lunedì 8 novembre 2010

E ora Gianfranco è ai piedi di Casini


All'armi son sfascisti. La fanteria del Partito democratico, le truppe terrestri di Di Pietro, i siluratori subacquei di Fini, la flottiglia aerea dei pm, più i carri armati dei poteri forti, sono partiti per colpire in terra, in cielo e in mare Berlusconi, il suo governo e la maggioranza dell'Italia che lo sostiene. Non hanno un progetto comune e nemmeno progetti separati, ma un solo desiderio: sfasciare Berlusconi e il suo governo. Per la causa, ogni scusa è buona: giovani mignotte, scavi di Pompei, giudici d'assalto e gay indignati. Diventato ormai l'umbria di se stesso, un Fini inacidito compie lo storico strappo di Perugia, terra del suo precursore Gaucci. Gli fa eco un Bersani travestito da magazziniere delle Coop, con le maniche rimboccate come esige il copione della fiction di partito, che mobilita la piazza contro Berlusconi. La mattanza è fissata prima di Natale, l'11 dicembre. Ma dal suo partito, gli sfascisti più coerenti vogliono approfittare dello sfascio per rottamare pure lui, il Lenin del tortello.

Insomma è tutto un fervore di buoni propositi da garage di Avetrana: chi vuole stringere alla gola di Berlusca una corda e chi una cinta, e chi vorrebbe approfittarne per seviziarlo. Non è bello vivere questo autunno italiano, scansare pugnali e veleni, respirare aria fetida e alluvioni, crolli e immondizie. Ormai si sono scavati fossati incolmabili, non ci sono più spazi di dialogo e di trattativa, non ci sono più punti in comune tra le forze in campo, eccetto uno. Sì, c'è un punto, un solo punto in comune tra i governativi e gli sfascisti, tra Berlusconi, Fini, Bersani, i poteri forti e la bella stampa: è l'invocazione di un santino miracoloso, un ragazzo di Bologna che fu adottato da una famiglia di palazzinari romani. Parlo di San Pierferdinando decollato, al secolo Casini, Unico Democristiano Corteggiato (in sigla Udc).

Tutti, da sinistra a destra, invocano il ragazzo della Provvidenza. Perfino Berlusconi e Fini pur vivendo ormai agli antipodi e dicendo ormai sempre e solo cose opposte, arrivano sorprendentemente alla stessa conclusione: per uscire dalla crisi ci vuole Casini. Berlusconi dice: dai, Casini vieni con noi e subito dopo Fini dice: per svoltare nel Paese ci vuole Casini al governo. Vi dico nel dettaglio la sequenza del ragionamento di Fini: Berlusconi vai a casa, poi fai un altro governo, un Berlusconi bis. E quale sarebbe la differenza tra il primo e il secondo governo? L'innesto di Casini, appunto.

Ma che avrà di così miracoloso questo Pierferdinando? Quali doti nascoste, quali virtù sfuggite agli italiani lo rendono oggi il Messia? Nessuna in particolare. Casini ha solo una fortuna: ha aperto un negozietto in pieno centro, anzi per la precisione occupa un sottano nel Palazzo che fu della Dc. La collocazione strategica di quel piccolo locale lo rende assai appetibile e prezioso per tutti. È vero che a volte il ragazzo di Bologna è solo un alibi, un modo per non dire che vogliono apertamente lo sfascio o le urne. Ma è vero che quel piccolo locale basterebbe a Berlusconi per governare; e dall'altra parte darebbe qualche margine d'azione a Fini, a Bersani, a Montezemolo, a Rutelli. Senza citarlo, anche il guru del Censis De Rita lo invocava ieri dalle colonne del Corriere della Sera a guidare una coalizione di colombe; ma anche il falco Maurizio Belpietro lo suggerisce a Berlusconi come suo successore.

Eccolo, il ragazzo della Provvidenza, devoto alla Madonna di San Luca, che fece le scuole elementari da Forlani, poi le medie da Berlusca che lo nominò capoclasse alla Camera, ma andò nel frattempo a lezioni private dai Caltagirone. Ora che si è messo in proprio, viene tirato da tutte le parti, da sinistra, da destra, dal centro, dalla periferia, dalla Chiesa e dalla Confindustria. Si scelse come aiutante per i lavori ingrati il faccendiere politico Cesa e come cappellano don Rocco Buttiglione. Senza aver fatto nulla di significativo è diventato il centro dell'universo politico italiano, il sole del sistema planetario dei partiti. Per nessuno Casini è il Nemico o il Male, ma per tutti o per tanti è il Ripiego.

Come Fini, anche lui è un politico di professione, cominciò nella Dc dalla prima comunione e da allora non smise più. Però è più accorto e meno astioso di Fini, fa i matrimoni giusti e non ha mai rinnegato le sue origini. E non ha mai tradito Berlusconi ma lo ha lasciato quando erano all'opposizione: sì, lo ha tormentato ai tempi dell'altro governo, ma non si è mai sfilato dalla maggioranza quando diventò presidente della Camera, non mise in ginocchio il governo. E poi, se permettete, fa più simpatia di Fini, non ha cognati invadenti e non gioca sui valori politici e immobiliari. Ha quell'aria da chierichetto discolo, che fa qualche marachella, scansa qualche scapaccione dal parroco ma nessuno lo vorrebbe cacciare dalla Chiesa. Così l'Italia è finita ai piedi di Casini. Madonna di San Luca, come ci siamo ridotti.

(di Marcello Veneziani)

domenica 7 novembre 2010

Pino Rauti: se si allontana da Berlusconi, Fini fa una brutta fine


«A parlare male di Gianfranco Fini, politicamente intendo, con me si sfonda una porta aperta perché sono stato per anni nel vecchio Movimento Sociale Italiano». Pino Rauti è uno dei padri storici della destra missina, quella che affonda le sue radici nella Repubblica sociale Italiana. Recentemente i pm che indagano sulla strage di piazza della Loggia hanno chiesto per lui, accusato di strage appunto, l’assoluzione con formula dubitativa.

