lunedì 31 ottobre 2011

L'opposizione nel caos


Il Pd si è impaludato nella guerra delle nomenklature. Certifica così il proprio fallimento programmatico e getta alle ortiche l'ambizione di costituire il polo socialdemocratico contrapposto a quello nazional-conservatore. Non era difficile prevedere un tale esito dalla "fusione a freddo" che lo aveva partorito. Fin dall'inizio, infatti, i democrats si sono segnalati all'attenzione del loro stesso elettorato per le lotte intestine di potere a cui hanno dato vita piuttosto che per il confronto ideologico e politico risultato scarso se non proprio assente. Lotte di potere, ereditate dal vecchio Pci-Pds-Ds e da scampoli della sinistra democristiana, che si sono trasformate, nel giro di pochi anni, in lotte generazionali. Matteo Renzi e Pierluigi Bersani rappresentano, infatti, non tanto il "nuovo" e il "vecchio" del Pd, ma insieme il «mito incapacitante» di un partito oggettivamente provvisorio, sospeso tra tentazioni regressive e provocazioni scapigliate. Un soggetto, perciò, neppure consapevole che la partita che si sta giocando in Italia nel contesto occidentale è finalizzata a costruire nuovi assetti sociali fondati su culture emergenti e modalità inedite di aggregazione che richiedono politiche in grado di rispondere ai disagi giovanili e alle inquietudini delle generazioni avanzate con l'abilità di alchimisti di un welfare pragmatico almeno come quello che venne inventato alla fine dell'Ottocento paradossalmente da un conservatore come Otto von Bismarck, superando le previsioni degli anarco-marxisti del tempo. Le necessarie ed inedite sintesi, dunque, sembra che sfuggano agli eredi del comunismo intrecciatisi con quelli del cattolicesimo democratico. Gli uni e gli altri da quasi un quindicennio sono alla ricerca di una convivenza problematica e non trovandola riempiono il vuoto dedicandosi ad un gioco pericoloso: l'autolesionismo. Ne è consapevole Beppe Fioroni, esponente post-dc, e lo paventano l'inventore ideologico del Pd, Michele Salvati, e colui che ha cercato di interpretarlo al meglio sul territorio, Sergio Chiamparino. Espressioni delle diverse componenti e sensibilità del Pd, ritengono unanimente la riduzione del dibattito sulle primarie, che potrebbe essere la Caporetto del partito a giudicare dalle fratture che sta provocando, pregiudizievole alla definizione del programma intorno al quale costruire l'alleanza da contrapporre al centrodestra.

Da qui la preoccupazione che la nuova Unione, fondata sull'approssimativo "patto di Vasto" ed aperta al suggestivo allargamento al Terzo Polo coltivato soprattutto da D'Alema, non si trasformi nel cantiere della Torre di Babele a tutto vantaggio degli avversari. Questi ultimi, che pure hanno motivi di seria preoccupazione per ciò che accade al loro interno, non sembrano avere ben presente la situazione di scollamento che si sta producendo nel Pd. È un segno di debolezza politica e di irresolutezza culturale. Sintomi che la dicono lunga sullo stato del Pdl incapace di profittare delle difficoltà del Pd per rilanciarsi con una grande operazione di accreditamento quella parte di elettorato deluso dalla non brillante tenuta della maggioranza. Potrebbe farlo se ritrovasse le ragioni della coesione quale presupposto per attuare i provvedimenti presentati all'Unione europea da un lato e dall'altro se, rovesciando le parti, incalzasse come coalizione di governo quella di problematica definizione che intenderebbe sfidarla, sul suo stesso terreno dove si fronteggiano opzioni inconciliabili nella valutazione della crisi economica e finanziaria oltre che sui più vasti temi inerenti le convulsioni della modernità. Sicché le crisi parallele del centrosinistra e del centrodestra sembrano destinate a coesistere in una lunga stagnazione politica nella quale l'irruzione possibile delle elezioni anticipate non modificherà sostanzialmente lo stato delle cose vigente una legge elettorale destinata a cristallizzare il potere di nomenklature prigioniere del loro stesso destino: quello di non aver riformato i partiti di riferimento per tempo adeguandoli alle esigenze culturali di società dinamiche e dunque imprevedibili. Insomma un bipolarismo impotente, caricatura della democrazia dell'alternanza.

(di Gennaro Malgieri)

domenica 30 ottobre 2011

I nostri 60 milioni di mandolini contro un'Europa senz'anima


Tutto un diremo, faremo, vedremo è questa Europa cui ancora manca un citofono dove andare a suonare per farsi ricevere. Tanto è vero che non esiste come Stato e se tale dovrebbe essere non si capisce come possa farsi patria, nazione (e sangue e suolo), solo sommando tanti Stati nazionali - battenti bandiere proprie - e non già i popoli.

Tutto un diremo è l'Europa se poi - dopo gli anatemi, trattando Silvio Berlusconi alla stregua di un Gheddafi da sodomizzare - s'era accontentata di una sola bozza, peraltro manco controfirmata dal ministro dell'Economia, e ha fatto tanti complimenti all'Italia del centro-destra dove tra tutti i proponimenti - fosse pure il più farlocco, ovvero cancellare le province - saranno solo un faremo o un vedremo che non si farà né si vedrà mai. Come il famoso Ponte di Messina.

Tutta una fuffa, infine, è questa Europa che non ha altra anima che la banca e quando un black-bloc di minimo raziocinio vorrebbe farsi largo nel buon senso, oppure cavarsela con i conti della serva, avrebbe da urlare il più potente dei “Re-nudo”. L'Euro, infatti, è l'unica moneta creata dalla notte dei tempi a non avere alle spalle una nazione né un Fort-Knox come per gli americani dove non c'è un lingotto per l'Alabama e uno per lo Stato di New York, ma solo e soltanto quel solforoso In God We Trust.

L'Europa perderebbe la sua guerra. Ed è guerra di sopravvivenza quella cui fanno fronte coi loro banchieri, nominati dagli esecutivi, ma fatti tutti autonomi per rendere omaggio alla tecnocrazia che non paga mai pegno e fottere la politica malgrado questa abbia una consacrazione popolare.

Ma è guerra che si deve fare. Con le armi della geopolitica. Tedeschi e francesi, infatti, accorrerebbero in ginocchio verso di noi. L'Europa che sarebbe dovuta nascere con la moneta unica franco-tedesca (di fatto questo è l'Euro), ha dovuto chiedere aiuto alla Cina, figurarsi cosa potrebbe accadere, allora, senza i sessanta milioni di mandolini italiani. Tra il diremo, faremo e vedremo ci sarebbe il magnifico Mediterraneo a far risplendere i forzieri del nostro futuro perché, insomma, se c'è un orizzonte dove si sta facendo il mondo è il Mare Nostrum, non certo Parigi o Berlino che non hanno la forza di Ankara. E tutto di guadagnato è stato per i turchi non entrare in Europa. Adesso raddoppiano di pil a colpi di dieci punti l'anno, fossero entrati nell'Unione la racconterebbero diversamente la stagione neo-ottomana e in Maghreb, oggi, senza Erdogan non ci sarebbero primavere ma qualcosa di economicista e mercatista, per dirla col linguaggio di Giulio Tremonti. Com'è adesso l'Europa. Qualcosa che guarda il mondo col cannocchiale rovesciato: puntando sul dettaglio. E non sui popoli. Com'è adesso l'Europa.

Quel Re dei senza Re che è l'Europa di Bruxelles è dunque nudo. Per l'Euro, infatti, non c'è un tetto culturale o geografico, meno che mai spirituale. Gli inglesi, infatti, stramaledetti per quanto sono bravi, se ne sono tenuti alla larga. E quando l'Europa fa la voce grossa a noi che ce la cantiamo coi nostri mandolini, se solo tutti noi che siamo sessanta milioni (pizze comprese) minacciassimo di uscircene da quel soldo così falso, faremmo più danno di otto milioni di baionette. Siamo la quarta riserva mondiale di oro. Ne abbiamo duemila e cinquecento tonnellate. Sarà forse solo un bottino di sole collanine della prima Comunione, magari braccialetti da sponsali camorristi, ma sul piatto di Brenno - queste gioie - valgono quanto le più potenti spade. Diremo, faremo, vedremo. L'Europa è solo un'entità che può dire qualsiasi cosa. Ma senza mai potere fare.

(di Pietrangelo Buttafuoco)

venerdì 28 ottobre 2011

Il dollaro al centro della crisi


Per molti economisti, una delle cause della crisi sistemica globale cui attualmente assistiamo, dipende dal crollo del sistema di Bretton Woods fondato sul dollaro americano come perno del sistema monetario internazionale, e più particolarmente da ciò che l’economista cinese Xu Xiaonian ha definito «sovraemissione di moneta della Riserva Federale». Édouard Husson e Norman Palma ritengono, ad esempio, che la crisi sia la conseguenza diretta dell’«esorbitante privilegio» che permette agli Stati Uniti di «acquistare i beni e i servizi del mondo con della semplice carta». In ogni caso, il fatto è che le tensioni all’interno del sistema monetario internazionale costituiscono oggi una crisi all’interno della crisi, e che una bancarotta di questo sistema implicherebbe obbligatoriamente quella del dollaro.

Come è noto, il dollaro ha uno statuto particolare tra tutte le altre monete. Creato nel 1785, costituisce la moneta nazionale degli Stati Uniti e dei loro territori d’oltremare (come Portorico), ma è al contempo la principale moneta di riserva, la moneta più utilizzata al mondo per le transazioni commerciali, la principale divisa trattata sul mercato dei cambi, la divisa che possiede i mercati finanziari più importanti e, dal dicembre 2006, la seconda moneta dietro l’euro in termini di moneta di circolazione. Nel 1985, più dell’80% degli scambi mondiali era già formulato in dollari. Questa percentuale è salita all’89% nel 2004. Nel 2007, il dollaro contava in misura del 64% nelle riserve delle banche centrali nel mondo (il 72% nel 2002). Sappiamo altresì che la maggioranza dei paesi paga in dollari il petrolio greggio acquistato dai paesi produttori (i famosi «petrodollari»), essendo le due principali borse petrolifere del mondo, quelle di Londra e di New York, ugualmente dominate dalle imprese americane.

Per comprendere come siamo arrivati a questo punto, si impone qualche elementare cenno storico.

Fino al 1810, il sistema monetario in uso nei paesi occidentali era fondato sul bimetallismo, i cui talloni erano l’oro e l’argento. All’epoca, l’Inghilterra scelse il monometallismo sotto le specie del tallone-oro. La maggior parte dei paesi fece altrettanto tra il 1820 e il 1876. Nel 1922, fu allora istituito, con gli accordi di Genova, il sistema monetario detto del Gold Exchange Standard – sistema poi sospeso nel 1933 da Franklin D. Roosevelt, il quale voleva svalutare il dollaro, e reintrodotto nel 1944 con gli accordi di Bretton Woods.

