendario che scandisce i suoi giorni, la sua realtà e la sua veri­tà, la sua tradizione e la sua storia.

Il negazionismo dell’Unione euro­p­ea è ancora più grave del negazioni­smo elevato a reato: perché non ne­ga solo alcuni orrori, ma nega anche in positivo la storia, la provenienza, la vita europea. Del suo passato l’Unione resetta tutto, difende solo la memoria della Shoah, e poi cancella millenni di civiltà cristiana, millenni di natali e pasque, orrori del comuni­smo e di altre tirannidi. Che schifo. Io non ho ancora capito a che serve l’Unione europea fuori dall’ambito economico. Non è un soggetto politi­co che esprime posizioni unitarie, non ha un governo passato dal con­senso del popolo europeo, la sua stes­sa unione non fu voluta o almeno rati­ficata da un referendum costitutivo del popolo sovrano. Non è un sogget­to cul­turale e civile perché non fa nul­la per affermare, difendere o valoriz­zare l’identità europea, anzi fa di tut­to per negarla. Non ha una sua carta costituzionale dove declina le sue ge­neralità storiche, le sue affinità idea­li, i suoi principi, le sue provenienze civili e religiose. Non ha una sua poli­tica es­tera unitaria o una strategia internazionale, e non si occupa di stra­gi dei cristiani, semmai si agita solo se c’è una donna condannata a mor­te per aver ucciso il marito in Iran.

Insomma, l’Europa non è mai nata e ha paura pure della sua ombra. Esi­ste solo un sistema monetario unico, un sistema di dazi e di regole, di ban­che e di finanziamenti. È un ente economico, un istituto per il commer­cio. Per questo l’Unione europea non esiste, abbiamo ancora la Cee, la Comunità economica europea. Anzi non sprechiamo la parola comunità per un consorzio economico, tornia­mo al Mec, Mercato europeo comu­ne. L’Europa è un morto che cammi­na.

(di Marcello Veneziani)

Psicopatologia di Gianfranco Fini


Lui, ormai, che è così tutto stile costituzionale e marche da bollo, così calato nel ruolo di presidente della Camera da goderne in visibilità, non ha bisogno di camuffare la vera intenzione: apre e chiude la giacca e ostenta agli astanti che se lo guardano con tanto d’occhi un’immaginaria bardatura di tritolo e fili elettrici.

È alto Gianfranco Fini, il martire, ma ha lisce le gote, dunque in sospetto di cosmesi, perché il pelo che dovrebbe tenere in faccia lo tiene dentro e sopra lo stomaco a fargli mucchio in rancore e vendetta. Apre e chiude la giacca, ipnotizza nella ripetizione del gesto i suoi interlocutori a Montecitorio e sibila: «Io sono un ka-mi-ka-ze. Mi faccio esplodere in mezzo a tutti voi. Io mi farò male, ma ne farò tanto a Ber-lu-sco-ni». Apre e chiude la giacca e gli altri, con tanto d’occhi, indietreggiano, mormorando: «È impazzito».

Il 15 dicembre, il giorno dopo la votazione alla Camera che assesta a Fini la sconfitta confermando, al contrario, la fiducia al governo Berlusconi, c’è il Corriere della sera che ripubblica una vignetta di Giannelli uscita a marzo: il 1°, precisamente. C’è disegnato Fini che dice del Cavaliere: «Quando non parla, non so come contrastarlo». Il famoso punto, questo. Lui e l’Altro in eterna guerra. E un ruolo istituzionale, quello ricoperto da Fini, sfregiato da ciò che è diventato un precedente: quello che verrà dopo di lui si sentirà in dovere di fare politica. Detta regole, tempi e procedure. Dallo scranno di Montecitorio invia bigliettini, telefona, dispone, decide. Fa l’arbitro allenatore. Uno dei suoi uomini migliori, Alessandro Campi, politologo, erede di Domenico Fisichella, glielo ha già scritto: «Dimettiti». Ma il Fini compiuto e cresciuto nella propria evoluzione di «tipo umano» l’aveva descritto, anni fa, Geminello Alvi, in un esercizio di fisiognomica e politica: «È un allenatore di pallacanestro».

