venerdì 30 ottobre 2009

Il conservatore è ribelle

Il conservatore non accetta l'insensibile immobilismo, ne l'ambigua rimozione della memoria e delle idee: viceversa, è molto più adatto, rispetto al progressista, ad intuire i mutamenti e percepire le ragioni dell'esistenza soggettiva e comunitaria rispetto a ciò che è accessorio o strumentale.
La conservazione è certamente una coscienza intrinseca al pensiero all'uomo di destra, il quale è persuaso della perpetuità della cultura umana, articolata su pilastri necessari, come quelli stabiliti da religioni e mitologie. Una continuità che consente un'attitudine ideale al cambiamento ed un arricchimento della propria eredità culturale e morale, ma subordinata a vincoli etici e naturali.
Contro tali vincoli è in atto una costante ostilità che trae forza da un cliché di pensiero, fondato su una visione della storia della natura umana, affrancata da ogni limite. E' certamente il grande interrogativo di Dostoevskji: "Se Dio non esiste, tutto è possibile", che ha rappresentato il réclame tipico del totalitarismo nazista e comunista. L'inviolabilità della vita umana pone in modo delicato l'interrogativo del limite.
L'assunzione di una condotta critica verso il modello di progresso, non vuole negare la legittimità dello sviluppo scientifico o tecnologico. Ma l'interrogativo è di natura etica e spirituale: l'uomo deve custodire la sua attitudine di discernere tra il bene e il male, nella certezza che il progresso è possibile, ma non sempre buono.
(di Longinus)

Stefano Cucchi: ucciso in carcere. Ora, la verità

Un altro caso come quello di Aldrovandi, il ragazzo ucciso dalla polizia a Ferrara? Oggi i riflettori sono puntati su Stefano Cucchi. Il giovane aveva 31 anni, alle spalle la comunità di recupero, appena 43 kg di peso e in tasca circa 20 gr di marijuana, poca cocaina, 2 pasticche (di ecstasy per gli agenti, di calmanti per il padre del ragazzo). È stato condotto in carcere la notte tra il 15 e il 16 Ottobre. Ne è uscito la prima mattina del 22 dentro una bara. Fatto, di non poca rilevanza, soggiace nelle sue condizioni di salute ottime al momento dell’arresto.
Il pm sta indagando per omicidio preterintenzionale. Ma se la famiglia non avesse denunciato i fatti probabilmente tutto sarebbe messo a tacere. Proviamo a ricostruire l’accaduto. Il giovane viene fermato intorno alle 23.30 del 15 ottobre dai carabinieri che gli contestano il possesso di una piccola dose di stupefacenti. All’1.30 della mattina il ragazzo, scortato in casa dai militari, assiste a una perquisizione della sua camera, che non da frutti, per poi essere condotto in galera. La mattina dopo parteciperà al processo per direttissima con il volto evidentemente tumefatto. I medici dell’ambulatorio del Palazzo di Giustizia stileranno un referto medico che rileva “lesioni ecchimotiche in regione palpebrale inferiore, bilateralmente” inoltre “lesioni agli arti inferiori e alla regione sacrale”. Durante il processo Stefano lamenta il fatto che gli sia stato affidato un legale d’ufficio piuttosto che il suo avvocato di fiducia. Dal carcere di Regina Coeli, viste le sue precarie condizioni di salute, Stefano viene condotto all’ospedale Fatebenefratelli. Dove una radiografia evidenzierà ” la frattura corpo vertebrale L3 dell’emisona sinistra e la frattura della vertebra coccigea”. Quindi rispedito in carcere. La mattina seguente, visto l’aggravarsi della sua situazione, il detenuto verrà portato presso il padiglione detenuti dell’Ospedale Pertini. La domenica verso le 21:00 la famiglia avvertita del trasferimento del giovane si reca in ospedale. Dove un piantone, rassicuradoli per le condizioni di salute del figlio, gli impedisce il colloquio. La visita dei familiari viene impedita sino al martedì successivo. Il mercoledì il padre di Stefano ottiene un permesso del giudice del tribunale di sorveglianza per avere un colloquio con il figlio detenuto. Mancante però del visto, dunque tutto slitta ancora di un giorno. Alle ore 6.20 della mattina seguente il giovane Stefano Cucchi muore. Il referto medico dell’autopsia riferisce che il decesso sia avvenuto “per cause naturali”.
La Polizia penitenziaria e l’arma dei Carabinieri tessono vicendevolmente alibi tesi a scagionarsi. Del resto, come affermano “era debilitato”, “le nostre camere di sicurezza, che sono quelle regolamentari, non sono certo alberghi a cinque stelle”. Senza dubbio, spiegazioni poco plausibili. Che lasciano seri dubbi sullo svolgersi della vicenda dal tragico esito. La famiglia sconvolta ha, volontariamente, diffuso le drammatiche e, per certi versi, raccapriccianti immagini della salma di Stefano. Segnato da evidenti segni di percosse sul volto, tumefazioni, un occhio rientrato nell’orbita, la mascella spaccata. Immagini orribili che riportano la situazione oltre le divagazioni del caso. Oltre le dichiarazioni scandalizzate e bipartisan dei parlamentari che vogliono luce su questa vicenda. Oltre chi, con cattivo gusto e pessima scelta dei tempi, difende l’Arma. I termini medici servono a ben poco. In quel volto si legge l’orrore di una rabbia cieca e immotivata. Si legge l’innocenza di chi è con le spalle al muro. Di chi non può difendersi e cede. La tristezza di chi abbandona la vita senza il commiato della famiglia.
Questo voi lo chiamate Stato di Diritto? Dov’è la tanto vantata “risposta delle istituzioni”? Questo non è Stato ma, bisognerebbe piuttosto chiedersi, chi è “Stato”? Chi ha ridotto così la patria del diritto romano, fondamento del diritto continentale? Perché chi dovrebbe difenderci, chi è addetto a far rispettare le leggi si riduce a barbaro e bruto?Ci lamentiamo della violenza gratuita, con aria da moralisti e benpensanti, e poi la dispensiamo come fosse un giocattolo? Condanniamola, emarginiamola, agiamo in modo che non si verifichi più che uno Stato si faccia carnefice e poi si mimetizzi vittima. Chi sbaglia deve pagare. Sia questo carabiniere, civile o poliziotto. Lo stato deve agire severamente nei confronti di chi commette reati di tale efferatezza.
(di Nicola Piras - http://www.mirorenzaglia.org/)

Intervista a Salvatore Borsellino: ''la verita' nell'agenda rossa''

È sceso a Palermo ancora una volta, il 19 luglio scorso. Per chiedere di nuovo verità e giustizia, per quella che è stata – come ha ripetuto da anni – una strage di Stato. Salvatore Borsellino, ingegnere elettronico, da quel tragico 19 luglio 1992 non ha mai smesso di battersi per conoscere i mandanti dell’omicidio del fratello Paolo, il magistrato simbolo dell’antimafia di Palermo. Quest’anno lo ha fatto con un’iniziativa particolare: la "Marcia delle agende rosse" partita da via D’Amelio (dove una bomba ha fatto a pezzi il magistrato e gli agenti che lo proteggevano) è giunta fino al Castello Utveggio sul Monte Pellegrino di Palermo, dove allora c’era una sede dei servizi segreti, sulle cui implicazioni nell’attentato stanno emergendo elementi inquietanti. L’"agenda rossa" è quella che Paolo Borsellino aveva sempre con sé e in cui scriveva le sue conoscenze più segrete. Ed è scomparsa nei minuti successivi alla strage. Non si è mai riusciti a sapere chi l’abbia sottratta nonostante una telecamera abbia ripreso un capitano dei Carabinieri allontanarsi dal luogo della strage con in mano la borsa di pelle del magistrato palermitano.Nelle scorse settimane sono emerse novità tali da spingere i magistrati di Palermo e di Caltanissetta a riaprire le inchieste sui mandanti esterni dell’assassinio di via D’Amelio e sulla trattativa che venne avviata tra pezzi delle nostre istituzioni e Cosa nostra. Trattativa che dai nuovi indizi sembra sempre più collegata alla decisione di eliminare il magistrato.
Ingegnere, quali sono le novità?
«La novità principale è una. Ci sono finalmente dei giudici che stanno andando avanti con le indagini. Finora sono state sempre bloccate. Dal momento in cui alla Procura di Caltanissetta è arrivato un magistrato come Sergio Lari, che ha tutta l’intenzione di arrivare ai veri mandanti della strage, le inchieste sono riprese con vigore, come pure a Palermo con i Pm Ingroia e Di Matteo. Le cose stanno cambiando. Oggi si inizia a parlare di strage di Stato, e soprattutto di trattativa. Quella che già nel 2007 dicevo essere il motivo vero dell’assassinio di mio fratello».
Poi ci sono le rivelazioni di Massimo Ciancimino, il figlio dello scomparso Vito, ex sindaco di Palermo colluso con la mafia...
«Infatti. E quelle di alcuni collaboratori di giustizia. Finché si parlava di Riina e della cosca dei corleonesi le indagini procedevano, quando si andava a vedere quali erano le collusioni e le connivenze all’interno dello Stato tutto si fermava. C’è da temere che ora i poteri occulti che hanno impedito si arrivasse alla verità prendano le contromisure».
In sintesi, cosa emerge dalle novità di queste settimane?
«Si sta, ad esempio, riprendendo in mano uno dei fatti cruciali, ossia l’incontro del 1° luglio di mio fratello con l’allora ministro degli Interni Nicola Mancino». Ricordiamolo: Borsellino sta interrogando il collaboratore di giustizia Gaspare Mutolo. Arriva una telefonata. Il magistrato dice a Mutolo che è stato chiamato dal ministro e che si deve allontanare per qualche ora. Al ritorno, Mutolo riferisce che Paolo Borsellino è molto turbato e che al ministero ha incontrato Parisi e Contrada.
È così?
«Sì. Ed è ben comprensibile che fosse sconvolto: due ore prima Mutolo gli aveva riferito che Contrada era nelle mani della mafia e un traditore dello Stato. All’epoca Contrada era il numero tre del Sisde, ed è stato poi condannato per mafia, con pena definitiva. L’ex ministro Mancino in questi anni ha sempre sostenuto di non poter ricordare quell’incontro. E adduce una giustificazione insostenibile: dice che non conosceva Paolo e che quel giorno non aveva appuntamenti. Si dà il caso, però, che mio fratello, oltre all’agenda rossa, la sera compilava un’altra agenda, dove segnava le spese sostenute e scriveva ora per ora tutti gli impegni: nella pagina del 1° luglio, alle 18.30 c’è scritto Parisi e alle 19.30 Mancino. Quindi ha incontrato il ministro».
Perché è tanto importante quell’appuntamento?
«Diversi collaboratori di giustizia dicono che le cosche furono avvisate che Paolo andava eliminato in fretta perché mio fratello si sarebbe duramente opposto alla trattativa, fino al punto da denunciare pubblicamente che Stato e mafia stavano "dialogando". La seconda ragione viene proprio dalle nuove rivelazioni di Massimo Ciancimino, il quale sta dicendo che la trattativa fu avviata non dopo l’estate del 1992, come è stato finora sostenuto, ma nel giugno ’92, prima della strage di via D’Amelio. Poi c’è una terza ragione...».
Quale?
«Che Mancino di quella trattativa era sicuramente al corrente. Sia Brusca che Ciancimino hanno detto che Riina aveva preteso di avere come interlocutori non solo il Ros dei Carabinieri, ma voleva essere sicuro che dietro ci fosse il terminale delle istituzioni. Entrambi hanno indicato che il terminale fosse proprio Mancino».
Se tutto ciò risultasse vero, cosa comporterebbe?
«Consideri che dopo le condanne del gotha mafioso del maxiprocesso di Palermo del gennaio 1992, la mafia decide che la Democrazia cristiana non può più essere l’interlocutore politico, e infatti in breve tempo uccide l’onorevole Salvo Lima e uno dei fratelli Salvo. Elimina Falcone e poi Borsellino. Sta cercando di creare nuovi equilibri politici, al punto che inizialmente tenta di creare dei partiti al Sud che siano diretta espressione delle mafie, le cosiddette leghe meridionali. Nello stesso tempo avvia la stagione stragista delle bombe del 1992-1993, per alzare il prezzo della trattativa. Poi, improvvisamente, questo piano destabilizzante si arresta, l’accordo viene raggiunto. La mafia decide di convogliare i voti verso una nuova forza politica che sta per nascere. Infatti, alle elezioni del marzo 1994, Cosa nostra vota e fa votare in massa il nuovo partito Forza Italia».
Quindi, a quanto sostiene, il piano è andato a buon fine...
«Ritengo che mai come oggi ci sia stata nel nostro Paese un’epoca in cui l’anti-Stato è penetrato così profondamente nei meccanismi dello Stato e ai vertici delle istituzioni italiane. La seconda Repubblica è nata direttamente dalle stragi del 1992-1993».
E perché considera l’agenda rossa un elemento cruciale?
«Perché probabilmente chi l’ha in mano è in grado di ricattare mezzo mondo politico italiano».
Affermazioni pesanti, le sue...
«Le mie ricostruzioni provengono da elementi riscontrati nelle indagini di diverse Procure italiane, di cui non parla nessuno. E le ultime novità le confermano».
Che cosa rappresenta, oggi, Paolo Borsellino per gli italiani?
«La figura di Paolo è così grande e forte che non sono bastate le centinaia di chili di tritolo per eliminarlo. Da vivo potevano tentare di avversarlo e delegittimarlo come hanno fatto con altri. In giro per l’Italia incontro tanti giovani che vogliono lottare per la verità e la giustizia. Sarà grazie a loro che forse "riusciremo a vincere il puzzo del compromesso morale, della contiguità, dell’indifferenza e dunque della complicità", come disse mio fratello in uno dei suoi ultimi discorsi, e "sentire quel fresco profumo di libertà" che oggi purtroppo nella nostra Italia è sempre più difficile assaporare».

