mercoledì 30 marzo 2011

Il caso de Mattei: riflettere su Dio e il male ed essere accusato d’indegnità scientifica


Lo storico Roberto de Mattei non immaginava che la riflessione da lui fatta dai microfoni di Radio Maria una settimana fa, nel corso di una rubrica mensile intitolata alle radici cristiane, sarebbe stata usata per chiedere le sue dimissioni dalla vicepresidenza del Consiglio nazionale delle ricerche, per incompatibilità tra le idee espresse in quella occasione e il ruolo scientifico che la sua carica presuppone.

Rilanciate dall’Unione atei e agnostici razionalisti, le parole di De Mattei sono diventate, in un titolo della Stampa, l’affermazione che “il terremoto è un castigo di Dio”: “Il suo, insomma, è un punto di vista non particolarmente basato sulla scienza – ha scritto la giornalista Flavia Amabile – ed è abbastanza comprensibile: se si legge il suo curriculum si nota che non è uno scienziato ma uno storico con evidenti radici cattoliche”.

E’ il professor De Mattei a spiegarci che “i temi da me trattati da un anno nella rubrica su Radio Maria, da privato cittadino e ovviamente senza che sia mai stato citato il mio ruolo al Cnr, sono di carattere religioso. Mercoledì scorso ho parlato del mistero del male, accostando due episodi di sofferenza: il terremoto giapponese e l’assassinio del ministro pachistano cristiano Shahbaz Bhatti, un male indipendente dalla volontà dell’uomo e un male originato dalla persecuzione e dall’odio umano. Ho detto testualmente che non c’è male morale nel terremoto perché il terremoto viene dalla natura, che è in sé buona, è creata da Dio, e se Dio permette i terremoti e altre sciagure, esistono ragioni che egli conosce e che noi non conosciamo”.

De Mattei ha ripreso alcuni passi di quanto monsignor Orazio Mazzella, arcivescovo di Rossano Calabro, pubblicava in un libriccino all’indomani del terremoto di Messina, nel 1908. “Mazzella, a proposito del male inspiegabile, della catastrofe che colpisce indiscriminatamente, faceva una serie di ipotesi. La prima è che attraverso queste sciagure Dio ci stacca dai beni della terra e ci fa sollevare gli occhi al cielo. Una seconda ipotesi – ipotesi, non sentenza – è quella della punizione, una terza è che attraverso la sofferenza e il sacrificio le anime hanno la possibilità di unirsi a Dio. Ho aggiunto che l’unica cosa certa, per noi credenti, è che una ragione per Dio c’è, anche se non ci è dato comprenderla. Tutto ciò che accade ha un senso”.

Si rimprovera a De Mattei il passaggio in cui dice, sempre citando Mazzella, che “ci accorgeremo che per molte di quelle vittime, che compiangiamo oggi, il terremoto è stato un battesimo di sofferenza che ha purificato la loro anima da tutte le macchie, anche le più lievi, e grazie a questa morte tragica la loro anima è volata al cielo prima del tempo perché Dio ha voluto risparmiarle un triste avvenire”.

Le riflessioni di De Mattei – al quale, inoltre, non si perdona di aver organizzato tempo fa un convegno di studiosi antidarwinisti – sono senza dubbio faticose da sentir pronunciare, ed è comprensibile che per molti siano inaccettabili. Ma che c’entra l’indegnità “scientifica” del vicepresidente del Cnr? De Mattei dice che “dovrebbe essere evidente che un credente, come io sono, all’interno di una meditazione dettata dalla fede (è una colpa?) abbia il diritto di ricordare quello che la dottrina cattolica, il magistero dei padri e dei dottori della chiesa, degli stessi Pontefici, ripete da sempre: Dio non ha creato il mondo per disinteressarsene”.

Il problema, secondo lui, è che “chi chiede le mie dimissioni vuol fare passare il principio che un cattolico non possa svolgere funzioni pubbliche. Chi crede nel dogma dell’Immacolata Concezione non potrà quindi mai più insegnare all’Università? Chi fa la comunione, e quindi crede nella transustanziazione, dovrà nascondere la propria fede perché ‘antiscientifica’? Gli insegnanti credenti che svolgono un ruolo pubblico, non potranno più andare a parlare di ciò in cui credono alla radio, cattolica o meno?”.

A De Mattei è arrivata la solidarietà di un ricercatore laico, lo storico del Cnr Luca Codignola, che sull’Occidentale ha denunciato la “petizione di benpensanti progressisti” che vogliono le sue dimissioni. Einstein diceva che Dio non gioca a dadi con l’universo, il grande genetista cristiano Francis Collins ha scritto che la scienza è per lui una “opportunità di preghiera”. Da declassare anche loro? “E’ evidente – conclude De Mattei – che qualcuno sogna una specie di dhimmitudine laicista: sei credente? Bene, purché te ne rimanga in chiesa; senza occupare spazi pubblici né pretendere di parlare pubblicamente delle tue convinzioni”.

Perché Sarkò sta giocando (male) la sua crociata libica


Preparate male, condotte male, senza chiarezza sugli obiettivi strategici a lungo termine, le operazioni militari in Libia hanno subito suscitato velate reticenze o critiche aperte, che appaiono perfettamente giustificate. La Germania non è favorevole, la Cina e la Russia sono contrarie, e così pure la maggior parte dei Paesi arabi. Eppure, le operazioni militari continuano. Così vuole Nicolas Sarkozy che ne sta facendo la sua piccola crociata personale. Ma perché? Due sono le ipotesi citate più citate.

La prima è che Sarkozy speri in questo modo di far risalire la sua popolarità, oggi ai minimi: all'inizio di marzo, il presidente francese otteneva soltanto il 22% di opinioni favorevoli, mentre tre quarti dei francesi gli erano ostili. Un conflitto armato in grado di conferirgli un'autorità regale, potrebbe avere degli effetti positivi sull'elettorato.

La seconda ipotesi è che, lanciandosi in un'avventura militare a sostegno dell'insurrezione armata contro il colonnello Gheddafi, il presidente francese speri di far dimenticare il suo comportamento, quanto meno equivoco, dimostrato durante le insurrezioni popolari in Tunisia e in Egitto. Cercherebbe di compensare il tiepido sostegno manifestato dalla diplomazia francese quando le folle egiziane e tunisine erano scese in piazza per sbarazzarsi rispettivamente di Mubarak e di Ben Ali, due dittatori che la Francia ha sempre sostenuto.

Tuttavia, entrambe le speranze rischiano di essere deluse. Innanzitutto è poco probabile che i francesi, già a stragrande maggioranza contrari alla presenza di soldati in Afghanistan, siano disposti a dar credito a Sarkozy in questa nuova missione militare, specialmente se dovesse trascinarsi nel tempo: più a lungo dura il conflitto e più rischia di degenerare e più l'opinione pubblica manifesterà la propria ostilità. Ci sono inoltre tutti i motivi per pensare che, agli occhi dei francesi, il presidente anziché «proteggere le popolazioni civili della Libia» o correre in soccorso delle rivoluzioni arabe con costose operazioni militari, debba pensare innanzitutto a proteggere i propri concittadini dai mali che li affliggono: il malessere sociale provocato dall'immigrazione, l'aumento della disoccupazione, la diminuzione del potere di acquisto.

I francesi, peraltro, non hanno probabilmente dimenticato che, nel dicembre 2007, Nicolas Sarkozy aveva ricevuto a Parigi, con tutti gli onori, quello stesso colonnello Gheddafi che oggi denuncia come «una persona orribile» e come un tiranno. Se Gheddafi era davvero impresentabile, perché lo ha frequentato tanto? E che senso aveva cercare di vendergli forniture militari se oggi lo stesso Sarkozy si prodiga a distruggerle?

Si sa come iniziano le guerre, non si sa mai come finiscono, né in cosa rischiano di sfociare. Oggi siamo di fronte a numerose incertezze. Che cosa si vuole fare esattamente in Libia? Sostenere un "Consiglio nazionale di transizione", di cui nessuno conosce la composizione né, soprattutto, le intenzioni? Aiutare i ribelli a conquistare il potere? Costringere Gheddafi ad andarsene? Spaccare il Paese in due, instaurando una divisione fra la Cirenaica e la Tripolitania? Ricostruire lo Stato libico adattandolo ai canoni della globalizzazione liberale? E come essere sicuri che l'intervento aereo non richiederà, prima o poi, di essere seguìto da un intervento a terra? Nessuna dittatura è mai caduta in seguito a una campagna di attacchi aerei! E che cosa succederà, infine, se il nuovo governo libico si rivelasse troppo islamista, o addirittura jihadista, e si rifiutasse di limitare i flussi migratori?

Sarkozy si è impegnato con leggerezza in un ambito grave, quello della guerra. Ha preso deliberatamente il rischio di aggredire un Paese arabo e musulmano alla testa di una coalizione occidentale, impresa già percepita da molti come "neocolonialista".

C'è anche una terza ipotesi: che il presidente francese - il gremlin dell'Eliseo - sia diventato completamente pazzo.

(di Alain de Benoist)

lunedì 28 marzo 2011

Quando l’occidente si mette nei guai


La missione in Libia, legittimata dall’Onu e avvolta da Francia e Inghilterra in una coltre di illusionismo umanitario, è stata imposta dall’alto – come piace ai liberal – e con un orizzonte temporale “limitato”, ma si sta trasformando in una guerra di posizione senza obiettivi condivisi e senza concordia militare. C’è però un nucleo di altri volenterosi – Italia, Stati Uniti, Germania, Turchia e Russia – che a vario titolo stanno lavorando per una via d’uscita politica, ribaltando con la forza della diplomazia (e sotto l’ombrello di ferro della Nato) l’intemperanza militare anglo-francese. Ecco la genealogia e gli ultimi sviluppi del gran gioco libico.

Una settimana di anarchia. La Nato ha assunto giovedì il comando di alcune operazioni della campagna libica – la gestione della “no fly zone” e l’embargo marittimo alle armi – ma non ha finora potere sulla “no drive zone” (i bombardamenti contro i mezzi a terra e le truppe del colonnello Gheddafi), che resta nelle mani dei singoli partecipanti alla missione. Oggi il comitato militare della Nato presenta i piani per allargare il mandato alla “no drive zone” e domani il Consiglio atlantico dovrebbe assumerne il comando. Da lunedì quindi, come dichiarato anche dal presidente francese, Nicolas Sarkozy, l’Alleanza atlantica guiderà la campagna libica, mettendo così fine a nove giorni di guerra fatta dai volenterosi senza alcun coordinamento. Nell’anarchia di una missione senza comando e senza obiettivi, la forza aerea di Gheddafi è stata quasi annientata, ma restano i mezzi a terra. La Francia ne ha già attaccati alcuni, ma il regime sta spostando i carri armati all’interno delle città dove combatte contro i ribelli, rendendo così complicato il bombardamento dall’alto.

