sabato 31 dicembre 2011

Tremaglia e i paradossi del fascista duro e puro

Sì, è morto l’ultimo fascista dichiarato e non pentito che sedeva in Parlamento. Mirko Tremaglia, vecchio leone, fascista indomito, per dirla nel suo linguaggio da combattente e camerata. Espansivo ed estroverso, ricco di umanità, non sembrava ai miei occhi terronici un bergamasco. Di lui molti ammiravano la coerenza e altrettanti deploravano la testardaggine. Ma dietro la fedeltà al Duce, Tremaglia viaggiò molto dal suo fascismo rivoluzionario della gioventù; lasciò le originarie posizioni sociali da fascismo di Salò, Corporativismo&Socializzazione, per sposare un fascismo d’ordine, giustizialista e filoamericano. Fu fascista ma non di quelli crepuscolari o catacombali; sapeva farsi valere anche da missino, intrecciava relazioni politiche e rapporti personali anche con avversari e uomini delle istituzioni. Fu tra i primi sponsor di Di Pietro, Cossiga e Mani pulite. Fu fascista di Salò ma accettò le cure termali di Fiuggi e aderì ad Alleanza Nazionale. Fu fascista repubblicano ma sostenne Israele e i falchi americani. Patì la perdita di suo figlio Marzio ma anche il suo prestigio, che oscurava quello di suo padre. Quella morte prematura lo invecchiò di colpo, e per anni visse nel ricordo di lui, con una teatralità del dolore tipica delle culture siculomediterranee. Ricordo una grandiosa manifestazione a Bergamo, stracolma di gente, in cui parlammo di Marzio, con Fassino, Fini e Cardini. Per lungo tempo lui portò il suo dolore paterno, genuino e plateale, in processione per l’Italia e in ogni occasione.Ricordo un suo pianto anche in una manifestazione al Vittoriano da Ministro per gli italiani all’estero.

Sanguigno e tuonante, incline al fascismo duro e puro e al pianto tenero e sentimentale, la parabola politica ed esistenziale di Tremaglia è segnata da tre paradossi. Fu Irriducibile fascista, militante fedele del fascismo di Salò, del vecchio Msi e poi di An, ma alla fine seguì il becchino di tutti e tre, Fini, aderendo a Futuro e Libertà; lui che era tutto Nostalgia e Autorità. Secondo paradosso: spese una vita per gli italiani all’estero, si prodigò per loro, fondò i comitati tricolore e volle la legge che consentiva il voto ai nostri emigrati; pensava a un trionfo ma la sua lista ottenne un solo seggio su 18 e grazie alla sua legge il governo Prodi ebbe la maggioranza assoluta in Senato. Terzo paradosso: era un fascista d’azione, diffidente verso le elucubrazioni degli intellettuali e il culturame, ma il destino gli giocò uno scherzo feroce e benedetto: suo figlio Marzio tradì il cliché del fascista attivista, fu un raffinato intellettuale prestato alla politica, gran promotore di idee e assessore lombardo alla cultura. Anzi «il miglior assessore alla cultura d’Italia » disse una volta Walter Veltroni, e non lo disse in un elogio funebre, ma quando Marzio era ancora assessore in carica (lo disse anche a me, ricordo, eravamo a Parigi e lui era ministro dei Beni culturali). In fondo, la più grande eredità di Mirko è morta prima di lui: è Marzio, suo figlio, politico colto e illuminato.

I saluti romani sono fuori luogo, fuori tempo e fuori legge ma consentite almeno l’estremo saluto romano per i fascisti morenti, unito al congedo che lui avrebbe voluto: camerata Mirko Tremaglia presente.

(di Marcello Veneziani)

mercoledì 28 dicembre 2011

Presepe gay, Blondet: l’attacco ai valori cristiani prolungherà la crisi


Anche il centro sociale Paci Paciana, tra i più noti di Bergamo, per Natale ha realizzato, come da tradizione, il classico Presepe. Il bue, l’asinello, Gesù Bambino, San Giuseppe e un altro San Giuseppe. In effetti, di classico, non ha niente. Ma, convinti che i cattolici e la Chiesa debbano adeguarsi ai tempi, han pensato bene di adeguarvi, nel frattempo, la Sacra Famiglia. E hanno realizzato un presepe gay.