mercoledì 28 ottobre 2009

LA MARCIA CONTINUA


...e di un vecchio ricordo di vent'anni passati,

di occasioni mancate e di treni perduti,

e scoprimmo l'amore e scoprimmo la strada,

difendemmo l'onore col sorriso e la spada

lunedì 26 ottobre 2009

Mio padre Ezra indagò sull’eccidio di Katyn

Abbiamo incontrato Mary de Rachewiltz, la figlia di Ezra Pound, nel suo castello di Brunnemburg in Tirolo. L’ombra del grande poeta sembra aleggiare in ogni pietra e in ogni angolo del castello millenario, che vide la stesura degli ultimi Cantos. Qui si custodiscono i suoi cimeli (dall’elegante cappotto ai mobili fabbricati da lui stesso) e una biblioteca straordinaria, divenuta tappa obbligata per studiosi di tutto il mondo. Mary ha dedicato la vita allo studio e alla traduzione delle opere del padre, una missione di cui fu investita dallo stesso Pound durante la Seconda guerra mondiale, quando era una ragazza appena quattordicenne.


Come colloca la figura di Ezra Pound nella letteratura del ‘900?

«I Cantos di Pound sono la Divina Commedia degli Stati Uniti d’America, anche se forse gli americani non l’hanno compreso. Pound voleva ripartire da Dante e quando scriveva era pieno di speranza per le sorti americane. Fin dal 1910-1911, con il testo Patria mia, auspicò un Rinascimento per l’America. Sentiva che l’America aveva bisogno dei Classici, questa era la sua ossessione: “The thought of what America would be like / If the Classics had a wide circulation / Troubles my sleep...”. Pound voleva consegnare all’America un poema nazionale, come Omero per la Grecia, Confucio per la Cina, Dante per l’Italia, ma la “questione Pound” negli Stati Uniti non è ancora risolta. Il famoso processo a suo carico non è mai stato celebrato e a lui non è mai stata restituita la personalità giuridica. Il suo nome continua a essere pietra di scandalo. La stessa critica universitaria è divisa in due: c’è chi lo considera un autore grandissimo e chi non accetta che neppure sia nominato. Continuano a perdurare i vecchi cliches secondo cui fu addirittura antisemita se non fascista. Ho avuto la fortuna di leggere i Cantos con un rabbino e mi ha confermato di non aver trovato nulla di antisemita nell’opera».

Ci racconta di quando fu incoraggiata da suo padre a tradurre i Cantos?

«Erano gli anni della guerra mondiale e abitavamo a Casa 60, a Sant’Ambrogio, sulle alture di Rapallo. Ero una ragazza senza alcun tipo di esperienza, ma un po’ “saputella”; avevo fatto appena la quarta ginnasio e, tra l’altro, essendo cresciuta in Tirolo, non conoscevo bene neppure l’italiano: ma lui si fidava. Per iniziare mi diede il II canto, che era stato tradotto da Luigi Berti e pubblicato su “Prospettive”, la rivista di Curzio Malaparte. Iniziai a leggere la traduzione, ma mi strappò la rivista dalle mani e mi disse: “No, no, prova tu, vedi se puoi far di meglio”. In precedenza, mi aveva proposto di tradurre delle poesie tratte da Catai, per esempio il “Lamento della Guardia di frontiera”, perché rappresentava bene il nostro stato d’animo nel tempo di guerra: “E dolori, dolori come pioggia. / Dolore nell’andare e nel tornare. / Campi desolati, senza gioventù...”. Poi mi fece continuare con i Canti Malatestiani. Ogni giorno dovevo consegnargli una pagina battuta a macchina e non dovevo mostrargli la traduzione prima di aver finito quella pagina. Traducemmo fino al canto XI, poi fu la volta del XX e del XXVII. Lì ci siamo fermati. Naturalmente poi sorse il problema di chi volesse pubblicarli in Italia. A questo riguardo voglio ricordare Vanni Scheiwiller, il suo affetto e la sua dedizione a Pound fu straordinaria».

Come erano le reazioni alle sue prime prove di traduzione?

«Alcune volte era soddisfatto, altre volte si arrabbiava e diceva che il mio lavoro era pessimo. Nella biblioteca conservo diverse lettere con moltissime annotazioni e correzioni al mio lavoro. Mi riconsegnava i fogli con le sottolineature e le sue impressioni e mi chiedeva di riprovare tenendone conto. Studiavamo insieme per trovare la migliore soluzione in italiano, amava le sperimentazioni. Voglio riportare un aneddoto interessante che risale al 1942. Lavorando sul primo Canto notai che si faceva riferimento a Tiresia nell’Inferno che incontrava per la “seconda volta” Ulisse. (“Venne Anticlea, che tenni lontana, poi Tiresia di Tebe, tenendo l’aurea verga, mi riconobbe e per primo parlò: / “Una seconda volta? Perché? Uomo di torva stella, / visiti i morti senza sole e questo regno infausto?”). Questa “seconda volta” non rientrava nel novero delle mie conoscenze. Con un po’ di pedanteria presi un’edizione dell’Odissea, probabilmente nella versione del Romagnoli, e mi misi a cercare senza raccapezzarmi. Quando lo feci notare a mio padre, lui sorrise. Non disse niente, ma mi guardò con uno sguardo ironico. Era lui stesso che tornava una seconda volta. Era lui stesso l’Ulisse: Pound è nel poema dal primo all’ultimo verso».

Quale fu il rapporto con la tradizione poetica italiana?

«Degli autori italiani naturalmente conosceva a perfezione Dante, mentre era meno interessato ai suoi contemporanei del primo ‘900. Amava la lingua italiana e aveva tradotto Il cantico delle creature di San Francesco perché era affascinato dalla poesia antica. Tramite Dante fu conquistato da Cavalcanti e in seguito tradusse Leopardi. La sua conoscenza dei poeti italiani forse si fermò a un’antologia del 1904 (un libro che sono riuscita a ritrovare: The italian poets since Dante di William Everett). Da quando aveva 19 anni mio padre si fece l’idea che la poesia italiana fosse andata in declino. Vorrei aggiungere che si soffermava volentieri a captare i suoni della lingua italiana, gli piaceva ascoltare le espressioni della gente comune, magari per poi inserirle nella sua poesia».

Può raccontarci di quando lo vide nel manicomio del Saint Elizabeth?

«Dapprima fu trattato molto duramente. Prima del manicomio lo rinchiusero in una specie di buco d’inferno, una vera “fossa dei serpenti”. In manicomio fu messo prima in una stanza comune, poi gli diedero uno spazio con le dimensioni di uno sgabuzzino. Potei vederlo solo nel 1953. Alcuni hanno riferito che vivesse in una specie di suite, che potesse lavorare indisturbato e con agio. Io ho visto quel luogo. C’era lo spazio per il letto (chiamiamolo letto, ma era più vicino a una branda), il tavolo e la sedia. Niente altro. La finestra era chiusa da un’inferriata. Nessuno poteva entrare. Io stessa dovetti guardarlo dalla porta. Con sé aveva una macchina per scrivere, delle scatole di cartone con dei libri, e tante volte dei resti di cibo che avanzavano alla mensa e che lui regalava a quegli stravaganti discepoli morti di fame che andavano a trovarlo. Era attento a questi dettagli, perché ricordava la fame patita in tempo di guerra».

Fu dura la vostra vita a Sant’Ambrogio, sopra Rapallo, negli anni della guerra?
«Sì, vivevamo con le carte annonarie. E mio padre voleva che ci attenessimo strettamente a quanto era prescritto dalla legge. Non voleva che frequentassimo il mercato nero. Ha sempre stimato l’onestà come una delle virtù più importanti. Ricordo che una volta venni rimproverata per aver comprato due uova al mercato nero. Con tutte le sue stravaganze Pound era il più ligio di tutti davanti alla legge. Stimava moltissimo la fedeltà alla morale pubblica. Era stabilito che si dovesse vivere con le tessere annonarie: bene, si doveva fare così, senza prendere scappatoie».
Come visse gli anni in manicomio?

«Visse quegli anni come in un’altra dimensione e si salvò concentrandosi sul proprio lavoro e preparando la sezione Rock drill dei Cantos».

Credo che Pound sia stato profetico per molti aspetti. Cosa ne pensa?