Lui, ormai, costretto al ribaltamento di un destino (da numero due di Berlusconi a numero due, di fatto, di Pier Ferdinando Casini) fa dunque fronte agli «impedimenti dirimenti», questi: Fini che dichiara di non voler cedere lo scranno da presidente della Camera malgrado il suo conclamato ruolo da leader d’opposizione; il Cavaliere che rivela (per poi smentire, ma solo pro forma) come Fini sottobanco stringa accordi con i magistrati; Casini, infine, che prende l’iniziativa politica, fa accomodare allo stesso tavolo tutto il terzo polo, il Polo della nazione, ovvero Paolo Guzzanti con altri sparsi esponenti di varia titolarità e con gli uomini di Francesco Rutelli. E quando quest’ultimo è seduto di fronte a Fini, siccome in politica il simbolico proclama l’agnizione, sta succedendo che Casini sta mettendo di fronte due eredi di due diverse sconfitte irrimediabilmente costretti al ruolo di perdenti, con Fini ancor di più segnato fino a prossima scadenza. «La tempesta mi ha fatto naufrago in quest’isola di selvaggi, vedrò come sopravvivere, anzi come civilizzarli»: questo il commento scherzoso dell’intraprendente democristiano tornato in auge. E questa è la conseguente ermeneutica di cotanta agnizione: quale Robinson Crusoe, Casini ha fatto di Gianfranco Fini il proprio Venerdì in tanta isola di sopravvissuti.

Ma lui, ormai, forzato al cambiamento, ha da mettere ancora a frutto il lavorio che altri, Italo Bocchino soprattutto, hanno svolto su di lui. Ancora poco tempo fa Bocchino, accompagnato da Chiara Moroni, ha fatto incontrare il suo protetto con Carlo De Benedetti. Ancora nel giro delle feste, per la tombolata a Napoli, un Fini dalle gote sempre più lisce, accudito dalla smagliante Elisabetta Tulliani, ha esercitato quello stile appetibile all’antropologia degli ottimati marcando la differenza col berlusconismo: niente ragazze vistose, solo Babbo Natale. Masticando chewing-gum.

Lui, fatto nuovo da Bocchino che gli ha procurato il sarto e lo ha introdotto nei luoghi giusti, quelli che dovrebbero accoglierlo in extremis, spremerlo un tanto ancora perché tutto va bene purché trionfi il Ttb (Tutto tranne Berlusconi, copyright Giuliano Ferrara), è diventato uno strano animale di destra adatto al pubblico di quella sinistra sempre incapace di uscire dalla trappola obbligata del dover inghiottire sempre il male minore. Come l’avere adottato il piccolo farabutto in odio al grande farabutto. Aggrappati alle magagne decisamente troppo piccole, siano esse la casa di Monte-Carlo, il contratto in Rai per la suocera, fino allo stridente ruolo di presidente della Camera in eterno conflitto politico, la sinistra che s’è fatta scudo con Fini contro le gigantesche magagne del nemico assoluto, questo suo eroe di una destra così abbondantemente predicata da non avere però un linguaggio proprio l’ha spremuto a sufficienza.

Abbandonato dai grandi giornali e perfino dall’Unità che ne ha chiesto le dimissioni dalla presidenza della Camera, Fini che rilancia la propria telegenia pur con quelle cravatte sbagliate dicendo, e facendo cose che non avrebbe mai immaginato di dire e fare ancora un paio di anni fa, vive il dramma di una sua ristretta cerchia (Francesco Proietti Cosimi su tutti, suo inseparabile amico), pronta a restare un passo indietro. E non può precipitare nel baratro di una storia a tutti loro sconosciuta: dai matrimoni per gli omosessuali al testamento biologico, fino alla liberalizzazione delle droghe.

Fatto tutto nuovo da Bocchino, Fini, che da sempre ha avuto un mentore, un regista che lo guidasse in scena, e lo ebbe in principio con donna Assunta, dunque con Giorgio Almirante, quindi con Pinuccio Tatarella, infine con Maurizio Gasparri e Ignazio La Russa, passando poi con Giuliano Amato, lo stesso Giorgio Napolitano, per darsi adesso, mani e piedi, al capogruppo a Montecitorio del Fli che ha cancellato antiche antipatie portandolo fin dentro casa, facendolo amico di famiglia e di gioiosa comitiva, Fini fatto tutto glamour vive queste giornate difficili come un doppiatore maldestro costretto a dare voce a un copione malfatto. Abile divulgatore di concetti altrui, ascoltatore di estenuanti riunioni, fumatore da nevrosi più che di piacere, Fini che allena rischia una partita dove i giocatori, quando non si picchiano tra loro (toni accesi ci sono stati tra Fabio Granata e Silvano Moffa), se ne vanno.