Il sistema di Bretton Woods si basava su due pilastri principali: un sistema di cambi fissi tra le monete e, soprattutto, il riconoscimento del dollaro come moneta di riserva internazionale, restando quest’ultima convertibile in oro (al tasso fisso di 35 dollari l’oncia di oro fino), ma soltanto nel quadro degli scambi tra banche centrali. In effetti, le istituzioni create a partire dal 1944 consacravano il rapporto di forze economiche e politiche all’indomani della Seconda Guerra mondiale: il nuovo dominio degli Stati Uniti, l’unico paese ad essersi arricchito durante questo periodo, il crollo dell’Europa, l’inesistenza politica dell’Asia.

Ma il 15 agosto 1971, colpo di scena: il presidente Richard Nixon decideva la non convertibilità del dollaro rispetto all’oro, in seguito all’accumularsi, durante gli anni Sessanta, di deficit americani ulteriormente accresciuti dalle spese legate alla guerra del Vietnam, che avevano provocato fortissime pressioni sulla moneta americana. Questa decisione in forma di diktat – fu infatti presa dagli Stati Uniti senza consultare nessuno dei suoi partners – si spiegava allora con il timore dell’amministrazione americana di vedere certi paesi esigere la conversione in oro delle loro eccedenze in dollari.

Segnando la fine del sistema di Bretton Woods, la non convertibilità del dollaro e la sua trasformazione in semplice dollaro-carta si tradussero subito in una serie di tensioni che sfociarono, nel dicembre 1971, negli «accordi di Washington» - detti anche «accordi dello Smithsonian Institute» - i quali prevedevano delle parità centrali e dei margini di fluttuazione tra le monete non eccedenti il 2,25%. Fu in quest’epoca che il segretario americano al Tesoro, John Connally, lanciò la sua celebre apostrofe: «Il dollaro è ora la nostra divisa e il vostro problema» («The dollar is our currency and your problem»). Tuttavia, sin dal marzo 1973, il «gruppo dei Dieci» (la CEE, la Svezia, gli Stati Uniti, il Canada e il Giappone), decideva l’abbandono della fissità dei tassi di cambio delle diverse monete rispetto al dollaro, il che permetteva alle banche centrali degli altri paesi di smettere di acquistare dollari per mantenere la sua parità. Nasceva così un nuovo sistema, detto dei «cambi fluttuanti», che sarà formalmente ratificato nel gennaio 1976 con gli accordi della Giamaica.

Gli squilibri allora proseguiranno. Sin dagli anni Ottanta, il dollaro comincerà tendenzialmente a deprezzarsi. Si assisterà a un forte aumento dei tassi di interesse a lungo termine, poi, nell’ottobre 1987, al doppio crac dei mercati obbligazionari e dei mercati azionari. Questo deprezzamento del dollaro si è addirittura accelerato in seguito alla crisi ipotecaria che ha scatenato l’attuale crisi. Mentre nel 2002 un euro valeva ancora solo 86 centesimi di dollaro, lo scorso 2 giugno ha raggiunto la quotazione di 1,43 dollari – il record storico di un euro per 1,6 dollari essendo stato già raggiunto il 15 luglio 2008. questo relativo deprezzamento del dollaro penalizza evidentemente le esportazioni europee, i cui prodotti diventano sempre più cari per gli americani: si stima che la soglia di vulnerabilità per le industrie europee si situi intorno a un euro per 1,24-1,35 dollari. Se il dollaro continuerà a deprezzarsi, le possibilità per gli europei di esportare verso gli Stati Uniti diminuiranno ulteriormente e la situazione diventerà rapidamente insostenibile.

È evidente che il paese che emette la moneta di riserva internazionale dispone di un formidabile strumento per finanziare la sua economia e il suo debito pubblico, imporre le sue condizioni finanziarie al resto del mondo e sciogliersi da vincoli esterni. A cosa serve preoccuparsi dei propri deficit con l’estero quando è possibile fabbricare dollari per pagare i propri fornitori? Essendo scollegato dall’oro, il dollaro poteva moltiplicarsi senza un immediato effetto automatico sul suo valore o sull’inflazione, il che avrebbe permesso agli americani di far finanziare all’infinito i loro crescenti deficit commerciali dal resto del mondo, in particolare grazie alla emissione di Buoni del Tesoro. Di fatto, la massiccia domanda di dollari ha permesso a lungo agli americani di accumulare deficit commerciali e di bilancio esorbitanti senza soffrire del negativo impatto economico dei debiti che tali squilibri avrebbero normalmente dovuto provocare. Il risultato è che gli Stati Uniti hanno potuto vivere al di sopra dei loro mezzi grazie ai capitali esteri e che, da almeno trent’anni, l’economia americana vive alle spalle del resto del mondo. Essa fabbrica una falsa crescita, che provoca il regolare aumento degli indici di borsa per il solo fatto dell’accumularsi del denaro nei portafogli di investimento, ma che non rinvia più allo sviluppo economico reale. La macchina gira generando un debito che cresce meccanicamente.

In questo sistema, in cui la variazione dei corsi del dollaro si ripercuote immediatamente sull’insieme dell’economia mondiale, i differenti paesi del mondo sono costretti ad acquistare i biglietti verdi emessi da Washington per evitare ogni maggiore squilibrio, il che permette agli americani di accumulare i debiti in totale impunità, attraendo da soli l’80% del risparmio mondiale. «Quando vuole attirare i capitali, come negli anni Ottanta, [l’America] alza i tassi di interesse e fa salire la sua moneta; quando punta sui paesi dai salari bassi, la debolezza dei prezzi dei loro prodotti compensa largamente l’aumento dei prezzi delle derrate importate, legato alle differenze di cambio. Per l’America è il poker vincente. I deficit si accumulano, ma a pagare sono i paesi emergenti e il Giappone».

Ma c’è comunque un limite, che oggi è stato raggiunto. Infatti, il deficit pubblico americano è ormai fuori controllo, con una esplosione delle uscite (+ 41% in un anno) e un crollo delle entrate fiscali (- 28%). Il deficit federale ha raggiunto quasi 200 miliardi di dollari per il solo mese di marzo 2009, ossia circa la metà del deficit totale registrato nel 2008. Ricordiamo che, nel 1984, il deficit di bilancio americano era ancora solo di 184 miliardi di dollari. L’anno prossimo, potrebbe raggiungere quasi 3500 miliardi di dollari, ossia più del 20% del PNL americano! Quanto al debito pubblico, supera attualmente i 10.000 miliardi di dollari.

Tenuto conto di tutti i fattori, l’indebitamento totale degli Stati Uniti raggiunge ora il 340% del loro prodotto interno lordo (PIL), con il debito privato che rappresenta da solo il 170% del PIL! Se riconduciamo questo debito privato americano alla produzione effettiva di beni primari e secondari, gli americani sono indebitati nella misura di circa sei anni della loro produzione industriale e agricola. Il debito totale equivale, invece, a dodici anni di produzione. Cifre allucinanti, che pongono un problema evidente agli altri paesi del mondo. E in primo luogo alla Cina.

L’insieme delle riserve cinesi è oggi valutato tra i 2000 e i 2300 miliardi di dollari, di cui circa 1400 miliardi (quasi il 70%) espresse in dollari americani (900 miliardi di Buoni del Tesoro, circa 550 miliardi di buoni diversi, quasi 200 miliardi di attivi privati e 40 miliardi di depositi a breve termine), il resto essendo costituito di attivi espressi principalmente in euro. Il Giappone e altri paesi possiedono anch’essi importanti riserve formulate in dollari, accumulate come contropartita della loro penetrazione sul mercato interno americano. Con più di 550 miliardi di dollari, la zona euro viene al terzo posto – dietro la Cina e il Giappone, ma davanti alla Russia e ai paesi del Golfo – dei maggiori detentori di riserve in dollari.

Sino a poco tempo addietro, esisteva un tacito accordo tra Washington e Pechino, in base al quale la Cina continuava a finanziare il debito americano, reinvestendo nel sistema i suoi eccedenti commerciali sotto forma di acquisto di Buoni del Tesoro, mentre gli americani, in cambio, aprivano il loro mercato interno ai prodotti cinesi. La Cina si trovava così nella situazione della corda che sostiene l’impiccato: in teoria, aveva in pugno l’economia americana, ma se ne approfittava per farla crollare, nuoceva nello stesso tempo ai propri interressi. E se avesse deciso di sbarazzarsi brutalmente dei suoi dollari contro un’altra moneta ritenuta più sicura, un crollo del dollaro avrebbe tolto a quest’ultimo ogni valore di fronte ai beni che la Cina avrebbe deciso di acquistare in cambio. Esistevano anche rischi di ritorsione, ad esempio il congelamento da parte degli americani dei patrimoni cinesi in dollari.

Orbene, questo tacito accordo tra la Cina e gli Stati Uniti sembra sul punto di rompersi. Il messaggio che Pechino ha fatto passare ai dirigenti del G20, lo scorso 24 marzo, alla vigilia del vertice di Londra, era chiaro. Per bocca del governatore della sua Banca centrale, Zhou Xiaochuan, la Cina ha dichiarato che «lo scoppio della crisi e il suo straripamento nel mondo intero riflettono le vulnerabilità inerenti e i rischi sistemici del sistema monetario internazionale» di cui il dollaro è il perno. I cinesi domandano dunque esplicitamente la sostituzione del dollaro come moneta di riferimento internazionale con una «moneta di riferimento sovra-sovrana», capace di «restare stabile sul lungo termine» e che sarebbe «scollegata dalle singole nazioni», detto chiaramente una divisa fondata su un «paniere» comprendente lo yuan, l’euro, lo yen, il rublo e il real, oltre al dollaro, cosa di cui, beninteso, gli Stati Uniti non vogliono sentir parlare.

Con questa dichiarazione, che ha prodotto l’effetto di una bomba, la Cina mirava in primo luogo a impedire ogni messa in discussione della propria moneta, notoriamente sottovalutata. Essa intendeva poi mettere in guardia contro una forte svalutazione del dollaro, che svaluterebbe in proporzione le sue enormi riserve, ma soprattutto prendere posizione per un totale rifacimento del sistema finanziario mondiale implicante, oltre a una nuova moneta, una ridistribuzione dei ruoli in seno a grandi organismi come il Fondo monetario internazionale (FMI) e la Banca mondiale, dove gli asiatici non hanno mai potuto ottenere delle responsabilità proporzionali alla loro potenza economica né al loro peso demografico (la Cina detiene solo il 3,6% dei diritti di voto in seno al FMI, mentre gli Stati Uniti se ne arrogano il 16,8%), così come il trasferimento dell’attuale potere di creazione monetaria dalla Riserva federale (FED) verso un organismo internazionale alla gestione del quale essa sarebbe associata.

I cinesi evocano anche la possibilità di ricorrere ai Diritti speciali di prelievo (DSP), creati nel 1969 per tentare di limitare i privilegi del dollaro e il cui valore è determinato appunto a partire da un «paniere» di monete (il dollaro, la lira, lo yen e l’euro), per farne una vera moneta di riserva, proposta già fatta dalla Francia nel 1964, ma senza alcun successo. L’utilizzazione dei DSP, che oggi sono solo una semplice unità di conto per le operazioni del FMI, ha infatti sempre cozzato contro l’ostilità degli americani.