«Sì, certamente. Basti pensare al suo famoso tempus tacendi. Credo che all’origine della sua decisione di chiudersi nel silenzio ci fosse la consapevolezza di come il mondo contemporaneo stesse scivolando in una deriva di superficialità sempre più accentuata. Adesso sorrido quando raccolgo per strada il parere di persone che invocano il raccoglimento interiore e la ricerca di pace in un mondo così superficiale. Mio padre l’aveva capito quarant’anni fa. Pound fu profeta in campo economico. Si era reso conto di come il sistema fosse sbagliato, di quanto grave fosse il fenomeno della speculazione. Nei luoghi più terribili del suo inferno stanno gli usurai. Si era accorto che al sistema non importava più il destino della singola persona. Voleva che l’economia tornasse a occuparsi della persona. Pound era un uomo molto concreto e non andava troppo d’accordo con gli italiani che parlavano per astrazioni. Diede sempre la massima importanza al lavoro quotidiano e per lui il mondo ideale era quello agricolo. Voleva ritornare al mondo dei classici, a suo parere ogni uomo doveva essere in grado di essere anche contadino, doveva saper fare. Certo nasceva il problema che tutti avessero un pezzo di terra... Alcuni lo hanno accusato di essere quasi geneticamente ossessionato dall’economia, dal denaro: il cognome Pound è già un programma, suo padre poi aveva anche lavorato nella Zecca... Ancora, l’anno scorso sui giornali si è parlato diffusamente del massacro di Katyn. Pound citò questa immane tragedia nel Cantos: “D’altra parte Maukshk credeva di farmi un favore / facendomi includere nella commissione / che doveva ispezionare le fosse di Katyn” (Canto LXXVII). Maukshk era un impiegato del consolato tedesco in Italia che aveva cercato di fornire a mio padre un lasciapassare per visitare Katyn che poi i tedeschi gli negarono. Quando nel corso della guerra, la stampa italiana pubblicò le raccapriccianti foto delle fosse di Katyn, mio padre rimase molto impressionato e volle informarsi sui dettagli chiedendo di fare parte della commissione d’inchiesta internazionale della Croce Rossa. I russi però non diedero il permesso di lavorare alla commissione. Come molti altri era certo che i responsabili dell’eccidio fossero stati i russi. Nella sua opera Pound ha impiegato molte immagini forti, penso ancora al destino degli usurai nell’inferno, ma orrori come quelli di Katyn hanno superato di molto l’immaginazione del poeta».

La generosità è stato uno dei tratti dominanti della personalità di suo padre.

«Rimase colpito dal concetto di giustizia distributiva in Dante. Si spese per promuovere i giovani e li aiutava come pochissimi altri. Si potrebbe ricordare mio padre con l’appellativo: “Pound il generoso”. La storia della letteratura gli deve la scoperta o l’incremento decisivo di notorietà di Eliot, Joyce, Hemingway, William Carlos Williams, Hilda Doolittle, gli imagisti e moltissimi altri. Lui non dimenticò mai nessuno, mentre alcuni vollero rompere i ponti con lui. Per lui l’amicizia era un valore indiscutibile. Furono molti gli amici che sostennero la sua candidatura al prestigioso Premio Bollingen (poi assegnatoli nel 1949 per i Pisani), si opposero soltanto i critici letterari minori. Era invidia. Un tarlo sempre presente nel genere umano. L’ideale di amicizia in Pound superava i confini delle generazioni, delle lingue e delle razze. Voleva che gli artisti dialogassero tra di loro e si è attenuto a questo principio in ogni giorno della sua vita. C’era un solo tipo di persona che gli dava i nervi: il “furbo”, l’uomo che si adopera per tendere tranelli. Ecco di fronte a questo tipo di persone poteva esplodere...».

I filosofi greci? Sono maestri di politica

Ogni epoca di transizione comporta il riappropriarsi di fonti antiche, specie greche. E così il disagio post-moderno, nato dal crollo dei punti di riferimento. Nietzsche diceva: «Ai greci non si torna». E aggiungeva che non sapremmo nemmeno imparare da loro, tanto la loro maniera ci è ormai estranea. Invece è proprio quest’«estraneità» che fa pensare, dando una formidabile lezione d’inattualità. A cogliere l’inattualità della filosofia greca è stato Giorgio Colli in Filosofi sovrumani (Adelphi, 2009).

Alla Grecia dobbiamo l’invenzione della filosofia. Spesso tradita dal pensiero romano, che la traduce senza riferirsi all’esperienza originale, la parola greca è anzitutto filosofica. Modo d’esistere, innanzitutto, la filosofia s’oppone alla religione, perché, anziché accontentarsi delle risposte immediate del culto o della tradizione, s’interroga sulle questioni ultime. I greci inventano la filosofia insieme alla fenomenologia. Per i greci, dimostrare i fenomeni è metterli alla prova, esponendoli di colpo alla luce dell’Essere. Precisione dello sguardo greco...

La Grecia oppone al concetto di storia messianica e lineare, centrata su salvezza e «progresso», un tempo ciclico, la cui osservazione porta alla saggezza, al senso del tragico, all’idea di destino e all’amor fati. Nulla è più estraneo alla Grecia che la concezione volontaristica della storia, che pretende di costruire l’avvenire senza il passato: perfino il demiurgo crea a partire da qualcosa, ordinando il caos, che non è sinonimo del nulla.

Inoltre la Grecia fonda la libertà non come oggetto del pensiero o «libero arbitrio», ma come attributo dell’azione. La libertà greca è fondamentalmente politica. Dal VII secolo prima della nostra era, gli ateniesi s’organizzano in comunità politica. Con la democrazia, la Grecia inventa una forma politica, che contesta il re divino, perché con essa il potere, «posto al centro» per la formula consacrata, diviene cosa comune. Offendendo Agamennone, Achille illustra già in Omero l’egual diritto alla parola. Diviene allora possibile la riflessione politica; anche la filosofia politica. Dalle origini, la polis si definisce come regime filosofico. Partecipando alle delibere pubbliche, i cittadini non decidono solo sugli affari comuni, ma anche sullo statuto e sul senso della legge. Il demos è filosofia in atto. L’architettura ne è il riflesso: al centro della città greca, la piazza pubblica prevale su ogni altro spazio, quello dove si esercita la cittadinanza. Ideata alla fine del VI secolo, la tragedia si connette all’idea di partecipazione politica e civica: esorta il popolo a considerare i miti con gli occhi nuovi del cittadino.

La Grecia è la parte giusta e la misura delle cose. Rifiuta la dismisura titanica, prometeica, la devastazione della Terra a opera del calcolo meccanicista e demoniaco del «sempre più». E anche la tentazione permanente di prendere più della propria parte. Nei poemi omerici, l’eroe è l’uomo libero che gareggia con i suoi simili, per dimostrare di valere e conquistare «gloria immortale» con le sue gesta. L’eroismo è dunque via all’immortalità, ma a rischio di hybris, che mette in luce il tema del «peccato del guerriero». Il valore guerriero non è sovrano. Val meno della saggezza. La vita meditativa e riflessiva prevale sulla vita activa. Nella democrazia greca resta il principio agonistico, ereditato dall’età eroica, ma diretto a esorcizzare il pericolo della guerra civile.

Il pensiero greco è stato un pensiero aurorale, mattutino, iniziale, quindi connesso al destino. È stato un inizio del pensiero e alimenta un pensiero dell’inizio. Per Heidegger «oggi tocca al pensiero pensare in modo ancora più greco quel che grecamente s’è pensato». Questo il dovere del pensiero: il rispetto dei greci è avvenire del pensiero. Ricorso, non ritorno ai greci. Heidegger dice anche: «L’inizio va ricominciato più originariamente». Perché l’inizio «è davanti, non dietro a noi». Oggi si è greci disponendosi a un nuovo inizio.

(di Alain de Benoist)

domenica 25 ottobre 2009

E benvenuti a sti frocioni...

L’Italia pornocratica con famiglia componibile a piacere


È permesso dire che preferisco essere governato da un donnaiolo incontinente piuttosto che da un abituale frequentatore di trans, in festini di coca e sesso? E che preferisco chi denuncia i ricattatori e li attacca in pubblico a chi li asseconda, li paga di nascosto e poi nega tutto in pubblico? So distinguere tra sfera pubblica e sfera privata, giudico chi governa da quel che fa da governatore e non da erotomane. Però lasciate che io consideri più squallido, più ricattabile e meno affidabile il politico del secondo tipo. Se poi a questo aggiungiamo il moralismo di cui si è finora ammantato insieme alla sua parte politica, allora il disgusto cresce perché lo squallore si veste pure di ipocrisia e pretende di impartire agli altri lezioni e punizioni da cui ci si sente esonerati.
Ma non ho nessuna intenzione di scrivere un trattato ideologico sulla preferenza delle escort rispetto ai trans. No, non la butto in politica.
Mi chiedo: ma che razza di Paese stiamo disegnando? Mi riferisco in particolare a due fatti. Un fatto piccolo e brutto ma che giganteggia nei media e nelle conversazioni della gente, come appunto il caso Marrazzo; e un fatto gigantesco e radicale che è passato quasi inosservato, vale a dire una sconvolgente sentenza della Cassazione che ha ridefinito il concetto di famiglia: non pensate più, hanno detto gli emeriti ermellini della II sezione penale, alla famiglia secondo natura e tradizione, padre-madre e figli, ma è famiglia «ogni consorzio di persone fra le quali, per strette relazioni e consuetudini di vita, siano sorti rapporti di assistenza e solidarietà per un apprezzabile periodo di tempo». Per dirsi famiglia è sufficiente una certa «stabilità del rapporto».
Insomma la famiglia come noi la intendevamo da millenni non c’è più per legge e noi stiamo ancora a parlare di mogli, madri e figli... Sulla base di quella definizione di famiglia, sono famiglie le coppie omosessuali o i conviventi di ogni tipo; se due o più studenti o lavoratori condividono per un apprezzabile periodo di tempo lo stesso tetto e hanno consuetudini di vita insieme, sono una famiglia; se un signore anziano vive con una badante ed è assistito, quella è una famiglia. E si potrebbe estendere la famiglia a interi condomini, squadre di calcio o clan di prostitute che vivono sotto lo stesso tetto e lo stesso pappone. Se Marrazzo andava davvero con frequenza nella casa del trans brasiliana, come ha dichiarato lei stessa, Natalì, e aveva un rapporto ormai consolidato e solidale da sette anni, quella di Marrazzo e il trans è una famiglia, non meno famiglia, in termini di legge, di quella che Marrazzo aveva con sua moglie e i suoi figli. Ubicata in via Gradoli, dove un tempo si nascondevano i terroristi che rapirono Moro e oggi si imboscano governatori eccitati... Ci toccherà rimpiangere il tempo delle Brigate rosse?
È una sentenza, qualcuno minimizzerà, si riferisce a una storia particolare, è una constatazione tecnica e giuridica non civile e culturale e così non ci pensiamo... Ma qui con un breve dispositivo e tre frasette si demolisce la struttura naturale e culturale su cui si è fondata da millenni ogni civiltà, non solo quella cristiana: la famiglia composta da padre, madre, figli.
Allora io mi metto nei panni in cui già sono, di cittadino comune, di contemporaneo, connazionale e concittadino di quel governatore, quei trans, quei quattro carabinieri e quei magistrati, e mi chiedo: ma che sta succedendo?
Sono tanti gli episodi di cronaca che ci raccontano di un degrado diffuso. Ma i due fatti citati hanno qualcosa di speciale perché non riguardano il Paese reale ma il Paese legale, non provengono da gente comune, poveri sfigati o emarginati ma dalle classi dirigenti, ovvero da coloro che dovrebbero guidare il Paese. Tutti dicono: non mi interessa sapere quel che fa Marrazzo nella vita privata, non giudichiamo, ognuno ha i suoi vizietti e marrazza come vuole... Ma che state dicendo? Un conto è separare, come è giusto, il giudizio politico e amministrativo dalla sfera privata e dai gusti sessuali. Un’altra cosa è far passare per normale amministrazione, vita quotidiana, il solito tran-trans, festini con trans, sesso e coca.
Non valuterò mai politicamente Marrazzo e nessun altro governante da quel che fa in camera da letto; sto parlando di una società imbarbarita, che reputa lecito ogni egoismo, ogni piacere, ogni sfizio purché consensuale. Questa è stata giorni fa la definizione di libertà sessuale posta dal massimo ideologo del nostro tempo, Luxuria, in un programma televisivo: nessun limite al sesso se fatto tra adulti consenzienti. E quando il povero Storace ha sommessamente obbiettato: dunque anche l’incesto, se è fatto tra due adulti consenzienti sarebbe lecito... lì sono insorti tutti. Ma nessuno ci ha spiegato qual è la differenza di libertà e liceità tra un incesto tra due adulti consenzienti rispetto ad altri tipi di unione, omo o trans. Eppure ci stiamo abituando a tutto, non ci sorprende più niente. Per restare ai governatori di Regioni, ormai può far scalpore solo scoprire che il governatore della Puglia Nichi Vendola frequenta di nascosto una donna, per giunta nubile e illibata...
Tornando serio, torno a chiedervi: con questi esempi e con la loro accettazione universale nel nome della libertà, che società stiamo disegnando, cosa viene fuori da questo rovesciamento e spappolamento di valori condivisi, esperienze millenarie, realtà di vita consolidate? Non è una predica da preti, non vi sto parlando di peccati e nemmeno sto deplorando la deriva pornocratica del nostro Paese pur evidente; proprio ieri scrivevo anzi un pezzo sulla necessità di conciliare sesso e religione. No, mi preoccupa la decadenza, l’allucinazione collettiva, la totale perdita dei confini non tanto fra la norma e la violazione, ma tra la realtà e l’immaginazione, tra la vita e il sogno.
Anni fa scrissi che stavano nascendo i postitaliani e Berselli su quella definizione ci fece un libro; e più recentemente ho scritto di sfamiglia, e Crepet con quel titolo ci ha fatto ora un libro. Oggi parlerei di transitaliani con sfamiglia componibile a piacere, come i mobili Ikea.