Se n’è andato appunto Moffa e su quell’uomo, la cui tempra morale è indiscussa, Fini non può consolarsi immaginandoselo «corrotto» come un Domenico Scilipoti qualsiasi (che poi, lo Scilipoti, agopunturista, più che comprato è stato sedotto da Berlusconi. Il premier, convocandolo nel suo studio da premier, gli s’è mostrato offrendo il polso affetto dalla tendinite: «Solo Ella mi può dare sollievo». E quello, lo sventurato, lo punse).

Quella sua destra così tanto predicata, la destra tutto stile costituzionale e marche da bollo, lui proprio non la sa esprimere. Tutto questo sforzo, tutto un aprire e chiudere la giacca, per poi rispondere alle domande dei cronisti come risponderebbe Debora Serracchiani?

(di Pietrangelo Buttafuoco)

sabato 25 dicembre 2010

Gloria in excelsis Deo


Vi auguriamo un sereno Natale

mercoledì 22 dicembre 2010

Il palazzo degli incredibili


C’è qualcosa di surreale nel dibattito di questi mesi in Italia. Se provate a fare una statistica delle parole più ripetute da giornali e televisioni troverete che sono parole come Berlusconi, Fini, Bocchino, Fli, fiducia, sfiducia, maggioranza, voto. Da mesi l’Italia è appesa a un malsano sentimento di sospensione, di incertezza, di attesa. Prima l’attesa per il discorso di Fini a Mirabello (5 settembre), poi quella per il discorso di Berlusconi in parlamento (voto di fiducia del 29 settembre), poi quella per il discorso di Fini a Bastia Umbra (7 novembre), infine quella per il discorso che Berlusconi terrà domani, seguito dal doppio voto di fiducia (al Senato) e di sfiducia (alla Camera). In mezzo le esternazioni di Bersani, di Casini, di Bocchino, le decine e decine di interviste dei leader minori, per non parlare delle penose conferenze stampa dei parlamentari in procinto di cambiare bandiera.

E tutto questo per che cosa? Per un voto che, comunque vada, servirà solo a decidere una manche della partita a tennis che Berlusconi e Fini da due anni stanno giocando sulla pelle di tutti noi. Vista dall’esterno, ad esempio da un qualsiasi Paese europeo, è una situazione ridicola, per non dire tragica.

Mentre il mondo vive una delle più drammatiche crisi dei rapporti internazionali dai tempi della caduta del Muro di Berlino, mentre le economie avanzate si trovano di fronte a rischi immensi (da una stagnazione di anni, fino al crollo dell’euro e del dollaro), mentre gli esperti si dividono sulle migliori terapie da adottare, noi - e dicendo noi parlo innanzitutto dell’informazione - perdiamo ancora del tempo e dell’attenzione a interpretare una frase di Bocchino, a decodificare una battuta di Bossi, a indovinare le intenzioni di un parlamentare «corteggiato» (per non dire altro). Un doppio provincialismo attanaglia il discorso pubblico: siamo provinciali perché parliamo sempre e solo dell’Italia, ma siamo provinciali anche perché, con gli immensi problemi economico-sociali che l’Italia ha di fronte, con le enormi difficoltà che ci attendono, permettiamo al nostro ceto politico di baloccarsi nei suoi giochi di palazzo, nelle sue vanità, nelle sue miserevoli rivalità personali, senza mai metterlo di fronte alle sue responsabilità vere. Che non sono di salvare un governo, o di costituirne uno nuovo, ma di offrire soluzioni credibili. Possibilmente più credibili di quelle che l’attuale governo ha fornito fin qui. A me non pare che i protagonisti dell’attuale tempesta in un bicchier d’acqua parlamentare lo stiano facendo. Non mi pare che siano minimamente credibili.

Non è credibile Berlusconi, che si è permesso il lusso di governare mediocremente in una situazione che avrebbe richiesto ben altre priorità (quanto tempo è stato dissipato sui problemi giudiziari del premier?) e ben altro coraggio (come si può pensare di combattere gli sprechi con i tagli lineari?).