Sembra, peraltro, che la Cina cerchi ora di sbarazzarsi con tutti i mezzi di quegli attivi «tossici» che sono divenuti per lei i Buoni del Tesoro americani, scambiandoli contro degli attivi di cui ha bisogno a lungo termine e che sono oggi a prezzi storicamente bassi. Dalla fine del 2008, Pechino si è così alleggerita ogni mese da 50 a 100 miliardi dei suoi attivi espressi in dollari, ossia un totale di circa 600 miliardi. La Cina acquista solo un piccolo numero di Buoni del Tesoro, in generale buoni a breve termine. Si ritiene che, dalla fine del 2008, abbia rifiutato di acquistare tra 500 e 1000 miliardi di Buoni del Tesoro che l’amministrazione americana cerca di piazzare sui mercati internazionali per finanziare i suoi deficit pubblici. Poiché la Cina non risponde più ai bisogni di finanziamento degli Stati Uniti, questi ultimi rischiano, di conseguenza, di emettere troppa cartamoneta per evitare la bancarotta, infilandosi così nella mortale spirale dell’inflazione. Lo scorso 18 marzo, la Riserva Federale ha d’altronde già deciso di riacquistare 300 miliardi di dollari di Buoni del Tesoro, il che rilancerà immancabilmente l’inflazione.

La più recente attualità ha visto sommarsi i segni che confermano le intenzioni cinesi. Così, nel corso di questi ultimi mesi, la Corea del Sud, la Malaysia, l’Indonesia, la Bielorussia, l’Argentina e il Brasile hanno firmato con Pechino un accordo di swap che permette alle loro imprese di non utilizzare più il dollaro americano per i loro scambi commerciali bilaterali. D’altronde, la Cina ormai autorizza i paesi in deficit commerciale con lei a produrre obbligazioni in yuan (e non dollari) che sottoscriverà. Nell’aprile 2009, abbiamo appreso che gli scambi cino-americani erano calati del 6,8% in un anno, mentre gli investimenti americani in Cina diminuivano del 19,4%. Alcuni giorni più tardi, la Banca centrale cinese annunciava di aver quasi raddoppiato le sue riserve in oro (adesso ne detiene 1054 tonnellate).

Parallelamente, certi paesi produttori di petrolio hanno intenzione di sostituire i loro petro-dollari con petro-euro. Dal 2007, i grandi raffinatori petroliferi giapponesi hanno cominciato a pagare il petrolio greggio iraniano in yen. Circa il 65% delle esportazioni petrolifere dell’Iran sono ormai fatte in euro e l’altro 20% in yen. Lo scorso aprile, il presidente russo Dmitri Medvedev si è ugualmente pronunciato per la creazione di una nuova «moneta di riserva mondiale e sovranazionale», eventualmente posta sotto l’egida del FMI. All’inizio di febbraio, ol ministro russo delle Finanze, Alerei Koudrine, aveva già dichiarato che «la creazione di una unità monetaria internazionale è una iniziativa audace che necessita di una visione e un coraggio senza pari […] A breve termine, la comunità internazionale, in particolare il FMI, dovrebbe almeno riconoscere il problema e fronteggiare i rischi derivanti dal sistema attuale». Dal canto loro, le banche centrali di Corea del Sud, Taiwan, Russia, Siria e Italia hanno annunciato dei piani per ridurre i loro patrimoni in dollari. In poche parole, la politica della Banca centrale americana (la FED) è sempre più contestata. Ieri, tutti volevano acquistare dollari, oggi tutti vogliono sbarazzarsene.

«Il destino del dollaro è nelle mani del Giappone, della Cina e dei paesi del Golfo», sosteneva poco tempo fa Jean-Pierre Chevènement[5]. In effetti, è essenzialmente nelle mani della Cina. I russi sono infatti posizionati meno bene per contestare l’egemonia del dollaro, perché la loro economia e le loro strutture finanziarie non sono ancora sufficientemente solide. Quanto all’euro, se rappresenta oggi il 26% delle riserve monetarie mondiali, contro il 20% di dieci anni fa, la sua posizione in quanto moneta internazionale richiede ancora di essere consolidata. Al contrario, se la Cina uscisse dal sistema del dollaro, gli Stati Uniti si ritroverebbero istantaneamente in stato di insolvenza.

Su tale questione si constata una profonda divisione in seno al G20. gli americani e gli inglesi, seguiti dal Giappone, tentano, beninteso, di preservare a ogni costo lo statu quo, i cinesi, i russi, gli indiani, i brasiliani, gli argentini e i sudafricani militano apertamente per una riforma in profondità del sistema finanziario internazionale, mentre gli europei, come al solito, sono incapaci di decidere.

Nell’immediato, gli Stati Uniti, a causa della crisi attuale, dovranno collocare sui mercati finanziari tra 1700 e 1900 miliardi di Buoni del Tesoro. Chi li comprerà? Più precisamente: quanti Buoni del Tesoro gli americani dovranno monetizzare, facendoli riacquistare dalla Riserva federale, e qual è la parte che i cinesi e i paesi del G20 acconsentiranno ad acquistare? Lo sapremo presto. Non è d’altra parte a escluso che si assista alla creazione di nuove monete regionali da parte dei detentori di dollari non cinesi. La moltiplicazione delle monete di riserva potrebbe far nascere vere regioni commerciali. Un altro «scenario-catastrofista» è quello di un ribasso del dollaro al di qua di una certa soglia, il che obbligherebbe tutte le banche centrali a smettere di sostenere la moneta americana.

George Soros diceva, nella primavera del 2008: «Il mondo corre verso la fine dell’era del dollaro». Il problema è che è fin troppo evidente che gli Stati Uniti non rinunceranno spontaneamente ai privilegi della loro moneta. Al contrario, faranno di tutto per continuare a prendere in prestito dall’estero, perché senza questa capacità di prestito la loro economia crollerebbe (non dimentichiamo che essi consumano ogni anno 800 miliardi di dollari di più rispetto a quanto produce la loro ricchezza nazionale). Il problema è dunque di sapere se i cinesi andranno fino allo scontro. È una delle grandi incognite dei prossimi anni.

(di Alain de Benoist)

giovedì 27 ottobre 2011

Missione segreta per liberare Pound


Il 25 luglio 1943, poco prima che venisse letta la drammatica notizia dell’arresto di Benito Mussolini e dell’armistizio firmato da Badoglio, Ezra Pound trasmetteva dai microfoni di Radio Roma l’ultimo dei discorsi che gli sarebbero costati l’accusa di alto tradimento e la detenzione senza processo per tredici anni nel manicomio criminale di Washington.

Il poeta aveva parlato di speculazioni finanziarie, poeti francesi e giustizia sociale, come spesso accadeva durante i suoi interventi nel corso del programma “An american hour”, a sua insaputa attentamente monitorato dai servizi segreti britannici e dall’F.B.I. sin dal 1941. Alla fine della guerra, Pound venne arrestato, condotto in America e, giudicato infermo di mente, non fu ritenuto in grado di sostenere il processo, che quindi non venne mai celebrato.

Molto è stato scritto sulla lunga e ingiustificata prigionia dell’autore dei Cantos, così come sono noti gli appelli e le pressioni di familiari e amici -Thomas Sterns Eliot, Robert Frost ed Ernest Hemingway, tra i primi - per restituire la libertà a un grande poeta, che, secondo loro, avrebbe anche meritato degnamente il premio Nobel; ma finora nessuno, tra gli studiosi o i biografi che si sono addentrati nella vita spericolata di Pound, aveva scoperto il ruolo determinante nella sua liberazione giocato da Dag Hammarskjöld, segretario generale della Nazioni Unite e gentiluomo con la passione per le belle arti e la poesia.

Questa notizia è il frutto delle lunghe ricerche di Marie-Nëlle Little, una docente all’Utica College, in Usa, che ha appena pubblicato The knight and the troubadour (Dag Hammarskjöld Foundation, disponibile anche online al sito della fondazione), un appassionante e agile saggio che mischia storia, politica, spionaggio e letteratura.

La storia dell’amicizia tra il Cavaliere (Hammarskjöld) e il Trovatore (Pound), due spiriti liberi che non si incontrarono mai, si intreccia infatti con le vicende geopolitiche e diplomatiche che caratterizzarono le vite dei due uomini. Hammarskjöld, nella sua veste ufficiale di diplomatico al servizio della pace nel mondo era perfettamente consapevole delle delicatissime implicazioni del “caso Pound”, e quindi seppe esercitare abilmente e segretamente le giuste pressioni su Washington senza che queste risultassero indebite ingerenze esterne. Dal canto suo, Ezra Pound non volle mai rinunciare alla sua coerenza e fino all’ultimo combattè perche alle sue idee venisse riconosciuta la dignità che meritavano, battendosi perché venissero seriamente considerate una alla volta, e non liquidate come le farneticazioni di un pazzo.

Il segretario generale dell’Onu, che aveva letto i Cantos nell’estate del 1954, cita per la prima volta Ezra Pound durante il discorso che tenne il 19 ottobre dello stesso anno in occasione del 25° anniversario del Museum of Modern Art. Memore delle polemiche sollevate alcuni anni prima dal conferimento a Pound del premio Bollingen, Hammarskjöld ricorda al folto pubblico intervenuto al MomA come «l’arte moderna ci insegna a vedere, costringendoci a usare i nostri sensi, il nostro intelletto e la nostra sensibilità, trasformandoci in veggenti, veggenti come Ezra Pound quando, nel primo dei suoi Canti pisani, percepisce “l’enorme tragedia del sogno che piega le spalle del contadino”. Dobbiamo tutti essere veggenti - conclude Hammardkjöld-, veggenti ed esploratori».

Il 7 maggio 1958 Pound viene rilasciato, e poco dopo torna in Italia, solo apparentemente libero, perché, giudicato incapace di intendere e di volere, è affidato alla tutela della moglie Dorothy. Tre anni dopo, il 18 settembre 1961, il segretario generale dell’Onu perisce in quello che Luciano Canfora definisce «condanna a morte per incidente aereo».

Quando Pound sentì la notizia della tragedia si mise a picchiare disperatemente i pugni sulle pareti, ripetendo: «Questa è la fine!». Non è più tempo di cavalieri e trovatori.

(di Luca Gallesi)

martedì 25 ottobre 2011

Sorella latina o puttana dell’Eurorepubblica?


Sorella latina o puttana dell’Eurorepubblica? Entrambe. Amiamo la Francia senza aver ancora deciso se farlo grazie ai francesi o loro malgrado. Dal barbaro Brenno che ci obbligò a riscattare la Patria – “non con l’oro ma con il ferro” – al Sarkozy che fa il bullo con noi indossando una maschera comica smisurata per la sua complessione, c’è di mezzo l’inventario d’ogni luogo comune fiorito tra Roma e Parigi (o Lutetia Parisiorum, sobborgo di fondazione romana). Ma a chi giova avvelenare la Senna? La verità è che la parte migliore dell’Italia, dal tardo impero in poi, soffre a vedersi rifratta nella mancata promessa della grandeur francese. Quanta somiglianza di caratteri. E quanta nobiltà di sangue narbonese spesa per arrestare le invasioni ostrogote. I Galli ci piacquero quando imitavano i Romani, come ammise uno dei migliori, Claudio Rutilio Namaziano da Tolosa, rivolgendosi all’Urbe nel Quinto secolo dell’èra volgare: “Desti una patria ai popoli / dispersi in cento luoghi: / furon ventura ai barbari / le tue vittorie e i gioghi; / ché del tuo diritto ai sudditi / mentre il consorzio appresti, / di tutto il mondo una città facesti”.