«Mi pare un bersaglio molto facile. E’ semplice e un po’ meschino colpire in questo modo elementi del cristianesimo, ritenuti, da chi pratica queste iniziative, semplici credenze, come la verginità di Maria», commenta, raggiunto da ilSussidiario.net, Maurizio Blondet. Sta di fatto che la messa in scena farà parecchio discutere. Quanto meno per il fatto che, avvalendosi di un facile paravento come la lotta alla discriminazione sessuale, si è offeso il sentimento religioso di molti senza che ce ne fosse alcun motivo.

Secondo Blondet, «chi mette in atto simili aggressioni culturali non si rende conto che sta segando l’albero in cima al quale si trova. Queste “credenze” che durano da 2000 anni hanno determinato gran parte di quanto nella società vi è di buono». Qualche esempio chiarisce meglio il ragionamento: «un tempo, anche nelle famiglie che si professavano non cristiane, atee, o comuniste, si viveva, più o meno consapevolmente, secondo valori e virtù originate dal cristianesimo: lo spirito di sacrificio, l’idea di lavorare per i propri figli e non per sé stessi o la consapevolezza che l’egoismo fosse una colpa. Tutto ciò, oggi, sta scomparendo».

Il fenomeno appare ancora più controverso, se lo si legge alla luce della crisi che le famiglie stanno vivendo; e considerando il fatto che ne è l’origine: «La finanza speculativa –dice Blondet -, se questo orizzonte valoriale non si stesse sempre più riducendo, non potrebbe neanche esistere. La finanza, infatti, oggi, è una pratica a bilancio zero: se qualcuno guadagna, è perché qualcun altro ha perso. Si è dissolto il concetto in virtù del quale la natura buona dell’arricchirsi consiste nel generare ricchezza anche per gli altri. Un tempo, del resto, il ricco ci teneva a far sapere che era diventato tale con il sudore della sua fronte».

Oggi, invece, sembra quasi che «la massima di Gordon Gekko, nel film Wall Street, secondo cui l’avidità è bene, sia stata assunta anche nella realtà. Un modo di pensare che fino a pochi anni fa sarebbe stato ritenuto semplicemente vergognoso». Resta una nota positiva: «In questo Natale, un po’ più povero per tutti, il tepore delle famiglie che, per un giorno, tornano insieme, ha rappresentato, come in tutti i Natali, il segno che alcune consapevolezze non sono venute ancora meno del tutto, anche tra i non credenti».

(fonte: www.ilsussidiario.net)

Iraq, l'ultimo capitolo del fallimento della politica estera Usa


Quatti quatti, nottetempo, di nascosto, gli ultimi soldati americani sono venuti via dall’Iraq lasciando dietro di sè la più lunga scia di sangue da quando, nel 1990, crollato il contraltare sovietico e avendo quindi mano libera, gli Stati Uniti hanno inanellato, in soli ventanni, sette guerre, Golfo, Somalia, Bosnia, Serbia, Afghanistan, Libia e, appunto, Iraq dove i morti iracheni sono stati calcolati fra i 650 e i 750 mila, infinitamente di più di quanti ne abbia fatti Saddam Hussein in trent’anni di dittatura, a cui vanno aggiunti 4500 caduti Usa. Ma i risultati politici e geopolitici riescono ad essere ancora più devastanti di questa mattanza.

1) Si è facilmente scoperto che la giustificazione con cui gli americani, senza aver avuto alcun avallo Onu, avevano attaccato l’Iraq (il possesso da parte di Saddam di "armi di distruzione di massa") era falsa. Il rais di Baghdad quelle armi non le aveva. O, per essere più precisi, non le aveva più. Gli erano state fornite, a suo tempo, dagli stessi americani, dai francesi, dall’Urss, in funzione anticurda e antiraniana ma le aveva esaurite usandole sugli uni (Halabya) e sugli altri.