Marciare divisi e colpire disuniti. Tom Ricks, informato commentatore di Foreign Policy, si è chiesto: Francia e America stanno combattendo la stessa guerra? Poi ha messo a confronto due dichiarazioni. Il ministro degli Esteri francese, Alain Juppé: “La distruzione della capacità militare di Gheddafi è questione di giorni o settimane, certamente non di mesi”. Il segretario alla Difesa americano, Robert Gates: “Penso che nessuno s’illuda che questa operazione possa durare, una, due, tre settimane”. Commento di Ricks: “Questa faccenda diventerà presto interessante (la missione durerà tre mesi, dice la Nato, ndr). Gli americani vogliono andarsene in fretta e dicono che durerà a lungo. I francesi vogliono mandare avanti la missione, ma dicono che non è così”. Al momento, gli Stati Uniti non hanno neanche un aereo che, sotto il comando della Nato, si occupi di far rispettare la “no fly zone”. I francesi vogliono tenere fuori dal comando Nato l’indirizzo politico della missione: l’espressione non ha molto significato, se non quello di riservare un margine di manovra arbitrario a chi si sente il leader “morale” dell’operazione, cioè i francesi.

La soluzione diplomatica. Martedì a Londra si riunisce il gruppo di contatto – i volenterosi, la Nato, l’Unione africana e la Lega araba – per definire gli sviluppi della missione. Sarkozy ha annunciato che sta lavorando con Londra a una soluzione diplomatica, riconfermando la tendenza a considerare la guerra in Libia un affare personale e nazionale. Franco Frattini, ministro degli Esteri, ha posto un freno all’iperattivismo francese: “Anche noi abbiamo delle idee”. Tripoli ha aperto alla “road map” dell’Unione africana: cessate il fuoco immediato e dialogo tra le parti.

L’Oil for food libico.
La cancelliera tedesca, Angela Merkel, ha chiesto all’Europa l’embargo completo del petrolio. Molti paesi, compresa l’Italia, hanno chiesto e ottenuto un compromesso: andare all’Onu e attivare un meccanismo internazionale simile a quello applicato in Iraq per evitare che, nel lungo periodo, altre nazioni, come la Cina e l’India, approfittino dell’embargo europeo per ottenere contratti e commesse.

Fuoco amico sulla Nato. L’Unione europea ha mostrato ancora una volta di non avere unità né coordinamento e Cathrine Ashton, Alta rappresentante per la Politica estera, ha mostrato debolezza e inefficacia. Ma questa non è una novità. La Francia, noncurante delle posizioni di altri paesi come la Germania e l’Italia, ha fatto sì che anche l’Alleanza atlantica si devitalizzasse (non è una novità per la Francia, questa, ma il mondo non è a immagine e somiglianza di Parigi). Poiché Sarkozy voleva tempo per portare avanti i propri obiettivi, ha cercato in tutti i modi di relegare la Nato nel ruolo di sostegno logistico-militare, annullandone le prerogative politiche. Ancora ieri Sarkozy dichiarava: “Non sono le forze della Nato che andranno a proteggere i civili in Libia, sarà la coalizione dei volenterosi”. L’assenza dell’America, che non ha avuto il coraggio di dire di no a un’operazione in cui non ha mai creduto – Charles Krauthammer scrive sul Washington Post a proposito di Barack Obama: “Un uomo che inizia una guerra dalla quale vuole andarsene subito. Buon Dio. Se vai a conquistare Vienna, conquista Vienna. Se non sei preparato a farlo, è meglio che stai a casa e non fai niente” – ha fatto il resto.

Contenere il bullismo parigino. Non è un caso che il premier turco, Recep Tayyip Erdogan, abbia commentato così il graduale passaggio di potere alla Nato: “Trovo positivo che la Francia cominci a essere ai margini, soprattutto in Libia”. Non è un caso che il ministro degli Esteri tedesco, Guido Westerwelle, contrario all’operazione, abbia criticato così il bullismo di un Sarkozy, intenzionato ad applicare la formula libica anche agli altri dittatori della regione: “Penso sia una discussione molto pericolosa, con conseguenze difficili per la regione e il mondo arabo”.

(di Paola Peduzzi e Alessandro Giuli)

domenica 27 marzo 2011

La linea Sarkozy è neo-coloniale


L’interventismo del governo francese nella crisi libica riflette un orientamento neo-coloniale? E quali sono le ragioni profonde che animano la scelta di Parigi di promuovere l’iniziativa militare contro Muhammar Gheddafi? Gli interessi petroliferi? O la smania di protagonismo internazionale di Nicolas Sarkozy? Attorno a questi interrogativi si sviluppa la riflessione di Sergio Romano, storico e diplomatico. Il quale delinea la natura complessa dei rapporti fra Italia e Francia: «Legami intensi e altalenanti dal punto di vista politico ed economico, fin dal Risorgimento, con una forte impronta culturale del Belpaese nella formazione di alcune personalità della vita pubblica d’Oltralpe».

È fondata l’accusa rivolta all’Eliseo di realizzare una strategia neocoloniale in Libia?

Parigi ha perseguito da decenni una politica post-coloniale. Charles De Gaulle tentò senza successo di creare l’Unione francese con le ex colonie, sul modello del Commonwealth. Negli anni è riuscita a stabilire un legame paternalistico con quei paesi grazie a una rete clientelare con i loro governanti, “vassalli” del governo francese e quasi sempre dittatori. Sarkozy non vuole rinunciare a quel rapporto. Innanzitutto per ragioni interne: oggi è al 20 per cento dei consensi, e deve recuperare nei confronti di avversari temibili come Le Pen, De Villepin, e Strauss Kahn. Ma comprende che quella politica non è più proponibile, ed è passato rapidamente dal supporto di regimi come quello di Mubarak e Ben Alì alla causa dell’ingerenza umanitaria. Un governante che si gioca tutto in una guerra deve considerare lo scenario del post-Gheddafi, che evidentemente gli offre maggiori garanzie.

Ma la risoluzione delle Nazioni Unite non parla di eliminazione del raìs.

È qui l’ambiguità dell’intervento, che non presenta obiettivi dichiarati e ben delimitati. Sarkozy deve esplicitare questo fine, e non potrà ritirarsi dal paese finché non l’avrà conseguito. Ma non tutti gli alleati sono concordi. Lo prova anche il fatto che l’Alleanza atlantica non avrà una responsabilità politica di direzione dell’iniziativa, che è stata assunta da Parigi e Londra. Peraltro, da “europeista” convinto della necessità di una difesa continentale integrata, non avrei invocato l’intervento di un organismo strettamente dipendente dagli Stati Uniti. Roma lo ha fatto per provare a superare l’asse franco-inglese, anche sollevando il problema delle basi militari e giocando di sponda con l’amministrazione Usa.

Ragionando in una prospettiva storica, quale è la cifra dominante nei nostri rapporti con la realtà d’Oltralpe?

Sono stati legami profondi e altalenanti nel tempo. Abbiamo promosso il processo risorgimentale con la Francia di Napoleone III ma l’abbiamo concluso contro quel paese nel 1870. Nell’Italia unitaria furono memorabili le battaglie anti-protezioniste dei filo-francesi contro Francesco Crispi, simpatizzante della Germania guglielmina. Poi arrivarono le alleanze politico-militari, culminanti nella Grande Guerra e nel richiamo retorico alla fratellanza fra i due popoli. Fino all’avvento di Benito Mussolini, che compì “la pugnalata alle spalle” nel 1940. Una macchia che il governo di Parigi avrebbe “redento” quando insistette per includere il nostro paese nell’Alleanza atlantica e nella Ceca. Ritengo comunque che la tendenza prevalente nella classe dirigente d’Oltralpe è stata di considerare irrilevanti i malumori italiani che andassero contro il suo interesse nazionale. Ma allo stesso tempo è indubbio il fascino, l’intrigo seduttivo che il Belpaese ha esercitato. Alcune personalità di spicco della vita pubblica transalpina hanno avuto grande consapevolezza del ruolo giocato dall’Italia anche nella loro formazione. Penso a Mitterrand e a De Gaulle, che però detestava la partitocrazia esportata dal nostro paese ed erroneamente fu considerato dalla sinistra italiana un «generale anti-democratico».

Alcuni settori nevralgici del nostro tessuto industriale sono obiettivi di scalate da parte di imprenditori francesi. Approva le misure varate per impedirle?

No. Ma il liberismo funziona al meglio quando ne beneficia una platea ampia di paesi. Tuttavia l’Italia ha le sue colpe: oggi ha perduto tutte le sue posizioni di forza nel nucleare, nell’informatica, nella chimica. Mentre nel settore alimentare e nella moda sono state le aziende transalpine della grande distribuzione a entrare nel nostro mercato: questo perché continuiamo a basare la nostra economia sull’assunto erroneo che “piccolo è bello”.

venerdì 25 marzo 2011

A vent'anni della morte di Mons. Marcel Lefebvre


Sono trascorsi già vent'anni da quel 25 marzo 1991, Festa dell'Annunciazione, giorno nel quale si concluse l'esistenza terrena dell'Arcivescovo Marcel Lefebvre. Due decenni certamente non sono nulla se rapportati alla bimillenaria storia della Chiesa, non sono pochi, tuttavia, se considerati nell'ottica della nostra umanità, specialmente in quest'epoca contemporanea dove tutto sembra accelerare, dalla comunicazione ai trasporti, dalle mode effimere in campo artistico, al linguaggio "pastorale" sempre mutevole dei documenti magisteriali.

Potrebbe allora apparire anacronistico o velleitario soffermarsi a ricordare la vita di quest'uomo senza dubbio "diverso" ed in netto contrasto con tutti gli orientamenti più moderni ed attuali del mondo che ci circonda.

La sua memoria sembrò allora destinata ad un inesorabile oblìo: fascista ed oscurantista per i laicisti, disobbediente e scismatico per i cattolici, intollerante ed antisemita per gli ebrei, quantomeno presuntuoso e nostalgico per quasi tutti. Scomunicato dalla Chiesa e dal mondo! Destino davvero insolito questo se è vero, come è vero, che queste due entità dovrebbero, secondo quanto insegnato dal Vangelo, sempre opporsi l'una all'altra senza poter condividere nè gli amici nè i nemici.

Ma le profezie di allora, che preannunciavano una "damnatio memoriae" o quanto meno un rapido oblìo sembrano oggi tutt'altro che compiute. In questo ventesimo anniversario sicuramente torneranno a confrontarsi aspramente coloro che, nel rapportarsi alla sua figura storica, ne mettono in evidenza critica solo l'aspetto dell'apparente disobbedienza, e gli altri, non pochi in verità, che tendono sempre più a sottolinearne il coraggio e la lungimiranza nel mezzo di una crisi del cattolicesimo senza precedenti.