(di Marcello Veneziani)

sabato 24 ottobre 2009

SASSARI: SABATO 31 OTTOBRE CASAPOUND ITALIA IN PIAZZA CONTRO L'EMERGENZA ABITATIVA


Sassari- Sabato 31 Ottobre si svolgerà in Piazza Azuni ,dalle ore 18.00 un sit - in , organizzato da CasaPound Italia ( www.casapounditalia.org) .

"Il motivo della manifestazione - spiega Ugo Pasella, Coordinatore Regionale CasaPound Italia , è quello di protestare contro una politica per la casa fallimentare portata avanti da questa giunta comunale, la quale in cinque anni di amministrazione non è riuscita a consegnare una casa popolare; e di promuovere - continua Pasella- la proposta di legge da noi ideata , il Mutuo sociale".
"Poponiamo la creazione di un ente Regionale, che costruisca case e quartieri a misura d'uomo con soldi pubblici su territorio demaniale e che venda a prezzo di costo queste case a famiglie non proprietarie con la formula del MUTUO SOCIALE : ovvero una rata di mutuo senza interesse, che non superi 1/5 delle entrate della famiglia, e che venga immediatamente bloccata in caso di stato di disoccupazione totale della famiglia , una rata- conclude Pasella - che non passa attraverso le banche".

Il piacere del corpo

In nome di Dio godetevi il sesso. Non è un dio strano e godereccio e non è un paradosso o una metafora per dire altro. Parliamo del nostro Dio e parliamo del nostro sesso. È il Dio che conosciamo da millenni, venuto dall’ebraismo, incarnato in suo figlio Gesù e adorato nella Chiesa cattolica. Dobbiamo liberarci dal dualismo falso e sciagurato tra il corpo e lo spirito, riabilitare la carne e sottrarre il sesso alla sua mortificazione quotidiana di chi lo smercia ma in fondo lo detesta. Chi l’ha detto che l’immortalità dell’anima e la fede in Dio padre onnipotente siano incompatibili con il piacere del corpo e l’amore carnale? Oggi il sesso è un peccato per la religione, un reato per la politica e una manna per la società: è il vero oppio dei popoli per spegnere fede e politica. Dobbiamo caldeggiare una grande rivoluzione culturale che passi attraverso i nostri corpi, la nostra sensibilità unita alla nostra sensualità: tra Dio e il sesso, tra Cristo e la carne, non c’è incompatibilità ma alleanza. Nella Roma papalina circolava un motto popolare: il peccato de fregna Dio non lo segna...

Questa tesi non ha l’imprimatur del Papa, della Congregazione della fede o del Sinodo, ma la sostiene - poggiandosi all’autorità di san Tommaso, della dottrina cristiana e del catechismo - un giovane, brillante filosofo di origine ebraica e di conversione recente. La sua scoperta da noi è merito del meeting di Comunione e Liberazione che lo invitò a Rimini e della rivista Tempi che lo intervistò. È una scoperta benedetta, e non per modo di dire. L’originalità della tesi e la brillantezza dello stile non sono segno di stravaganza e tantomeno di eresia, ma si fondano sul rigore del pensiero e della fede. Fabrice Hadjadj ha 38 anni, è ebreo con cognome arabo, nato in Tunisia all’ombra dell’islam e convertito una decina d’anni fa al cattolicesimo; sintesi vivente dei tre monoteismi. Insegna filosofia a Tolone e ha pubblicato tra gli altri un libro splendido - Mistica della carne. La profondità dei sessi, uscito di recente da Medusa (pagg. 200, euro 17,50). È un libro pieno di vita e di fede, sanguigno e intelligente, fondato sul realismo e l’incarnazione; è un elogio dell’amore sessuale e non sublimato o sentimentale; e insieme della procreazione e della famiglia. Il suo antagonista è l’erotismo triste, ospedaliero e consumistico dei nostri giorni, il sesso ridotto a masturbazione assistita, tra tecnica e sanità, che denota non amore ma disprezzo del corpo e del sesso. Disprezzo che riverbera, come bene argomenta Hadjadj, nell’aborto, nella denatalità, nell’incapacità di rapporti duraturi, nei corpi e nei sessi modificati per adeguarsi a standard e performance; ma anche nella vergogna di essere nati, di avere genitori e una terra d’origine, e poi nella vergogna di invecchiare e infine di morire. È il rifiuto della condizione umana e corporale, della nostra carne, della realtà di cui siamo fatti, con i suoi limiti e i suoi legami. O solo corpi senz’anima né mente, o solo menti disincarnate, che rifiutano la solida corporeità della vita. Il sesso è visto come liberazione dalla ragione, secondo il noto adagio che «lui», il lui moraviano, non vuole pensieri. E invece Hadjadj cita una massima esattamente inversa: mentula tua habet mentem, il tuo membro - pensate, direbbe Mike buonanima- ha una mente, ha una coscienza. Ama pensando; si eccita e possiede pensando. Eros non è scemo.

Qui è inevitabile il punto di dissenso con la morale cristiana. Non ha torto Hadjadj a cogliere proprio lì, sul sesso, il punto di rottura della Chiesa con il mondo. «Riconosceremmo facilmente i tesori della fede cattolica, se solo non ci fosse la sua morale sessuale. Questo topo morto basta ad avvelenare i pozzi». Hadjadj ricorda che i peccati della carne sono assai meno gravi dei peccati dello spirito. Del sesso, in effetti, è brutto il disordine, la dipendenza e la riduzione dell’altro a puro oggetto; ma non la sua espressione gioiosa, gli atti d’amore e il desiderio. Il rischio, invece, è che molti riducano i precetti cristiani alla morale sessuale. Da qui la fuga nelle dottrine esotiche, tra il buddismo e l’induismo, e perfino l’islam, meno moraliste e più indulgenti sul piano sessuale. Alla metafisica del sesso, ispirata alle dottrine orientali e alle pratiche tantriche, aveva dedicato un testo famoso Julius Evola. Hadjadj è invece un Nietzsche cattolico, come si disse di un suo ispiratore, Gustave Thibon; egli celebra le nozze tra la fisica e la metafisica in un amore carnale e religioso. Efficaci sono le sue pagine contro il nuovo totalitarismo, fondato sui consumi, munito dei conforti progressisti; un totalitarismo che non si dà come ideologico, si presenta come individualista e nasce dalla «desolazione» (la perdita del suolo, del legame famigliare, della sorte comune e concreta). Lo sradicamento è la disincarnazione dei luoghi, è la perdita del corpo «sociale». Hadjadj non risparmia il femminismo, che è per lui un machismo di segno contrario; l’omosessualità, in cui nota non l’abuso ma la carenza di sessualità; la riduzione dell’educazione sessuale all’uso del preservativo, come se nel fare l’amore si debba prestare attenzione non all’incontro con l’altro ma a preservarsi dall’altro. Per Hadjadj l’educazione sessuale deve accompagnare il desiderio sessuale e non imbavagliarlo («i cattolici sono i veri edonisti»); poi la tesi geniale che il vero sesso estremo sia figliare; e che il sesso non sia un’astuzia della specie per perpetuarsi, come pensava Schopenhauer, ma un’astuzia di Dio che si serve del sesso per aumentare gli eletti alla vita eterna. Hadjadj si spinge fino all’elogio dell’ancién régime, del Re che era padre del suo popolo e ne incarnava l’unità. Colpisce l’uso intelligente, giovanile, trasgressivo della tradizione ma anche di autori come Foucault e Pasolini. Aria fresca contro pensieri morti.

Ma qual è il fondamento teologico e religioso di questo elogio della carne? È l’incarnazione di Gesù Cristo e poi la resurrezione dei corpi. A noi costa fatica già accettare l’idea di un Dio che si è fatto uomo ed è morto sulla croce per poi risorgere; ma ancora più arduo è pensare alla resurrezione dei corpi estesa all’umanità, ci appare quasi una follìa. Meglio tornare a Platone e a Plotino - che «si vergognava di avere un corpo» - e amare i corpi come riflessi, custodie e presagi di presenze incorporee, invisibili e forse immortali. Ma ci piace pensare a sesso & santità, a quell’amore carnale benedetto da Dio...