Non è credibile Fini, la cui giusta battaglia per una destra moderna (e normale) è compromessa dai modi in cui viene combattuta e dai soggetti che la conducono. Agli osservatori non accecati dalla passione politica è fin troppo evidente che la scoperta dei limiti del berlusconismo è tardiva, strumentale e insincera. E ancor più evidente è la scorrettezza di combattere una rancorosa guerra politico-personale dalla posizione di presidente della Camera, una scorrettezza istituzionale che le opposizioni non stigmatizzano solo perché, in questa fase, fa loro gioco.

Ma non è credibile, purtroppo, neppure Bersani. Il quale ha perfettamente ragione quando dice che, con i mercati finanziari in agguato, con gli enormi problemi del nostro debito pubblico, non possiamo permetterci di andare alle urne ora. Ma dimentica di aggiungere che, altrettanto se non più pericolosa per la stabilità dell’economia, è la prospettiva su cui l’opposizione di sinistra mostra di giocare le sue carte: quella dell’apertura di una «fase nuova», una stagione di negoziati e manovre politiche il cui sbocco sembra essere un governo degli sconfitti alle ultime elezioni, pudicamente battezzato «governo di responsabilità istituzionale».

Non sono fra quanti assumono che siamo ormai fuori dal regime parlamentare, e che quindi la caduta di un governo implichi automaticamente il ritorno alle urne. Su questo la penso come Giovanni Sartori: la flessibilità dei regimi parlamentari, in virtù della quale, caduta una maggioranza, si può tentare di costituirne un’altra, non è un difetto ma semmai un pregio di tali regimi. Però est modus in rebus. Un conto è ritoccare una maggioranza, un conto è capovolgerla. E, anche ammesso che si voglia e si possa varare un governo degli sconfitti, il punto essenziale è uno solo: un governo per fare cosa?

E’ qui che l’opposizione rivela tutta la sua inconsistenza. Non solo perché è divisa persino sulla legge elettorale (l’unico suo vero cavallo di battaglia), ma perché nessuno ha finora prodotto risposte convincenti alle domande fondamentali. Ad esempio: sulla politica economico-sociale seguireste le idee di Ichino o quelle di Vendola? Quelle dell’ala riformista del Pd o quelle della CGIL? Ancora più sacrifici per ridurre le tasse sui produttori, o più spesa per salvare l’università, la ricerca, la cultura? Un federalismo più responsabile o più solidale? E soprattutto, visto che la torta non cresce più, dove trovare i quattrini di cui c’è bisogno?

Né basta rispondere con le solite formule: riduzione dei costi della politica, contrasto all’evasione fiscale, lotta alle rendite. Su quei versanti le risorse ulteriori che si possono reperire in tempi brevi sono molto scarse (costi della politica), o sono già contabilizzate fin troppo ottimisticamente nella manovra finanziaria (evasione fiscale), o sono armi a doppio taglio (che ne sarebbe delle aste sui titoli di Stato se, in questo frangente, l’Italia decidesse di tassarli di più?). Sono convinto anch’io che ci voglia una nuova agenda economica, e che il prudente attendismo di Tremonti non basti più. Ma il punto è che chiunque aspiri a guidare una nuova politica economica e sociale non può cavarsela con formule propagandistiche. Perché il primo problema di qualsiasi governo europeo in questa fase non è di convincere i propri cittadini, ma di convincere anche i mercati. La mia impressione è che molti critici di Tremonti semplicemente non si rendano conto degli ordini di grandezza in gioco: mentre si discute di alcune centinaia di milioni in più o in meno a qualche ente locale o ministero o istituzione, non ci si rende conto che un aumento anche di un solo punto del costo del nostro debito pubblico ci può presentare, di colpo, un conto da 18 miliardi di euro all’anno, una somma pari ad una Finanziaria e 50-100 volte superiore alle cifre di cui con tanto accanimento si parla e si negozia in questa stagione di tagli.