Tutto questo è scontato e facilmente prevedibile. Esistono però alcuni aspetti, ovvi e forse proprio per questo ignorati dai più, che non possono essere sottovalutati a cuor leggero da un osservatore che intenda essere sereno ed imparziale.

In primo luogo non si può negare che la figura di Mons. Lefebvre, a venti anni dalla sua scomparsa, continua a suscitare interesse e dibattito. Il suo nome non può lasciare indifferenti. Basta scrivere un articolo su di lui o sulla congregazione religiosa che ha lasciato, e subito si scatenano gli animi di estimatori ed oppositori irriducibilmente contrapposti.

Se guardiamo infatti i commenti sui blog vicini al mondo della tradizione cattolica non è difficile rendersi ben conto di tale realtà.

Ma anche il mondo laicista si mostra particolarmente sensibile ogni volta che, direttamente o indirettamente, è costretto ad occuparsi di questo personaggio pericoloso. La sollevazione mediatica, certo ben architettata, messa in scena in occasione della revoca delle scomuniche nel 2009, testimonia ampiamente dell'importanza attribuita in determinati ambienti alla "questione tradizionalista" di cui, volenti o nolenti, l'Arcivescovo francese continua ad incarnare l'emblema ad ogni latitudine. Mons. Lefebvre dunque come segno di contraddizione? Nominarlo in senso positivo significa, in altre parole, provocare reazioni simili a quelle avutesi, a suo tempo, con padre Pio o, ancora adesso, per la ventilata beatificazione di Pio XII.

Quanto fino ad ora considerato però è un fatto che, più o meno, si è mantenuto costante dal 1991 ai giorni nostri. Più stupefacente appare invece il risveglio di attenzione culturale verificatosi negli ultimi anni sia verso le vicende della sua vita come anche nei confronti delle idee professate.

A partire dalla biografia pubblicata l'anno scorso da Cristina Siccardi, sono poi usciti in libreria altri volumi dedicati ad aspetti specifici dell'opera di Mons. Lefebvre. Si sono mossi in tal senso anche editori insospettabili di eresia come Marietti.

Ma l'attualità del personaggio la si può altresì misurare anche in relazione al recente dibattito sul valore magisteriale dei documenti emanati dal Concilio Vaticano II e alla ricostruzione storiografica della grande assise ecclesiale degli anni '60.

In tale prospettiva i riferimenti ai discorsi ed agli scritti dell'ex superiore dei padri Spiritani si rivelano quanto mai centrali e ricchi di implicazioni dottrinali.

Confrontando infine la maggior parte delle previsioni del 1991 rispetto alle risultanze odierne appare di tutta evidenza la fallacità di molti osservatori del tempo i quali, tuttavia, anche oggi non perdono spesso il vizio di voler pontificare senza il benchè minimo ripensamento autocritico.

La Fraternità San Pio X, tanto per fare un esempio, si è rafforzata e non disgregata. Sono nate sì alcune congregazioni uscite dal suo seno ma, complessivamente, la FSSPX appare assai più solida e credibile rispetto ad allora.

La Tradizione inoltre continua ad attrarre un gran numero di giovani in barba a tutti coloro che accusavano Mons. Lefebvre di "nostalgie" adatte solo a vecchi incartapecoriti e prossimi all'estinzione fisica. Chi si sta invece estinguendo è caso mai la figura patetica del prete conciliare, prete-operaio, prete-animatore, prete-aggiornato: basta dare uno sguardo alle statistiche sulle ordinazioni in Europa!

E che dire infine della S. Messa di sempre, vera e propria "bandiera" della lotta di mons. Lefebvre? Sento ancora nelle orecchie i risolini di compatimento di certi grandi sociologi della religione: La Messa Tridentina, a loro qualificato giudizio, non aveva futuro. Rimanere attaccati a questo rito del passato significava non rispettare il Papa e, soprattutto, peccare di estetismo fine a sè stesso.

Il "Summorum Pontificum" dunque, nei passaggi che sanciscono che l'antico rito non è mai stato abrogato, ha rappresentato una grande vittoria per Mons. Lefebvre. Una vittoria che crediamo egli abbia potuto vedere dal cielo.

Speriamo quindi di poter leggere, in occasione di questo ventesimo anniversario, altre previsioni come quelle del passato. Ci sarà probabilmente da divertirsi anche nel 2031!

(fonte: www.sanpiox.it)

mercoledì 23 marzo 2011

Non rischiando Berlino rischia grosso


La sinistra vuole la guerra, la destra invece è in imbarazzo, e se solo potesse più che astenersi sarebbe contro. Sembra l’Italia, ma è la Germania. E se le esitazioni del governo di Roma si spiegano anche con la curiosa e personale special relationship tra il premier Silvio Berlusconi e il dittatore libico Muammar Gheddafi, con gli storici interessi petroliferi e con la prossimità geografica che (vedi le preoccupazioni della Lega Nord) rischiano di fare dell’Italia il paese più “danneggiato” dagli sbarchi di rifugiati e profughi provenienti dalla Libia, più difficile sembrerebbe capire le ragioni della Germania, che insieme a Russia, Cina, India e Brasile si è astenuta sulla risoluzione 1973 delle Nazioni Unite e non sta partecipando, neanche indirettamente, all’attacco militare, deciso da tre alleati storici di Berlino come Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti.

Il ministro degli esteri, il liberale Guido Westerwelle, ha respinto le critiche, sostenendo che non solo la Germania «non è isolata», ma molti paesi, «come la Polonia », condividono la sua posizione. Ieri Westerwelle ha persino fatto capire che l’opposizione della Lega araba farebbe intendere che in realtà oggi la Germania sente di avere ancora più ragione di ieri: «Se a tre giorni dall’inizio dell’attacco la Lega araba già lo critica, allora significa che avevamo buoni motivi». Berlino spinge per pressioni economiche e politiche, e si domanda, come ha fatto il cancelliere Angela Merkel qualche giorno fa: «Perché intervenire in Libia e non altrove?». È una domanda che in Italia si fa la sinistra radicale, ma a cui in Europa tanti governi e tanti partiti di opposizione hanno trovato risposte sicure: la Libia è a due passi dai nostri confini, e peraltro – come ha dichiarato il leader dei socialdemocratici tedeschi Sigmar Gabriel – è guidata da un «mafioso del petrolio». «Non è degno della Germania» negare solidarietà al popolo libico, ha attaccato il verde Tom Königs.

Ma allora perché il paese che nel 1999 fu in prima linea nella guerra in Kosovo (grazie al duo rosso-verde composto da Gerhard Schröder e Joschka Fischer) oggi è indeciso al punto che, stando alla Frankfurter Allgemeine Zeitung, Westerwelle avrebbe cercato persino di bloccare la risoluzione dell’Onu? Ci sono ragioni economiche, visto che insieme all’Italia la Germania è uno dei paesi europei che più avrebbero (avrebbero avuto?) da guadagnare dal mantenimento dello status quo gheddafiano (dopo Roma, è il secondo compratore di petrolio libico e il secondo esportatore verso quel paese, con un traffico che è aumentato del 56 per cento nell’ultimo anno).

Ma il motivo principale è di natura politica. La debole maggioranza di centrodestra (che comunque, tradizionalmente, non è certo militarista) non vuole imbarcarsi in un conflitto di cui si ignorano la durata e le conseguenze. Tanta incertezza, tanta imprevedibilità rischia di essere pericolosa in una stagione di importanti appuntamenti elettorali e di alta impopolarità (aumentata anche con l’effetto Giappone sul nucleare), tanto più che, secondo un sondaggio commissionato dal quotidiano Bild all’istituto Emnid, il 62 per cento dei tedeschi è a favore del conflitto, ma il 65 per cento è contro il coinvolgimento tedesco: più o meno proprio la posizione del governo Merkel.

Perché azzardare, insomma? Perché non farsi gli affari propri? Il rischio, però, è un altro. Lo ha sintetizzato così il quotidiano conservatore Die Welt: «Se l’intervento militare ha successo e fa cadere rapidamente Gheddafi, allora il Cancelliere e il suo ministro degli esteri avranno commesso il più grande errore di politica estera dal 1949 a oggi».

martedì 22 marzo 2011

Missione maldestra


Naturalmente, faranno anche questa. Ormai l’arroganza e l’orgia del potere incontrollato non hanno più limiti: la democrazia non è più nemmeno ridotta a un guscio formale; il rispetto di norme e convenzioni non regge davanti a un’incuranza e a un’ignoranza che non conoscono più limiti; le opinioni pubbliche non esistono più, annegate nel marasma del bla-bla televisivo e mediatico dove tutti gridano, nessuno sta a sentire e nessuno incide sulla realtà che è invece gestita da una banda di gangster e dai loro gregari.

Il mondo arabo è in fiamme, ma le notizie arrivano frammentate e quasi casuali. Lo Yemen è sull’orlo di una guerra civile; gli Emirati Arabi Uniti (gli stessi che collaborano alla missione Odissea all’alba sui cieli della Libia) usano le loro spietate polizie per soffocare nei loro paesi le richieste di libertà; la Tunisia è lasciata a se stessa, e la gente di là può solo scappare sulle carrette natanti verso Pantelleria. Gheddafi uccide. Non è la prima volta. Lo faceva anche quando era nostro amico e nostro complice; anche quando distribuiva libretti verdi ad alcune puttanelle e accettava i baciamano dei suoi soci in affari e colleghi di quel che le convenzioni obbligano ancora a definire “di governo”.

Anche altrove si ammazza, si reprime, si tortura, s’imprigiona. Ma il punto, per il democratico Occidente, non è intervenire dove più difficili sono le situazioni e più dura si fa la ferocia degli assassini. No. Il punto è scegliere secondo convenienza e al tempo stesso mostrare i muscoli.
Dopo l’esportazione della democrazia di buona irachena memoria, siamo alle “ragioni umanitarie”: e lo stesso presidente della repubblica finge di crederci; e recita la commedia del “questa-non-è-una-guerra”.

L’operazione militare Odissea all’alba, che nelle intenzioni proclamate dai suoi promotori – in primis il presidente francese Nicolas Sarkozy – avrebbe il solo scopo d’impedire pesanti ritorsioni aeree delle truppe del raìs Gheddafi sulla popolazione civile delle aree del paese libico per ora nelle mani dei “ribelli”, è scattata in modo inatteso sabato 19 marzo 2011: il presidente francese ha sorpreso “di contropiede” la comunità internazionale trascinandola in un’avventura che l’Onu ha provveduto a tempestivamente legittimare, pur non potendo celare l’imbarazzo. Una mossa avviata in modo maldestro, che ha dato luogo a una coalizione “equivoca”, nella quale gli Stati Uniti hanno dato l’impressione di essere entrati di malavoglia e solo per non cedere ai francesi il primato dell’iniziativa. Gli “alleati” che, per dirla col ministro degli esteri italiano Frattini, «non potevano essere assenti» dall’azione – un parere, questo, a dire il vero piuttosto debole che sembra tiepidamente condiviso dallo stesso presidente del consiglio – hanno l’aria di costituire un insieme alquanto eterogeneo, che va dalla Spagna alla Danimarca al Qatar. Non è né Onu, né Unione europea, né Nato.