Diverso è quando i francesi vogliono piacere troppo a se stessi, sovente a spese dell’Italia. Dall’usurpazione di Carlo Magno che s’incoronò imperatore senza controllare che quattro piazzeforti, fino a Napoleone Bonaparte, dono genuinamente italico sfiorito nel narcisismo parigino, si rincorrono delusioni condivise, aborti clandestini di uno sforzo che sarebbe culminato nella Grande guerra. Lo sforzo di fecondare assieme l’Europa. Amiamo la Francia anche perché ci è stata madrina rivoluzionaria o la detestiamo piuttosto come la gran Bottegaia che si è venduta Venezia a Campoformio? Proprio lei, cui l’Italia ha prestato i simboli dell’auctoritas e della legge, lei poi fucilatrice della Repubblica romana di Garibaldi. Eppure in quelle sorti già quasi antiche ci si scontrava fra titani, sovrani, cavalieri e arditi. Il y avait de l’honneur.

Ma nella Francia che si perde sotto ai tacchi di Sarko, dietro la guapperia di uno che per irridere Berlusconi si fa uguale alla sua peggiore controfigura da Bagaglino, oggi riconosciamo il dolore di Vittorio Alfieri verso i cugini degeneri di Francia: “Sempre insolenti / Coi Re impotenti / Sempre ridenti / Coi re battenti. / Talor valenti; / Sangue-beventi, / Regi stromenti”. In questi versi del “Misogallo” (1799-1814) abita pure la nostra gretta contemporaneità: la scostumatezza anti italiana a mezzo conferenza stampa; la complicità ridanciana offerta alla potente di turno, frau Merkel, già bersaglio di lividi motteggi privati all’Eliseo (“dice di stare a dieta e poi fa sempre il bis col formaggio”); il valore irrefutabile di uno stato grande e muscoloso come le sue vacche di Normandia; la sua inclinazione a incanaglire quando si presenti un tornaconto immediato (ne sanno qualcosa l’anima nera di Muammar Gheddafi e quelli che gli hanno bevuto il sangue accanto agli addestratori parigini). Infine c’è il destino, che nel caso dei francesi si chiama Restaurazione perfino quando loro ci si gettano in forma preterintenzionale. Quella viennese ieri, quella bancocentrica oggi.

Nel cattivo spettacolo dell’attuale regnante di Francia indoviniamo, forse, la nostra ciclica debolezza, ma sopra tutto l’incapacità sua di farsene una ragione e non un belletto settecentesco con cui pittarsi la faccia per intrattenere il pubblico internazionale. Più o meno lo stesso pubblico che presto o tardi presenterà a lui, Sarkozy, non più un candido peluche per onorare sua figlia Giulia ma il conto salato dell’otre di orgoglio dal quale è posseduto e inebriato. Quel momento scenderà come la notte, ma noi ci coglierà sobri.

(di Alessandro Giuli)

La risata di chi ha perso la misura


C'era proprio bisogno di allargare a dismisura l'Unione europea se poi il bastone del comando doveva essere dato ad un direttorio formato da due Stati? E gli altri venticinque che fanno, attendono le loro graziose signorie tedesca e francese che emettano ridicole pagelle compilate da solerti burocrati incuranti delle condizioni diverse dei Paesi membri e per nulla volti alla comprensione delle esigenze di ognuno che andrebbero armonizzate con quelle generali?

L'Europa politica, semmai c'era bisogno di una conferma, si è autoaffondata nel sorrisino sarcastico del più insolente e dei presidenti francesi della Quinta Repubblica, quel Nicolas Sarkozy che, pur accendendo molte speranze, non è riuscito a reinventare il gollismo, ma ha dilapidato un patrimonio di consensi notevole, a cominciare da quelli dei vecchi sodali Chirac e de Villepin, il primo addirittura ha espresso la propria preferenza per il candidato socialista Frangois Hollande.

Dal basso dei sondaggi che gli fanno perdere il sonno ha cercato di umiliare l'Italia, più che Berlusconi, innescando indignazioni bipartisan nel nostro Paese dove hanno gioito i soliti imbecilli della sinistra, "patrioti" sui generis.

E dando di gomito alla sua collega Angela Merkel, signora di tutte le sconfitte elettorali negli ultimi due anni, prossima al pensionamento politico, Sarkozy ha dimenticato che in Francia il rapporto debito/Pil è dell'81%, mentre il sistema bancario sta per esplodere. Chissà che cosa aveva da ridere.

E se l'ilarità ha contagiato anche la Cancelliera, ce ne rallegriamo poiché vuol dire che ha metabolizzato in fretta la caduta verticale della Cdu in tutte le sue roccaforti e perfino nella città-Stato di Berlino dove poche settimane fa ha subito la più cocente umiliazione. Chissà perché se l'economia tedesca va tanto bene, gli elettori le voltano le spalle. Gli sherpa che si porta dietro dovrebbero consigliarle maggiore prudenza e spiegarle che gli ingenti investimenti del passato, promossi da Kohl e Schroeder, hanno consentito alle istituzioni economiche e finanziarie di rilanciare la produttività in presenza di un piano di ricostruzione nazionale che è costato lacrime e sangue ai tedeschi il cui mercato immobiliare, tanto per fare un esempio, oggi è il più appetito d'Europa perché le dismissioni industriali in quella che era la Ddr sono state imponenti e la riconversione più semplice.

Situazioni diverse, dunque, che dovrebbero consigliare approcci comprensivi verso Paesi che soffrono crisi strutturali endemiche che tuttavia non valgono ad assolverli. L'Italia avrebbe dovuto fare di più e per tempo: oggi il governo sconta ritardi ed compromessi suicidi nell'alleanza e con tutte le forze politiche e sindacali. Ma le difficoltà oggettive non giustificano l'aggressione della Francia e della Germania contro il nostro Paese, come se avessimo voluto deliberatamente mettere in imbarazzo l'Europa stessa.

Non è così. Sarkozy, avvelenato per aver perso un posto nel board della Bce, sembra intenzionato a vendicarsi. Si. accontenta di poco. A maggio probabilmente di quel sorrisino resterà ben poco. Mentre oggi resta quasi niente dell'Europa se non un fallimento. Dell'euro e dell'Unione. Profetiche risuonano le parole di Richard Coudenhove-Kalergi, il grande europeista del secolo scorso: «L`Europa si è oggi smarrita e non sa ritrovare il grande sentiero della sua civiltà e si perde nel deserto dello scetticismo, della demagogia, della barbarie, delle frasi fatte e del cinismo».

C'è poco da aggiungere. A Sarkozy dovrebbero fare più male di quanto faccia il suo sarcasmo indirizzato a un capo di governo. Con tanti saluti a De Gaulle. E all'Europa delle patrie.

(di Gennaro Malgieri)

La democrazia secondo Gheddafi


Il pulpito, lo ammetto, non è dei migliori, ma Muhammar Gheddafi, nel suo turbinoso viaggio romano, due cose ineccepibili le ha dette: 1) I partiti non sono la democrazia ma la sua degenerazione; 2) L'alternanza non significa altro che a un'oligarchia di potere se ne sostituisce un'altra.

La prima affermazione potrebbe essere condivisa da Stuart Mill e Locke, i padri nobili della liberaldemocrazia, che nelle loro opere non fanno mai cenno ai partiti. E Max Weber, nel 1920, nota come, fino ad allora in nessuna Costituzione democratica fossero inseriti i partiti. E persino la nostra Costituzione, che pure nasce da un substrato partitocratico (il Cln) dedica ai partiti un solo articolo (il 49) non fra i primi e, soprattutto, non compreso fra quei "Principi fondamentali", inalienabili, che stanno alla base della Carta.

La diffidenza, anzi l'ostilità, dei pensatori liberali nei confronti dei partiti è facilmente comprensibile. Il pensiero liberale voleva valorizzare meriti, capacità, potenzialità dell'individuo, del singolo, mettendo tutti i cittadini alla pari almeno sulla linea di partenza (poi vinca il migliore, ma anche qui con alcune limitazioni in campo economico dove Adam Smith e David Ricardo bollano l'oligopolio, o peggio il monopolio, come illiberali e illiberisti in quanto rendite di posizione che falsano o addirittura impediscono la gara). Ora, il partito, la lobby o qualsiasi altro tipo di consorteria, lede in radice questo principio dell'uguaglianza sul nastro di partenza.

La scuola elitista italiana dei primi del '900, Vilfredo Pareto, Roberto Michels, Gaetano Mosca, ha detto cose definitive in proposito. Scrive Mosca in La classe politica "cento che agiscano sempre d'intesa e di concerto gli uni con gli altri trionferanno sempre su mille presi uno a uno che non avranno alcun accordo tra di loro". E qui ci si lega alla seconda affermazione di Gheddafi. La democrazia rappresentativa non è la democrazia. È un sistema di "poliarchie" come si esprime pudicamente Giovanni Sartori o, per dirla col nostro linguaggio un po' più crudo, di minoranze organizzate, di oligarchie, di lobbies, di mafie, di aristocrazie mascherate che pretendono l'obbedienza in cambio di vantaggi e che schiacciano l'individuo, il singolo, l'uomo libero, che ha ancora coscienza della propria dignità e non accetta di sottomettersi a questi umilianti infeudamenti, cioè proprio il soggetto che sarebbe il cittadino ideale di una democrazia, se esistesse davvero, e ne diventa invece la vittima designata.

Nota Pareto: "Abbiamo ora, sotto diversa forma, una nuova feudalità che, in parte, riproduce la sostanza dell'antica. Ai tempi di questa i signori radunavano i vassalli per fare la guerra e, se conseguivano vittoria, li ricompensavano col bottino. Oggi i politicanti operano nello stesso modo e radunano le loro truppe per le elezioni, per compiere atti di violenza e per conseguire per tale modo utili che la parte vittoriosa si gode". Ma fra le aristocrazie storiche e quelle attuali, mascherate sotto la forma democratica, ci sono almeno due differenze sostanziali. I nobili avevano alcuni rilevanti privilegi, non lavoravano, non pagavano le tasse, avevano un diritto diverso dal resto della popolazione (esattamente come i nostri parlamentari, i quali non lavorano, non pagano le tasse su una quota altissima, 100 mila euro, dei loro già rilevanti emolumenti, si sono costruiti di fatto un diritto proprio - vedi le varie immunità e impunità fino al culmine del "lodo Alfano" una sottrazione al diritto penale di cui nemmeno il re feudale godeva) a petto dei quali avevano però anche degli obblighi: a loro spettava la difesa del territorio, e quindi il mestiere delle armi, inoltre dovevano amministrare la giustizia nei loro feudi. I politici democratici hanno i privilegi delle aristocrazie senza averne gli obblighi.