Per questo la vacuità dell’opposizione è un problema per l’Italia. Se cacciare Berlusconi, o «aprire una nuova fase», bastasse per avviarci a una soluzione dei nostri problemi, non troveremmo nulla di preoccupante nella deriva identitaria del Pd, nel tentativo di Bersani di «scaldare i cuori» più e meglio di Nichi Vendola. Ma purtroppo non è così. Il rischio non è che Berlusconi resti in sella, visto che al suo disarcionamento stanno già lavorando il tempo, la (non infinita) pazienza degli italiani, nonché la sua attitudine ad «autoribaltarsi», come causticamente ha fatto notare Bersani. Il rischio vero è che, nel momento in cui Berlusconi sarà costretto a farsi da parte, non ci sia nessuno abbastanza credibile, e abbastanza ferrato, da saper portare la nave dell’Italia al riparo dalla tempesta che l’attende.

(di Luca Ricolfi - fonte: http://www.lastampa.it/)

Viviamo la crisi che fu dell'Impero Romano

«Excita, Domine, potentiam tuam, et veni». La voce del Papa è sommessa ma il tono è solenne, «è in gioco il futuro del mondo», alza lo sguardo a cardinali e monsignori: e ripete quella preghiera di Avvento, «Ridesta, Signore, la tua potenza e vieni» che fu probabilmente formulata, spiega, «nel periodo del tramonto dell'Impero Romano». Allora come oggi si «disfaceva» quel «consenso morale» senza il quale «le strutture giuridiche e politiche non funzionano».

Nel discorso natalizio alla Curia romana, Benedetto XVI ripercorre l'anno e parla per primo del male interno, la «dimensione per noi inimmaginabile» degli abusi su minori commessi da sacerdoti, l'«umiliazione» per lo scandalo dal quale «siamo stati sconvolti» e che ha «coperto di polvere il volto della Chiesa». Quindi allarga lo sguardo «ai fondamenti ideologici» la «perversione» dell'etica perfino «nell'ambito della teologia cattolica», l'idea diffusa per cui «niente sarebbe in se stesso bene o male»: «Negli anni Settanta, la pedofilia venne teorizzata come una cosa del tutto conforme all'uomo e anche al bambino» e «al contesto del nostro tempo» e torna a denunciare la pornografia, il turismo sessuale, «la devastazione psicologica dei bambini» ridotti a merce, quel «commercio dei corpi e delle anime» che l'Apocalisse «annovera tra i grandi peccati di Babilonia, simbolo delle grandi città irreligiose del mondo»; denuncia «la dittatura di mammona che perverte l'uomo» e trova espressione nella droga «che con forza crescente stende i suoi tentacoli di polipo intorno all'intero globo terrestre»; invoca i leader politici e religiosi «perché fermino la cristianofobia» e le persecuzioni dei fedeli in Paesi come il Medio Oriente, dove sulle «voci troppo deboli» della ragione prevalgono «avidità di lucro ed accecamento ideologico».

Tutti «spaventosi segni dei tempi», tempi difficili nei quali vacillano «le basi essenziali e permanenti dell'agire morale» ed è «in pericolo» il consenso di fondo sulla «grande tradizione razionale dell'ethos cristiano». Ecco il parallelo con il crollo dell'Impero Romano: «Il disfacimento degli ordinamenti portanti del diritto e degli atteggiamenti morali di fondo, che ad essi davano forza, causavano la rottura degli argini che fino a quel momento avevano protetto la convivenza pacifica tra gli uomini. Un mondo stava tramontando. Frequenti cataclismi naturali aumentavano ancora questa esperienza di insicurezza. Non si vedeva alcuna forza che potesse porre un freno a tale declino. Tanto più insistente era l'invocazione della potenza propria di Dio».

Anche oggi, dice Benedetto XVI, «il mondo con tutte le sue nuove speranze e possibilità è, al tempo stesso, angustiato dall'impressione che il consenso morale si stia dissolvendo». Come rivolgendosi al mondo laico, cita Alexis de Tocqueville: «Aveva osservato che in America la democrazia era diventata possibile e aveva funzionato perché esisteva un consenso morale di base che, andando al di là delle singole denominazioni, univa tutti».