(di Marcello Veneziani)

giovedì 22 ottobre 2009

Manovre israeliane in Sardegna

Quel che non fanno i turchi, lo fanno gli italiani. E i generali israeliani ringraziano: le manovre aeree congiunte Nato-Turchia-Israele che Ankara aveva cancellato dieci giorni fa (motivazione ufficiale: «Non possiamo prestare il nostro cielo a chi ha massacrato i palestinesi di Gaza») sono state ospitate la settimana scorsa in Sardegna. Prove di guerra: con la discrezione che si usa in queste circostanze, cinque F-15i, cinque F-16i, un Boeing 707 per il rifornimento e un Hercules con l'equipaggiamento tecnico sono arrivati da Tel Aviv alla base di Decimomannu e qui si sono esercitati in una «simulazione di combattimento a lungo raggio», che sarebbe poi la simulazione di un attacco all'Iran. Non erano presenti altre aeronautiche oltre all'italiana, spiegano fonti militari israeliane. E se non è una novità che le armi dei due Paesi facciano esercitazioni congiunte, e se quella in Sardegna era programmata da tempo, l'appoggio del governo italiano alle scelte militari del governo Netanyahu appare sempre più netto: prima con la rinuncia della nostra Aeronautica alle manovre delle polemiche in Turchia, in segno di solidarietà con gli esclusi; poi col voto all' Onu di venerdì scorso, uno dei pochi Paesi europei che hanno bocciato il Rapporto Goldstone e le accuse di crimini di guerra a Gaza.

mercoledì 21 ottobre 2009

La democrazia muore al mercato

Il Presidente della Banca centrale europea, Jean-Claude Trichet, è l'uomo più influente d'Europa, il cui potere è accresciuto con il relativo indebolimento degli Stati democratici nazionali. Sulle sorti della democrazia è conveniente non rimanere indifferenti: si riduce il suffragio, poiché un numero sempre più cospicuo di elettori rinuncia a votare; si sminuiscono i programmi elettorali, poiché ormai privi di originalità e scopiazzati reciprocamente tra destra e sinistra; vengono spogliate le sovranità popolari nella misura in cui accresce invece il peso di organi non elettivi e trans-nazionali.
Un tempo le democrazie venivano soggiogate dagli eserciti golpisti. Ora da organizzazioni economiche: banche centrali, mercati, euroburocrazie, Ocse, Fondo monetario internazionale, Wto, ma anche agenzie private di rating i cui giudizi interferiscono pesantemente sull'azione dei governi nazionali.
Questi poteri hanno la presunzione d'essere tecnicamente neutri e maggiormente specializzati rispetto alla classe politica. Ma gli errori di valutazione nei confronti delle avide economie asiatiche e le spericolate esposizioni delle banche occidentali dovrebbero far sorgere qualche sospetto sul vantaggio di abbandonare la guida dell'economia globale ad una giungla di enti sottrati al giudizio del popolo sovrano.
Sottostiamo sempre più a poteri esterni e sempre meno la democrazia riesce a farci restare padroni di noi in casa nostra.

(di Longinus)

La mobilità è utile. Ma non è un valore

Sulla soglia dell’età grave, Giulio Tremonti ha scoperto Parmenide, la scuola eleatica, il primato dell’essere sul divenire. Ha liquidato Eraclito, la scuola neoliberista, il dominio mondiale del mercato, il capitalismo apolide e la finanza nomade, che vogliono i loro dipendenti senza fissa dimora. È vero, la stabilità è un valore, la mobilità è una necessità. La stabilità è signorile, la mobilità è una servitù. Ma come, Tremonti, il liberista radicale, si spinge ora a rivalutare il posto fisso? È una conseguenza rigorosa e perfetta della sua mutazione culturale e politica; dopo aver scoperto che le società reggono su Dio patria e famiglia anche sotto diverso nome, è coerente poi dire che le società hanno bisogno di punti fermi e posti fissi per dar senso e luogo al movimento. L’unica incongruenza è di natura personale: ha scoperto il primato dell’immutabilità dopo aver mutato radicalmente posizione...

Sto facendo filosofia mentre sento che mi chiamate alla realtà della storia e dell’economia. Sappiamo quanti danni hanno fatto almeno negli ultimi decenni il mito e la realtà del posto fisso; è il dogma delle società inerti e ingessate, come quelle sovietiche, dove minima è la responsabilità e massima è la pigrizia, dove non conta il talento, il rischio e la duttilità ma la ripetizione, la sicurezza e la fissità. So distinguere tra la stabilità che è un valore e la staticità che è invece una iattura. La prima Repubblica, ad esempio, era statica senza essere stabile: fondata sullo statalismo e sul posto fisso, governata sempre dagli stessi partiti senza alternanza, non era però stabile, perché i governi cambiavano ogni nove mesi e gli equilibri benché anchilosati erano fragilissimi.

Non si decideva mai, si mediava di continuo. E i dipendenti pubblici erano inamovibili ma non avevano alcun senso della responsabilità loro affidata. Il posto fisso, si sa, è stato spesso l’ombrello dei nullafacenti, dei mediocri, dei parassiti. Ma Tremonti ha suggerito una verità: nei nostri anni abbiamo scambiato una necessità per un valore. Infatti lui non ha demolito la mobilità e nemmeno la flessibilità; se l’è presa con la mobilità assunta come valore in sé e non come mezzo, ruvido ma efficace, per migliorare le cose. Sappiamo che la variabilità del posto di lavoro, l’incertezza, la mutevolezza producono frustrazioni e infedeltà, solitudini e fratture sociali; ciò che migliora la produttività a volte peggiora la vivibilità e la società intera. So che è più consono nel nostro tempo l’elogio del nomade rispetto al sedentario, è più gradita la variabilità nell’era dei consumi, vincono la precarietà e la labilità rispetto alla durata e alla fedeltà; ma il nomadismo funziona finché c’è un orizzonte stabile che lo accoglie e lo garantisce.

Si può mutare ed esser liquidi dentro un quadro di solidità costanti. In una battuta, Tremonti ha liquidato Bauman e la sua società liquida. Se abbiamo davvero senso dello Stato, che già nel nome indica ciò che sta, e se crediamo davvero che una società abbia bisogno di certezze e punti fermi, come la famiglia, la città in cui si vive, la comunità in cui siamo inseriti, allora dobbiamo davvero dire che il posto fisso è un bene perché dà valore a quella continuità e a quel solido reticolo di relazioni e affetti. Il mutamento logora i rapporti, deprime le identità e i legami, sradica e sfascia le famiglie, le comunità. Non parlo pro domo mea; lo dice uno che non vive immobile col suo posto fisso nel suo luogo fisso, ma uno che è inquieto ed irrequieto, cambia continuamente luoghi e lavori, anche se non smette di scrivere.

Non è un ritorno sovietico o una nostalgia fascio-statalista di Tremonti, che mi pare davvero immune da queste tentazioni, e forse nemmeno una furbata per allargare il suo consenso a quell'Italia venuta dalla Dc, dalla destra, dallo Stato, dal Sud (a cui ha offerto anche una banca) e dal sindacato. Ma è la semplice considerazione che mutare è una necessità, a volte un desiderio, ma viene prima la persona, la famiglia, la città. Produrre è un mezzo, benedetto e necessario; ma l’essere è un fine e tutelarlo è un valore. Quella di Tremonti, beninteso, è un’apologia di Parmenide e non del dipendente fannullone. Da Brunetta il bastone, da Tremonti la carota.

(di Marcello Veneziani)

martedì 20 ottobre 2009

Dalla Serenissima a Milano. Il Rinascimento delle “escort”

Le puttane sono sempre puttane. Ma oggi fruiscono del leggiadro appellativo di “escort”; nell’Italia rinascimentale, invece, venivano chiamate meretrici, cortigiane, «femmine del mondo». Uomini di Chiesa e moralisti, ovviamente, le guardavano schifati ed anche impauriti: il «puttaneggiare», infatti, era un vizio che attirava la collera divina, non solo sul peccatore, ma su tutta la società all’intorno. Ad esempio, con le epidemie di peste: un «orribile flagello» che si abbatteva sui lussuriosi. In particolare, sui Veneziani che tolleravano diecimila «case da meretrici».

Le istituzioni della Serenissima avevano infatti un atteggiamento pragmatico. All’ombra di San Marco, la prostituzione non era mai stata illegale. Non era dunque vietata, bensì controllata. E un lungo proclama emanato dai Provveditori della Sanità, la commissione creata dal Consiglio dei Dieci per sovrintendere alla salute pubblica, se la prendeva soprattutto con protettori e mezzani che «desviavano povere orfane e alcune pute de necessità astrette a mendicar il viver suo», inducendole «con molte blanditie» al commercio del corpo.

Ruffiani noti a tutti

I suddetti ruffiani (e ruffiane) erano obbligati a palesare il loro mestiere, indossando abiti speciali affinché fossero riconosciuti da tutti: insomma, dovevano vestire di giallo, «sotto pena de essere frustà da San Marco a Rialto et de perpetua banda da questa terra».

Per prevenire la prostituzione, i Veneziani ricorsero a un’ulteriore soluzione pratica: una serie di asili per donne a rischio, finanziati dalla chiesa e dallo stato.

Ad accogliere le «peccatrici», che naturalmente dovevano impegnarsi a trascorrere il resto delle vita in preghiera e tra quattro mura, c’erano il Convento delle Convertite e la Casa delle Zitelle, mentre la Casa del Soccorso accoglieva le donne sposate che avevano lasciato il marito, commesso adulterio o subìto l’abbandono. Altri editti emessi a Venezia nel XVI secolo rivelavano un ulteriore motivo di preoccupazione e cioè quello che le prostitute riccamente abbigliate fossero scambiate per dame dell’alta società.

Ragion per cui si proibiva alle puttane di indossare oro, argento, seta e perle: insomma, non dovevano «addobbarsi solennemente», con l’aiuto delle solite ruffiane, per trarre in inganno i poveri forestieri che avrebbero potuto scambiarle per «Gentildonne Venetiane», notoriamente «molto gelose dell’honor suo, e specchi di onestà e di pudicitia».

Il saggio La prostituzione nella Venezia del Cinquecento di Ann Rosalind Jones fa parte di una interessante raccolta di studi, coordinati da Allison Levy, docente di Storia dell’arte presso lo University College di Londra, e vòlti a illustrare la sessualità rinascimentale non «in termini garbati», ma rivelandola «a chiare lettere» e «ponendo l’accento su quanto è singolare, perverso, clandestino e scandaloso» (Sesso nel Rinascimento. Pratica, perversione e punizione nell’Italia rinascimentale, Le Lettere, pp. 319, euro 40). Nel libro, infatti, si parla di tutto: immagini sessuali, esibizioni di genitali, falli alati, «uso dei putti nella pedagogia pederastica», corpi erotici, posizioni, accessori, accoppiamenti provocatori, partner problematici, «erotismo bisessuale nei dipinti e nella poesia burlesca», triangoli amorosi, sodomie, incesti, strumenti di tortura per peccatori, e chi più ne ha, più ne metta.

Ricche e lascive

Tante le curiosità: ad esempio, i dialoghetti in cui le cortigiane letterate e «sontuose» (insomma, che hanno fatto i soldi e godono di una prestigiosa immagine pubblica) erudiscono le principianti sui rischi del mestiere. Tanti gli scenari, come quello delle “donne alle finestre”, malviste da chi le vuole caste e modeste, pure e riservate, dunque chiuse in casa, e unicamente pensose di dedicarsi a una sana vita familiare, ben viste, invece, dai corteggiatori che cercano sguardi e segnali dalle belle affacciate al verone.