2) Saddam era un dittatore sanguinario ma era riuscito, bene o male, a tenere insieme tre comunità tra loro profondamente ostili, curdi, sunniti e sciiti, riunite in un unico Stato per una cervellotica decisione degli inglesi nel 1930. Scomparso Saddam fra sunniti e sciti (un tempo tenuti sotto il tallone di ferro del rais) è scoppiata una feroce guerra civile che dura tutt’ora e che prenderà ulteriore vigore con l’uscita di scena degli americani. Non per nulla nell’agosto del 2010 gli abitanti di Falluja, città sunnita che più si era battuta contro gli invasori, si dicevano terrorizzati al pensiero che gli Usa avrebbero lasciato l’Iraq, ben sapendo che sarebbero stati alla mercè della maggioranza sciita.

3) Da quando nel 1974, la rivoluzione khomeinista rovesciò lo Scià di Persia, loro alleato, tutta la politica americana è stata antiraniana. Per questo quando nel 1985 i soldati di Khomeini erano davanti a Bassora e stavano per prenderla (il che avrebbe comportato l’immediata caduta di Saddam, la riunione dell’Iraq sciita con l’Iran, perché si tratta della stessa gente, dal punto di vista antropologico, culturale e religioso, oltre che la sacrosanta indipendenza dei curdi iracheni) gli americani intervennero, per "motivi umanitari" a favore del dittatore di Bagdad rimpinzandolo di ogni genere di armi comprese quelle "chimiche" che poi, nel 2003, sarebbero servite da pretesto per l’aggressione all’Iraq.

Oggi con la pseudodemocrazia instaurata in Iraq, gli sciiti iracheni, che rappresentano il 62% della popolazione, sono di fatto padroni di gran parte del paese e rispondono ai loro confratelli iraniani. Così quello che gli americani avevano negato all’Iran nel 1985, scippando loro la vittoria sul campo di battaglia, che era costata a Teheran centinaia di migliaia di morti, glielo hanno regalato 25 anni dopo senza che Teheran abbia dovuto sparare un solo colpo di fucile.

4) Restano i curdi. Finora se ne sono stati tranquilli perché la scomparsa di Saddam ha dato loro, di fatto, un’autonomia che somiglia molto a quell’indipendenza che hanno sempre sognato. Ma se l’indipendentismo curdo-iracheno dovesse contagiare quello in Turchia dove vivono 12 milioni di curdi allora salterebbe tutta la strategia americana costruita in questa regione, comprese le guerre in Bosnia e alla Serbia, europea e ortodossa, in funzione di un cunei nei Balcani di musulmanesimo moderato (Albania più Bosnia, più Kosovo) in favore del loro essenziale alleato turco.

(di Massimo Fini)

martedì 27 dicembre 2011

Il genotipo antifascista della generazione Bocca


Molte cose si possono rimproverare al fascismo, ma certamente non d’aver trascurato la salute del suo vivaio in tuta da ginnastica. Prima di sputare l’anima, Giorgio Bocca ha scavallato con lucida ostinazione i novant’anni. E come lui ce n’è una turba, di intellettuali coi fiocchi o politici di lunghissimo corso il cui nero destino di morte li coglierà idealmente in piedi, forse sull’attenti, in omaggio alla loro classe d’età. Non alle idee o alle esperienze della giovinezza: questo è evidente, ma in fondo può essere marginale.

Di rado è concesso a qualcuno di esprimersi a nome di una generazione senza risultare ridicolo – troppo nostalgico se già canuto o troppo ambizioso se ancora in fiore. Ma a differenza delle generazioni pulviscolari del Dopoguerra, Bocca e i suoi (più o meno) contemporanei hanno invece questo, dalla loro parte: ci appaiono come una comunità di destino anche laddove la sorte li abbia messi gli uni contro gli altri. Bastardi o leali che fossero, partigiani, fascisti, badogliani o semplici figli di puttana, li diresti comunque fratelli di latte, figli di un Io collettivo, progenie di un genotipo che negli anni ha perso consistenza. (Lo si dirà sempre meno sottovoce, fino al giorno in cui saranno tutti altrettanti sepolcri e finalmente la storia si prenderà in dolce custodia la memoria delle nostre viscere sanguinolente).