Ma il Papa guarda anzitutto all'interno. Evoca una visione di Sant'Ildegarda di Bingen XII secolo, il volto della Chiesa «coperto di polvere», le scarpe «infangate», il vestito «strappato» per colpa dei sacerdoti, «come lei l'ha visto ed espresso, l'abbiamo vissuto in quest'anno». L'«umiliazione» dei crimini pedofili è «un'esortazione alla verità e una chiamata al rinnovamento», sillaba: «Dobbiamo interrogarci su che cosa possiamo fare per riparare il più possibile l'ingiustizia avvenuta. Dobbiamo chiederci che cosa era sbagliato nel nostro annuncio, nell'intero nostro modo di configurare l'essere cristiano, così che una tale cosa potesse accadere. Dobbiamo trovare una nuova risolutezza nella fede e nel bene. Dobbiamo essere capaci di penitenza. Dobbiamo sforzarci di tentare tutto il possibile, nella preparazione al sacerdozio, perché una tale cosa non possa più succedere». Ma se «siamo consapevoli» della «nostra responsabilità», dice, «non possiamo tacere circa il contesto del nostro tempo».

Il consenso etico che si dissolve. E, per contro, l'esempio di tanti sacerdoti, la «capacità di verità dell'uomo» mostrata dal cardinale Newman. Come capitò ai discepoli di Gesù, «anche in noi tanto spesso la fede dorme», sospira il Papa: «PreghiamoLo di svegliarci dal sonno di una fede divenuta stanca e di ridare alla fede il potere di spostare i monti - di dare l'ordine giusto alle cose del mondo».

L'amarcord dei politici, quando in piazza c'erano loro


«No, guarda: a me della zona rossa non me ne importa un bel niente e certo non me ne starò buona buona e al sicuro tra le mura di Montecitorio. Io voglio andarli a vedere da vicino, voglio capire chi sono i giovani di questo nuovo movimento», dice Flavia Perina, la deputata di Futuro e libertà che dirige il Secolo d'Italia e che le piazze delle manifestazioni, i cortei li conosce e li conosce bene, perché da militante del Fronte della gioventù ci ha camminato dentro trent'anni fa, «quando non esplodevano petardi ma colpi di pistola».Il 30 settembre del 1977, un militante comunista, il ventenne Walter Rossi, mentre manifestava con altri compagni a poche decine di metri dalla sezione del Msi della Balduina, a Roma, fu raggiunto alla nuca da un proiettile. «Dopo l'omicidio, la polizia venne nella sezione e fece una retata, arrestandoci tutti...».

Anni di piombo, ricorda la Perina. S'intrecciano le memorie nei palazzi della politica e del potere che oggi verranno protetti da un cordone di blindati e reparti in tenuta antisommossa. C'è pure la voce di chi non ti aspetti. «Sì, un giorno guidai una carica anche io...». Con un filo di nostalgica civetteria, questa è la testimonianza di Goffredo Bettini, astuto e pacioso gran burattinaio di mille intrighi nella sinistra che poi è diventata Pds, Ds, e infine Pd. «Primavera del '78: ero alla guida della Federazione dei giovani comunisti di Roma. La cacciata di Lama dalla Sapienza ci aveva allontanato dal movimento, dalla violenza degli autonomi. Una mattina però convoco un'assemblea nella facoltà di Economia e commercio: è un successo, siamo in trentamila, compresi studenti medi e leghe dei disoccupati....». Continui. «Gli autonomi sono riuniti dalle parti del rettorato. E quando vengono a sapere di noi, decidono di darci una lezione: prendono bastoni, spranghe, infilano i caschi, e partono. Noi siamo avvertiti da una nostra staffetta. E io decido in un minuto». Cosa? «Capisco che se ci ricacciano, è finita. Dobbiamo difendere il nostro diritto a manifestare. Così ordino di rompere sedie e banchi, ci armiamo, e blocchiamo le porte dell'aula. Ma quelli le sfondano, e irrompono. Ed è a quel punto che noi carichiamo. È una battaglia selvaggia, però li respingiamo. Ad un certo punto, da un pianerottolo mi tirano addosso una scrivania: io cerco di schivarla, alzo il braccio, me lo spezzo. Ma il dolore non lo sento, perché i figgicciotti, come ci chiamavano, hanno dimostrato di saper difendere i propri diritti».