Cosa prova di fronte a questa richiesta, onorevole Rauti?

«Ne sono profondamente felice, non solo perché l’accusa di strage è giudiziariamente la più grave, ma anche perché è moralmente vergognosa. Come vuole che facessi politica? Ormai forse è tardi vista la mia età, ma chi si sarebbe messo con me con un’accusa del genere addosso? Ha rovinato tante iniziative che avrei potuto portare avanti, ma ormai il tempo è passato».

È passato tanto tempo anche dalla “svolta” di Fiuggi, quando il Msi divenne An. È cambiato qualcosa da allora nel suo rapporto con Fini?

«Fini mi ha fatto contro tutto quello che poteva, fino a cose impensabili basate sul fascismo rigoroso, sul fascismo che aveva scritto in fronte, sul fatto che è andato addirittura da Saddam con Le Pen a Baghdad. Insomma ne ha fatte di tutti i colori ed io l’ho sempre contestato e contrastato. Non solo, non mi ha mai convinto ma mi ha sempre trovato contrario».

L’ultima svolta di Fini con Futuro e libertà è riconducibile alla storia personale di un leader che da sempre viene accusato di svolte “troppo nette”?

«Ripeto, c’è un cambiamento di non poco rilievo. Prima Fini si atteggiava a super-fascista contro uno come me che invece veniva addirittura dalla Repubblica sociale, adesso fa il “filo-sinistrorso” per ovvi motivi di situazioni parlamentari. Come al solito ha cambiato atteggiamento senza avere idee né coerenza».

La storia della destra italiana, dalla nascita di Ordine Nuovo a quella di Democrazia Nazionale, ha sempre avuto queste scissioni però.

«È vero, rientra proprio nell’iter drammatico, o contorto, della destra nazionale».

E che ruolo ha invece Berlusconi nella storia della destra nazionale?

«Con tutti i difetti e i limiti che ha, le sue radici aziendali che pesano molto ed emergono spesso, è l’unico che è riuscito a rappresentare un punto di riferimento nel quale non possiamo non riconoscerci».

Un personaggio di svolta quindi per la frammentata destra italiana?

«Assolutamente».

Restando alla storia contemporanea, la svolta di Fini è stata condivisa dalla “destra storica” riconducibile al vecchio Msi. Come si lega questo fatto con l’accusa mossa al presidente della Camera di essersi “spostato a sinistra”?

«È supportato da quelli più di destra e in particolare da quelli che una volta erano i rautiani più accaniti e quindi contro Fini».

Che effetto le fa questa cosa?

«Mi sorprende. È un aspetto della politica tipico della destra e dei suoi contorcimenti non sempre politici e scarsamente culturali».

Pesano molto i rapporti personali.

«Sì, pesano molto i rapporti personali. Abbiamo vissuto tutti comunque, compreso Fini, anni di impegno passionale e questo ci ha un po’ segnato. Non so quanto abbia inciso su Fini ma sulla maggior parte di noi sì».

A Fini è sempre stato rimproverato di allontanarsi all’improvviso dalle persone che aveva più vicino politicamente. Si può leggere Fli come An senza la dirigenza di An?

«Sì, è una caratteristica di An e delle nostre cronache politiche».

Qual è secondo lei il futuro della destra italiana?

«Se si allontana da Berlusconi e dal suo tentativo di dare vita ad un movimento molto ampio e popolare, molto supportato dal consenso diretto del popolo, Fini fa una brutta fine».

Quindi lei è favorevole ad una destra...

«...che abbia in Berlusconi per ora il suo punto di riferimento. Lo dico anche con un po’ di rassegnazione ma non mi sembra ci sia altro da fare di politicamente corretto».

Quindi l’unica strategia secondo lei sarebbe sostenere il governo ed arrivare in fondo alla legislatura?

«Certo».

E in una visione di più ampio respiro, o in un futuro più lontano invece, come vede la destra?

«La difficoltà del tempo in cui viviamo consiste nel fatto che è difficile fare previsioni. È difficile prevedere come saranno le cose tra sei mesi o un anno. Se poi andiamo oltre incombono su di noi problemi giganteschi e paurosi».

Dove interverrebbe Pino Rauti oggi se potesse farlo?

«Dal punto di vista sociale interverrei sulle famiglie e la demografia. L’Italia è un Paese che si sta spegnendo, continuando con questi ritmi avremo dieci milioni di italiani in meno e una decina di milioni di immigrati in più. Immaginate che Italia ci sarà?».

Immagino che il progetto di voto agli immigrati di Fini rientri tra i punti che la separano dal presidente della Camera.

«Anche questo certo. Fini ormai è per le frontiere aperte senza rendersi conto che già sono notevolmente aperte e che spalancarle sarebbe un errore spaventoso».

Secondo la Merkel il multiculturalismo in Germania ha fallito, ritiene anche lei che sia un modello destinato a non avere successo?

«Penso proprio di no, la verità è che non si sa cosa fare sul problema immigrazione di fronte alla crisi demografica della popolazione originariamente europea. Non si sa cosa fare».

Lei cosa proporrebbe?

«Il mio punto di vista è sempre stato chiaro da trent’anni a questa parte: dobbiamo limitare al massimo l’ingresso dell’immigrazione e aumentare al massimo la nostra popolazione attraverso una politica che non da oggi definisco chiaramente “Demografia e famiglia”». Più figli e meno stranieri? «Esatto, più figli e meno stranieri».