La seconda differenza, ancora più incisiva, è la seguente. Gli appartenenti alle aristocrazie storiche si distinguono perché posseggono delle qualità specifiche, vere o anche presunte ma comunque credute tali dalla comunità, dalle quali traggano la loro leadership e la legittimità a governare. Nel feudalesimo occidentale e orientale i nobili sono coloro che sanno portare le armi, in certe epoche dell'antico Egitto la professione di scriba conduceva alle cariche pubbliche e al potere, in Cina la conoscenza dei numerosissimi e difficili caratteri della scrittura era la base della casta dei mandarini, nella Roma repubblicana il comando, attraverso la trafila delle magistrature (questore, edile, pretore, console) andava ai giurisperiti che, in genere, erano anche uomini d'arme, in altre realtà la casta sacerdotale era creduta in possesso di doti particolari per mediare con la divinità oppure l'autorità era conferita agli anziani in quanto ritenuti detentori della saggezza (com'è ancora presso i popoli cosiddetti tradizionali). E così via.

Chi appartiene alle oligarchie democratiche non ha qualità specifiche. La classe politica democratica è formata da persone che hanno come elemento di distinzione unicamente, e tautologicamente, quello di fare politica. La loro legittimazione è tutta interna al meccanismo politico che le ha prodotte. Sono i professionisti della politica che vivono di politica e sulla politica secondo la lucida e spietata analisi di Max Weber. Poiché non è necessario avere alcuna qualità prepolitica (che anzi può essere d'ingombro), la selezione della nomenklatura è autoreferenziale, puramente burocratica, avviene all'interno degli apparati di partito, attraverso lotte oscure, feroci, degradanti e con un ricorso sistematico alla corruzione per procacciarsi il consenso.

Oppure avviene per cooptazione sulla base della fedeltà canina dell'adepto o per un qualche capriccio del capobastone. Se quindi, per caso, l'uomo entrato in politica aveva qualche qualità la perde facendo politica in questo pantano democratico. L'oligarca democratico è perciò, necessariamente, un uomo senza qualità. La sua unica qualità è non averne alcuna. Che noi cittadini, uomini formalmente liberi, si paghi della gente perché ci comandi e ci asservisca - perché questa, e non altro, è la democrazia rappresentativa - è già espressione di un masochismo abbastanza impressionante che, come notava Jacques Necker nel 1792, "dovrebbe lasciare stupiti gli uomini capaci di riflessione".

Ma che ci si sottometta ai Frattini agli Scajola ai Cicchitto alla Carfagna o domani, nell' "alternanza" denunciata dal colonnello Gheddafi, ai Franceschini, ai Veltroni o a altre amebe di sinistra, è cosa talmente grottesca e avvilente che in altri mondi, più virili, provocherebbe rivoluzioni e bagni di sangue. Ma poiché non siamo più uomini ma delle femmine felici di prenderlo in ogni orifizio, anche nelle orecchie, tutto rimarrà così com'è. Almeno per qualche tempo ancora. Perché prima o poi, come è sempre avvenuto nella Storia, verrà anche per le democrazie l'ora della resa dei conti.


(di Massimo Fini)

lunedì 24 ottobre 2011

Gramsci? Mussoliniano. Il leader dei comunisti era vicino al fascismo


Quanto Mussolini c’era in Gramsci. E quanto Sorel, quanto Gentile, maestri del fascismo. Quanta ammirazione c’era in Gramsci per il d’Annunzio di Fiume e per il futurismo, che furono i precursori artistici del fascismo. E quanta considerazione per Oriani, Papini e Prezzolini. Di un Gramsci mussoliniano scrissi diversi anni fa, prima di me avevano scritto Augusto del Noce e pochi altri. Ma prima di tutti lo aveva detto lo stesso Mussolini che nel ’21 alla Camera aveva riconosciuto Gramsci e i comunisti italiani suoi «figli spirituali». E aggiunse: «io per primo ho infettato codesta gente».

Ora a dirlo non siamo più solo io, Del Noce o il diretto interessato, ma anche una ricerca nata in seno alla Fondazione Istituto Gramsci di Leonardo Rapone (Cinque anni che paiono secoli. Antonio Gramsci dal socialismo al comunismo, ed. Carocci, pagg. 421, euro 28). Rapone è uno studioso venuto da Renzo De Felice e approdato a Beppe Vacca, è nel comitato dei garanti della Fondazione Gramsci e nel direttivo che cura le opere gramsciane. Per condensare in una battuta il titolo e il testo, nel viaggio di Gramsci dal socialismo al comunismo c’è nel mezzo il mussolinismo. Il Terzo Incomodo. Le radici della scissione di Livorno dei comunisti sono nell’interventismo rivoluzionario e nel massimalismo, agitati entrambi da Mussolini. E Gramsci fu dalla parte di Mussolini a sostenere l’intervento e a riconoscerlo come capo del socialismo rivoluzionario (fra gli interventisti intervenuti ci furono pure i futuri azionisti e i futuri comunisti come il giovane Peppino Di Vittorio). Per un pelo Gramsci non collaborò al Popolo d’Italia. Non fu il solo, tra i fondatori del partito comunista, a subire l’influenza di Mussolini. Nicola Bombacci finì a Salò con Mussolini. E Angelo Tasca, fondatore del Pci e poi leader del Psi con Saragat alla fine degli anni Trenta, finì collaborazionista a Vichy, funzionario del regime di Pétain e sostenitore del patto tra l’Urss di Stalin e la Germania di Hitler. All’epoca dell’Ordine nuovo gramsciano, scrisse Tasca, eravamo tutti gentiliani, Togliatti incluso.

Il punto di raccordo delle culture radicali del nostro Paese fu l’antigiolittismo, la critica al moderatismo corrotto e corruttore, secondo i rivoluzionari dell’epoca e lo stesso Salvemini. E la critica alla democrazia. Paolo Mieli, in un ampio saggio sul Corriere della sera, sostiene con Rapone che Gramsci in quel tempo criticava la democrazia ma difendeva il liberalismo. Vero, a patto di considerare che per lui come poi per Gobetti, esempio di Rivoluzione liberale era la rivoluzione bolscevica dei soviet. Lì è infatti il discrimine tra Mussolini e Gramsci, e tra il fascismo e l’italocomunismo: partiti dalla stessa radice, entrambi persuasi da Gentile e da Sorel del primato volontarista dell’azione - che in Gramsci si fa filosofia della prassi e in Mussolini attivismo - si divaricano invece sulla rivoluzione sovietica. Mussolini «scopre» la nazione, Gramsci e il Pc optano per l’Urss di Lenin.

Per sminuire l’influenza gentiliana e avvalorare una linea di continuità liberale, si insiste sull’impronta crociana in Gramsci. Ma Gramsci di Croce, come del resto Mussolini, abbraccia lo storicismo, non il liberalismo; l’immanentismo laico, non certo la difesa della borghesia, dell’Italia di Giolitti, del neutralismo e dei diritti dell’individuo, come la libertà e la proprietà privata; e infine Croce è per loro importatore di Sorel in Italia. Peraltro, anche Gentile aderisce al fascismo nel nome del «liberalismo»... Insomma, sfatiamo la leggenda del Gramsci liberale. Gramsci sceglie Lenin, Mussolini sceglie la nazione e il nazionalismo. Sul piano delle idee, Gramsci resta con Marx, Mussolini scopre Nietzsche, a cui dedica già da socialista nel 1908 un saggio entusiasta. Gramsci resta leninista anche quando l’Urss di Stalin comincia e non piacergli e sa bene che brutta fine farebbe se raggiungesse Togliatti a Mosca: la stessa fine che fecero centinaia di comunisti italiani fuggiti dal fascismo e uccisi dai compagni sovietici, col consenso di Togliatti stesso.

Gramsci evoca anche in Italia l’avvento di «una terribile dittatura» e accoglie l’impianto totalitario della rivoluzione leninista. Col tragico paradosso che quando è in carcere, sotto il regime fascista, Gramsci accusa il fascismo non di aver instaurato una dittatura totalitaria ma di aver tradito la rivoluzione nel compromesso con la borghesia, la monarchia, il capitale e la Chiesa. Ovvero accusa il fascismo di essere un totalitarismo incompiuto, imborghesito. E non respinge del fascismo né il cesarismo né la violenza, ma distingue tra un cesarismo e una violenza progressivi, che poi sarebbero quelli leninisti e comunisti, e un cesarismo e una violenza regressivi. Lo scrive nelle Note sul Machiavelli, e lo dice nello scontro alla Camera con Mussolini nel ’25. Ma chi stabilisce la differenza fra una dittatura e una violenza buone o cattive? L’Intellettuale Collettivo, lo stesso Partito, nuovo Principe assoluto e il suo Ideologo...

A Gramsci vanno riconosciuti due meriti. La scoperta della centralità della cultura nella coesione sociale di un popolo e nella conquista politica del consenso. Intuizione figlia dell’idealismo militante, comune a Gentile e Bottai. E la scoperta del nazionalpopolare nel tentativo di una via italiana al comunismo. Ma in entrambi si insinua il germe leninista: nel primato della cultura si insinua il primato dell’Intellettuale Collettivo, del Partito-Principe tramite l’egemonia.

E nel secondo, il nazional-popolare non incontra la tradizione ma la sua negazione, attraverso l’idea di una Riforma irreligiosa e di un illuminismo portato alle masse da una dittatura pedagogica e totalitaria. La morte di Gramsci dopo il carcere riscatta il suo pensiero e lo accomuna a Gobetti e Gentile, martiri delle proprie idee o Eroi Intellettuali.

E lo rivedi, malato, come lo descrisse già anni prima Gobetti, con la grande testa che eccedeva sul corpo gracile e deforme ed era l’esatta figurazione del suo pensiero. Un corpo egemonizzato dalla testa...

(di Marcello Veneziani)

venerdì 21 ottobre 2011

Onore e armi in pugno. Come sanno morire i nostri nemici, nessuno


Come sanno morire i nostri nemici, nessuno. Come ha saputo morire il rais, armi in pugno, lo sapevano fare solo i nostri. Come a Bir el Gobi quando con onore, dignità e coraggio sorridevano alla morte. Fosse pure per fecondare l’Africa.