Figgicciotti, in quegli anni, assai distanti dalle variegate e creative atmosfere del movimento. Bettini era subentrato a Veltroni, nella guida della Fgci. Con loro c'erano Massimo Micucci e Ferdinando Adornato e tutti insieme ascoltavano Gianni Borgna, il capo saggio, colto - è lui che li convinse a dialogare con Pier Paolo Pasolini - ma anche assai prudente. Un giorno lo incontrarono ansimante. «Gianni, ma dove corri?». «Scappo». Scappavano anche Maurizio Gasparri e Antonio Tajani, inseguiti da duecento compagni rossi del liceo Tasso, quel pomeriggio che Gianni Alemanno se li ritrovò davanti, voltato l'angolo: per unanime giudizio, tra i ragazzi del Fronte della gioventù Alemanno era tra quelli che sapeva difendersi piuttosto bene. Partecipò a non pochi tafferugli, fu arrestato, incarcerato; nel 1988 gli fu affidata la gestione del servizio d'ordine ai funerali di Giorgio Almirante.

Ci fu un momento in cui il responsabile giovanile del Fronte era Teodoro Buontempo (entrato nella leggenda della destra romana con il soprannome di Er pecora - «una giacca pelosa ma molto calda che avevo usato nel periodo in cui dormivo in una Cinquecento»); il responsabile studentesco era Gianfranco Fini (impermeabile bianco, sempre molto distante da spranghe e rivoltelle); il capo degli studenti medi era Maurizio Gasparri e il suo vice, appunto, Alemanno.

Poi c'era Marcello De Angelis - oggi senatore del Pdl rapido e in qualche modo leale a Berlusconi, ma un passato dentro Terza Posizione, un periodo in carcere - che diventa leader di un gruppo musicale alternativo, il 270bis, e canta: «Vieni a passeggio con me su ponte Mussolini/ Dove corrono i bambini con i fazzoletti neri/ Oggi come ieri/...». Erano giovani e appassionati. Francesco Storace pesava anche trenta chili di meno. E questo, «il giorno che mi ricorsero sparandomi», fu decisivo.Massimo D'Alema studiava a Pisa, e lì, come poi confessò, «lanciai... Sì, lanciai una bottiglia molotov». La leggenda vuole (non esiste documentazione fotografica) che Ignazio La Russa passeggiasse in San Babila, a Milano, tenendo al guinzaglio un feroce dobermann.
I ricordi di Paolo Cento, leader dei Verdi ed ex sottosegretario all'Economia nell'ultimo governo Prodi, li ascolteremo oggi, in piazza: molti capi e capetti di una certa sinistra di lotta e di governo, non essendo stati rieletti, sono infatti fuori dal Parlamento. Facce di Rifondazione, facce come quella di Francesco Caruso, ex deputato ed ex gran capo dei no global del Meridione. Il primo, due martedì fa, a chinarsi e a soccorrere il ragazzo con il naso fracassato dal casco di quel pizzaiolo scosso.

lunedì 20 dicembre 2010

La minestra non scende dal cielo

La minestra non scende dal cielo. L’avevate mai sentita questa? È un regola di vita che può essere tradotta nel modo seguente: il piatto di minestra non si riempie da solo. Quando ero un ragazzo, me lo sono sentito ripetere un’infinità di volte. Era una litania recitata soprattutto da mia nonna Caterina Zaffiro.

Lei dava molta importanza alla minestra. Anche perché da giovane vedova non sempre aveva potuto mangiarla. E non sempre era stata in grado di offrirla ai suoi sei bambini.

Volevo scrivere un Bestiario sui giovani rivoltosi che hanno messo a ferro e a fuoco il centro di Roma. Però mi rendo conto di essere partito da tempi troppo lontani.

I ragazzi di oggi che cavolo ne sanno dell’importanza di un piatto di minestra? E della difficoltà di procurarselo? Se hanno delle nonne, sono di sicuro signore ancora giovani, cresciute in un’Italia molto diversa da quella che circondava Caterina. E non recitano litanie.

Ma allora, visto che siamo alla fine dell’anno 2010, voglio raccontare qualcosa ai rivoltosi che si preparano a darci un Natale turbolento. Incoraggiati dalla convinzione di poterla fare franca di nuovo. Del resto, i loro compagni arrestati sono tornati subito in libertà, grazie alla clemenza dei magistrati che avrebbero dovuto tenerli in prigione per un po’ di tempo.

Ho imparato che i giudici non vanno criticati. Sono un potere molto forte e geloso della propria autonomia. Il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, ha protestato per aver visto ritornare sulla pubblica via dei giovanotti che gli hanno sfasciato il centro della capitale. Era una protesta che nel mio piccolo ho condiviso. Ma che ha subito ricevuto una replica altezzosa del presidente dell’Associazione nazionale magistrati. Lui ha sentenziato: accettiamo le critiche, ma non gli insulti. Però non mi pare che il sindaco di Roma abbia insultato nessuno.