Anche se Fini punta sui poteri forti Fli continua ad essere un azzardo


Forse voleva far indignare, Flavia Perina, con il fondo vibrante sul Secolo d’Italia di qualche giorno fa. Forse ha pensato, perfino in buona fede, che avesse il dovesse morale di urlare come un cubano censurato da Castro, come un cinese imbavagliato dal regime comunista. Peccato che in questo caso non si discuta di libertà conculcate, ma solo della pretesa dei vertici di un foglio – un tempo patrimonio epidermico di una comunità politica, solida e ghettizzata – di restare in vita senza vendere una copia, e di coprire di contumelie la magna pars di quel mondo, non più disponibile a tollerare le bizzarrie di chi è passato – la stessa direttora Perina, tra gli altri – dal rautismo alla “destra nuova” di Fini e Granata.

“Ci vogliono cancellare”, scrive sul Secolo: questione di soldi per la sopravvivenza che gli ingenerosi padroni dell’ex An rimasti col Cavaliere (La Russa, Gasparri, Alemanno, Matteoli) non vorrebbero concedere alla direzione del giornale, divenuta militarmente finiana. Le questioni che indignano in radice, allora, sono due e non hanno nulla a che fare con l’usbergo irritante del “censurato a priori”: le vendite e la nuova ragione sociale del quotidiano.

Prima questione: possibile che la direttora non avverta il bisogno di scrivere una riga sull’azzeramento della quota lettori? Il Secolo era una voce di trincea acquistata da 8mila italiani negli anni Ottanta, che faceva 14/15mila abbonati (per quanto, nelle stagioni d’oro, la formula del giornale a casa fosse legata al tesseramento al partito; ma è un dato che testimonia comunque un grado elevatissimo di fidelizzazione). Oggi è fatto di pagine invendute, in cui si spara a palle incatenate contro il Cavaliere, e dove il tasso di “libertà” della destra nuova (da opporre ossessivamente al servilismo della “destra vecchia” che ha seguito Berlusconi) si misura dai consensi “politically correct” che vengono dall’altra parte.

Seconda questione: Fini, Perina e sodali – giacché sono stati loro a cambiare idea su tutto e non altri – hanno chiesto a quella comunità politica il permesso di trasformare il giornale di tutti nel megafono di una parte minoritaria? No, non si ha notizia che il presidente della Camera, o la censurata firma, abbiano indirizzato una lettera a quel mondo. Non a La Russa o Alemanno, ma a quelle migliaia di militanti per cui il Secolo era orgoglio e rischio di farsi aprire la testa con una chiave inglese.

Sono lontani i tempi della redazione di Via Milano, della foto in bianco e nero tutti insieme attorno a una palla di cuoio, del centralinista storico che all’alzata della cornetta violentava i timpani con un altisonante “Secolooooooo!”. Tanto, di queste vicende, ne sa Marco Tarchi, oggi ordinario di Scienza politica all’Università di Firenze; uomo che da animatore della Nuova Destra, fondatore del foglio di satira politica “La Voce della Fogna” e dirigente di punta del Movimento sociale, ha patito la censura, quella vera. Un intellettuale di rara sostanza che smaschera impietosamente contraddizioni e ipocrisie dell’oggi finiano.

Professor Tarchi, cos’era il Secolo d’Italia e cos’è diventato?

Il Secolo d’Italia era il quotidiano di un partito che non esiste più – Alleanza nazionale –, che per una serie di noti motivi non si è adeguato alle posizioni della formazione politica in cui quel partito si era integrato. E che, nonostante ciò, fino a pochi mesi fa si dichiarava, nella testata, organo del Popolo della Libertà. Un’evidente incongruenza, che spiega perché oggi quella parte maggioritaria dell’ex An che nel Pdl è rimasta non intenda più sostenere economicamente l’esistenza di un foglio che le rivolge ogni giorno critiche e accuse.

Il rischio di essere tacciati di censura, da destra, non sta demolendo ogni istinto di reazione culturale? Si fa strada una resa sistematica “a prescindere”, in nome della quale tutto si può fare pur di non essere accusati di “mettere il bavaglio”…

Nella lunga storia delle scissioni nei partiti, l’argomento dell’altrui censura è sempre stato abbondantemente utilizzato. Chi oggi sta dalla parte di Fini sa bene come costui abbia gestito in passato il suo partito, negando sistematicamente a chi dissentiva il diritto di farlo. Non si può dimenticare che la metafora delle correnti come metastasi da estirpare è stata usata dall’attuale presidente della Camera, pochi anni fa, per tappare la bocca a chi ne metteva in discussione la linea.

Il direttore del Secolo usa la stessa tattica di Santoro?

Certamente, in entrambi i casi il vittimismo ha larga circolazione. Flavia Perina denuncia il “fastidio per chi è fuori dal coro” manifestato oggi dal Pdl. Ma il Secolo d’Italia di quel fastidio ha un’antica tradizione. Ne ho parecchi ricordi personali. Ai tempi di Almirante, chi cantava fuori dal coro anche per poche note finiva rapidamente fuori dal partito e il Secolo d’Italia lo condannava alla non-esistenza. Una condanna che poteva durare a lungo. Personalmente, non solo quando venni dichiarato “decaduto dall’iscrizione” dal Msi, di cui ero dirigente nazionale, non venni mai più citato neppure quando della Nuova Destra e di me scrivevano un po’ tutti i giornali italiani; ma ancora nel 1997 – sedici anni dopo, con Fini presidente di An – una redattrice di quel quotidiano mi telefonò per dirmi che aveva letto il mio libro Dal Msi ad An (un testo scientifico, privo di qualsiasi inflessione valutativa), che lo aveva apprezzato ma non poteva scriverne perché un ordine di servizio interno – nientemeno! – aveva chiarito che il mio nome non andava fatto… Anche lamentarsi della “onnipresenza televisiva” di Belpietro e Sallusti, quando Rossi, Campi, la stessa Perina e gli altri esponenti di Futuro e Libertà sono invitati, e trattati coi guanti, in tutti i salotti tv, è decisamente fuori luogo.

Come fa la Perina a escludere che il metro di consenso verso le posizioni finiane derivi anche dal numero di lettori del giornale? Non ammette, il direttore del Secolo, che il “nuovo mondo” di Fini possa misurarsi con la verifica del consenso di popolo?