Tutto ciò, in barba e in spregio a due princìpi che dovrebbero essere chiari. Primo, quello dell’autodeterminazione dei popoli: di tutti i popoli, non solo di quelli che qualcuno a Washington o a Parigi ritiene virtuosi. È un principio-base della convivenza e del diritto internazionale.
Serve a evitare di cadere in una jungla dove valga solo la legge del più forte. Da vent’anni, cioè dai tempi del Kosovo e della prima guerra del Golfo, se ne fa strame. Non possiamo più tollerarlo.
Secondo, quello dell’iniziativa comunitaria. Gli interventi umanitari da parte della comunità internazionale debbono esser decisi primariamente ed esclusivamente dall’Organizzazione delle Nazioni Unite: che non può andar a rimorchio di nessuno, contrariamente a quel che fece nel 2003 con gli Usa a proposito dell’Iraq e a quel che ha fatto adesso a rimorchio della Francia.
Aggiungiamo che la Nato (North Atlantic Treaty Organization) non avrebbe alcun titolo per intervenire in quel Mediterraneo nel quale invece spadroneggia; e che sarebbero ormai ora che i paesi membri dell’Unione europea, dopo aver dato tante e tanto squallide prove di sé, cominciassero ad agire di comune accordo fra loro – e senza aspettare il placet americano o farsi travolgere dei fulmini di guerra degli emuli del Bonaparte – e a tracciare insieme un abbozzo di comune politica di difesa.

Infine, l’Italia avrebbe avuto tutti i titoli storici e geopolitica per avanzare una seria ed energica proposta mediatrice tra Gheddafi e gli insorti: avrebbe dovuto farlo energicamente e tempestivamente, e a tal fine avrebbe dovuto chiedere con forza un mandato internazionale.
Ma, per fare cose come queste, ci vuole un governo. Non una “loggia coperta”, o un’organizzazione volta a organizzare profitti e festini, o un’organizzazione a delinquere.

(di Franco Cardini)

lunedì 21 marzo 2011

Dubbi sul conflitto libico. Commessi troppi sbagli per un obiettivo giusto


Sbaglierò ma questa guerra al­la Libia non mi piace. Non mi sen­to di condannare le perplessità del­la Lega ma anche la prudenza ini­ziale di Obama e della Merkel. Al­tro che irresponsabili, come dice Casini e poi la sinistra in versione guerresca. Capisco la necessità di allinearsi alle Nazioni Unite, agli al­leati, ai francesi e ai gruppi di pres­sione internazionale, ma temo che l’attacco militare sia un errore di cui pagheremo le conseguenze. Non so come fanno a colpire Ghed­dafi senza colpire l­e popolazioni ci­vili al cui soccorso diciamo di anda­re. Non so se i danni che cerchia­mo d­i evitare con l’attacco aereo sa­ranno superiori a quelli che andia­mo a procurare ai libici e a noi stessi.

Non so se dopo Gheddafi verrà fuori una Libia somalizzata e non so se tra i ribelli prevarranno gli amanti della libertà o del fanatismo islamico. Non so come la prenderà il mondo arabo con le sue frange più estreme; temo che la leggeranno come un’ingerenza e un’arroganza israeliano-occidentale e reagiranno di conseguenza. Fa pensare la neutralità della Russia, non sappiamo cosa faranno l’Iran e la Cina. Non so come finirà per noi col petrolio, il gas e le torme d i immigrati e non so se riprenderà vigore il terrorismo. Temo un altro Irak, se non un altro Afghanistan. E ancora. Non so perché le repressioni sanguinose in Libia debbano far scattare l’attacco e quelle nello Yemen o in Siria no, per dire solo dei Paesi più vicini. Non so se il movente principale dell’attacco sia davvero la tutela dei diritti umani violati o alcun i interessi politico-elettorali interni più interessi d’affari. Realisticamente penso ambedue.

Non so, infine, se per noi italiani che siamo così vicini alla Libia sia un bene entrare in una guerra nel condominio mediterraneo. Intendiamoci. Detesto Gheddafi e - spazziando mi piacerebbe che il sarcofago di cemento progettato per blindare la centrale nucleare giapponese servisse per chiuderci dentro il bunker di Gheddafi, colonnello incluso. Se un mimo volesse simulare un Dittatore cattivo, le sue smorfie, la sua bocca che tende al disprezzo e al disgusto, il suo aspetto tipico e la sua risata satanica, non riuscirebb e a far meglio di lui. Gheddafi non è solo un tiranno, ma recita convinto quella parte. Detesto Gheddafi da quando conquistò il poter e con il golpe, spodestò un sovrano di buon senso e cacciò gli italiani, derubandoli del frutto del loro lavoro che aveva giovato anche alla Libia.

Contestai da ragazzo l’Italia di Moro e di Andreotti, che fu per anni il suo cammello di Troia; l’Italietta che non reagiva alle minacce, le offese e le azioni del colonnello ma trescava con lui. Mi vergognavo di quell’Italia che con la scusa del complesso coloniale, si inginocchiava al cospetto di questo pagliaccio. Perfino la Fiat finì in ginocchio da lui e Patty Pravo cantò Tripoli ’69 . Ho detestato nel tempo Gheddafi per le sue spacconate, i missili a Lampedusa, le sue fabbriche di armi chimiche, i suoi aiuti al terrorismo. Voleva papparsi la Sicilia e le Isole Tremiti. Per fortuna, ha mezzi scassati e missili low cost, ed è solo un guappo ’e cartone ; ma se avesse potuto, avrebbe invaso l’Italia, devastato l’America e distrutto Israele. Non condivisi però le bombe di Reagan che colpirono la Libia ma lasciarono in piedi il dittatore.

Ho il triste privilegio d i averle viste dal vivo quelle bombe, mentre volavo su quella rotta una sera di aprile dell’86: si vedevano i bagliori all’orizzonte. Non condivisi poi i salamelecchi di Prodi a Gheddafi, che come lui stesso dice, lo sdoganò in Europa, e gli elogi di D’Alema al Colonnello. Per la stessa ragione, pur condividendo le nostre ragioni - petrolio, sicurezza e immigrati - mi irritò l’amicizia di Berlusconi con Gheddafi, il suo baciamani e la visita a Roma, con le foto antitaliane attaccate sul petto, le amazzoni, il carosello e la tenda, come un circo Orfei diventato Stato. Certo, Gheddafi nel frattempo era diventato collaborativo con l’Occidente e utile per noi. Del colonialismo Gheddafi ha ereditato i lati peggiori: la prepotenza, gli stivaloni, il militarismo, i bombardamenti sui civili, perfino il gas nervino. Criticò il Ventennio nero ma lui lo ha raddoppiato, è dittatore da oltre un Quarantennio.

Avrei auspicato che il Colonnello fosse finalmente promosso Generale e andasse in pensione col massimo. Ora la strada intrapresa dall’Occidente non mi sembra la migliore, se il tiranno non sarà piegato in un lampo. Forse sarebbe stato meglio accettare la sua proposta di mandare emissari dell’Onu per controllare il rispetto degli oppositori e l’avvio delle riforme di libertà promesse, negoziare e garantire i ribelli e le zone insorte, senza arrivare alle bombe. E solo davanti alla provata impossibilità di garantire tutto questo, decidersi all’azione di guerra. Ancor più dell’intervento militare, mi preoccupa il suo uso. Queste azioni o si fanno subito, si portano fino in fondo e si ripetono in altre situazioni analoghe, fino a stabilire il principio che si interviene sempre, laddove la vita dei popoli è messa in pericolo, o è meglio evitarle. Comunque se l’Italia interviene, a torto o a ragione, sto col mio Paese.

(di Marcello Veneziani)

L’affascinante insensatezza della vita


Quando, nel 1937, Cioran arrivò in Francia dalla nativa Romania era nient’altro che uno studente-studioso di filosofia, poco più che ventenne, ma già in fuga dal suo Paese, dal mondo, dalla vita. Installatosi in un alberghetto del Quartiere latino, in rue Racine, forte di una borsa di studio rinnovatagli dall’Istituto di cultura non per i suoi lavori, ma per aver girato la Francia intera in bicicletta («di lei si può almeno affermare che conosce questa nazione» gli disse il funzionario che gliela fece avere) e usando la mensa della Sorbona come suo ristorate abituale, Cioran riuscì a vivere senza lavorare, suo unico massimo-minimo obiettivo. Quando una legge dello Stato stabilì che dopo i ventisette anni non ci si poteva più iscrivere all’università, l’allora quarantenne studente-studioso si ritrovò «cacciato da quel paradiso», ma non per questo si diede per vinto e accettò le regole della società civile che impongono uno stipendio, una carriera, degli obblighi.

Al giornalista che nel 1970 lo intervistava confessò: «La maggior parte del tempo non faccio niente. Sono l’uomo più sfaccendato di Parigi. Credo che in questo possa battermi soltanto una puttana senza clienti». Aveva sessant’anni. Nel centenario della nascita e a un quarto di secolo ormai dalla morte (Rasinari 1911, Parigi 1995) varrebbe forse la pena riflettere su questo curioso combinato-disposto che vedeva uno spregiatore del genere umano condannato però a una formidabile ansia di vivere. Perché esteriormente non c'è niente in Cioran del lugubre abito apocalittico-nichilista indossato da altri pensatori, ma al contrario un uomo spiritoso, beffardo, allegro, pieno di curiosità, compassionevole e portato a confrontarsi con i suoi simili. E tuttavia, al contempo, è difficile trovare un altro pensiero così distruttivo nella sua sistematicità.

Bastano alcune frasi per rendere un’idea di quanto sopra: «Ho scritto per ingiuriare la vita e per ingiuriare me stesso. Il risultato? Mi sono sopportato meglio, e ho sopportato la vita». «Io non sono pessimista, ma violento… è questo rende che rende vivificante la mia negazione». «Io non ho mai creduto davvero in niente. Non c’è niente che io abbia preso sul serio. L'unica cosa che abbia preso sul serio è il mio conflitto con il mondo. Tutto il resto per me è soltanto un pretesto».

In Un apolide metafisico (Adelphi editore, come tutta l’opera di Cioran tradotta in italiano, per la cura di Mario Andrea Rigoni), c’è una sua definizione che ne spiega bene il modo di essere e di pensare: «Io non potrei essere un politico, perché credo nella catastrofe. Per parte mia, sono certo che la storia non è la via al paradiso. Eppure, se sono un vero scettico, non posso neanche essere sicuro della catastrofe… Diciamo che ne sono quasi sicuro! Ecco perché mi sento distaccato da qualsiasi Paese, da qualsiasi gruppo. Sono un apolide metafisico, un po’ come quegli storici della fine dell’Impero romano che si sentivano “cittadini del mondo”, il che è come dire che erano cittadini di nessun luogo».