Sarà tutto tempo perso, dunque, sporcarne gli ultimi istanti, gravarne di dettagli i resoconti e anche quel disumano reportage sul volto fatto strame – tra sangue e calcinacci – non potrà spegnere il crepitare della mitraglia. Perché come ha saputo morire Muammar Gheddafi – così ridicolo, così pacchiano e così a noi ostile – come ha saputo farsi trovare, straziato come un Ettore, solo il più remoto degli eroi dimenticato nell’Ade l’ha saputo fare.
Come i nostri eroi. Come nel nostro Ade. Proprio come seppe morire Saddam Hussein che se ne restò sprezzante sul patibolo. Come neppure la più algida delle principesse di Francia davanti alla ghigliottina. Incravattato di dura corda al collo, l’uomo di Tikrit, degnò qualche ghigno al boia, si prese il tempo di deglutire il gelo della forca per poi gridare la sua preghiera: “Allah ‘u Akbar”. E fu dunque fatto morto. E, subito dopo, impudicamente fotografato.
Come nel peggiore degli Ade. Per quel morire che non conosciamo più perché gli stessi che fino a ieri stavano a fianco del rais, dunque Sarkozy, Cameron, lo stesso Berlusconi, tutto potranno avere dalla vita fuorché un ferro con cui fare fuoco. La nostra unica arma è, purtroppo, il doppio gioco. I nemici di oggi sono i nostri amici di ieri – amico fu Gheddafi, ancor più amico fu Saddam Hussein – e quando li portiamo alla sbarra, facendone degli imputati, dobbiamo scrivere la loro sentenza di morte con l’inchiostro della menzogna perché è impossibile reggere il ghigno dei nemici. Perché – si sa – i nemici che sanno come morire, poi la sanno sempre troppo lunga su tutto il resto del Grande gioco. Ed è un lusso impossibile quello di stare ad ascoltarli in un’udienza.

Come sanno morire i nostri nemici, nessuno. L’unica cruda verità della vita è la guerra e solo i nostri nemici sanno creparci dentro. E’ veramente padre e signore di tutte le cose, il conflitto, ma l’impostura è così forte in noi da essere riusciti a muovere guerra alla Libia dandola per procura, lavandocene le mani, mandando avanti gli altri perché a forza di non sapere morire con le armi in pugno, se c’è da sparare, preferiamo dare in appalto la sparatoria. Giusto come un espurgo pozzi neri da affidare a ditta specializzata.

Come sanno morire i nostri nemici, nessuno. Quando gli eserciti dello zar ebbero ragione del loro più irriducibile nemico, Shamil il Santo – l’imam dei Ceceni, il custode della prima Repubblica islamica nella storia – nel vederselo venire avanti, finalmente sconfitto, non lo legarono a nessun ceppo, a nessuna catena, piuttosto gli fecero gli onori militari per accompagnarlo in un lungo viaggio fino al Palazzo reale dove lo zar, restituendo a Shamil il proprio pugnale, lo accolse quale eroe e lo destinò all’esilio, a Medina, affinché tutta quella guerra, spaventevole, diventasse preghiera e romitaggio.

Come c’erano una volta i nemici, non ce ne saranno più. Ed è per la vergogna di non sapere morire come loro che scacazziamo sui loro cadaveri. Ne facciamo feticcio e se fosse cosa sincera la memoria di ciò che fu, invece che produrre comunicati stampa di trionfo, se solo fossimo in grado di metterci sugli attenti, invece che mettere la morte in mostra, dovremmo concedere loro l’onore delle armi, offrire loro un sudario.

Sempre hanno saputo morire i nemici. E tutti quei corpi, fatti poltiglia dalla macelleria della rappresaglia, nel film della nostra epoca diventano tutti uguali: Benito Mussolini, Che Guevara, Gesù Cristo, Salvatore Giuliano. E con loro, anche i nemici morti ma fatti assenti, tutti uguali: da Osama bin Laden a Rudolph Hess. Fatti fantasmi per dare enfasi al feticcio, come quel Gheddafi armato e disperato che nel suo combattere e urlare, simile a un selvaggio benedetto dal coraggio e dalla rabbiosa generosità, mette a nudo la nostra menzogna.

A ogni pozza di sangue corrisponde l’onta della nostra vergogna e un Pupo che parla a Radio Uno e annunzia “una notizia meravigliosa” e si rallegra di Muammar Gheddafi, morto assassinato, è solo uno che si trova a passare e molla un calcio al morto. Pupo è come quello che sabato scorso, dalle parti di San Giovanni, vede la Madonnina sfasciata appoggiata a un muro e non sapendo che fare le dà un’altra pestata, non si sa mai. Così come il black bloc, anche Pupo, è una comparsa chiamata a raccolta nella montante marea del nostro essere solo canaglie. La signora Lorenza Lei, direttore generale della Rai, dovrebbe cacciarlo lontano dai microfoni della radio di stato uno così ma siccome il nostro vero brodo è la medietà maligna, figurarsi quanto può impressionare l’offesa al morto. Pupo, infatti, è l’eroe perfetto per il peggiore degli Inferi, l’Ade cui destinare quelli che non sanno darsi uno stile nel morire.

(di Pietrangelo Buttafuoco)

Le pretese dinastiche di un liberatore che non conosceva la libertà


Il fato ha voluto che Muammar Gheddafi venisse ucciso, armi in pugno, a cento anni esatti dalla guerra italiana in Libia. Lui che sulle ferite del colonialismo aveva costruito la propria immagine di liberatore (fino a giungere alla leadership dell’Unione africana), rivendicando perfino un’ascendenza etnica e archetipica di conio cartaginese, perciò imperialista per istinto predatorio e mercantilista per vocazione.

Troppe parti ha giocato Gheddafi sul proscenio internazionale per ridurre la sua uscita di scena all’epilogo di una tirannia unidimensionale. Il rais libico è stato molto più di un autocrate e qualcosa di meno rispetto al federatore di genti e interessi continentali che aspirava a diventare. L’occidente lo ha conosciuto come il giovane promettente militare, laico e socialisteggiante, capace di deporre un re (Idris) nella terra delle tribù patriarcali in lotta nel deserto. Era il 1969 e quella si rivelò soltanto la prima delle sue pelli, presto avremmo fatto l’abitudine alla spregiudicatezza assassina d’un persecutore di massa: i clan rivali della Cirenaica, gli ex colleghi in divisa protagonisti del colpo di stato, chiunque intorno a lui fosse sospettato di voler svettare più in alto di una spiga di grano. Un capo degno del titolo, Muammar Gheddafi, con il quale gli stati confinanti hanno dovuto disputarsi lo scrigno del petrolio africano e quel poco di ortodossia islamista (assai improvvisata nella dottrina del Libro Verde scritto e monumentalizzato dal rais) utile a vestire d’idealità l’odio anti occidentale.

Anche nel ruolo di vindice e liberatore dalle catene di un occidente utile in quanto nemico, Gheddafi ha espresso il meglio e il peggio di quello che in antico era il regno di Numidia, luogo di sentenze di morte, fedeltà multiple (da Annibale a Giugurta) e affari d’oro. E’ stato capace di cacciare gli italiani stanziati in Libia per sentirsi degno delle ridondanti decorazioni panafricaniste appuntate sul suo doppiopetto militare, ma lo ha fatto nel momento stesso in cui trafficava fruttuosamente con le nostre compagnie petrolifere e i nostri servizi segreti. Negli anni Ottanta ha commissionato omicidi intercontinentali, ha attentato alle coste italiane pur presentendo un sottofondo di complicità nel nostro ceto politico di allora, così specchiatamente filo arabo; ha sfidato i bombardamenti di Ronald Reagan e fatto brillare il volo Pan Am di Lockerbie, assassinando gli innocenti, per poi fermarsi dopo la guerra di Bush, un attimo prima dell’abisso. A Reagan è sopravvissuto, al risentimento di Londra ha saputo opporre contratti faraonici per British Petroleum. Conosceva la legge non scritta secondo la quale non c’è ricchezza che non possa temperare la memoria del sangue versato. E se non fosse stato il più furbo dei tiranni tardo novecenteschi, Gheddafi, non avrebbe capito per tempo che la sua grandeur nucleare era destino che soffocasse nel cappio stretto intorno al collo di Saddam Hussein. Il senso dell’orientamento non si può dire gli sia mancato. E quando non era direttamente la sua voce oltretombale a proclamare la doppiezza delle intenzioni, quando non erano i suoi occhi fondi a cercare complicità, la sua cupa luce di grandezza era espressa dall’ornamento circostante. Dal tendaggio beduino di un capo senza fissa dimora e dunque abitante di ogni altrove, dal corredo epico delle amazzoni al seguito, dal clangore dei cavalli corruschi montati dai recalcitranti suoi beduini. Abitudini regali, perfino sensualità nel corteggio delle predilette e dei prediletti che lo avrebbero tradito (pour cause). In questo sfoggio di pretese dinastiche da parte di un aspirante liberatore che non conosceva la libertà moderna era racchiuso il prologo in cielo dell’ultimo atto. I suoi persecutori anglo-francesi hanno trovato il momento perfetto per fare della primavera araba un regolamento di conti senza via d’uscita. I loro complici, Italia compresa, Stati Uniti compresi, hanno visto nella guerra civile libica un male necessario che avvicendava un altro male non più indispensabile. I suoi giustizieri tribali, Gheddafi, possono averlo anche ammirato senza vergogna.

(di Alessandro Giuli)

giovedì 20 ottobre 2011

Violenti peggio dei terroristi


Adriano Sofri ha scritto in questi giorni su “Repubblica” che lui è stato uno di quelli che i sassi li tirava, nelle manifestazioni studentesche degli anni Sessanta sfociate nel cosidetto “Sessantotto”. E voleva dire, a ragione, che una cosa erano quei sassi e tutt’altra la furia belluina dei delinquenti di diritto comune che si sono esibiti sabato scorso a Roma. Appartengo alla stessa generazione politica e sentimentale di Sofri, e dunque confesso che i sassi li ho tirati anch’io nei miei vent’anni. Una volta a Parigi sul Boulevard Saint Michel, un tardo pomeriggio del maggio 1968, tre o quattro pietruzze che non avrebbero fatto del male a una mosca e finché i Crs non contrattaccarono a farci capire qual era il rapporto di forze reale e non psicotico tra noi studenti e le forze dell’ordine. Perché questo vorrei ricordare agli osceni pagliacci che in questi giorni si sono vantati di avere fatto la prova generale dell’assalto allo Stato borghese.