Il discorso andrebbe ampliato. Il sistema di contributi pubblici consente all’editoria di partito di restare in vita a prescindere dal sostegno dei lettori, con tanti saluti al mercato, tanto esaltato per le sue presunte virtù regolative. Poiché i partiti incassano un robusto rimborso elettorale, dovrebbe spettare solo a loro finanziare i propri organi di stampa. Salvo poi verificare che riscontro hanno in termini di consenso.

È giusto che il giornale di una intera comunità politica mantenga la stessa testata quando esso assume definitivamente le posizioni di una corrente minoritaria e in contrasto frontale con la maggioranza?

Più che giusto o ingiusto, è politicamente insensato pretendere che ciò venga consentito da coloro che da quel giornale ricevono continui attacchi.

La Perina nell’articolo di fondo ripete la parola “destra” per sette volte. Come giudica il fatto che la stessa etichetta propria del pur multiforme universo della Fiamma venga utilizzata oggi negli editoriali del Secolo e di Farefuturo? Che annuncia… “Chiamateci futuristi. Ma di un futurismo pacifico, pacificato, liberato, liberale e democratico. Postmoderno. Riformista. Sorridente. Solare”.

Quello di Fli è un difficile equilibrismo. Non vuole perdere le simpatie di molti ex elettori di An, che ne avevano accettato la collocazione a destra del centrodestra, e nel contempo ha bisogno di raccogliere il plauso di ambienti di sinistra, che lo legittimino come l’alternativa ragionevole, seria, pacata – e molto meno difficile da sconfiggere elettoralmente – al berlusconismo. Questo è il motivo di un uso della categoria di destra che rasenta il controsenso: oggi la si esalta, ieri la si dichiarava da superare, domani chissà.

Cos’era la “nuova destra” di Tarchi e cos’è la “destra nuova” di Fini? Conosce bene il presidente della Camera: sono svolte che l’hanno sorpresa o in nuce era tutto annunciato?

Sono due soggetti di ispirazione culturale, mentalità, idee e modalità di azione profondamente diverse. Nel libro “La rivoluzione impossibile. Dai Campi Hobbit alla Nuova Destra”, che ho curato di recente per Vallecchi, ne ho dato dimostrazione nell’unico modo onesto e trasparente possibile: rinviando alle idee espresse dalla ND nei suoi moltissimi testi e documenti, e confrontandole con le odierne posizioni degli ambienti finiani. Sono separate da un abisso. Ma mentirei se dicessi che le svolte di Fini e, soprattutto, il sostegno che esse hanno ricevuto da alcuni ex esponenti della Nuova Destra mi hanno sorpreso. In politica, il senso delle opportunità da cogliere ha un ruolo cruciale, e l’opportunismo che ne deriva è frequente. Oggi, Fini, che ha sempre teso ad adeguarsi rapidamente al mutare degli scenari, garantisce a chi lo circonda visibilità e trattamenti di favore in molti ambienti. Di rado, in politica, la coerenza paga.

Attorno a Fini si è coagulato un seguito di rautiani, socialisti, radicali, orlandiani. Perché? Si possono conciliare le posizioni di chi vuole laicamente un ritorno alla ex An, di chi resta nella sostanza berlusconiano, e di chi urla ogni giorno arrivando ad accusare stimate personalità di questo governo “di ostacolare l’accertamento della verità sulle stragi di mafia”?

Come dicevo, in politica si creano a volte spazi di opportunità che aprono prospettive insperate a soggetti che si sentivano sottovalutati, emarginati, incompresi. Così è accaduto quando l’affrettata creazione del Pdl e il suo mancato decollo organizzativo hanno provocato un forte malessere interno. Fli sta raccogliendo in giro per l’Italia una composita truppa di esponenti locali del Pdl delusi da mancate candidature o ricandidature, bocciati alle elezioni, in rotta con i ras territoriali. Non hanno in comune una radice culturale né un progetto politico, ma uno stato d’animo. Che può essere un forte collante, a condizione però che il movimento, diventando partito, abbia successo e crei posti di rilievo per tutti i postulanti. Altrimenti, ci si può dissolvere con la stessa rapidità con cui ci si era coagulati. Per sovrappiù, Futuro e Libertà è poco coesa anche nel vertice – che si è aggregato contro Berlusconi, più che per qualcosa di preciso. Insomma, la sua è una scommessa non priva di azzardi. Anche se, come ha ammesso Barbareschi in un’intervista al Corriere della Sera, Fli punta molto sul sostegno dei “poteri forti”, che possono garantire risorse adeguate su più piani.

La destra che vuole “fare cultura” e promuovere una parte ha bisogno del Secolo?

Alla destra servirebbero una formazione e una mentalità dei quadri intermedi e dei militanti molto più aperte a sensibilità culturali. Ma non ci sono. Quando appartenevo a quell’ambiente, da cui oggi sono lontano non meno che dalla sinistra e dal centro, ho predicato a lungo quella necessità, fra l’irrisione di molti. A destra, si è quasi sempre contrapposta la retorica del fare allo sforzo del pensare, dipingendo gli intellettuali come dei parassiti avidi e sempre in cerca di padroni e protettori. Ma senza elaborare idee originali non si costruiscono progetti politici solidi e modelli di società trasferibili nella realtà. Il Secolo d’Italia degli ultimi anni non ha mai svolto questo ruolo, limitandosi ad appropriarsi di elaborazioni altrui per stupire e attirare l’attenzione dei commentatori con effetti speciali quasi sempre ispirati a punti di vista “politicamente corretti”. Mi pare un po’ poco per pretendersi, oggi, indispensabili a dare linfa ad una formazione politica ambiziosa.

giovedì 4 novembre 2010

Fli, movimento senza radici


Chi volesse rinvenire a tutti i costi i caratteri, sbiaditi, di una destra riconoscibile e dunque coerente con la sua tradizione storico-culturale nel nascituro partito di Gianfranco Fini, dovrebbe prodursi in spericolate acrobazie intellettuali che comunque lo lascerebbero insoddisfatto.