Questo sentimento di marginalità, di fine e di confine è centrale nella sua riflessione filosofico-esistenziale: «Ho cercato a lungo di capire come reagissero a certi avvenimenti uomini che non potevano diventare cristiani e che sapevano di essere perduti. A me pare che la nostra situazione, la nostra posizione, assomigli un po’ a quella degli ultimi pagani prima che si diffondesse il cristianesimo, con la differenza, per la verità, che non possiamo più aspettarci nessuna nuova religione. Ma a parte questo ci troviamo nella situazione degli ultimi pagani. Vediamo che stiamo per perdere tutto, che forse abbiamo già perduto tutto, che non ci resta un briciolo di speranza, che non possiamo neanche lontanamente pensare alla speranza. In questo il nostro destino è molto più patetico, molto più insopportabile e al tempo stesso più interessante.

C’è almeno questo di positivo nella nostra epoca; io la trovo estremamente interessante, forse troppo interessante. Sicché da un lato si può essere sfortunati a dover trascorrere l’esistenza in un posto simile, ma dall’altro è comunque meraviglioso assistere all’approssimarsi del diluvio. Mi avrebbe davvero estasiato essere contemporaneo del diluvio».

En attendant la catastrofe, Cioran vive e dalla insensatezza del vivere è comunque affascinato: «Il paradosso della mia natura è che provo amore per l’esistenza, ma allo stesso tempo ogni mio pensiero è ostile alla vita. Ho sempre avvertito e intuito il lato negativo della vita, il vuoto di tutto». È anche per questo che i suoi libri hanno spesso effetti spiazzanti, ovvero tonici, corroboranti. La sua visone negativa è fiammeggiante, è polemica, è ingiuriosa e quindi per certi versi è vitale. Senza raggiungere le sue vertigini e la sua profondità, chiunque di noi abbia le sue stesse coordinate, ovvero nessuna fede trascendente, nessuna propensione alla Storia come Progresso, nessuna fiducia nella Scienza come risposta ai misteri del mondo, si ritrova in un universo di cui conosce perfettamente entrate e uscite, nascondigli e spazi aperti.

L’universo di chi vive la noia come una compagna, di chi si appassiona a un progetto, ma sa che tanto non porterà a niente, di chi assiste disgustato alle competizioni per un posto, un premio, un successo, perché già ne conosce il fondo amaro, già sa che dopo non ti serviranno a niente, di chi è quietamente disperato e avverte il battito inesorabile del Tempo.

Dice Cioran che «la cosa veramente bella della vita è l’avere perso ogni illusione, e ciononostante fare un atto di vita, essere complici. Essere in totale contraddizione con quello che si sa. E se la vita ha qualcosa di misterioso è appunto questo, che pur sapendo ciò che si sa, si è capaci di compiere un atto che va contro il proprio sapere». In ogni impresa in cui ci mettiamo, in ogni passione che viviamo noi non facciamo altro che attingere a questo mistero: non è un’illusione, è una convenzione o, se si vuole, un atto di sopravvivenza, un’accettazione delle regole del gioco pour sapendo che il gioco è tarato in partenza, vincitori e vinti sono già stabiliti. Proprio perché conosce la vita Cioran è lontano dalla algida perfezione dei nichilisti puri, di quelli che costruiscono un perfetto sistema distruttivo che è però squisitamente intellettuale, non umano, ha a che fare con le idee, ma non con la realtà.

Dal confronto con quest’ultima Nietzsche esce pazzo proprio perché, non conoscendola, ne viene sopraffatto, laddove Cioran, che pure non ha illusioni, ne comprende appieno la potenza seduttrice e sa quando abbandonarsi a essa per meglio rifuggirla poi. Anche l’idea del suicidio rientra in questa prospettiva: «Il pensiero del suicidio è un pensiero che aiuta a vivere. Senza l’idea del suicidio mi sarei ammazzato subito. La vita è sopportabile soltanto all’idea di poterla lasciare quando si vuole. La vita è a nostra discrezione. L’idea che si possa vincere la vita, l’idea di aver in pugno la nostra vita, di poter abbandonare lo spettacolo quando vogliamo, è un’idea esaltante».

I libri di Cioran compongono il breviario delle felicità di un infelice, un po’ la condizione esistenziale di noi poveri disgraziati condannati a morire avendo in bocca il gusto di vivere.

(di Stenio Solinas)

giovedì 17 marzo 2011

Da Pio IX a Benedetto XVI, Vian spiega che il sollievo della Chiesa per la fine del potere temporale non nasce oggi


Centocinquant’anni anni fa la proclamazione del Regno d’Italia aprì una fase drammatica per il papato. Cadeva quel che restava del dominio temporale della chiesa cattolica e in molti, corte pontificia compresa, vissero il delicato passaggio non senza sofferenza.

Oggi il ricordo di quell’evento suscita sentimenti del tutto differenti oltre il Tevere. Il Papa benedice con un messaggio augurale l’unità d’Italia dopo che pochi mesi prima il suo primo collaboratore, il cardinale Tarcisio Bertone, si era recato a Porta Pia per commemorare i caduti del 20 settembre 1870, il giorno della presa di Roma. Mai un segretario di stato vaticano aveva preso parte a queste cerimonie. Quarant’anni fa, nel centenario, Paolo VI inviò a Porta Pia il cardinale Angelo Dell’Acqua, suo vicario per la diocesi di Roma, ma non il primo ministro vaticano.

Gian Maria Vian dirige l’Osservatore Romano. Conosce bene l’aria che si respirava allora e quella che si respira oggi. Dice: “Dirigo un giornale fondato il primo luglio del 1861 da due fuoriusciti rifugiatisi a Roma dopo l’annessione di Bologna e della Romagna, Nicola Zanchini e Giuseppe Bastia. Il giornale fu fondato per dare voce a una linea politica rigidamente papalina, segno di una insofferenza non secondaria”. Scrive in proposito lo storico Giampaolo Romanato: “Ogni argomento era buono per attaccare l’avversario, anche quelli più grossolani. Con compiaciuta meticolosità si fece l’elenco di tutti i nemici del papato che erano scesi anzitempo nella tomba o erano stati colpiti da gravi lutti familiari”. Ma, dice Vian, “ciò non significa che fin da subito non vi sia stata, anche in Vaticano, una visione diversa delle cose. Una visione che poi ha preso sempre più il sopravvento. E cioè l’evidenza che la fine del potere temporale è stata provvidenziale anzitutto per la chiesa. Rilevò non a caso il 10 ottobre 1962, alla vigilia dell’apertura del Concilio Vaticano II, l’allora arcivescovo di Milano, il cardinale Giovanni Battista Montini, in una conferenza tenuta in Campidoglio davanti al presidente della Repubblica Antonio Segni e al presidente del consiglio Amintore Fanfani: ‘Proprio dopo la fine del potere temporale il papato riprese con inusitato vigore le sue funzioni di maestro di vita e di testimone del Vangelo’”.

A volte è stato Gian Maria Vian a scrivere di un “Tevere ancora più largo”. Perché? “Ho voluto sottolineare che quanto disse Giovanni Spadolini nel 1958 è a maggior ragione vero oggi. Spadolini parlò di ‘Tevere più largo’ indicando una più netta e insieme più cordiale distinzione fra le due sfere, fra la Roma laica e la Roma ecclesiastica, fra la Roma sacra e la Roma profana, per dirla col linguaggio dei cattolici liberali di una volta. A questa larghezza ha contribuito in special modo la tradizione cristiana. Solo all’interno di culture cristiane è potuta nascere la secolarizzazione e questo perché alle stesse origini cristiane risale la distinzione tra Cesare e Dio. Questa distinzione a volte è stata aspra, ma più in generale si è caratterizzata come dialettica fruttuosa, come è di fatto oggi. ‘Il cristianesimo non è nemico di nessuno, tanto meno dell’imperatore’, scrisse Tertulliano in un’operetta indirizzata agli inizi del III secolo a un proconsole persecutore”.

Può sembrare strano. Ma è un fatto che una particolare sintonia tra Vaticano e Roma si sia registrata sotto due Pontefici non italiani, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Dice Vian: “Soltanto due volte nella storia, nel cuore del Trecento durante il papato avignonese e fra il VII e l’VIII secolo al tempo dei pontefici d’origine greca, si sono avuti periodi così lunghi in cui i successori di Pietro non sono stati italiani. Può sembrare paradossale ma è stata questa fortunata contingenza, favorita anche dallo sfaldamento della cosiddetta unità politica dei cattolici durante il pontificato di Karol Wojtyla, a contribuire all’allargamento del Tevere”.

Il Tevere più largo. I ponti che lo attraversano più sicuri. Le relazioni con l’Italia rafforzate. Ciò non significa che la questione romana non resti in qualche modo un segno di contraddizione. Lo disse anche Papa Ratzinger nel 2008 che la questione romana “fu causa di sofferenza per coloro che sinceramente amavano la patria e la chiesa”, ma, spiega Vian, essa “fu superata dai Patti lateranensi, quando le sponde del Tevere trascinarono nel Tirreno i flutti del passato e finalmente riunirono i due colli. La suggestiva immagine citata dal Pontefice tedesco era stata evocata nel decennale della Conciliazione da un suo predecessore, Pio XII, quando nel 1939, per la prima volta dopo la presa di Roma, un Papa tornò al Quirinale.

La tesi di Vian è una: “La presenza del cardinale Bertone a Porta Pia e il messaggio del Papa sono l’ultima espressione di un sentimento presente in qualche modo negli ambienti vaticani già nei giorni della presa di Roma. Allora il Papa era Pio IX, al secolo Giovanni Maria Mastai Ferretti. Fu il generale del corpo armato pontificio Hermann Kanzler che disattese le sue direttive e portò alla morte oltre sessanta soldati delle due parti. Alcuni documenti di archivio hanno confermato che non era intenzione del Vaticano resistere. Pochi giorni prima del centenario, Paolo VI annunciava la decisione di sciogliere i corpi armati pontifici, eccettuata l’‘antichissima’ guardia svizzera’. Cosicché, scrisse Montini, ‘tutto ciò che circonda il successore di Pietro manifesti con chiarezza il carattere religioso della sua missione, sempre più sinceramente ispirata a una linea di schietta semplicità evangelica’. Insomma, la strada è sempre stata quella dell’amicizia tra i due colli”, Vaticano e Quirinale. “Un’amicizia – conclude il direttore dell’Osservatore Romano – che con la perdita del potere temporale della chiesa si è, di fatto, rafforzata. Perché, come scrisse Alessandro Manzoni, la chiesa, se è libera dagli impacci delle cure temporali che altro non sono che ‘la sua desolazione e la sua vergogna’, si può dedicare più pienamente al suo mistero spirituale”.