Poveri idioti che non sanno di che cosa stanno parlando. A Parigi noi avevamo di fronte non gli stanchi e mal pagati poliziotti la cui età media era 47 anni, come è avvenuto sabato scorso. Avevamo di fronte truppe scelte che avevano imparato il mestiere nell’Algeria insorta. Gente che ci avrebbe fatto a pezzi se non fosse che il governo francese dell’epoca aveva dato ordini perentori di limitare l’uso della forza, e questo perché tra i manifestanti c’erano tutti i figli dei ministri. Ricordo l’espressione di disprezzo con cui ci guardava un tenentino dei Crs, uno che se avesse potuto ci avrebbe spazzato via con un solo schiocco delle dita. Fra noi studenti della Cité Universitaire c’era un matematico argentino - più grande di noi, un personaggio molto affascinante - che ci guardava anche lui un po’ dall’alto in basso. Lui ne sapeva di scontri fra la polizia e gli studenti, altro che il “joli mai” a Parigi. Quando loro studenti argentini andavano in piazza si trovavano di fronte carri armati che sparavano ad alzo zero, altro che tenentini che li guardavano sprezzanti.
chi minimizza

E comunque Sofri minimizza il tempo della “Lotta continua” di cui è stato il leader carismatico. Non erano solo sassi. Uno come il giovane militante di Lc Maurizio Pedrazzini lo beccarono il 22 marzo 1972, meno di due mesi prima dell’omicidio di Luigi Calabresi mentre si aggirava armato di pistola nelle scale del palazzo milanese dove abitava il missino Franco Servello. Il 29 aprile di quello stesso 1972, la polizia intercetta a Roma altri due giovani militanti di Lc che stavano viaggiando su una Vespa. Erano attrezzati di un kit da guerriglieri mica male; una pistola con la matricola abrasa e completa di caricatore, 43 proiettili dello stesso calibro e una miccia di dieci metri per mina. Sia la pistola di Pedrazzini che quella del binomio Carlo Albonetti-Massimo Manisco, provenivano dall’arsenale di armi che Lc custodiva in un deposito torinese, arsenale descritto al dettaglio dal “pentito” Leonardo Marino e da cui proveniva la pistola che uccise Calabresi. E ancora. Una volta quelli di Lc diedero un assalto furibondo a una sede torinese non ricordo più se del Msi o della Cisnal. Non solo sassi. La polizia sparò, uno di Lc come Luigi Manconi venne ferito al gluteo e si diede latitante. Si diede latitante anche la figlia di Sergio Garavini, un sindacalista torinese dei tempi in cui il sindacato italiano era una forza vitale della società italiana. Sergio era mio amico, e sua figlia latitante la ospitai a lungo.

Ma quanto all’assalto allo Stato borghese il peggio doveva ancora venire. Erano i primordi, gli esercizi di tiro, i primi gesti spettacolari delle varie formazioni terroriste (sto parlando del terrorismo di sinistra, perché quello “nero” è tutt’altra storia). E veniamo alla manifestazione romana del 12 marzo 1977, una manifestazione che presenta punti di raffronto con quella di sabato scorso. Anche in quella occasione una massa di gente assolutamente pacifica e entusiasta, 30-40mila persone che si misero in movimento da piazza della Repubblica poco prima delle 16. Parola d’ordine della manifestazione: “Libertà per Fabrizio Panzieri!”, ed era una parola d’ordine sbagliata perché, contrariamente a quello che io stesso avevo creduto, Panzieri c’era e certamente aveva sparato alla mattina in cui assassinarono a Roma uno studente greco di destra. Ma non è questo il punto. Il punto è che all’interno dei 30-40mila manifestanti “buoni” c’erano 500 protobrigatisi muniti di pistola.

Vi ricordate quelli che nei cortei muovevano le tre dita nel segno dell’uso della pistola? Loro. Ed esattamente com’è avvenuto a Roma sabato, furono quei 500 a impadronirsi della manifestazione e a modellarne il significato. Comincirono a spare alle 16.30 all’altezza di piazza del Gesù e continuarono per quattro o cinque ore, dappertutto a Roma. Che in quell’occasione non ci sia scappato il morto è un miracolo. E comunque era una sorta di data di nascita del terrorismo armato di sinistra, una tragedia che in Italia sarebbe durata incomparabilmente più a lungo che non in altri paesi europei, una tragedia che sarebbe costata vite a centinaia. E finché quella storia finì, e lo Stato italiano seppe finirla senza troppi strazi alle regole istituzionali di una democrazia. E la gran parte dei terroristi di quegli anni sono adesso in libertà dopo avere espiato chi 15 e chi 20 di carcere, e questo perché sono uomini diversissimi dagli assassini che erano stati.

Solo che di recente è cominciata un’altra storia e un’altra tragedia, il cui primo tempo sono stati gli scontri di Genova di dieci anni fa (scontri la cui entità simbolica venne aggravata dal comportamento cialtronesco della polizia che era entrata alla Diaz e che ebbe in custodia gli arrestati alla caserma di Bolzaneto). È venuta alla ribalta una nuova genìa di ribelli, gente del tutto estranea ai tracciati ideologici del Novecento, ragazzi spesso giovanissimi il cui solo dio è la libidine della distruzione, di uno sportello bancomat o di una statua della madonna. Delinquenti di diritto comune. È il tempo e l’apotesi di “Er Pelliccia”, il ventiquattrenne studente romano immortalato nell’atto di scaraventare un estintore, un gesto talmente furibondo che quasi gli fa perdere i pantaloni a renderlo degno di una sequenza dell’ “Isola dei famosi”. Lui s’è difeso che quell’estintore lo aveva lanciato a fin di bene, per sedare le fiamme. Tanto che in Rete lo hanno definito “Er Pompiere”.

In fatto di uso dell’estintore come arma, “Er Pompiere” è la versione trash del gesto che costò la vita a Genova al povero Carlo Giuliani. Una vita la cui perdita merita tutta la nostra commozione, e purché non si trasmuti quel suo gesto - di scaraventarsi a forza di estintore contro un ragazzo che aveva la sua età e che aveva il solo torto di indossare una divisa - come un gesto di “eroismo civile”, al punto da dedicargli non ricordo più se una sala della Camera o del Senato. Morte di Giuliani a parte, e speriamo che quella morte resti unica e anche se mi sembra difficile dato quel che in fatto di sfracassi si annuncia in Val di Susa o altrove, siamo semplicemente all’inveramento di una frase famosa. Che la storia la prima volta si manifesta come tragedia, la seconda come farsa. Siamo purtroppo al tempo di tipi alla maniera di “Er Pelliccia”. Vorrà dire che ce lo siamo meritati.

(di Giampiero Mughini)

mercoledì 19 ottobre 2011

Il lato cafone dei politici e degli intellettuali: le migliori foto di un giornale controcorrente


Immortalato di spalle, l’onorevole Amintore Fanfani parla a un congresso democristiano. Sotto i suoi piedi, un pacco di giornali gli permette di non sfigurare sul podio. La didascalia che accompagna la foto recita: «Con qualche sforzo, Fanfani si affaccia alla ribalta nazionale».

Il Borghese era questa cosa qui, un occhio impietoso e insieme divertito. L’aveva fondato nel 1950 Leo Longanesi: quindicinale, nel 1952 era diventato settimanale, poi nel ’57 Longanesi era morto ed era stato Mario Tedeschi a raccoglierne l’eredità. Non si fa torto al fondatore se si dice che Il Borghese dei successivi quindici anni (sino cioè alla sciagurata elezione di Tedeschi a senatore nelle file del Msi), quello del record di vendite, dell’anti-Espresso e della satira anti-sistema fu merito suo. Chi viaggia oggi fra i cinquanta e i settant’anni è questo Il Borghese che ricorda, l’altro è antiquariato, oggetto mitico di cui, tranne rare eccezioni ottuagenarie e nonagenarie non esistono più testimoni viventi.

Longanesi fa parte del pantheon giornalistico-editoriale italiano: c’è entrato sì in ritardo, con molti distinguo e con fatica, ma da lì ormai non lo schioda più nessuno. Su Mario Tedeschi grava invece ancora una cappa di solido conformismo, come è destino di chi negli anni Sessanta si trovò a fare l'opposizione da destra al centro-sinistra e nel decennio successivo entrò in rotta di collisione con quella stessa destra politica di cui si era fatto garante.

Adesso il Consiglio Regionale del Piemonte allestisce a Torino questa mostra, Il fascino borghese della fotografia. Politica, costume e società dall’archivio fotografico de «Il Borghese» (Piemonte Artistico culturale, piazza Solferino 7, sino al 12 novembre) e gli affianca, a cura di Dario Reteuna e con la collaborazione di Elisa Paola Lombardo, un bel catalogo illustrato, ricco di informazioni e con una prefazione di Vittorio Feltri, primo passo per una rilettura obbiettiva del Tedeschi direttore.

Per alcuni versi, Il Borghese di Tedeschi (ma c’era anche un parterre di firme di tutto rispetto: Prezzolini e Enrico Fulchignoni, Gianna Preda e Luciano Cirri, Claudio Quarantotto e Emilio Cavaterra, Alberto Giovannini e Piero Buscaroli, Giano Accame e Julius Evola, per citarne solo alcuni) è stato il padre del Cafonal di Roberto D’Agostino e Umberto Pizzi: i politici attovagliati, i politici festaioli, quelli con le dita nel naso, quelli con la lingua di fuori, gli scrittori in lotta con la società borghese e gli scrittori in lotta con l’uso delle posate (spesso le stesse persone), i vizi, i tic, i tabù e le manie del ceto medio che emergeva, così come della classe operaia che reclamava il proprio posto al sole… Perché negli anni Sessanta c’è già in nuce lo sfascio esistenziale e politico, la grande mutazione, che nell’arco di un trentennio renderà il Paese irriconoscibile. Fateci caso: i «vecchi fusti», per usare un classico termine «borghesiano», appartengono ancora per età alla generazione che, pro o contro, si è formata sotto il fascismo. Mano a mano che il dato anagrafico li condanna, ciò che ne prende il posto è sempre più chiassoso e meno serio, più volgare e meno pudico, più ostentato e meno riservato. Nelle persone come nei luoghi è l’emergere di un Paese che confonde il benessere con l’assenza di regole, vuole nuovi diritti, ma non si sogna di contrapporgli nessun dovere.

La differenza fra l’Italia difesa da Longanesi e quella detestata da Tedeschi sta nel fatto che la prima non esisteva: era la proiezione di un genio malinconico che si ostinava a popolarla di colonnelli in pensione e vecchie zie, padroni del vapore e socialisti in vena di romanticismo, professori di provincia e signorine di buone maniere. Orfano di Mussolini, Longanesi era odiato perché temuto. Conosceva vita, morte e miracoli di chi, la maggioranza, si era scoperto fieramente antifascista a fascismo defunto. Era difficile con lui atteggiarsi a martire, a resistente, a reduce: sconfitto il Pci nel’48, il decennio successivo sarà ancora all’insegna di un centrismo più o meno reazionario, più o meno liberale, a cui la relativa distanza dalla fine della guerra permetteva di non farsi prendere in giro dalla retorica di una guerra di liberazione vittoriosa.

Tedeschi si ritrovò invece nel pieno del cambiamento, il giro di boa degli anni Sessanta che per giustificare la svolta a sinistra doveva inventarsi l’impossibilità di un ricambio a destra e quindi bloccare il quadro politico con il moralismo antifascista, l’avversario come male assoluto. Ciò diede al Borghese un campo d’azione giornalistico ampio, ma al contempo fragile, perché lo costringeva, sul terreno della politica come su quello del costume, a farsi conservatore in un Paese dove non c’era più nulla da conservare, ma casomai tutto da rifondare. Di qui la retorica dell’ordine, la passione per le uniformi, la fiducia, naturalmente immotivata, nei servizi segreti…

Lì dove Longanesi aveva fatto ancora a tempo a ritagliarsi un’Italia ottocentesca a propria immagine e somiglianza, Tedeschi si ritrovò a dover inseguire preti che si volevano sbarazzare della tonaca, ragazze che si volevano sbarazzare della verginità, borghesi che si vergognavano d’esser tali, militari felloni, impiegati frustrati. Invece di favorire, giornalisticamente, la dissoluzione e far esplodere le contraddizioni, provò a fare da Cassandra prima, da argine poi, da sponda politica infine. Fu un mesto declino.