Si dirà che è prematuro qualificare politicamente Futuro e libertà: è necessario attendere la convention di Bastia Umbra per saperne di più. a dal lavorio prodotto finora non è difficile intuire che il soggetto finiano non ha la benché minima intenzione di autorappresentarsi come movimento legato ad una visione del mondo che potremmo definire di destra. Lo si capisce, inoltre, dall'accorta regia movimentista che ha segnato la vicenda di Fli in questi ultimi mesi; dal ripudio, ancorché non esplicitato, ma abilmente fatto intuire, di radici politiche qualificanti, forse per potersi spendere a seconda delle occasioni e non pagare dazi ideologici; dal confuso "manifesto d'ottobre" criticato un po' da tutti per l'indeterminatezza dei riferimenti e degli obiettivi; dall'unico testo organico di cui il nuovo partito dispone: "I1 futuro della libertà", scritto da Fini, nel quale, è impossibile riscontrare un qualsivoglia riferimento ad una cultura tradizionalista, conservatrice, antiprogressista da parte dell'ex-leader del Msi e di An.

E probabilmente era proprio questo il suo obiettivo. Si nota, di conseguenza, un accentuato smarcamento da parte di Fli da quei valori che fino a qualche tempo fa erano i pilastri su cui si reggeva l'impalcatura etico-politica della destra nazionale e molto spazio, al contrario, viene dato al laicismo, al relativismo, al politicamente corretto. È come se si fosse arruolato nel vasto schieramento del pensiero unico. Non c'è bisogno di attendere trattati ponderosi per convincersi del fatto che la Fli è un partito post-moderno, post-ideologico, post-valoriale, post-identitario. Azzardiamo: è un soggetto che cerca nella prassi quotidiana un posizionamento al fine di rendere appetibile quello che sarà il suo peso nel panorama politico. Insomma, ha rinunciato in partenza a qualificarsi per potersi spendere al di là della destra e della sinistra. Perciò l'aver perso per strada uomini certamente di destra, da Domenico Fisichella a Gaetano Rebecchini, segna il distacco definitivo da un progetto che doveva concretizzare l'incontro tra la modernità e la tradizione, innestandosi in un filone di pensiero decisionista, sovranista, identitario nel quale le "anime" cattolica, nazionale, liberale e riformista si sarebbero dovute fondere.

Questa, almeno, era l'ambizione che da Fiuggi in poi aveva mosso Fini ed i suoi più stretti collaboratori. Che cosa sia rimasta dell'esperienza post-missina e post-aennina in Fli è difficile dirlo. I generici richiami all'identità e all'unità nazionale, connessi con il rotta-mato multiculturalismo su cui si attardano alcuni esponenti finiani, l'invocazione ad investire di più nella cultura e nella ricerca, non possono certo qualificare un movimento poiché non sono questi fattori specifici di riconoscimento.

Così come non lo è l'ossessiva sottolineatura della legalità: ma chi l'avverserebbe? Piuttosto, in termini di riforma dello Stato, del conflitto tra Stato-nazione e globalismo politico, di nuove povertà ed economie emergenti come potenze planetarie, delle inquietudini mediterranee e del governo delle risorse mondiali quali sono le posizioni di Fli?

E, per restare nel cortile di casa, un partito davvero può giocare la sua esistenza prescindendo da una collocazione strategica, trascurando di declinare alleanze connesse con progetti coerenti con le Stesse? Finora non abbiamo avuto risposte. Solo una dichiarazione d'intenti abbiamo compreso: "un patto per la rinascita della res publica". Magnifico. Ma ci si faccia sapere con chi e come attuarlo.

(di Gennaro Malgieri)

La Grande guerra vista da Gioacchino Volpe

La Grande Guerra, la Vittoria Mutilata, l’Inutile Massacro. Eccola, la Prima Guerra Mondiale, compimento sanguinoso del nostro Risorgimento, apoteosi catastrofica della nostra Unità che diventa, con la coscrizione obbligatoria, unità popolare oltre che nazionale. Gioacchino Volpe (1876-1971) fu il principale storico dell’Italia in cammino, dal Medioevo alla Modernità, dal Risorgimento alla Prima Guerra mondiale e poi al fascismo. Raccontò l’Italia in guerra e il popolo in armi, scrisse pure una storia degli italiani per i ragazzi. Ma Volpe non raccontò solo quella storia, la visse in prima persona, fu decorato con la Medaglia d’argento e vi partecipò da ufficiale in borghese e da storico militare, perché era ormai un accademico sulla quarantina. Quel che presentiamo in questa pagina, piccolo assaggio del suo vasto carteggio, è il Volpe cronista, testimone e partecipe di quella stessa storia che poi scriverà da storico e accademico. Come accadde ad Erodoto, egli fu storico sul campo.
C’è un carteggio fitto di lettere scritte alla famiglia dal fronte o dall’ufficio storiografico della Mobilitazione che mostrano lo sguardo familiare con cui Volpe osserva quel che poi descriverà sul piano pubblico. Lettere tenere, a volte curiose, scritte con la calda umanità che contraddistinse la scrittura di Volpe. Lettere e cartoline che mi ha dato il suo pronipote Amedeo, indirizzate da Gioacchino a sua moglie Elisa Serpieri, spesso chiamata «cara bimba», o a suo figlio Nanni, che diventerà poi l’editore Giovanni Volpe, all’epoca poco più che bambino. Sono lettere autografe, a volte ricopiate da mano femminile o dattiloscritte nel retro di articoli volpiani. Lettere di un italiano che ama la sua patria anche quando è a casa, parla del suo paese natio Paganica e narra ai suoi bambini il fronte e le trincee. Sente di appartenere a un popolo, di condividerne la sorte e i sacrifici, immerso nella storia e nel destino del suo Paese. Un sobrio amor patrio, senza fanatismi.
Come fu la sua adesione al fascismo e la sua fedeltà alla monarchia, sottraendosi alla Rsi; per lui i regimi passano, l’Italia resta. E la sua passione di storico, temprata nello stile dal suo tirocinio nel giornalismo grazie ai suoi zii Edoardo Scarfoglio e Matilde Serao, a partire dal ruolo di correttore di bozze al Mattino di Napoli. Poi la cattedra, il sodalizio con Gentile, la sua critica al razzismo, la sua difesa di Ernesto Bonaiuti e dei fratelli Rosselli, i giudizi diffidenti di Mussolini su di lui, e dopo la guerra la sua epurazione dall’università, il suo dignitoso riserbo e la sua coerenza. Da storico capiva che non bisogna lasciarsi assorbire nel presente, ma lasciar decantare i fatti.
Avevo consultato i suoi carteggi inediti grazie ai suoi figli, Giovanni e Vittorio, e a sua nuora Elza. Pubblicai anni fa alcune sue missive, tra cui un conflitto epistolare e giudiziario con Marinetti; inevitabile, uno si occupava, da storico, del passato e l’altro si eccitava, da poeta, per il futuro. Volpe concepiva la sua missione di storico a metà tra l’arte e la scienza, perché la storia, diceva con Labriola, è scienza del procedimento e arte della narrazione. Volpe fu lo storico della Nazione, amò il Risorgimento ma ricordò a Croce che l’Italia era nata molto prima della sua Unità. Alla vigilia dei 150 anni, merita di essere ricordato come la principale guida al nostro passato nazionale. L’Italia che fu - titolo di un suo libro uscito nel 1961 per i cent’anni dell’unità d’Italia - non può dimenticare il suo Virgilio.
(di Marcello Veneziani)