Capita, scorrendo alcune foto seppiate scattate all’inizio del secolo scorso, d’individuare negli avi nostri certi volti, certe espressioni e profondità di sguardi e di vita interiore ormai stranieri alla contemporaneità. Quasi anime mai più incarnate. Anche anime porche, anime ubriache, anime nere, naturalmente. Ma vive. Ma accese. Ecco, quelle persone – osiamo, osiamo – erano o sono come Giorgio Bocca. Magari gente che quando ha scelto l’antifascismo lo ha fatto spesso perché il fascismo non sembrava fare abbastanza sul serio; e quando ha dato di fascisti leggendari ai brigatisti rossi lo ha fatto per manifesta incomprensione della propria obsolescenza narrativa.

Nel caso di Bocca è giusto riconoscere una durevole capacità di leggere il suo presente, in modo fazioso e a volte strafottente, ma sempre tonico, atletico e infine anche recriminatorio. Con il procedere dell’età, i coetanei di Bocca hanno variamente riconosciuto la dismisura che corre tra la forza formatrice ricevuta in gioventù e la feroce indifferenza riscontrata nei loro nipoti, hanno conosciuto il rimpianto di un lessico famigliare. Si sono sparati addosso, hanno praticato il brigantaggio e il rastrellamento, a volte hanno sbagliato patria: la Germania o l’Unione sovietica al posto dell’Italia risorgimentale, il cui sogno di radiosa compiutezza è stato identico nel cuore fascista di Ezio Garibaldi come in quello di suo fratello Sante, esule in Francia. Possibile riconoscere questa verità, e libare agli eroi e ai dannati senza sentirsi traditori del proprio lignaggio? Non ancora.

(di Alessandro Giuli)

Un odiatore tribale e razzista dei meridionali


Razzista. Non nel senso del ragioniere che se ne va ad ammazzare senegalesi. Ma razzista con l’idea che quelli del sud – e i siciliani in particolare – fossero gente non evoluta, non emancipata, non civile, insomma, gens inferiore rispetto al nord, in questo senso, sì. Lo era.

Giorgio Bocca – buonanima – aveva un’idea precisa dell’Italia e riteneva che “l’Inferno”, ovvero quella categoria dello spirito che fece da Ur-Gomorra a Roberto Saviano, fosse, appunto, il “cimiciaio” di un vasto sud abitato da belve meridionali. Se ne andava in giro per Palermo e se ne ritraeva come se fosse nella plaga flatulenta di un’umanità sciancata.

Antonio Di Grado, presidente della Fondazione Sciascia, giustamente non se lo può scordare di quella volta quando Bocca, inviato in Sicilia, raccontò di un Leonardo Sciascia in abito bianco, con la paglietta da avvocaticchio, immerso in ragionamenti mafiosi. Ancora oggi nessuno, neppure tra i più devoti innamorati di Bocca, può credere ad una scena simile. Non è possibile che Gian Antonio Stella creda a tutto ciò, né Ezio Mauro che lo ha eletto a bussola. Forse tanti lettori avranno creduto a quel racconto, ma chi è del mestiere sa quanto fosse scivoloso il patto del cronista con la verità. E quello di Bocca è stato un negoziato marchiato dal pregiudizio. Razzista, certo. Bocca viaggiava in Italia e cercava solo ciò che voleva trovare. E fu così che s’inventò uno Sciascia con la coppola. Se solo avesse avuto la convenienza – polemica, per carità – perfino di Saviano avrebbe fatto un camorrista. E non ha avuto tema di consegnare in una delle sue ultime interviste, edite in un video Feltrinelli (“La Neve e il fuoco” di Maria Pace Ottieri e Luca Masella), una sequela di luoghi comuni sul sud degne delle sagre padane, giusto quelle tribù nelle cui vallate avrebbe saputo attingere umori, spurghi e bestemmie. E pubblico.