E queste belle sono spesso puttane che, in cerca di clienti, esibiscono al fiorito davanzale i loro «davanzali» altrettanto fioriti e profumati. Va detto che la “civiltà puttanesca”, celebrata nei Ragionamenti dell’Aretino contro la trattatistica ben costumata del Bembo e del Castiglione, non solo serve a distogliere gli uomini dalla sodomia (particolarmente diffusa nella Venezia del Cinquecento ed esorcizzata dal gran profluvio di tette e cosce nude nel Quartiere delle Carampane), ma è una sorta di “arte del vivere” per le cortigiane di palazzo, per le amanti di lusso e per le “favorite”.

Nel Rinascimento, «le relazioni sessuali si inserivano in più ampie reti sociali, e i rapporti extraconiugali rafforzavano i legami tra famiglie influenti» (Timothy McCall, Il commercio delle amanti a corte) e gli esempi di due favorite milanesi, Lucia Marliani e Cecilia Gallerani (la Donna con l’ermellino, dipinta da Leonardo da Vinci) evidenziano come il Ducato degli Sforza abbia sviluppato le proprie reti politiche ed egemoniche attraverso due abilissime signore che, giocando sulla bellezza e la grazia, attizzarono i piaceri dei sensi, godettero di ampi consensi e ne ottennero cospicui vantaggi, da abiti e gioielli sfarzosi a proprietà dentro e fuori le mura di Milano, non ancora “capitale morale”.

(di Mario Bernardi Guardi)

sabato 17 ottobre 2009

Ci risiamo, il Sud gioca ancora contro se stesso


Volete darci la Banca del Sud, ma siete matti? Volete reintrodurre una forma di sostegno al Meridione che somiglia alla cassa del Mezzogiorno, ma vi ha dato di volta il cervello? Volete fare il ponte sullo Stretto, ma ci volete morti? Volete rilanciare il turismo al sud facendo nascere i casino, ma voi siete solo pazzi...
Non c’è programma, investimento, iniziativa di rilancio del sud che non sia criticato o bocciato. E non dai padani o dai romani, ma da quelli del sud.
Al sud è nato il partito degli iettatori progressisti. Diceva tre secoli fa l’economista meridionale Antonio Genovesi, che la malattia del sud si traduce in una parola chiave, anzi in una parola chiavica, che fa sprofondare il sud nella fogna della paralisi: «Nonsipuò». Sono passati tre secoli e la sola differenza tra quel tempo e il nostro è che a dire «Nonsipuò» non sono più gli agrari reazionari, le bigotte o i contadini - conservatori per indole e natura - ma è un ceto intellettuale-mediatico progressista, laico e radicale. Se prendete i giornali del sud, e le pagine meridionali dei giornali nazionali, è un continuo non si può.
Gli ultimi sudaticci negazionisti li abbiamo sentiti proprio giovedì, che è stata varata la banca del sud. Coro di no degli intellettuali e degli imprenditori progressisti alla nascita della Banca del Sud, titolano i giornali a mezzogiorno, «È il solito spot del governo», aggiungono. Ci sarebbe da aspettarsi una levata di scudi dei settentrionali, e invece no, a reagire così sono proprio i beneficiari dell’impresa. Che il governo o Tremonti in persona lo faccia per conquistare consensi non mi pare né una novità né un’oscenità: magari se tutti i governi italiani avessero cercato di conquistare il consenso con le opere e non con le magagne, progettando iniziative alla luce del sole per il riscatto del sud e non favorendo clientele sotto banco e patti con la malavita.
Si possono anche discutere gli effetti che potrà avere una Banca del Sud, ma io ricordo fior di meridionalisti e di giornali meridionali che per anni hanno lamentato la colonizzazione finanziaria del sud, il drenaggio di investimenti prelevati a sud e portati a nord e hanno rimpianto l’epoca in cui il sud aveva grandi banche proprie e nazionali, come il Banco di Napoli o di Sicilia. Ora che qualcuno rilancia l’idea del sud imprenditore di se stesso, che rilocalizza i luoghi simbolici e reali della sovranità creditizia a sud, i meridionalisti piangenti insorgono offesi.
Non vi dico poi la sollevazione contro la Brambilla che ha prospettato la possibilità di far nascere casinò negli alberghi a sud: sinistre e Cgil reagiscono offesi, come se avessero chiesto al sud di prostituirsi e spacciare droga.
Di tutte le proposte per il rilancio del sud, alcune le condivido altre no. Per esempio, io non farei rinascere sotto falso nome casse e cassette del Mezzogiorno, dopo che le regioni del sud non hanno saputo usare i fondi europei. E tra le priorità strutturali e simboliche del sud non mi pare che il Ponte sullo Stretto sia la scelta giusta; ne parlai nel mio libro «Sud». Quando vedi crollare in quel modo Messina, pensi ad altre priorità. Ma nel complesso posso dire due cose spassionate, da uomo del sud fiero d’esserlo: non avevo mai visto una concentrazione di progetti per il sud così densa e impegnativa da parte di un governo; e poi alcune di queste iniziative avranno pure mille controindicazioni, ma come diceva Machiavelli meglio fare e poi pentirsi che non fare e poi pentirsi ugualmente. E la malattia meridionale finora è stata il non fare, nonsipuò... Avessero solo un valore simbolico e psicologico, quelle opere segnerebbero già un mutamento importante nella mentalità.
Qui però c’è da affrontare il nuovo fatalismo in malafede che prospera al sud e che fa rimpiangere l’arcaico ma genuino fatalismo del sud, popolare e contadino: il fatalismo inerte, accidioso, delle classi colte. Se togli tutte quelle iniziative cose resta al sud? Resta solo andar via, abbandonare, emigrare con la mente se si superano i 40 anni, e col corpo se si è ancora giovani. Ma dicevo mala fede non a caso. L’ostilità a ogni progetto, questa volta, non viene dalla gente comune, dal popolino conservatore e ignorante, ma da chi dovrebbe guidare lo sviluppo del sud, tra università, giornali, intellettuali, oltre che naturalmente opposizione, sindacati, associazioni. Ho l’impressione che al sud stiano crescendo gli impresari dell’inerzia, del non-fare, dello scetticismo, perché c’è gente che campa sulla drammatizzazione del sud.
Intellettuali, giornalisti, cineasti, magistrati, scrittori-magistrati che perderebbero il loro mestiere di teologi della sfiga, di cantori della catastrofe, di ideologi del sud incurabile. Questa visione del sud che oscilla tra la malattia e la denuncia, questa visione questurina e ospedaliera del Meridione, è la base per la loro letteratura, il loro ruolo intellettuale e civile, l’autorappresentazione come l’élite separata dal becero Meridione inoperoso e malavitoso. Altro che la Lega; a sud c’è un ceto che campa su questo sud senza redenzione. E fa pendant con chi al nord denuncia la meridionalizzazione d’Italia. Come fa Aldo Cazzullo, piemontese, inviato del Corriere della sera, nel suo vivace «L’Italia de noantri - Come siamo diventati tutti meridionali», uscito in questi giorni da Mondadori (gli ho contestato il titolo, noantri è romanesco, non terrone). Secondo Cazzullo l’Italia sarebbe immersa nel sugo di pomodoro, cioè allagata dal sud. È vero, e questo dipende dal fatto non secondario che due terzi d’Italia sono nati o sono oriundi meridionali, un tempo prolifico (oggi fa meno figli del nord). Il carattere nazionale, arcitaliano proviene in gran parte dal sud, nel bene e nel male: fantasia, favori, vivacità e sregolatezza, latin lover, mariuoli e piezz ’e core. Il nord unì l’Italia, il sud l’animò. E oggi Roma regna, il nord comanda, il sud pervade. Ma con quell’élite di sudtirapiedi, di meridionali con lo scuorno, che sognano un sud immobile e inguaribile per poi denunciarne il male e l’inerzia, il sud rischia di passare alla iettatura.
(di Marcello Veneziani)

venerdì 16 ottobre 2009

Traumatico comunicare

C'è un aspetto «miracoloso» della comunicazione? Oppure mostruoso, da monstrum? Giriamo le domande al professore Mario Perniola, autore di «Miracoli e traumi della comunicazione» e tra i vincitori della prima edizione del Premio Francesco De Sanctis (Sezione eni-immaginare il futuro) col saggio «Miracoli e traumi della comunicazione» e qualche anno fa di «Contro la comunicazione» (entrambi Einaudi). «Rifletto nel mio nuovo volume sugli ultimo 40 anni. Per comprendere quanto è avvenuto, le categorie tradizionali della modernità sembrano inadeguate: perciò introduco nozioni che come il "miracolo" e il "trauma" appartengono più all'orizzonte religioso e psicologico che a quello scientifico e politico. Mi riconosco meno nella categoria del "mostruoso", che implica l'opposizione con una "normalità" che è andata via via logorandosi: tra il normale e il patologico non c'è soluzione di continuità».
Ma che cosa dobbiamo temere? Una comunicazione livellatrice, antidemocratica? Un mondo nuovo ad egemonia mass-mediatica con la dittature del Grande Fratello ipertecnologico? E questa tecnologia è alleata alla politica?
La politica è sempre più subordinata non alla tecnologia, ma alla plutocrazia. Uno dei motivi, l'enorme crescita del capitale di origine criminale, il dissolvimento delle categorie politiche tradizionali, il crollo dell'istruzione, il collasso dell'educazione familiare, della scuola e dell'università. Ad ogni modo preferisco che la plutocrazia si mostri invece di nascondersi dietro figure di paglia secondo quello stile di governo, peraltro anche illuminato per quanto riguarda la protezione delle lettere e delle arti, inaugurato da Cosimo de Medici nella Firenze del '400. Quanto alla tecnologia, l'accumulazione primitiva di capitale intellettuale ottenuta mediante un lavoro non retribuito che avviene in Internet costituisce un fenomeno impressionante. Infine la reazione occidentale all'11 settembre sembra diretta più a limitare le libertà dei popoli dell'Occidente che a combattere efficacemente gli autori di quell'attentato.
I libri (destinati al rogo) sono un'arma di libertà?
Sono i prodotti culturali più durevoli che esistano; da ciò deriva il prestigio che hanno goduto e che godono, a giudicare dall'aumento vertiginoso del loro numero. Ciò spiega anche l'ostilità che hanno suscitato e suscitano in chi ha una pulsione di morte particolarmente forte. Tale spinta verso l'autodistruzione si manifesta spesso con un vitalismo spontaneistico e forsennato, come avvenuto nella generazione degli anni Sessanta, quella della contro-cultura e della contestazione. Ma un aspetto essenziale del collasso verso cui si avvia l'Occidente è l'oscurantismo e l'odio verso la cultura. Questo ha almeno tre differenti matrici: l'anti-intellettualismo religioso, rinato nella forma del fondamentalismo, l'egualitarismo assoluto propugnato dalle ali estreme del comunismo (pensi agli Khmer rossi) e lo spontaneismo pedagogico, che si sottrae ad ogni responsabilità educativa.
Se un'avanzata civiltà della comunicazione tende (inevitabilmente?) ad esiti illiberali, quali le strategie di difesa per gli individui e le comunità, o per ciò che ne resta?
Negli ultimi quarant'anni la parola "libertà" è stata soppiantata da "liberazione", così come si è confusa la critica all'autoritarismo con la negazione di ogni autorevolezza. Il risultato è stato catastrofico. Il punto di arrivo della "liberazione sessuale" è la classifica delle pornostar, della "teologia della liberazione" è il trionfo delle sette evangeliche e dell'esoterismo. Nella scienza è avvenuto lo stesso processo: si è passati dall'anarchismo metodologico al businness delle riviste scientifiche americane che si reggono sull'impact factor e su altri criteri basati sulla manipolazione del credito scientifico. Perciò penso che oggi le strategie di difesa si configurino come lotte sui principi e sui metodi di valutazione anziché come liberazione da ogni autorevolezza.
La lezione del suo Maestro (Pareyson) e i suoi pensatori di riferimento (Nietzsche, Heidegger, Bataille) cosa le suggeriscono nel "deserto che cresce"?
Questi quattro pensatori spesso accomunati. Ma dal punto di vista filosofico, hanno poco a che fare l'uno con l'altro. Il "pensiero tragico" di Pareyson affonda le radici in Jaspers e si sviluppa nella parte finale della sua vita come una sfida sia al clericalismo dogmatico sia ai suoi allievi "postmoderni" Eco e Vattimo. Per Nietzsche e Heidegger "il deserto" non può più crescere perché ritengono che già ai loro tempi la civiltà occidentale sia entrata nella fase finale. L'opera di Bataille, poi, è una radicalizzazione del momento negativo della dialettica hegeliana, cui viene tolta ogni possibilità di superamento. Tuttavia c'è un aspetto che li accomuna: non si facevano nessuna illusione sulle "sorti magnifiche e progressive" dell'umanità.
(di Mario Bernadi Guardi)