martedì 2 novembre 2010

Le mie perplessità sul premier


Ma si può far cadere un governo sul bunga bunga e gettare il Paese nel baratro di una brutta crisi al buio? Della vicenda Ruby voglio dire due cose. Anzi, non avrei proprio voglia di dir nulla, ma non pochi lettori mi hanno esortato a non sfuggire alla vicenda. Allora, la prima cosa che sento di dire è che non basta ricacciarla nella sfera privata e nel libero stile di vita. E' brutto che un presidente del Consiglio frequenti una ragazza di 17 anni e che la frequenti magari negli stessi luoghi in cui incontra leader politici e uomini di Stato. E' brutto che una ragazza, forse ladruncola e prostituta, entri nella sua corte e riceva da lui regali. E' brutto che un premier intervenga o faccia intervenire qualcuno per togliere la ragazza dall'impiccio in questura. Ed è brutto che si giustifichi di averlo fatto perché ha cuore e aiuta chi ha bisogno: che sia generoso non ne dubito affatto, ma non si può chiamare aiuto umanitario il sostegno a un'escort alle prese con la polizia. Questo è anche un abuso di potere.

Non mi piace un premier che diventa facile preda di giudizi, inchieste e sarcasmi; so che lui rende vistosi - e la stampa accanita contro di lui glieli amplifica - vizi e abusi che si sono sempre compiuti nelle camere oscure del potere. Ma lui a volte li esibisce senza cautele, e i suoi nemici riescono a far apparire pacchiano il suo stile di vita, oltre che deplorevole.

Qui vengo ai suoi nemici. Criticarlo per le pubbliche ricadute di questi vizi privati mi pare giusto e sacrosanto; ma solo astiosi cretini possono invocare la caduta del governo per il bunga bunga. Quello sì, ci renderebbe zimbelli agli occhi del mondo, e getterebbe l'Italia in preda a una crisi nera, senza vie d'uscita, incattivendo ancora di più il Paese, il clima politico e le difficoltà enormi che già sovrastano l'opera del governo, nel complesso non negativa. Certo, avremmo voluto grandi cose da questo governo, aspettiamo ancora riforme strutturali, rilanci veri e riprese sostanziali, e avremmo voluto un profilo più rigoroso, uno stile di vita più sobrio, un senso dello Stato, della Nazione e una sensibilità storica e culturale che non vediamo. Ma qualcosa di buono si è realizzato, la tenuta davanti alla crisi economica mondiale non è stata disprezzabile, il calo di fiducia dei governi riguarda un po' tutti, in testa Obama, e il paragone con i governi precedenti e con i governi (im)possibili e illegittimi che si prospettano, induce ad augurarci che il governo continui. Ma è da sciacalli irresponsabili sfruttare la squallida storiella per liberarsi di Berlusconi e far cadere un governo legittimo che non ha colpe gravi o particolari. Questo sarebbe il vero scandalo: far cadere il governo per la vita privata di Berlusconi. Infine su Berlusconi.

Non riesco a liquidare un leader per un episodio o una fila di brutti episodi che riguardano la sua vita privata; il giudizio su di lui deve sommare tutto quel che ha fatto in questi anni, con netta prevalenza di attenzione al piano politico legislativo e attuativo. Ha sbagliato cento volte, ma gliel'hanno fatte pagare per centomila; ha fatto tante cose notevoli e positive, ma gliene riconoscono poche. Non sono affatto dell'idea di segretare l'aspetto mandrillo ormai arcinoto, e sono d'accordo a giudicare male le ricadute negative che hanno quelle vicende e quello stile di vita sul suo ruolo pubblico e sull'esempio che dà al Paese. Però resto convinto di una cosa: fa più male al Paese un premier dallo stile di vita sobrio ma che fa perdere alla società e alle leggi i confini tra la nascita e l'aborto, tra la maggior età e la minor età, tra la famiglia e le coppia gay, tra la vita umana e la vita animale, tra i genitori e i consultori. Parlo di Zapatero in Spagna. Detto questo, rinnovo il mio disagio di scrivere e vivere tra un premier mandrillo, che non argina gli eccessi della sua sfera privata, e una mandria di sciacalli che vogliono sfruttare le sue debolezze private per occupare un potere a cui né gli italiani né le loro capacità li hanno chiamati. E mi sconforta non vedere all'orizzonte nulla di diverso e di migliore. Ora mi è permesso tornare alla solitudine dei libri e dei pensieri?