Seguì la prima Lega, lavorò per Silvio Berlusconi e il nord è stato la sua platea ideale, un nord speciale dove abitava il “ceto medio riflessivo”, “il girotondo” e “il cattolico adulto”. Era quel mondo tutto sbrigativo e rapace della sinistra conformista, un mondo addolcito dalla convinzione di stare dalla parte giusta ma pur sempre duro nel giudicare quell’umanità lazzarona da redimere a colpi di manette, di tasse e di Costituzione.

Razzista, Bocca, lo fu non perché si ritrovò ad essere fascista in gioventù ma per quell’azionismo dell’età matura che lo teneva avvinto all’idea di aggiustare l’umanità malata degli italiani.
Non ebbe la possibilità di fare il salto nel vuoto e ritrovarsi – come Oriana Fallaci, da lui ribattezzata con stizza e genio “Oliala” – tra gli applausi della peggiore destra. Razzismo per razzismo avrebbe potuto uscirsene anche lui con la difesa dell’occidente. Sarebbe bastato sostituire la parola “meridionali” con “musulmani”. Tutto qua.

(di Pietrangelo Buttafuoco)

Ci serve autorità per essere liberi


E se il deficit maggiore nella società del nostro tempo fosse l’Autorità? Impronunciabile parola ormai da troppi decenni, ci assoggettiamo senza critiche solo ai comandi impersonali del mercato, della Borsa, della tecnica, del progresso.

O accettiamo poteri e strapoteri in loro servizio, ma guai a sentir parlare di autorità. L’autorità sconta un discredito stagionato. Nel dopoguerra perché odorava ancora di fascismo e di antidemocrazia. Nel ’68 perché era la bestia nera della liberazione giovanile, femminile, proletaria. Nei socialismi, sovietici e liberali, perché considerata da ambedue nemica giurata dell’egualitarismo. Nelle società liberali e permissive perché vista come l’antagonista funesto della libertà. La principale carenza dei governi Berlusconi non è stata certo la deriva autoritaria, come spesso si è ripetuto, ma al contrario, l’assenza di un principio di autorità e di autorevolezza, la ricerca di compiacere gli italiani, di allentare le regole e di assecondarli, rinunciando a priori a ogni tentativo di correlare educazione e libertà.

Se la modernità sorge sulla fratellanza, l’uguaglianza e la libertà, l’autorità fu ritenuta uno sfregio a tutte e tre; perché l’autorità non è fraterna, semmai paterna, o al limite materna; non indica uguaglianza, semmai promuove differenza e gerarchia; e non è considerata amica della libertà, ma il suo inevitabile rovescio. Oppressiva in pubblico, repressiva in privato, l’autorità è stata l’innominabile belva della nostra epoca.

Per riammettere una sua vaga parente, si è preferito ribattezzarla in Italia col più rassicurante termine di authority, anglosassone e americano, tollerata perché «di servizio», a tutela delle regole. O dissimulata nell’invocazione diffusa della leadership. E invece l’autorità ci manca, eccome se ci manca.