(di Paolo Rodari)

SARDI E FRATELLI D'ITALIA

mercoledì 16 marzo 2011

Anche Marine Le Pen stronca Fini: "Le malattie prima o poi finiscono..."


Gianfranco Fini? «È sta­to ricompensato». L’eurode­putata e candidata all’Eliseo, Marine Le Pen, che da genna­io ha preso il posto del padre Jean Marie alla guida del Front National, non ha rim­pianti del vecchio compagno di viaggio. Ieri a Roma ha fatto il punto assieme al leghista Mario Borghezio e al «sarkozo­logo » Fabio Torriero sulla re­cente visita a Lampedusa. Il Giornale l’ha intervistata.

Presidente Le Pen, che co­sa ha visto a Lampedusa?
«Ho visto l’inizio di un’on­da. O l’Europa riesce a costitu­ire una diga oppure la bomba demografica dei Paesi norda­fricani le esploderà in faccia».

In alcuni casi si tratta di persone che fuggono da conflitti. «La maggior parte è costitui­ta da coloro che io chiamo “ ri­fugiato economici”, ossia per­sone che cercano di fuggire a condizioni di vita molto diffici­li. La maggioranza delle perso­ne che arrivano a Lampedusa sono tunisini, il regime di Ben Ali è caduto e quindi rifugiati politici possono essere soltan­to i parenti di Ben Ali».

Che cosa significa la ripro­posizione del concetto di «Europa delle Nazioni»?
«Vuol dire affrontare seria­mente il problema. Significa mettere in campo una volon­tà veritiera di fermare i flussi migratori. Se l’Italia dovesse ospitare tutti i rifugiati econo­mici che si presentano ai suoi confini, dovrebbe ospitare metà della popolazione mon­diale. L’organizzazione euro­pea che si occupa della mate­ria, Frontex, ha sede in Polo­nia e per polacchi, lituani e let­toni la questione di Lampedu­sa non è una priorità».

Che cosa si dovrebbe fare?
«Gli accordi bilaterali Italia-Francia, Francia-Spagna e Ita­lia- Spagna per i respingimen­ti sarebbero molto più efficaci per combattere l’immigrazio­ne clandestina, fermo restan­do il diritto d’asilo che va veri­ficato sulle barche al largo. Tutto ciò consentirebbe di af­frontare il problema molto meglio di quanto faccia il pre­sidente della Commissione Ue, Barroso».

La accuseranno, come in passato, di xenofobia.
«È un errore. La xenofobia è odio verso gli altri. Il patriotti­smo amore verso se stessi».

Andare a Lampedusa assie­me a Borghezio ha fatto storcere il naso ai benpen­santi anche in Italia.
«Con la Lega Nord e con il Partito della Libertà olandese condividiamo l’analisi del problema, le inquietudine e, pur tra le differenze, si può co­st­ruire un percorso verso le so­luzioni per costruire l’Europa delle Nazioni».

La sua proposta politica prevede l’uscita della Fran­cia­e degli altri Paesi Ue dal­l’euro. Può spiegarla?
«L’euro ha finito col rende­re più deboli Paesi in difficol­tà come Grecia e Irlanda che, pur accettando le condizioni poste dal Fondo Monetario In­ternazionale, hanno visto i tas­si di interesse aumentare e di conseguenza il costo del pro­prio debito. Gli altri Paesi han­no dovuto rinunciare alla so­vranità sulla moneta e sulle politiche economiche, salaria­li e pensionistiche. Conveni­va pagare questo prezzo?».

Tra i maggiori detentori di titoli pubblici italiani e francesi ci sono Paesi emer­genti come la Cina. Un’usci­ta dall’euro non creerebbe problemi?
«Più i popoli europei perdo­no la loro sovranità più Stati come la Cina diventano po­tenti e in grado di condiziona­re le nostre economie».

Non vede rischi, quindi?
«Quel che ci interessa è usci­re da un’Unione Europea che assomiglia sempre più al­l’Unione Sovietica. I popoli stanno meglio se possono di­fendere la loro sovranità».

Alcuni analisti hanno indi­viduato molte somiglianze tra la sua linea politica e quella di una certa sinistra. Secondo lei, esistono anco­ra destra e sinistra?
«Tra destra e sinistra vi sono differenze di gradazione non di natura. Per questo motivo preferisco parlare di naziona­­listi e mondialisti. Intenden­do con quest’ultimo termine coloro che affermano la supre­mazia del libero scambio e la repressione delle identità».

I sondaggi la danno in van­taggio di due punti su Nico­las Sarkozy alle presiden­ziali 2012. In che cosa ha fal­lito il suo avversario?
«Bastano due parole: ha tra­dito e ha mentito. Gli ultimi sondaggi ci infondono molta fiducia. È un risultato spetta­colare».

Che cosa pensa del presi­dente della Camera, Gian­franco Fini, e del suo cam­biamento di rotta?
«È stato ben ricompensato per le sue attuali posizioni po­litiche. Ma come si dice in Francia: “Tutte le malattie fini­scono”».

E del presidente del Consi­glio Berlusconi?
«Non condivido le sue posi­zioni europeiste e la vicinan­za a Sarkozy. Apprezzo l’avvi­cinamento alla Russia per ac­quisire indipendenza energe­tica e credo che questo gli ab­bia causato alcuni problemi».

martedì 15 marzo 2011

Il Giappone, il terremoto e la voglia di Nostradamus


Se si incrociano su Google, in inglese, i termini “Nostradamus” e “terremoto 2011 Giappone” s’incontrano già 159.000 ricorrenze, e crescono di ora in ora. Pochi lo sanno, ma è proprio il Giappone il Paese del mondo dove è più letto e conosciuto Nostradamus (Michel de Notre-Dame, 1503-1566), l’astrologo francese del XVI secolo nelle cui Centurie si può leggere tutto e il contrario di tutto. O forse se ne accorgono i nostri ragazzi, perché la mania di Nostradamus ha contagiato i fumetti e i cartoni animati giapponesi: per esempio, uno dei più famosi lungometraggi animati nipponici dedicati al personaggio di Lupin III (il nipote del celebre ladro francese Arsenio Lupin) si chiama Le profezie di Nostradamus.

Un certo numero di siti Internet che associano il terremoto a Nostradamus fa capo a nuove religioni giapponesi. Anche questa è un’informazione poco nota al grande pubblico ma il maggior numero di nuove religioni diffuse oggi nel mondo non è nato negli Stati Uniti, ma in Giappone. Dopo la Seconda guerra mondiale, il Paese vive quella che è stata chiamata un’“ora di punta degli dei”, con la diffusione di migliaia di nuove religioni di origine buddhista, scintoista e sincretista, diverse delle quali ormai presenti in tutto il mondo. Il tema millenarista e apocalittico caratterizza molte – non tutte – fra queste nuove religioni, anche se certamente sarebbe sbagliato generalizzare il fanatismo criminale che ha portato una di loro, Aum Shinri-kyo, all’attentato nella metropolitana di Tokyo con il gas sarin del 20 marzo 1995. La stragrande maggioranza delle nuove religioni giapponesi che attendono la fine del mondo non ricorre alla violenza.

Tuttavia, lo stesso attentato del 1995 è diventato una metafora delle insicurezze e delle paure dei giapponesi. Il fondatore di Aum Shinri-kyo, Shoko Asahara, è stato condannato a morte. Il suo appello è stato respinto e ora attende l’esecuzione. Ma l’impiccagione di Asahara non placherà le inquietudini nipponiche. Se la frequenza dei terremoti e le crisi economiche sono fattori da non trascurare, molti sociologi concordano sul fatto che una delle radici del disorientamento è religiosa.

La religione giapponese è complessa – molti si dichiarano insieme scintoisti e buddhisti – ma la fede individuale aveva fino alla Seconda guerra mondiale un centro e un riferimento sicuro nel culto dell’Imperatore, ritenuto di origine divina. Dopo la guerra questo culto è stato vietato: lo imponevano gli Stati Uniti, e forse era inevitabile che fosse così. Ma la perdita di questo centro ha fatto proliferare da una parte la secolarizzazione e l’erosione dei valori tradizionali – di cui sono uno dei sintomi la proliferazione degli aborti e della prostituzione giovanile part time, anche presso ragazze relativamente agiate che desiderano solo un’automobile più potente –, dall’altra le nuove religioni, che esistevano fin dal secolo XIX ma hanno conosciuto un boom dopo il 1945. Più in generale, una cupa letteratura su Nostradamus, la fine del mondo e i castighi apocalittici degli dei che incombono ha conquistato un vasto pubblico, anche – come accennato – tramite il fumetto e il cartone animato, che in Giappone sono generi per gli adulti e non solo per i ragazzi.

Il Giappone, naturalmente, rimane un Paese con profonde tracce di religione, che però oggi coesistono con il disincanto, la secolarizzazione e il disorientamento. La coesistenza è mostrata bene dalla diffusa convinzione che i bambini abortiti si trasformino in fantasmi vendicatori che perseguitano le loro madri. Anziché un movimento contro l’aborto, questa convinzione ha generato diffusi rituali, insieme antichissimi e modernissimi, per placare gli spiriti dei bimbi abortiti. Si comprende come in questo clima anche le spiegazioni apocalittiche delle catastrofi naturali si diffondano facilmente.

Non si tratta, beninteso, di un monopolio giapponese. Gli storici sanno che un altro tsunami asiatico, quello originato dall’esplosione dell’isola-vulcano di Krakatoa il 26 agosto 1883 – con trentaseimila morti in Indonesia – è all’origine nel mondo islamico di un’ampia predicazione sulla catastrofe come castigo di Dio, e di un malcontento nei confronti della scienza e delle amministrazioni coloniali occidentali che non avevano saputo prevenire il disastro né gestire efficacemente i soccorsi. Questa predicazione si situa alle radici di quello che nel secolo XX diventerà il fondamentalismo islamico.
Anche l’uragano Katrina che si è abbattuto su New Orleans nel 2005 e il terremoto di Haiti del 2010 sono stati presentati da alcuni gruppi fondamentalisti protestanti come un castigo di Dio per la presenza ben nota nell’isola caraibica e anche nella città della Louisiana di culti afro-americani come il vudù, facilmente confusi da questi predicatori con il satanismo.

Tuttavia il mondo fondamentalista protestante americano conta diverse migliaia di realtà. Dopo l’uragano e il terremoto, una decina di questi gruppi ha cominciato a battere la grancassa sul tema del castigo di Dio contro il vudù. Altri, anche se forse pensavano qualche cosa di simile nel profondo del loro cuore, si sono invece rimboccati le maniche e hanno cominciato a fare quello che il mondo protestante americano, compreso quello ultra-conservatore e fondamentalista, sa fare meglio e per cui merita rispetto: hanno raccolto fondi e organizzato carovane di camion per andare ad aiutare chi ne ha bisogno, come hanno fatto fin da subito anche i cattolici.