Comunque sia, i giovani liberati e i tanti che non hanno trascorso nemmeno un’ora al fresco, appartengono a una generazione che non sa niente della vita. Credono che tutto gli sia dovuto. Si lamentano di non avere un futuro luminoso. Però non muovono un dito per costruirselo da soli. Anche perché vivono nell’illusione che la minestra, e tutto quello che viene dopo, sia un diritto privo di fatica e garantito dagli adulti.

State attenti, cari teppisti, cari sfasciatori di vetrine, di bancomat, di automobili, cari picchiatori di poveri poliziotti. Il mondo non gira come pensate voi. La vita che vi aspetta sarà molto più dura di quella dei vostri padri, dei vostri nonni, dei vostri bisnonni.

Non dovete credere alle favole che dei genitori distratti o troppo clementi vi hanno raccontato. Anche nell’epoca dei computer, di internet e dell’ipod vi potrebbe capitare di ritornare poveri. E di fare i conti con un’esistenza difficile, soprattutto per chi non ha un mestiere vero e finirebbe per ritrovarsi, lo dico alla buona, con le pezze al culo.

Allora, cari bamboccioni violenti, vi potrà servire la storia di mia nonna Caterina, quella del piatto di minestra. Non era nata nel Medioevo, ma nella seconda metà dell’Ottocento. E in una pianura, quella vercellese, a un tiro di schioppo da Torino e da Milano. Era analfabeta e così è rimasta sino alla morte, nel 1947. Non aveva mai un soldo in tasca e rimase vedova a 33 anni, con sei bambini da crescere. Il marito, Giovanni Eusebio Pansa, era un bracciante agricolo. E fu ucciso da un infarto mentre zappava il campo di un padrone.

I figli vennero mandati a lavorare da piccoli. Mio padre Ernesto, il quinto del gruppo, non riuscì neppure a finire le elementari. Aveva nove anni quando lo spedirono fare il servitore in un’azienda agricola, con l’incarico di portare le mucche al pascolo. Era così abituato a non possedere nulla che si ritenne fortunato il giorno che Vittorio Emanuele III, re d’Italia, lo chiamò alle armi e lo inviò al fronte, nella Terza Armata al comando del Duca d’Aosta. Aveva compiuto da poco i diciotto anni.

Tanto tempo dopo, gli chiesi come si fosse trovato nell’inferno della prima guerra mondiale. La sua risposta fu una lezione indimenticabile. Mi disse che si era trovato non bene, ma benissimo. L’esercito gli aveva dato il primo cappotto della sua vita, una novità strepitosa per un ragazzo che si difendeva dal freddo soltanto con una vecchia mantella. Poi un paio di scarponi nuovi, al posto delle scarpe di terza mano, sempre sfasciate. Poi ancora due pasti al giorno, e in uno c’era sempre un po’ di carne, la pietanza che in famiglia mettevano in tavola soltanto a Natale.

Infine, sempre sul fronte, assaggiò per la prima volta il cioccolato e fumò una sigaretta. Per ultimo, conobbe il piacere del sesso, sia pure nei bordelli della Terza Armata. Che, per volere del Duca d’Aosta, pare fossero i migliori dell’intero esercito italiano.

L’unico rammarico di Ernesto riguardava il fratello maggiore, Paolo. Lui non aveva potuto godere di tutto quel ben di Dio per un motivo banale. Paolo era emigrato negli Stati Uniti e lì faceva il muratore. Lavorava a New York e proprio il giorno d’inizio della guerra cadde da un’impalcatura e morì. Venne sepolto nel cimitero di Brooklin ed ebbe una lapide povera com’era sempre stata la sua vita.

Partendo dal piatto di minestra, sono arrivato a descrivere un’Italia ben più miseranda di oggi. La mia conclusione è semplice e schietta. Cari ragazzi teppisti, sono un vecchio signore che ha dovuto conquistarsi tutto. E voglio rivelarvi che di voi me ne fotto. Volete avere un futuro? Pensateci da soli e datevi da fare.

(di Giampaolo Pansa)