È uscito di recente un saggio di Alexandre Kojève, La nozione di autorità (Adelphi, pagg. 143, euro 29) che risale al 1942 ma che fu pubblicato postumo pochi anni fa - il filosofo morì nel 1968 - e ora tradotto in Italia. Un saggio scritto all’ombra di Vichy, con un’appendice che riguarda il regime di Pétain, con curiosi riconoscimenti al Maresciallo collaborazionista, provenienti da uno che lottò contro l’occupazione nazista. Proprio nei mesi precedenti, Kojève indirizzava a Stalin un altro suo saggio filosofico. Incroci pericolosi. Kojève classifica quattro tipi originari di autorità - del Padre, del Signore sul servo, del Capo e del Giudice - e ad essi fa risalire tutte le forme di autorità. In realtà altre fonti di autorità ci sembrano irriducibili a quelle indicate dal filosofo russo: l’autorità fondata sul carisma spirituale -religioso o sul ruolo di pontifex, l’autorità fondata sulla sapienza e sul ruolo di magister, e l’autorità fondata sull’opera o l’impresa e sul ruolo di artifex. Autorità di derivazione diversa. Kojève distingue tra l’autorità trasmessa per nomina, per elezione e per eredità. L’autorità può discendere anche dal divino: per Kojève «è divino tutto ciò che può agire su di me senza che io abbia la possibilità di reagire nei suoi confronti». Originale e dinamica la sua idea di autorità, perché per lui l’autorità non garantisce la stabilità e lo status quo, come diffusamente si ritiene, ma il mutamento e il movimento: «l’autorità appartiene a chi opera il cambiamento». Emerge qualche assonanza col decisionismo di Schmitt: «Sovrano è colui che decide in stato di eccezione». Un’idea dell’autorità dopo la modernità, che non riposa sul sacro e immobile universo degli enti eterni e immutabili.

L’autorità è un bisogno vitale di ogni società, non solo per garantire l’ordine e la tradizione, ma anche per governare il cambiamento e cavalcare la tigre della trasformazione. Quando manca una norma e una tradizione a cui attenersi, là insorge il bisogno di un’autorità che colmi quel deficit con la sua autorevolezza.

L’autorità è un onere prima di essere un onore, è una responsabilità e non un privilegio. Solitamente è un argine contro gli abusi, le violenze e le ingiustizie; solo degenerando diventa essa stessa abuso, violenza e ingiustizia. Allora sorge l’autoritarismo, dove il rapporto costitutivo dell’autorità si capovolge: non è l’autorevolezza a decretare il potere, ma il potere a decretare l’autorevolezza. La superiorità, da causa diventa effetto. Ma il potere senza autorità è abuso, la forza senza autorità è prevaricazione, il comando senza autorità è sopraffazione. Perché l’autorità è una legittimazione sul campo, fondata sul merito e il talento, la cultura e la capacità, la competenza e l’esperienza, e nei livelli più alti il carisma e la sapienza. Non è un bisogno di chi la esercita, ma di chi la segue.

Quando diciamo che mancano le guide o gli educatori, i modelli e i punti di riferimento, le classi dirigenti o le vere élite, parafrasiamo il bisogno di autorità. Urge l’auctor, in ogni campo. Visibile, credibile, affidabile. È l’autorità che distingue una classe dirigente da una classe dominante, per usare due categorie gramsciane. Ma l’autorità è pure ciò che distingue un leader da un esecutore (oggi diremmo un tecnico). Perché il tecnico è esperto di mezzi, autorità è invece chi sa commisurare i mezzi ai fini. Tecnologico uno, teleologica l’altra.

L’autorità garantisce la libertà, sorveglia i propri confini che le permettono di esprimersi e fluire, senzadisperdersi, esondare o capovolgersi nel suo contrario. La libertà ha bisogno dell’autorità e viceversa. La negazione dell’una o dell’altra o la coincidenza dell’una nell’altra segna la fine di una civiltà. E tutti coloro che le hanno teorizzate, se non si sono perduti in forme utopiche o anarchiche, hanno promosso, avallato o abbracciato soluzioni dispotiche e liberticide.

Oggi tutti parlano della libertà, ma chi osa evocare l’autorità e ricercarne gli uomini, i segni e i ruoli? Che sia questo il compito di questi anni e, in Italia, di questa delicata fase di transizione cieca? Facile l’obiezione:chi sono, dove sono, le forme e le élite in grado di incarnare l’autorità? Certo che non si vedono, ma intanto aprite le porte, intanto cercate, scrutate, riconoscete...