Il tema dei castighi di Dio è presente in tutte le grandi tradizioni religiose, e non può essere liquidato troppo frettolosamente. Il cristianesimo insegna però che, mentre la teologia riflette sul misterioso significato delle catastrofi naturali, nessuno è esonerato dal dovere di fare tutto il possibile per soccorrere le vittime.

(di Massimo Introvigne)

lunedì 14 marzo 2011

Gesù non gioca nella squadra dei rivoluzionari


Gesù non era un rivoluzionario, non fa­ceva politica e nemmeno sindacato o lotta di classe. Finalmente il Papa ha liqui­dato un’insopportabile retorica in vigore dal tempo del Concilio Vaticano II, con il suo sciame di preti agitatori e politicanti, parroci d’assalto come pretori divini,pre­dicatori di un Cristo che somiglia troppo a Che Guevara. Quante volte avete sentito dire che Cri­sto è stato il primo rivoluzionario della storia, un sessantottino ante litteram, un pacifista, anzi un comunista sdentato che aggrediva il mondo non a morsi ma a rimorsi. E quanti preti si sono considerati compagni di lotta e di denuncia, più che pastori di anime. Benedetto XVI nel suo nuovo libro dedicato a Gesù restituisce Dio all’eternità e non lo costringe nella prigione del tempo; riporta la resurrezio­ne di Cristo alla vita eterna e non la riduce a riscatto sociale. Il Gesù di Ratzinger non fa politica e distingue la religione dal­­l’escatologia rivoluzionaria. Non confon­de l’incarnazione con la militanza e libe­ra la vita dalle utopie dei paradisi in terra, di chi vorrebbe imporre agli uomini, nel nome di Dio o di un suo supplente, una verità storica assoluta.

Così il Papa separa il messaggio cristia­no da due tipi di fanatismi: quello teocra­tico, che in nome di Dio decide sulla vita e la morte altrui, e quello ideologico che nel nome di una divinità storica - il Pro­gresso, la Rivoluzione, l’Umanità - , si ar­roga il diritto di parlare e agire nel nome del Bene e condanna il proprio nemico come agente del Male. La religione non può tradursi in politica, ma la politica può ispirarsi a principi e tradizioni reli­giose. Non è la frittata rovesciata ma pro­prio il suo contrario: perché chi si ispira alla religione non si sente il concessiona­rio in terra del Signore, non dispone del mondo nel nome di Dio. È un uomo falli­bile che liberamente si ispira a principi superiori, ha passione di verità ma non ne è il detentore. Non è il ventriloquo di Dio, rischia di suo. Si richiama a una Tra­dizione ma non impone il Vangelo come un codice penale. Non si sente iscritto per diritto divino nella Casta dei Giusti. Si diventa santi sulla propria pelle, non su quella altrui.

(di Marcello Veneziani)

Auguri Italia, terra di mezzo segnata da eccessi e opposti


In vista del suo compleanno, provo a disegnare un ritratto senza retorica del­­l’Italia presente. Evito i fumi, punto sui dati reali e prendo lo spunto dai nostri odierni primati. Procedo per coppie di fatti,all’apparenza opposti. Dunque, co­minciamo dal ritratto biologico. Siamo il paese più longevo d’occidente e il pae­se che fa meno figli nel mondo. Un re­cord positivo ed uno negativo, anche se qualche spirito apocalittico potrebbe ro­vesciare il giudizio e dire che è male un paese di vecchi ed è bene non mettere al mondo altre creature. Siamo con la Ger­mania il paese con la percentuale più al­ta di anziani. Sulla denatalità c’è una lie­ve risalita di recente, ma restiamo i più avari di figli. Come leggere questo dop­pio dato? Da un verso che, tutto somma­to, abbiamo una buona qualità della vi­ta, e nonostante i problemi sanitari e civi­li, ce la passiamo bene e non facciamo figli anche per non turbare questo benes­sere.

E dall’altra parte siamo egoisti, o forse solo egocentrici, non pensiamo al futu­ro e siamo concentrati sul presente, sul nostro io e sulle nostre comodità. Seconda coppia di fatti. Siamo il paese col più alto tasso di proprietari di case e siamo il paese a più alta densità di cellu­lari pro capite. Abbiamo il primato degli immobili e dei telefoni mobili. Il primo proviene dalla nostra matrice antica e re­alista che ci lega al mattone e alla terra rispetto al capitale finanziario; è il no­stro familismo atavico che si fa focolare domestico, è il nostro mammismo ende­mico che si fa utero abitativo.

Il secondo dato sembra il suo contrario ma non lo è. Nel record di telefonini c’è tutta la nostra vocazione alla chiacchiera e allo sfogo, la voglia di prolungare la casa anche fuori casa, la nostra paura della solitudine e la nostra preferenza per la cultura orale. Il telefonino, benché cordless, è un cordone ombelicale invisibile con mamme, fidanzate, amanti e amici. Abbiamo anche un vecchio primato di case mobili, ovvero di auto pro capite, che ci contende solo il minuscolo Lussemburgo. Ma non dimentichiamo che eravamo sudditi del regno Fiat.

Terza coppia di primati: siamo noti nel mondo come il paese della dolce vita e insieme come il paese della malavita. Siamo primatisti mondiali nella qualità della vita, aiutati dal clima, dalle bellezze dei luoghi naturali e culturali e dall’amabile vita dei centri storici. E rendiamo lieve la vita col senso del comico e l’allegria conviviale. Difetta il senso della comunità, ma non quello della comitiva. Ma siamo anche il paese che ha esportato al mondo più di ogni altro anche le comitive malefiche: la mafia, la camorra e la ’ndrangheta. Persino il lessico per indicare la malavita nel mondo è di provenienza nostrana; si parla di mafia russa, cinese o kosovara.

Quarta coppia di fatti italiani da primato mondiale: siamo il paese con più leggi del mondo e con meno osservanza della Legge e più vertenze giudiziarie a testa del mondo. Le due cose non sono scollegate. Da un verso proveniamo dalla più alta e sofisticata civiltà giuridica al mondo, la romanità; dall’altro i tempi biblici dei nostri processi, il tasso record d’impunità, la vocazione di attaccabrighe, la capienza inadeguata delle nostre carceri, la selva di leggi nella foresta oscura dell’illegalità dimostra una cosa: siamo la culla del diritto ma anche la bara. La culla del diritto è a due piazze, ha un diritto e un rovescio per una coppia di gemelli: il diritto e il dritto, ossia Romolo e Remo-contro.

Forse siamo il paese più intelligente del mondo, di certo siamo il paese più furbo. E siamo il paese con la più viva fantasia e individualità. Ma qui è difficile dimostrarlo con dati statistici, perché il terreno è vago, fluido e mutano i parametri: tuttavia l’impressione è assai diffusa, e non solo da noi. Lascio perdere gli altri primati mondiali e spesso ereditari, in cucina e nella lirica, nella moda e nei beni artistici, nel design e nel business del calcio. Questa è l’Italia, e vorrei dire l’Italia tutta, sommando le sue tante differenze, locali e caratteriali. Siamo un paese con molto umor proprio. Un paese disegnato già dalla geografia per essere cullato e per crescere egocentrico e speciale: vedetelo nella culla mediterranea, col suo corpicino umano che si stende al centro del mondo, ben delineato dai mari e dall’arco alpino.

L’Italia è una persona, anima e corpo. Patria e Matria, nutria e nutrice. Infine l’Italia è un paese di cui si possono dire due cose opposte: è il paese della guerra civile permanente tra due Italie che si detestano da secoli, ed è il Paese del compromesso strisciante e incessante, dove si trova sempre una via di mezzo, un accordo sottobanco, tra il bianco e il nero, il credente e l’ateo, il padano e il terrone, la regola e l’infrazione, il liscio e il gasato. Infatti da lungo tempo siamo in coma volontario: non ci decidiamo a risvegliarci o a finire e sopravviviamo lungodegenti nella via di mezzo.

(di Marcello Veneziani)

giovedì 10 marzo 2011

Quando l'amore è troppo intelligente


L’anno in cui si incontrarono, il 1928, Victoria Ocampo era una bella e ricca argentina non ancora quarantenne, sposata, ma di fatto separata e con un unico grande amore alle spalle, e Pierre Drieu La Rochelle un brillante trentacinquenne senza lavoro fisso, al secondo e già fallito matrimonio, con molte avventure sentimentali dietro di lui. Che cosa spingesse l’una nelle braccia dell’altro e viceversa non è facile dire: negli scrittori Victoria cercava gli uomini, anche se pur sempre come intesa di anime, più che di corpi; quanto a Drieu, la sua attrazione era figlia della prevenzione, il fascino esercitato da una donna intelligente, ovvero ai suoi occhi un controsenso, se non un elemento contro natura.

Come che sia, furono amanti, restarono amici, si scrissero, viaggiarono insieme, polemizzarono anche duramente, ma senza che questo incidesse sulla stima e l’affetto reciproci. La Ocampo fu l’unica donna alla quale La Rochelle lasciò scritte, in busta chiusa, le ragioni del suo suicidio, e nel lungo tempo che lei gli sopravvisse quel ricordo sentimentale e intellettuale non venne mai meno, il restare comunque fedele a chi era stato sconfitto dalla politica e dalla storia. Adesso la casa editrice Archinto pubblica, a cura di Julien Hervier, Amarti non è stato un errore (pagg. 218, euro 17, traduzione di Enrico Badellino), la corrispondenza fra loro intercorsa dal ’29 al ’44, e da essa viene una luce particolare a illuminare le due figure e un’epoca, quella fra le due guerre, così drammatica.

Ma chi era veramente Victoria Ocampo, al di là dell’eco di un nome che oggi, escluso qualche specialista, evoca pallide frequentazioni letterarie fra le due sponde dell’Oceano Atlantico, il nome di una rivista, Sur, e di un collaboratore d’eccezione, Borges?

La più grande di sei figli, Victoria apparteneva a una delle famiglie più facoltose e antiche dell’aristocrazia bairense. Fra i suoi antenati c’erano un paggio di Isabella di Castiglia, un governatore del Perù, un candidato alla presidenza della repubblica argentina. Fra i suoi parenti lo scrittore José Fernandez, l’autore del Martin Fierro, il poema epico di una nazione. La sua casa modernista sul Mar del Plata era stata costruita sul modello di Gropius, quella di Buenos Aires secondo i dettami dell’architetto Alberto Presbich, allievo di Le Corbusier. Ricchezze immense, dunque, al servizio di un’educazione squisitamente europea, l’idea di un’Argentina appendice e insieme avamposto del Vecchio Continente che Drieu, ossessionato dalla decadenza di quest’ultimo, non tarderà a rimproverargli: «Mi avevi detto che l’Argentina era piena di vita, di forza, eccetera. No, io non vi ho trovato che la tua vita di donna e un certo fermento in profondità che c’è anche a Parigi nei suo rigagnoli. C’è forza nel popolo argentino, come in ogni popolo, ma questa forza è imprigionata dallo schema formato da La Nación, dalla “Società”, dai circoli intellettuali e da Sur e che non serve una causa organica, ma quella della letteratura in generale».