giovedì 15 ottobre 2009

Dalla Vandea ai gulag. Il filo rosso di Solzenicyn

Due terzi di secolo fa, quand’ero bambino, leggevo già con ammirazione nei libri il racconto che rievocava l’insorgenza della Vandea, così coraggiosa e così disperata. Sono passati venti decenni, decenni diversi a seconda dei diversi Paesi, e non solo in Francia, ma anche altrove, l’insorgenza vandeana e la sua sanguinosa repressione sono state sempre di nuovo illuminate. Infatti gli accadimenti storici non sono mai compresi pienamente nell’incandescenza delle passioni che li accompagnano, ma a una discreta distanza, quando vengono raffreddate dal tempo.
Per molto tempo si è rifiutato di ascoltare e di accettare quanto era stato gridato dalla bocca di coloro che morivano, che venivano bruciati vivi: i contadini di una terra laboriosa, per i quali sembrava fosse stata fatta la Rivoluzione, ma che la stessa Rivoluzione oppresse e umiliò fino all’estremo limite, ebbene, proprio questi contadini si ribellarono contro di essa! I contemporanei avevano ben colto che ogni rivoluzione scatena fra gli uomini gli istinti della barbarie più elementare, le forze opache dell’invidia, della rapacità e dell’odio. Essi pagarono un tributo decisamente pesante alla psicosi generale, quando il fatto di comportarsi da uomini politicamente moderati, o anche soltanto di sembrarli, veniva già considerato un crimine. Il secolo ventesimo ha notevolmente offuscato agli occhi dell’umanità l’aureola romantica che circondava la rivoluzione nel secolo diciottesimo.
Di mezzo secolo in mezzo secolo gli uomini hanno finito per convincersi, partendo dalle loro stesse disgrazie, del fatto che le rivoluzioni distruggono il carattere organico della società; che danneggiano il corso naturale della vita; che annientano i migliori elementi della popolazione dando campo libero ai peggiori; che nessuna rivoluzione può arricchire un Paese, ma solamente quanti si sanno trarre d’impiccio senza scrupoli; che generalmente nel proprio Paese produce innumerevoli morti, un vasto impoverimento, e, nei casi più gravi, un degrado duraturo della popolazione. Il termine stesso "rivoluzione" – dal latino revolvo – significa "rotolare indietro", "ritornare", "provare di nuovo", "riaccendere", nel migliore dei casi mettere sossopra, una sequenza di definizioni poco desiderabili. Attualmente, se da parte della gente si attribuisce a qualche rivoluzione la qualifica di "grande", lo si fa ormai solo con circospezione, e molto spesso con molta amarezza.
Ormai capiamo sempre meglio che l’effetto sociale che desideriamo tanto ardentemente può essere ottenuto attraverso uno sviluppo evolutivo normale, con un numero infinitamente minore di perdite, senza comportamenti selvaggi generalizzati. Bisogna saper migliorare con pazienza quanto ogni giorno ci offre. E sarebbe assolutamente vano sperare che la rivoluzione possa rigenerare la natura umana. Ebbene, la Rivoluzione francese, e in modo assolutamente particolare la nostra, la Rivoluzione russa, avevano avuto questa speranza. La Rivoluzione francese si è svolta nel nome di uno slogan intrinsecamente contraddittorio, e irrealizzabile: «Libertà, uguaglianza, fraternità». Ma, nella vita sociale, libertà e uguaglianza tendono a escludersi reciprocamente, sono antagoniste: infatti, la libertà distrugge l’uguaglianza sociale, è proprio questa una della funzioni della libertà, mentre l’uguaglianza limita la libertà, perché diversamente non vi si potrebbe giungere.
Quanto alla fraternità, non è della loro famiglia, è un’aggiunta avventizia allo slogan: la vera fraternità non può essere costruita da disposizioni sociali, è di ordine spirituale. Inoltre, a questo slogan ternario veniva aggiunto con tono minaccioso «o la morte», il che ne distruggeva ogni significato. Mai, a nessun Paese, potrei augurare una "grande rivoluzione". Se la Rivoluzione del secolo diciottesimo non ha portato la rovina della Francia è solo perché vi è stato Termidoro. La rivoluzione russa non ha conosciuto un Termidoro che abbia saputo arrestarla, e, senza deviare, ha portato il nostro popolo fino in fondo, fino al gorgo, fino all’abisso della perdizione.
L’esperienza della Rivoluzione francese avrebbe dovuto bastare perché i nostri organizzatori razionalisti della "felicità del popolo" ne traessero lezioni. Ma no! In Russia tutto si è svolto in un modo ancora peggiore, e in una dimensione senza confronti. Numerosi procedimenti crudeli della Rivoluzione francese sono stati docilmente applicati di nuovo sul corpo della Russia dai comunisti leninisti e dagli specialisti internazionalisti, soltanto il loro grado di organizzazione e il loro carattere sistematico hanno ampiamente superato quelli dei giacobini. Non abbiamo avuto un Termidoro, ma – e ne possiamo esser fieri nella nostra anima e nella nostra coscienza – abbiamo avuto la nostra Vandea, e più d’una. Sono le grandi insorgenze contadine, quella di Tambov nel 1920-1921, della Siberia occidentale nel 1921. Un episodio ben noto: folle di contadini con calzature di tiglio, armate di bastoni e di forche, hanno marciato su Tambov al suono delle campane delle chiese del circondario, per essere falciate dalle mitragliatrici.
L’insorgenza di Tambov è durata undici mesi, benché i comunisti, per reprimerla, abbiano usato carri armati, treni blindati, aerei, benché abbiano preso in ostaggio le famiglie dei rivoltosi e benché fossero sul punto di usare gas tossici. Abbiamo avuto anche una resistenza feroce al bolscevismo da parte dei cosacchi dell’Ural, del Don, del Kuban’, di Tersk, soffocata in torrenti di sangue, un autentico genocidio. Vedo con la mente i monumenti che verranno eretti un giorno, in Russia, testimoni della nostra resistenza russa allo scatenamento delle orde comuniste. Abbiamo attraversato il secolo ventesimo, un secolo di terrore dall’inizio alla fine, terribile coronamento del Progresso tanto sognato nel secolo diciottesimo. Oggi, penso, crescerà sempre più il numero dei francesi che capiscono meglio, che valutano meglio, che conservano con fierezza nella loro memoria la resistenza e il sacrificio della Vandea.
(di Aleksandr Solzenicyn)

mercoledì 14 ottobre 2009

La vedova Borsellino ai pm: "Ecco tutti i sospetti di Paolo"

Ha parlato come non aveva fatto mai, dopo diciassette anni. Per dire tutto. Il suo interrogatorio è cominciato così: "Avevo paura, non tanto per me ma avevo paura per i miei figli e poi per i miei nipoti. Adesso però so che è arrivato il momento di riferire anche i particolari più piccoli o apparentemente insignificanti". È la vedova che ricorda gli ultimi due giorni di vita di Paolo Borsellino. È la signora Agnese che spiega ai magistrati di Caltanissetta cosa accadde nelle 48 ore precedenti alla strage di via Mariano D'Amelio.
Il verbale di interrogatorio è di poco più di un mese fa, lei da una parte e i procuratori di Caltanissetta Sergio Lari e Domenico Gozzo dall'altra. Lei si è presentata spontaneamente per raccontare "quando Paolo tornò da Roma il 17 di luglio". Il 17 luglio 1992, due giorni prima dell'autobomba. Paolo Borsellino è a Roma per interrogare il boss Gaspare Mutolo, un mafioso della Piana dei Colli che aveva deciso di pentirsi dopo l'uccisione di Giovanni Falcone. È venerdì pomeriggio, Borsellino lascia il boss e gli dà appuntamento per il lunedì successivo.
Quando atterra a Palermo non passa dal Tribunale ma va subito da sua moglie. "Mi chiese di stare soli, mi pregò di andare a fare una passeggiata sulla spiaggia di Villagrazia di Carini", ricorda la signora Agnese. Per la prima volta in tanti anni il procuratore Borsellino non si fa scortare e si concede una lunga camminata abbracciando la moglie. Non parlava mai con lei del suo lavoro, ma quella volta Paolo Borsellino "aveva voglia di sfogarsi". Racconta ancora la signora Agnese: "Dopo qualche minuto di silenzio, Paolo mi ha detto: 'Sai Agnese, ho appena visto la mafia in faccia...'". Un paio d'ore prima aveva raccolto le confessioni di Gaspare Mutolo. Su magistrati collusi, su superpoliziotti che erano spie, su avvocati e ingegneri e medici e commercialisti che erano al servizio dei padrini di Corleone. Non dice altro Paolo Borsellino. Informa soltanto la moglie che lunedì tornerà a Roma, "per interrogare ancora Mutolo".
Il sabato passa tranquillamente, la domenica mattina - il 19 luglio, il giorno della strage - il telefono di casa Borsellino squilla. È sempre Agnese che ricorda: "Quel giorno, molto presto, mio marito ricevette una telefonata dell'allora procuratore capo di Palermo Pietro Giammanco. Mi disse che lo "autorizzava" a proseguire gli interrogatori con il pentito Mutolo che, per organizzazione interna all'ufficio, dovevano essere gestiti invece dal procuratore aggiunto Vittorio Aliquò".
Lo sa bene Paolo Borsellino che sta per morire. E ai procuratori di Caltanissetta Agnese l'ha ribadito un'altra volta: "Paolo aveva appreso qualche giorno prima che Cosa Nostra voleva ucciderlo".
Un'informazione che arrivava da alcune intercettazioni ambientali "in un carcere dov'erano rinchiusi dei mafiosi". Una minaccia per lui e per altri due magistrati, Gioacchino Natoli e Francesco Lo Voi. Ricorda sempre la vedova: "Così un giorno Paolo chiamò i suoi due colleghi e disse loro di andare via da Palermo, di concedersi una vacanza. Li consigliò anche di andare in giro armati, con una pistola". Gioacchino Natoli e Lo Voi gli danno ascolto, ma lui - Borsellino - rimane a Palermo. Sa che è condannato a morte. E ormai sa anche della "trattativa" che alcuni apparati dello Stato portano avanti con Riina e i suoi Corleonesi. Ufficiali dei carabinieri, quelli dei Ros, il colonnello Mario Mori - "l'anima" dei reparti speciali - e il fidato capitano Giuseppe De Donno. Probabilmente, questa è l'ipotesi dei procuratori di Caltanissetta e di Palermo, Paolo Borsellino muore proprio perché contrario a quella "trattativa".
Nella nuova inchiesta sulle stragi siciliane e sui patti e i ricatti con i Corleonesi, ogni giorno scivolano nuovi nomi. L'ultimo è quello del generale Antonino Subranni, al tempo comandante dei Ros e superiore diretto di Mori. Un testimone ha rivelato ai procuratori di Caltanissetta una battuta di Borsellino: "L'ha fatta a me personalmente qualche giorno prima di essere ammazzato. Mi ha detto: 'Il generale Subranni è punciutu" (cioè uomo di Cosa nostra ndr)...'". Un'affermazione forte ma detta nello stile di Paolo Borsellino, come battuta appunto. Cosa avesse voluto veramente dire il procuratore, lo scopriranno i magistrati di Caltanissetta. La frase è stata comunque messa a verbale. E il verbale è stato secretato. Il nome del generale Subranni è affiorato anche nelle ultime rivelazioni di Massimo Ciancimino, il figlio di don Vito. Nella sua intervista a Sandro Ruotolo per Annozero (però questa parte non è andata in onda ma è stata acquisita dalla procura di Caltanissetta), Massimo Ciancimino sosteneva: "Mio padre per la sua natura corleonese non si è mai fidato dei carabinieri. E quando il colonello Mori e il capitano De Donno cercano di instaurare questo tipo di trattativa, è chiaro che a mio padre viene il dubbio: ma come fanno questi due soggetti che di fatto non sono riusciti nemmeno a fare il mio di processo (quello sugli appalti ndr) a offrire garanzie concrete?...". E conclude Ciancimino: "In un primo momento gli viene detto che c'è il loro referente capo, il generale Subranni...". È un'altra indagine nell'indagine sui misteri delle stragi siciliane.