(di Marcello Veneziani)

lunedì 26 dicembre 2011

Come salvare l’Europa (non l’euro) col realismo della scolastica


La principale preoccupazione del governo Monti sembra oggi quella di “salvare l’euro”, nella convinzione che dalla salute della moneta unica dipenda il benessere economico dell’Italia e dell’Europa. Il problema che l’Italia e l’Europa avrebbero di fronte sarebbe monetario e lo strumento per risolverlo di natura fiscale.

La leva del cambio e la leva fiscale sono infatti i due strumenti principali delle manovre economiche dei governi. E poiché la leva del cambio è stata sottratta ai paesi che hanno adottato l’euro, a essi non resta che la leva fiscale, in attesa che anche questa venga trasferita a Bruxelles. Il passaggio finale dall’Euromoneta all’Eurotassazione scaturisce peraltro dal ruolo attribuito alla Banca centrale europea dal Trattato di Maastricht, di cui Mario Monti fu acceso fautore.

La riflessione sul ruolo della moneta e delle banche che ne detengono l’uso e la produzione si impone dunque per meglio comprendere il processo di costruzione europea. A chi volesse approfondire il tema, consiglio la lettura del libro del professore Jörg Guido Hülsmann, “L’etica della produzione di moneta” (Solfanelli, Chieti 2011). L’autore è un brillante esponente della scuola austriaca di economia, una corrente, fondata da Carl Menger (1840-1921), che nel suo sviluppo incontra il realismo della tradizione scolastica.

Autori come Ludwig von Mises (1881-1973) e Murray N. Rothbard (1926-1995), che non partono da presupposti teorici, ma da una analisi pratica della circolazione monetaria, confermano le tesi già esposte dal primo trattato scientifico sulla moneta, il “Tractatus de origine, natura, iure et mutationibus monetarum” del vescovo francese Nicolas Oresme (1323-1382). Gli scolastici come Oresme non misero in discussione la legittimità della produzione della moneta in sé, ma affermarono che, come nel caso del suo uso, questa produzione deve rispettare alcune regole etiche.

Quanto oggi sta accadendo è la conseguenza della separazione tra etica ed economia, che si è accompagnata, nell’età moderna, a una altrettanto netta dissociazione tra la politica e la morale. Limitiamoci ad alcune considerazioni storiche. La moneta nasce come il mezzo di scambio più idoneo a sostituire il baratto, inteso come scambio di merce contro merce.

Il mezzo di scambio è anch’esso una merce, che però, per venire spontaneamente adottata, deve avere alcune specificità: essere facilmente utilizzabile ed essere desiderata, oltre che per la facilità di uso, per quanto vale in se stessa, indipendentemente dal suo potere di scambio. Fu questo il caso, in tutte le civiltà, di alcuni metalli, come l’oro, l’argento o il rame, che proprio per queste caratteristiche possiamo definire “monete naturali”.

Nella maggior parte delle epoche e dei luoghi della storia d’Europa, le monete d’argento erano quelle più diffuse per i pagamenti quotidiani, mentre le monete d’oro si usavano per i pagamenti più importanti e quelle di rame per transazioni di minor valore. Nel XVII secolo, con l’istituzione della Banca di Amsterdam (1609) e della Banca di Inghilterra (1694), nasce il sistema bancario, fondato sulla cartamoneta e garantito dallo stato. La Banca di Amsterdam cominciò a emettere note di carta, le quali certificavano che il possessore era proprietario legale di una data quantità di argento depositatonei forzieri della Banca.

Queste banconote si potevano cambiare in qualsiasi momento in argento agli sportelli della banca, dietro una semplice domanda del portatore della nota cartacea. Tuttavia, per motivi di comodità, la gente preferiva fare i suoi acquisti con le banconote, che certificavano il possesso della somma d’argento custodita dalla banca. Gli istituti di credito, a questo punto, iniziarono a mettere in circolazione una massa di cartamoneta molto superiore alla riserva aurea o argentea conservata nei loro forzieri, chiedendo agli stati sovrani di assicurare valore legale a questa cartamoneta.