Nella mostra torinese, il passaggio dai Cinquanta-Sessanta ai Settanta si vede nei soggetti immortalati.

Diminuiscono i politici, più o meno ilari, più o meno grotteschi, più o meno funerei, entrano in scena manifestazioni e cortei, scontri e cariche, terrorismo, le didascalie come gli articoli si fanno più feroci, il piombo diventa anche una componente giornalistica.

Mario Tedeschi è morto nel 1993, a 81 anni. Fisicamente era un disegno di Longanesi: baffi a manubrio, un’allure da ufficiale di cavalleria appesantita dalla buona tavola.

In guerra aveva combattuto nella Decima, nell’immediato dopoguerra, se non ricordo male, aveva occupato la Rai per mandare in onda Faccetta nera… Fu un grande giornalista. Dimenticavo: Il Borghese esiste ancora: mensile, lo dirige Claudio Tedeschi, suo figlio. Il modo migliore per onorare un padre.

(di Stenio Solinas)

martedì 18 ottobre 2011

Deglobalizzare e l'albero cadrà da solo


Alle primarie socialiste francesi Arnaud Montebourg (nella foto n.d.r.), 48 anni, che Rappresenta la sinistra del partito, ha preso il 17% dei voti proponendo la de globalizzazione attraverso il ritorno a un forte protezionismo.

Mi fa piacere perché è quanto vado proponendo, nei miei libri e col mio micromovimento cultural-politico, Movimento Zero, da una quindicina d’anni (un tema che, incidentalmente, avevo ripreso, sia pure in estrema sintesi, nello scorso Battibecco), anche se io parlo di autarchia europea, Montebourg, più prudentemente, di protezionismo, ma sostanzialmente si tratta della stessa cosa.

Il successo di Montebourg significa che una parte della base della sinistra francese comincia a rendersi conto degli effetti devastanti della globalizzazione e della mondializzazione (anche se si tratta di due concetti diversi: il primo è economico e riguarda la “reductio ad unum” dell’intero esistente al modello di sviluppo occidentale; il secondo la tendenziale unificazione del mondo in un unico Stato, a guida americana, naturalmente), terreno finora coltivato da nicchie culturali di destra.

È un programma, quello di Montebourg, che se non altro ha il pregio della diversità. In Italia siamo invece all’encefalogramma piatto. Il dibattito politico si riduce all’eterna diatriba tra berlusconiani e antiberlusconiani che ha finito per stancare tutti, almeno quelli che non si sentono di appartenere a nessuna di queste due squadre.

Intendiamoci, il discorso della legalità è importante: è il minimo comun denominatore perché una comunità possa tenersi insieme. Ma non basta. Epperò anche le rare volte che destra e sinistra escono dalla zuffa permanente non fanno che riproporre le solite, muffe, ricette, la crescita, la modernizzazione, insomma l’adesione acritica al paranoico modello del produci-consuma-crepa che è anzi diventato un ancora più demenziale consumare per produrre.

Anche se gli attuali esponenti della destra e della sinistra sono delle mediocri banalità, le ragioni di queste loro incapacità di uscire da quello che viene chiamato il “pensiero unico”, sono tutt’altro che banali. Marxismo e liberismo, destra e sinistra nelle loro varie declinazioni sono in realtà due facce della stessa medaglia: la Modernità. Sono entrambi figli della Rivoluzione industriale, illuministi, ottimisti, positivisti, economicisti, hanno entrambi il mito del lavoro (per Marx è “l’essenza del valore”, per i liberisti è esattamente quel fattore che, combinandosi col capitale, dà il famoso “plus valore”) e si sono illusi che industria e tecnologia avrebbero prodotto una tale cornucopia di beni da rendere felici tutti gli uomini (Marx) o quantomeno la maggior parte di essi (i liberisti). Questa utopia bifronte è fallita. Io vedo marxismo e capitalismo come due arcate di un ponte che si sono sostenute a vicenda per due secoli e mezzo. Il crollo del marxismo prelude quindi a quello del capitalismo il cui sgretolamento sta avvenendo sotto i nostri occhi e alla cui fine ci aspetta una catastrofe planetaria. Ma gli stanchi epigoni del capitalismo e di quel che resta del marxismo non sono in grado di mettere in discussione radicale la Modernità, perché categorie di destra e di sinistra della Modernità sono nate, nella Modernità si sono affermate, e quindi non possono recidere le proprie radici anche se tutti vedono che sono già marce e che, se non si cambia rapidamente direzione, l’albero cadrà da solo.

(di Massimo Fini)

Quelli che non s'indignano ma partono

Altro che gli Indignati. Voi dite i bamboccioni che restano in famiglia a trent’anni.Voi dite i meridionali che sbafano o delinquono. In verità vi dico che contando tra amici e parenti del Sud ho tratto la seguente statistica: i quattro quinti delle famiglie meridionali che conosco sono rimaste senza figli. Sono partiti a cercare o a trovare lavoro lontano da casa, al Nord o all’estero.

La famiglia al Sud è finita prima ancora che per colpa delle separazioni, per «merito » del lavoro. Anziché indignarsi partono, i ragazzi dal Sud. Non c’è ragazzo che non parta e se non parte, peggio per lui, parte svantaggiato. Vanno via per studio, lavoro e avventura. È un’ecatombe al Sud:chiude la famiglia, i genitori sono rimasti soli. Come se i loro figli fossero partiti in guerra, una guerra invisibile e globale. Di solito ci si chiede come andrà per quei ragazzi; io mi chiedo pure che futuro avranno quei paesi svuotati e quei genitori che vivevano per i figli e ora li hanno persi, forse per sempre. Paesi antichi che duravano da secoli, destinati a sparire. Famiglie disperse.

Un terremoto invisibile li sta inghiottendo, non solo a Sud, anche in alcune province del Nord. Chi resta? Pochi: o i troppo fortunati, con lavori inventati o ereditati, tra botteghe, studi ed esercizi; oppure i troppo sfortunati, quelli senza titoli o senza grinta, gli umili, i timidi, a volte gli incapaci. Il resto sono precari gratis, semiclandestini, stagisti sfruttati da enti pubblici e privati. Succede, quando a ventitrè anni non sei il trota di nessuno.

(di Marcello Veneziani)

Fate parlare gli indignati e capirete la vera ragione per cui sono precari


Troppo comodo trasformare in fascisti i “compagni che sbagliano”, gli incappucciati che si prendono i cortei per fare la festa agli indignados. Troppo facile, poi, risolverla con lo sfascismo. In questa vicenda di borghesi stradaioli non c’entra nulla, infatti, il santo manganello. Non c’è il Novecento, non c’è la “Rissa in Galleria” e neanche “Città che sale”. Tutt’al più c’è quell’Ecce Homo di Marco Pannella scaracchiato da una manica di benpensanti giacobini.

In attesa che ci scappi il morto è bene che si sappia che in queste stupide lagne giovanilistiche – cui può benissimo fare il paio la dichiarazione di Mario Draghi, ben lieto di scivolare dentro la demagogia – non c’è una sola scazzottatura, non un solo frammento dell’Avanguardia storica e sempre restando in attesa che ci scappi il morto si può stare sicuri di un fatto: neppure la ribellione delle masse può cominciare da piazza San Giovanni perché se solo ci fosse stata una goccia di olio di ricino si sarebbero sentite le note di “Rusticanella”, la marcia della marcia su Roma.

Troppo comodo, poi, pensare che possano fare epoca. Sarà globale, infatti, la mobilitazione – ci sarà tutta una canea a muoversi – ma tutti questi indignados sono così a corto di concetti, di parole e di raziocinio che è proprio un’esagerazione andargli addosso con gli idranti della forza pubblica. E’ sufficiente farli parlare. Di tutti questi indignados, infatti, quelli interpellati a caldo, dopo gli incidenti di sabato – ma anche a freddo, a bocce ferme – non ce n’è uno che sappia fare la “O” col bicchiere. Il povero David Parenzo, in collegamento dalla piazza ancora rovente per “In Onda” su La7, dai leader raccolti intorno al suo microfono non riusciva a cavargli un costrutto che fosse uno, due parole messe in croce, tre neuroni in grado di sostenere una spiegazione del loro essere indignati. Stessa fatica per Bianca Berlinguer, sempre in collegamento con i giovani indignati al Tg3 “Linea notte”, che non riusciva a farsi dare una frase di senso compiuto da questi avanguardisti, incapaci perfino di dare una risposta a Mario Draghi.

Certo, troppo comodo fare gli stronzi, come stiamo facendo, con dei ragazzi precari che non hanno potuto coltivare la consecutio temporum a causa dei tagli imposti alla scuola pubblica dalla Mariastella Gelmini. Troppo comodo, forse, fare dei paragoni storici perché, insomma, se non hanno la caratura degli Adriano Sofri e dei Tino Vittorio, se non si sono esercitati nella traduzione dall’italiano in latino dei “Pensieri” di Mao nelle aule di Ettore Paratore, se non hanno alle spalle “Gioia e Rivoluzione” degli Area ma sono soltanto pecorelle della farneticazione global, amplificata tanto da Internet quanto dagli incappucciati, indignados assai impazienti, ecco: non solo fa impressione vedere quanto siano ignoranti, ma non sono neppure antagonisti. Altrimenti la guerra alla finanza internazionale la farebbero con i libri di Massimo Fini se non proprio con i “Cantos” di Ezra Pound o con “Cavalcare la Tigre” di Julius Evola. E vederli, come si vedono, con quel puzzolentissimo libretto di Stéphane Hessel, “Indignatevi”, li condanna definitivamente alla pochezza del gregge, tutto un belare in sottovuoto marketing. E sono ignoranti a un livello tale che se lo meritano di essere precari, altrimenti sarebbero come i loro coetanei d’India, di Cina e di Corea che spadroneggiano nella tecnica e nelle invenzioni e non certo in Scienze delle comunicazione.

E non producono estetica, infatti, questi indignados – come possono fare i loro coetanei nelle banlieue di Parigi con tanto di film come “L’odio” di Mathieu Kassovitz, con Vincent Cassel – e non avranno mai l’avventura di fare la rivolta, come accade in Egitto dove però, signori miei, nei pressi del Canale arrivano le motovedette della Repubblica islamica dell’Iran, altro che i contestatori della Val di Susa.

Non sono antagonisti, infine, perché è troppo comodo fare la rivoluzione con la corda dimenticata nei magazzini del signor Lenin. E se non si riesce a farsela vendere, la corda, dagli stessi capitalisti destinati a farsi impiccare ma tanto più ad arricchirsi, non si può restare a farsi aspergere con queste polluzioni dei giovanotti borghesi in attesa che la rivoluzione trovi una propria lingua perché il linguaggio, intanto, ha retrocesso tutti i bennati d’occidente nel balbettio mondialista e i peccati contro lo spirito del male, si sa, non si perdonano in questo mondo.

(di Pietrangelo Buttafuoco)