martedì 13 ottobre 2009

Il '68 e quella interminabile ricreazione

Ma chi sono davvero i sessantottini? Cosa volevano veramente? Proviamo a delineane brevemente alcuni connottati identitari che ne hanno fatto oggi una delle migliori razze al potere.
Il sessantottino nasce a cavallo degli anni cinquanta e trascorre un'infanzia nel periodo del boom economico e nell'epoca del buonismo mondiale, incarnato dal volto buono di John Kennedy, dal comunista dal volto umano di Nikita Chruscev e soprattutto da Giovanni XXIII, il Pontefice buono. Poi la gioventù sotto la cappa della riforma della scuola voluta dal centrosinistra, le melodie dei Beatles e i capelli lunghi: inizia a montare la protesta. Da ragazzo si diventa sessantottino. Dentro e fuori il partito comunista, ma persino contro di esso. Inizia il tirocinio ideologico che muterà in una vera e propria professione.
Ma la generazione si divide tra realisti e utopisti: i primi passano o restano nel partito comunista, i secondi girovagano nell'eclettico pianeta dell'extraparlamentarismo rosso. Si radicalizza il cristianesimo fino ad ibridarlo ad una succursale del socialismo. Nascono i preti operai e barricadieri, l'interpretazione del Vangelo in versione pauperista, le cattedre universitarie assaltate dai contestatori dei baroni per divenire essi stessi baroni-rossi.
Il Sessantotto perviene ad una sovversione della morale, ad una rivoluzione libertaria e “intraborghese” come lucidamente denunciato da Augusto Del Noce e Pierpaolo Pasolini. Si realizza il passaggio da una borghesia nazionale e legata al suo patrimonio religioso cristiano, ad una neo-borghesia apatica, sfrontata e priva di decenza.
Da oppositori feroci della cultura borghese ad adepti e burocrati della medesima. Alla fine degli anni '60 si compie lo smantellamento del Paese. A cominciare dallo Stato, con il rifiuto di ogni concezione selettiva e meritocratica della classe dirigente e parallelamente con la “statalizzazione” dei partiti. Dopo il '68 crescerà senza limiti l'espansione dei partiti nella società, nelle istituzioni e nel parastato. La partitocrazia, insita nel dna della repubblica antifascista, diventa onnicomprensiva e totalizzante. Gli ortodossi dell'utopia sono diventati i più cinici padroni di enti, giornali e cattedre. In definitiva, questo è il Paese dove chi contesta il potere lo detiene.
(di Longinus)

Pansa: sì, è ora di fermarsi. Sento aria di anni Settanta

«Sottoscrivo dalla prima riga all'ultima l'editoriale di Ferruccio de Bortoli, e anche la sua replica a Eugenio Scalfari e Marco Travaglio. È il momento di fermarci. Di stabilire una tregua. Nel Paese, e anche tra i giornali».Perché ne è convinto, Giampaolo Pansa? «Perché l'aria che sento circolare in Italia mi ricorda molto quella dell'inizio degli anni '70. Non dico sia la stessa. Però, come i vecchi cani da caccia, vengo messo in allarme. Perché, essendo abbastanza anziano, rammento quel che ho visto allora».
A cosa si riferisce in particolare?
«Autunno 1970. A Genova nasce una banda rossa, la XXII ottobre, che rapisce Sergio Gadolla, figlio di un imprenditore, per averne un riscatto. Marzo 1971: la stessa banda di Genova uccide un fattorino, Alessandro Floris, nel corso di una rapina. Nel maggio 1972 a Milano, tanto per ricordarlo, viene assassinato il commissario Luigi Calabresi. Nel 1973 le Br, che l'anno prima hanno rapito e fotografato con una pistola alla guancia il capo del personale della Sit Siemens, compiono altri sequestri-lampo e appiccano incendi nelle fabbriche milanesi. Il primo sequestro di lunga durata è del 1974: Mario Sossi resta nel carcere brigatista per un mese. Sempre nel 1974, a Padova, le Br uccidono due persone nella sede del Msi… Sono cose che ho seguito di persona, come cronista della Stampa di Ronchey e del Corriere della Sera di Ottone».
È sicuro di non sentire la suggestione di un passato che ci pare sempre destinato a ripetersi?
«Il vissuto, come ci insegna l'esistenza, ti torna sempre in mente, se non sei portato al black-out, alla rimozione. Tocchi pure ferro. Ma nell'Italia di oggi ritrovo cinque situazioni identiche ad allora. Il Paese è diviso in due blocchi che si odiano, si scomunicano a vicenda, si combattono senza esclusioni di colpi. Vedo in giro molto pregiudizio, cose gridate senza riscontri, condanne morali pronunciate senza autorità. Personalmente mi sono già vaccinato da solo: quando sono usciti i miei libri revisionisti, la sinistra mi ha subito dato del fascista, senza aver nemmeno letto nulla di quello che scrivevo. Ma se allarghiamo le nostre vicende personali, e le collochiamo nel quadro dell'Italia di oggi, è una roba che fa spavento. Senza precedenti negli ultimi quarant'anni, tranne forse il culmine di Tangentopoli».
Quali sono le altre «situazioni identiche» ai primi anni '70?
«L'imperversare dei cattivi maestri. Quelli che intossicano l'aria. Soprattutto quelli di sinistra. Scrivono che Berlusconi è come Mussolini, che la democrazia in Italia sta morendo, che non c'è più la libertà di stampa. Ancora: la ricomparsa dei firmaioli. Si stende un proclama e i cervelloni di sinistra lo firmano o mandano lettere su lettere ai giornali. Se non fosse grottesco, mi incuterebbe un timore. Ce le ricordiamo o no le 800 e più firme in fondo all'appello contro Calabresi "torturatore" di Pinelli? La famosa intellighentia di sinistra troppe volte ha tradito i doveri degli intellettuali: distinguere, non fare confusione, non aizzare le reazioni delle persone più semplici». Oggi sui giornali non ci sono appelli contro commissari di polizia, ma per la libertà di stampa e la dignità delle donne, dopo l'attacco di Berlusconi a Rosy Bindi. «Berlusconi ha fatto male. Guai a prendere in giro una donna. Me l'ha insegnato una volta per sempre mia madre, negli anni '40. Ma come si fa a trasformare una battutaccia scema in un delitto pubblico, da sanzionare con le firme e con le magliette? Un po' di misura ci vuole».
Ma dietro la «battutaccia» c'è la vicenda delle escort a Palazzo Grazioli. E ci sono le querele del premier ai giornali.
«L'ho scritto sia sul Riformista sia su Libero: sono convinto che Berlusconi sia cotto. Di lui non mi frega assolutamente nulla: non l'ho mai votato, non mi piace, nel 1990 ho scritto un libro contro di lui persino troppo duro, "L'intrigo", sulla guerra di Segrate. Credo che Silvio Berlusconi sia arrivato alla fine della corsa, per due volte gli ho consigliato di dimettersi. Penso si sia comportato in modo folle: tutti possono andare con le escort, se hanno soldi e non hanno una signora che li controlli; l'unico che non può farlo è il presidente del Consiglio. Berlusconi è colpevole. Detto questo, dobbiamo fucilarlo? Appenderlo per i piedi, come Mussolini con la Petacci?».
Quali potrebbero essere le conseguenze, secondo lei, qualora la tregua non ci fosse?
«Il ritorno della violenza, anche a sinistra. È accaduto un fatto che mi ha colpito, pure se non ha "bucato" le cronache, che legittimamente si occupano di capire se Berlusconi starà o no in piedi e chi guiderà il disgraziatissimo Pd. Alla fine di settembre è morto per infarto a Torino il magistrato Maurizio Laudi, un galantuomo, che aveva indagato su anarchici ed estremisti rossi. Il giorno dopo sui muri c'erano decine di scritte contro di lui. La Stampa ne ha pubblicato le foto: "Laudi è morto, un boia in meno". Un'oscenità. L'altro giorno a Pistoia c'è stata l'ennesima spedizione punitiva contro Casa Pound, l'associazione di destra, con tanto di scontri con la polizia…».
Ma cosa c'entra la violenza con le polemiche dei giornali?
«Questa è la quinta e ultima analogia tra i primi anni '70 e oggi. È cominciata la guerriglia tra giornali, e va ben oltre il confronto tra opinioni diverse. Un conto è scrivere in modo secco e duro; è anche mia abitudine. Ma se cominciamo a farci la guerra, ad accusarci a vicenda di cose che non abbiamo fatto né scritto, le conseguenze possono essere serie. Ce lo insegna la storia del nostro Paese».