(di Marcello Veneziani)

Intellettuale di destra contro la Destra nuova di Fini e i suoi ottobristi


In questi ultimi giorni si è spesso fatto il parallelo tra i contatti avvenuti all’inizio degli anni Ottanta fra esponenti della Destra e della Sinistra culturale e il coacervo di firme, appunto di ex fascisti ed ex comunisti (questi i termini usati), posto in calce a quello che è stato autodefinito il ”Manifesto di Ottobre” (uscito il 26: potevano aspettare altri due giorni!) che appare chiaramente, nonostante le smentite, “collaterale” al nuovo partito politico creato dai transfughi del PdL e nominato “Futuro e libertà per l’Italia”, proprio come il saggio uscito a firma dell’on. Fini.

Che si tratti di una “collateralità” lo ha in fondo confermato sul Foglio del 29 Angelo Mellone quando afferma che il Manifesto “guarda con favore al varco aperto dal gesto di rottura politica” del nuovo partito. Chiaro che se non ci fosse stato lo strappo finiano il Manifesto non sarebbe mai nato. Anche perché esplicitamente si vanta di esserne uno dei promotori/ispiratori nel suo sito internettico l’on. Granata, uno dei più agitati colonnelli finiani. Quindi non ci piove: i manifestanti sono dei supporter del presidente della Camera e capo dei Fli.

Credo quindi che un parallelo del genere non sia proponibile per un motivo molto semplice. Trent’anni fa o giù di lì si trattava di iniziative private, privatissime fra singoli intellettuali che ufficialmente si dovevano trovare su sponde contrapposte e che invece avevano molto da dirsi e che si stimavano reciprocante: ci si incontrava in convegni e tavole rotonde, a casa di qualcuno (a esempio a casa mia) e i risultati di quelle conversazioni magari si pubblicavano. Ma chi erano gli interlocutori della Sinistra? Meno delle dita di una mano: ad esempio Cacciari, Mughini, Marramao. Note firme progressiste che erano abbastanza intelligenti e colte da essere autonome rispetto ad eventuali partiti di riferimento, spesso studiosi di quello che allora si chiamava “pensiero negativo”, cioè quello della Destra, per lo più schifato, e che non avevano paura di anatemi o polemiche.

Tutto questo si faceva contro i partiti, a dispetto delle barriere erette dalla nomeklatura ufficiale, in polemica con giornali e riviste che volevano dettare l’ortodossia, in genere di sinistra ma anche di destra. I “ponti” che si volevano costruire, i “segnali” che si volevano lanciare erano per superare la contrapposizione violenta e sanguinaria della contestazione e degli anni di piombo, della contrapposizione manichea fasciamo/antifascismo, della condanna di scrittori, poeti, artisti, filosofi, storici che non si potevano etichettare come “progressisti” o “di sinistra”. E in questo ci si è riusciti.

Oggi la situazione è diversa. Le firme apposte sotto il “Manifesto di ottobre” in pratica sono la foglia di fico intellettuale ad un’ambigua operazione politica, e – purtroppo per i diversi amici ex fascisti ed ex comunisti che stimo e che hanno aderito – politicamente saranno usate. Trent’anni fa si andava contro i vecchi partiti, oggi si fa da sponda ad un nuovo partito. E’ questo che non mi piace affatto, è questo che non accetto, dato che in questo partito non esiste una linea culturale esplicita e precisa, c’è tutto e il contrario di tutto, soprattutto la condanna a priori di un certo passato comune, e la strumentalizzazione del “Manifesto” è dietro l’angolo. Tanto più perché scritto in una neolingua enfatica e oracolare zeppa di sociologismi che mi insospettisce oltremodo. “L’arteriosclerosi ideologica della ripetizioni infeconda” mi ricorda tanto quel “mito incapacitante” di parecchi anni fa. Grazie, non credo proprio di averne bisogno.

A me pare che il Fli (o Fly?) sia un partito di mosche cocchiere – appunto – che pensa di proporsi come Destra nuova e normale per distinguersi dalla destra becera e anormale pre-esistente (Msi, An. PdL). Il fatto che sia coccolato, protetto e tenuto in palmo di mano dai giornali di sinistra, dai partiti della opposizione e dai giudici la dice lunga e dovrebbe dare da pensare a molti in buona fede. Mi chiedo in cosa consista la Destra che i filliani propongono, gettato a mare il bambino con l’acqua sporca, forse lo scombicchierato assemblaggio di nomi, più o meno noti, riuniti delle pagine del libro firmato dall’on. Fini? E mi chiedo per quale motivo, all’interno del Popolo della Libertà, gli ex missini ed ex aennini non abbiamo combattuto una battaglia culturale invece che preoccuparsi di occupare, a livello nazionale e locale, poltrone senza proteggere la loro identità. Ma quale? Se c’era una caratteristica che identificava il MSI prima, e poi in parte anche AN, da Forza Italia ma pure dalla Lega, era che aveva una sua specifica cultura pur se dalle molteplici anime. Essa è stata – col tacito assenso di quasi tutti - man mano abbandonata e poi condannata dal Gran Segretario e poi Sommo Presidente che aiutato dai suoi apprendisti stregoni, ne ha costruita dal Nulla e sul Nulla un’altra, poi transitata nel Fli. Ad essa pensa di fare da supporto il “Manifesto di Ottobre”. Credo che sia una pia illusione, e me ne dispiace molto per la sicura buona fede di quei firmatari che conosco.

