venerdì 16 marzo 2012

Massimo Fini: ridateci il vero calcio altro che codice etico

'Io non sono mai andato a vedere una partita allo stadio con una ragazza. O l'una o l'altra. Alle fidanzate dovrebbe essere proibito per legge entrare in uno stadio'. In questa battuta - tutt'altro che buttata lì per ridere - che chiude la nostra lunga chiacchierata, c'è tutto l'integralismo calcistico di Massimo Fini, giornalista da una vita (Il Giorno, L'Indipendente, Quotidiano Nazionale, recentemente Il Fatto Quotidiano) ma anche attore, scrittore e filosofo - nell'accezione più contemporanea possibile del termine -, dalle posizioni sempre dissacranti e provocatorie, mai allineate. Sostenitore delle teorie della decrescita e dell'antimodernismo, Fini da tempo si batte per un ritorno del calcio alle sue origini più pure, e sull'argomento si è concesso ai microfoni di Calciomercato.com.

Lei vanta di aver scritto già nell'82, dopo la vittoria dell'Italia ai Mondiali e la decisione di introdurre il terzo straniero, che ci si avviava verso la 'morte del calcio'. Oggi sembra che questo processo stia subendo, se possibile, un'accelerazione...

'Purtroppo non si è capito che il calcio prima di essere spettacolo, gioco, addirittura sport, è un rito collettivo. E i riti vanno modificati meno possibile. Invece hanno cambiato tutto, hanno distrutto il vero contenuto del calcio, che è simbolico, rituale, identitario. Le maglie cambiano per esigenze di sponsor, i giocatori si trasferiscono in ogni momento: io Ibrahimovic ormai non so neanche più dove giochi... Il calcio non può essere uno spettacolo in senso stretto: qualsiasi tifoso di calcio preferirebbe uno squallido 0-0 piuttosto che veder perdere la propria squadra al termine di una partita molto divertente. Il calcio è una grande festa nazional-popolare, che unisce i ceti sociali. Se diventa uno spettacolo come tanti altri, prima o poi ci si stancherà di seguirlo, come ci si stanca di uno show in tv. Qualche anno fa moltissimi ultrà, in rappresentanza di 78 società di calcio, in una domenica di giugno manifestarono sotto gli uffici della Lega a Milano. Una manifestazione civilissima al grido di Ridateci il calcio di una volta! È quello che pensano, credo, tutti i veri tifosi'.

Non è un problema solo italiano, a quanto pare...

'L'Italia ha esportato il peggio di sé negli altri Paesi, ma il problema riguarda tutti, almeno in ambito europeo. C'è stato uno spostamento dal calcio visto allo stadio al calcio televisivo: tutto è funzionale a Sky o alle altre emittenti, ormai. E anche in Spagna o altrove si comportano così. Il paradosso è che il calcio odierno, pur essendo impostato totalmente sul business, riesce a essere sempre in passivo. Del resto quale altro evento porta 40mila persone lo stesso giorno nello stesso posto, se non forse il concerto di una grande rockstar? Eppure i club sono in perdita...'.

Riensando al passato, quale aspetto del calcio di una volta le sembra oggi più anacronistico?

'Mi vengono in mente alcuni calciatori: Bulgarelli, Antognoni, Riva. Erano giocatori simbolo, al di là della bravura. Erano capaci di rimanere nello stesso club per tutta la vita, pur giocando in squadre minori o che comunque non avrebbero vinto scudetti. Oggi questo non è più concepibile. Colpa di quella sciagurata sentenza Bosman, ma anche del fatto di aver abbandonato il vivaio come serbatoio per la prima squadra. Oggi appena esce fuori un giovane bravo, se non sei un grande club te lo portano subito via'.

La settimana scorsa in un articolo sul Fatto Quotidiano ha parlato del contrasto Luis Enrique-De Rossi, contestando una certa ossessione per il concetto di 'gruppo' che è sempre più frequente nel calcio di oggi...

'Se si adopera il concetto di gruppo in modo estremo, si distrugge l'individualità. Sacchi, che pure era un buon allenatore, stava per metter fuori Van Basten perché non rientrava nei suoi schemi; poi è stato costretto a ricredersi... Del resto ciò che sta avvenendo nel calcio non è altro che l'emblema di ciò che accade nella società di oggi. Una società invididualista senza individui, la nostra'.

Detto dei giocatori, va detto che si è evoluta anche la figura dei presidenti...

'Mi ricordo che, in una delle rare volte in cui fui invitato in una trasmissione sportiva, incontrai il presidente dell'Inter Pellegrini, e gli dissi: La ringrazio perché non so neanche lei che lavoro faccia. Ecco, il buon presidente secondo me è quello che riesce a lavorare nell'ombra. Merce rara, oggi'.

Si può dire che sia stato Silvio Berlusconi, negli anni '80, a cambiare la situazione sotto questo punto di vista?

'Certamente, lui è stata la punta di lancio della distruzione. Ha portato nel calcio gli interessi della Fininvest e poi i suoi interessi politici, introducendo una mentalità più americana. Ma il calcio è nato in Europa, non c'entra niente con le americanate che si vedono, ad esempio, al Super Bowl, con gli elefanti e le soubrette scosciate...'.

È ancora possibile, per un ragazzino, innamorarsi del gioco del calcio?

'È molto difficile. Vedo infatti che molti ragazzi, a differenza di quanto accadeva un tempo, si dirigono verso sport in cui l'aspetto economico è ancora marginale e i valori sono rimasti intatti, come il rugby, la pallavolo o l'hockey sul ghiaccio. Mi ricordo ad esempio che Berlusconi tentò di ripetere quanto fatto nel calcio con il Milan anche nell'Hockey Milano, ovvero comprare tutto e tutti per sbaragliare la concorrenza. Acquistò tutti i giocatori di una squadra che quell'anno aveva vinto il campionato, mi sembra fosse quella di Como. Bene, accadde allora che tutta la Milano hockeista face il tifo contro la squadra della propria città, anche quando giocava in Europa, perché il suo presidente aveva fatto qualcosa di profondamente antisportivo. Nel calcio non sarebbe accaduto'.

Nonostante tutto, lei riesce a coltivare comunque una fede calcistica?

'Certo, io sono un tifoso del Torino. Ma per quelli della mia generazione è diverso. Per noi esisteva solo il calcio: lo sci era solo per chi abitava in montagna, il tennis era uno sport per ricchi... La passione rimane, ma negli ultimi anni sono sempre più distaccato, lo ammetto. Una volta non avrei mai perso una partita del Torino, ora invece mi capita di saltarne qualcuna. Del resto anche in serie B si vedono squadre con cinque-sei stranieri: è chiaro che il processo identitario viene meno. Forse l'unico calcio ancora veramente seguibile è quello delle Nazionali, dove si vedono i migliori giocatori di ciascun Paese'.

A proposito di Nazionale: che ne pensa del cosiddetto 'codice etico' di Prandelli?

'Io credo che i codici etici, nel calcio, non dovrebbero esistere. Coi codici etici, Maradona non avrebbe mai giocato'.

(di Germano D'Ambrosio)

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