Per una giovane bene di quell’Argentina primo ’900, dove la donna sposata ha ancora lo status giuridico di una minorenne e deve sottostare all’autorità del marito, la strada è apparentemente obbligata: un matrimonio all’altezza del patrimonio, una vita di agi, lussi, viaggi, la cura e l’educazione dei figli. Ma se la Ocampo si sposa a ventidue anni, nel 1912, con Luis Bernardo de Estrada che conosce da quando è adolescente, già un anno dopo l’unione non funziona più, lui troppo geloso e brutale, «il mostro triste» che considera le donne puledre da domare e da cavalcare, lei che ha seguito alla Sorbona corsi su Dante e Nietzsche, che è andata al Collège de France ad ascoltare le lezioni di Bergson... Vivranno sotto lo stesso tetto, ma non nello stesso letto per circa un decennio, poi, nel ’26, la legislazione argentina consente alle donne sposate l’esercizio di una professione e il poter disporre del proprio denaro, e Victoria, che da quattro anni è comunque andata a vivere da sola, ha intanto cominciato a farsi un nome letterario e non si è negata lo scandalo, più o meno soffocato, di una relazione con Julián Martínez, un diplomatico ricco e playboy che vanta fra le sue conquiste Coco Chanel. È ancora legata a lui, anche se l’amore si è ormai spento ed è rimasta della tenerezza, quando nell’estate del ’28 incontra Drieu a Parigi.

Va detto che Victoria ha una passione per gli uomini d’ingegno e di fama, il che può prestarsi all’equivoco di una sorta di ricca collezionista di celebrità. È un errore che farà il filosofo tedesco Hermann von Keyserling, è un errore che farà il filosofo spagnolo Orytega y Gasset: entrambi ne scambiano l’entusiasmo, la passionalità, l’amore verso ciò che dicono, scrivono e pensano, per qualcosa di fisico che lei invece non prova. È un’epoca ancora in gran parte misogina, in cui l’uomo è abituato a essere ammirato e si aspetta che la donna si conceda senza troppe storie. Di qui incomprensioni, scambi di accuse, rotture di rapporti.

Con Drieu, però, scatta qualcosa di diverso. Certo, è misogino anche lui, e lo è al massimo grado, ma in modo diverso dalla brutalità e in fondo dalla volgarità di quei due illustri pensatori: lo è con tenerezza e con rispetto, quasi scusandosi. È un animo delicato che capisce subito come dietro la maschera della donna indipendente e a proprio agio in ogni situazione ci sia l’insicurezza e l’infelicità di chi è costretta a recitare un ruolo, vorrebbe lasciarsi andare, ma l’educazione, la società glielo impediscono. Victoria ha tutto ciò che a Drieu piace, ma anche tutto ciò che Drieu detesta. Una casa nell’VIII arrondissement, abiti di Chanel, quadri di Picasso, Léger, Mirò alle pareti, soggiorni al Savoy di Londra o al Normandy di Deauville, e insomma quell’idea del lusso, delle cose belle, della pigrizia e dell’ozio che egli coltiva in modo quasi maniacale proprio perché non è alla portata dei suoi mezzi. L’idea di essere mantenuto da «mecenati femminili» da un lato ne solletica l’orgoglio maschile, e dall’altro gli ripugna perché proietta su di sé l’ombra di un padre vanesio, fallito e seduttore, incapace di amare e fonte di sofferenza per sua madre.

Anche come tipo femminile Victoria è per Drieu il concentrato di sentimenti contrastanti. Fisicamente è alta, ben fatta, matura, e questo si accorda con chi non si è mai innamorato di fanciulle in fiore e non si è mai visto nel ruolo del pigmalione-corruttore di anime giovani e caste. E però stride con la sua preferenza verso le donne anti-intellettuali, dirette, le uniche che egli possa sopportare perché non lo obbligano a pensare, perché non invadono la sua intimità. Victoria è «tutto quello che nell’altro sesso lui vuole ignorare», quell’elemento di cultura che può scuotere il suo senso di superiorità, che può costringerlo a discutere, a rivedere una posizione, a interrogarsi sulla bontà di una scelta. È insomma il fascino che nasce da un pericolo, laddove la passione per le donne semplici, se non per le prostitute che nemmeno fanno domande, è sotto il segno della sicurezza. Il primo è alla lunga stressante, la seconda alla lunga è noiosa.

E Victoria? Che cosa trova in Drieu Victoria? È un intellettuale, ma non di quelli libreschi. Ha una modernità che ne fa il termometro culturale di quella Francia fra le due guerre, in grado di cogliere la novità delle avanguardie, ma anche spesso la loro sterilità. È aitante, e il suo narcisismo masochista non riesce a nascondere il coraggio fisico e una tensione morale incapace di compromessi. Rispetto alla media dei suoi confratelli, ha più buon gusto, pulizia, charme, e ciò colpisce chi, come lei, sotto questo aspetto ha poco da imparare e molto da insegnare... Infine, nel gioco psicologico Drieu è uno che non si nega e questo rende lo scambio più interessante per una mente femminile... Come molte donne, Victoria vorrebbe salvarlo dal suo lato nero, pessimista, malinconico, come molte donne pensa e spera di dargli quella fiducia nei propri mezzi in grado di condurlo a grandi cose.

La distanza, le differenze di opinioni politiche, la stanchezza che si insinua in ogni legame sentimentale, allenteranno nel tempo i rapporti, senza mai però reciderli. Negli anni ’30, un ciclo di conferenze in Argentina organizzato dalla Ocampo sarà per Drieu l’occasione per mettere a fuoco ideologie e scelte di campo: «È stato lì che ho capito che la vita del mondo occidentale stava uscendo dal suo torpore e che si apprestava ad essere lacerata dal dilemma fascismo-comunismo. Da quel momento, ho camminato rapidamente verso la caduta in un destino politico». La summa di tutto questo sarà, nel 1943, L’uomo a cavallo, storia di un dittatore boliviano che sogna l’unità del continente latino-americano e la riconciliazione delle classi sociali. Camilla, l’eroina del romanzo, è in realtà Victoria Ocampo, e naturalmente il loro è un amore destinato al fallimento. «Sarebbe ora che tu capissi che le donne sono anche esseri umani» gli aveva rimproverato un giorno... Perché Ocampo sapeva che «nella sua maniera di amare la Francia riconosco il suo modo di amare le donne che gli ho spesso rimproverato e che era poi così irritante, ma non meschino. Se Drieu è per una politica che non ci piace, non lo è per ragioni inconfessabili, basse o interessate. Un giorno gli dissi: Tu sei Pietro, e su questa pietra non costruirò la mia chiesa. Ma la mia tenerezza gli resta fedele, incurabilmente fedele».

(di Stenio Solinas)

martedì 8 marzo 2011

Yara e Sarah, gli orchi sono anche i giornalisti e i curiosi dell’orrore


Ora è ufficiale. Gli orchi non sono solo gli assassini di Yara e Sarah. Sono anche, e forse di più, i fotografi, i cameramen, i giornalisti, televisivi e di carta stampata e quelle masse di persone che, col pretesto di portare fiori, bigliettini, cuoricini, si affollano davanti alle case dei parenti delle vittime o sui luoghi dove sono stati trovati i loro cadaveri, protagoniste di un nuovo e tutto moderno tipo di turismo; il turismo dell’orrore. Tanto per non farsi mancar nulla. Con un’ordinanza, sacrosanta, il sindaco di Brembate di Sopra ha proibito di sostare davanti all’abitazione dei Gambirasio, perchè il dolore della famiglia non sia ulteriormente ulcerato dall’assedio di questi licantropi travestiti da agnelli, mentre il campo di sterpaglie di Chignolo d’Isola, dove sono stati ritrovati i resti della ragazza, viene presidiato dalle forze dell’ordine e non solo perchè non siano cancellate tracce, segni, elementi che potrebbero risultare utili alle indagini.
Era ora che si cercasse di mettere un freno a queste oscenità. Quelle folle, anche se il processo è probabilmente inconscio, non vanno in quei luoghi per partecipare ad un dolore ma per appropriarsene. Indebitamente. Per poter dire a se stessi quanto si è bravi, buoni e solidali. Non è così. Scrive Nietzsche: "La sofferenza degli altri ci fa bene. Questa è la dura sentenza". Quando, come si è sentito tante volte, una madre dice: «È come se avessero ucciso mia figlia» in realtà pensa: «Meno male che non è capitato a mia figlia». E la presenza delle televisioni stimola l’esibizione di questa pietà falsa, priva di ogni autentica misericordia.

Pudore, ritegno, contegno, dignità sono scomparsi dalla faccia di questa terra. Li hanno dimostrati solo i genitori di Yara che sono rimasti chiusi nel loro dolore, il più possibile lontani da ogni ribalta. Non dico che anche estranei non possono provare un dolore sincero, o piuttosto un orrore, per la tremenda sorte di questa ragazzina-bambina, ma se lo tengono per sé e se gli cade una lacrima lo fanno al riparo dello sguardo altrui.

Dopo la scoperta del cadavere di Yara, le tv, pubbliche e private, sono state alluvionate da talk show, zeppi di psicologi, sociologi, criminologi, scrittori, semiologi, esperti a vario titolo che svisceravano la vicenda in ogni dettaglio, senza peraltro saperne nulla. E alcuni conduttori, con una coda di paglia che bruciava fino al soffitto dello studio, hanno avuto anche lo spudorato coraggio di denunciare lo scempio massmediatico mentre lo stavano compiendo. E alcuni commentatori lamentavano invece l’assoluta riservatezza in cui i magistrati e la Questura di Bergamo hanno mantenuto le indagini. «Almeno qualche conferenza stampa» piagnucolavano. Ma come? Non si è gridato fino a ieri, almeno per quanto riguarda l’onorevole Berlusconi, contro la pubblicità che si era data alle indagini istruttorie? Due pesi.

Il magistrato non ha alcun obbligo di fare conferenze stampa per dare materiali istruttori in pasto ai dilettanti dei "processi paralleli" e ai loro aficionados. Al contrario. In tempi migliori di quelli che stiamo vivendo i magistrati parlavano solo "per atti e documenti". La riservatezza e la compostezza della Procura e della Questura di Bergamo sono state esemplari. Per tutelare le indagini e la figura e l’intimità di Yara. Le sanguisughe dell’orrore dovranno attendere il dibattimento. Sempre che si scopra l’assassino. O l’assassina.

(di Massimo Fini)