(di Gianfranco de Turris)

lunedì 1 novembre 2010

Saviano non fidarti di Fazio


Volevo scrivere anch’io del Bunga Bunga, ossia dell’ennesima cazzata del nostro premier Silvio Berlusconi. Poi mi sono arreso davanti alla potenza di fuoco dei massimi giornaloni italiani. Venerdì e ieri, il Corriere della sera ha dedicato al Bunga Bunga ben dodici pagine, e la Repubblica addirittura quattordici. Che poteva dire di più il povero Bestiario, rispetto alle corazzate della stampa italica? Allora ho deciso di applicarmi a un’altra vicenda assai meno grossolana, e soprattutto per niente fangosa. Che tuttavia dice parecchio sul conto dell’Italia anti-Cavaliere. Anch’essa un tantino storta e piena di domande senza risposte.

La vicenda parte da Roberto Saviano, l’autore di “Gomorra”, e dalla sua ingenuità. Si può aver scritto un libro molto fortunato e, al tempo stesso, essere ingenui? Certo che si può. Lo dimostra Saviano che ha deciso di consegnarsi alla televisione, accettando l’invito di Fabio Fazio e del suo spin doctor, Michele Serra, quest’ultimo già autore del talk show faziesco “Che tempo che fa”. Il terzetto produrrà per la Rete Tre della Rai “Vieni via con me”, un programma che in qualche puntata pretende di raccontare il rebus impazzito dell’Italia di oggi.

Saviano e Fazio hanno reso noto il loro manifesto politico-culturale in un lungo servizio di Sette, il magazine del Corrierone. Rivelando una quantità di ottimi propositi, raccolti da un adorante Aldo Cazzullo, in estasi come succede soltanto ai fedeli al cospetto dei santi. Domande generiche e risposte a cascata. Dall’insieme mi pare di aver compreso che Saviano abbia due obiettivi. Il primo è dire la verità. Il secondo è di «parlare a tutti: alla sinistra come alla destra, ai meridionali come alla base leghista».

Non dubito che, nella sua prima avventura televisiva, l’autore di “Gomorra” voglia mostrarsi ecumenico e imparziale. Ma se è così, ha sbagliato partner. Anzi, per dirla con schiettezza, è stato tanto sprovveduto da mettersi nelle mani di due furboni che sono sempre stati tutto tranne che imparziali.

Di Serra sappiamo quel che serve. Lui non ha mai voluto mostrarsi al di sopra delle parti. Per rendersene conto, basta leggere le sue rubriche su Repubblica e sull’Espresso. È rimasto il vecchio satirico rosso di un tempo. Intendo il tempo del vecchio Pci, quando il nemico da distruggere era la Balena democristiana. Oggi l’avversario da radere al suolo è Silvio Bunga Bunga. Per questo Michele mi piace. È un noioso al cubo. Però non ci prende di soppiatto con qualche sorpresa. E in questi tempi perigliosi è già un merito.

Per Fazio, il primo dei due furboni, la faccenda è diversa, Anche lui è rosso, un ciliegione che non ha eguali neppure nella vermiglia Rai Tre. Però ama interpretare il ruolo opposto. Quello dell’abatino innocente senza parrocchia, amico di tutti e nemico di nessuno. In realtà, nella Rai odierna frantumata in sultanati, non c’è nessuno più fazioso di lui. Ha la manina avvolta nel velluto grigio, ma dentro vi nasconde lo stiletto avvelenato.

È con questa lama che Fazio pratica una censura inflessibile. Truccata da libertà di scelta, quella che spetta a tutti i conduttori di talk show. In realtà, il pallido Fazio non sceglie, ma discrimina. Gestendo in modo autoritario il potere più forte di “Che tempo che fa”: promuovere libri e autori. Un regime accettabile in una tivù privata, però non alla Rai. Che è pur sempre pagata dal canone versato dai “tutti” ai quali Saviano vorrebbe parlare.

In più di un caso, il settarismo di Fazio ha offerto, sempre a spese di tutti, spettacolini grotteschi. Accadde quando presentò un libro del direttore dei giornali radio Rai unificati. Gli utenti ebbero sott’occhio un’ammucchiata indecente: rete di sinistra, conduttore di sinistra, autore di sinistra in quota Ds. Un conflitto d’interessi sfacciato. Anzi, una marchetta rossa, fra compagnucci che si strizzano l’occhio a vicenda. Felici di averla fatta franca, ancora una volta.

In altri casi, la marchetta si rivelò penosa. Fazio aveva invitato Pietro Ingrao, affinché presentasse l’autobiografia, “Volevo la luna”, pubblicata da Einaudi. In preda a vuoto di memoria, il vecchio capo comunista sostenne che il Pci aveva preso aspre distanze dall’invasione sovietica dell’Ungheria, nel 1956. Un falso totale, come ci insegna la storia. Ma Fazio, e il pubblico invitato, si guardarono bene dall’obiettare. Nemmeno un mormorio, un colpo di tosse, un’occhiata di sbieco.

Come mai? Edmondo Berselli, un intellettuale libero scomparso da poco, lo spiegò così sull’Espresso: «Perché in quel momento si stava celebrando l’apoteosi senescente, ma non senile, di un comunismo impossibile, l’utopia, il grande sogno, l’assalto al cielo. E quindi tanto peggio per i fatti, se i fatti interrompono le emozioni».

A Fazio la verità dei fatti non interessa. Soprattutto quando traccia un quadro della storia e della realtà italiana che fa a pugni con il suo ristretto orizzonte politico. Per questo mi stupisco che Saviano pensi che il compagno Fabio lo aiuti a dire la verità e a parlare a tutti. Fazio e Serra sono come il Gatto e la Volpe della favola di Collodi. Auguro a Saviano di non fare la fine di Pinocchio.

Nel raccogliere per Sette i proclami su “Vieni via con me”, il mio amico Cazzullo, che passa per ipercritico, non si è posto queste domande. E tanto meno le ha presentate a Saviano & Fazio. In compenso, il dittatore di “Che tempo che fa” gli regalerà una comparsata per dare una spintarella al suo libretto appena uscito.

(di Giampaolo Pansa)