Nacque il modello di banca “a riserva frazionaria”, in cui gli stati assicurano protezione legale alle banche, mentre queste ultime emettono mometa secondo le direttive economiche dei governi. La riserva frazionaria, su cui si regge il sistema bancario moderno, è la percentuale dei depositi bancari che la banca è tenuta a detenere per legge, un tempo sotto forma aurea, oggi di contanti o di attività facilmente liquidabili.

Questa riserva obbligatoria che all’inizio era di circa il 20 per cento si è progressivamente ridotta a meno del 2 per cento, per consentire, a vantaggio delle banche, l’espansione del credito, pur senza una basereale sottostante. Il premio Nobel per l’economia Maurice Allais (1911-2010) ne ha spiegato bene i meccanismi. La riserva frazionaria costituisce un formidabile strumento di politica monetaria, come i tassi di interesse, e soprattutto arricchisce enormemente chi produce e presta moneta.

Hülsmann spiega come le istituzioni monetarie moderne non sono venute alla luce per necessità economica, in maniera spontanea e fisiologica, ma perché consentono a una lobby di politici e banchieri di perseguire i propri fini politici e arricchirsi a spese di tutti gli altri stati sociali. Questo spiega la fortuna dei sistemi di cartamoneta che attualmente dominano la scena in tutti i paesi del mondo.

Pretendere di spiegare la storia degli ultimi due secoli in termini puramente finanziari sarebbe tuttavia riduttivo: bisognerebbe inserire questo processo in un più ampio quadro, collegandolo alla fondazione della Gran Loggia di Londra, nel 1717, e, negli stessi anni, allo sviluppo della filosofia deistica inglese. Qui ci basta sottolineare come nel corso del XVIII e del XIX secolo, dopo l’Inghilterra, anche in altri paesi, come la Francia e la Germania, l’evoluzione del sistema monetario seguì strade simili: monopolio dell’oro, banche a riserva frazionata a servizio delle finanze statali, corso legale delle banconote, mentre i banchieri prosperavano sotto la tutela dello stato.

Per rafforzare il sistema, il cancelliere tedesco Bismarck alla fine del XIX secolo aprì le porte al sistema monetario conosciuto come gold standard, che prevedeva la convertibilità delle monete in oro, considerato come il fondamento del sistema economico. La scelta dell’oro come moneta standard negli scambi internazionali era dovuta agli stati nazionali, le cui Banche centrali in oro detenevano interamente le proprie.

Dopo la Grande guerra si ebbe il gold exchange standard, un sistema che riduceva a due sole banche, la Fed americana e la Banca di Inghilterra, il ruolo di banche mondiali. Tutte le valute nazionali erano essenzialmente certificati a riserva frazionaria coperti dall’oro, attraverso il dollaro americano. Anche il sistema progettato nel 1944 a Bretton Woods, dopo la seconda guerra mondiale, era un gold exchange standard, basato su rapporti di cambio fissi trale valute, tutte riferite al dollaro, il quale a sua volta era agganciato all’oro.

Si arrivò però alla creazione di un solo forziere centrale, la Fed statunitense, unica banca in grado di convertire le proprie banconote in oro. Per consentire una certa partecipazione degli stati alla direzione dell’ordine economico mondiale furono create due burocrazie internazionali sopravissute fino a oggi: la Banca mondiale e il Fondo monetario Internazionale (Fmi).

Il sistema di Bretton Woods crollò, nel 1971, quando la Fed rifiutò, per il futuro, di convertire in oro i dollari detenuti dalle altre Banche centrali. Gli stati nazionali, liberi da ogni vincolo, iniziarono a emettere ad libitum cartamoneta, producendo inflazione e accumulando debito pubblico. L’abbandono del sistema di Bretton Woods permetteva infatti di creare ex nihilo qualsiasi somma di danaro, senza limiti etici o economici, sulla sola base del credito concesso ai governi dalle Banche centrali, produttrici nazionali di cartamoneta. Di fronte all’esplosione dell’indebitamento, banchieri e uomini politici decisero di creare un nuovo sistema monetario.

Si arrivò così al Trattato di Maastricht (1992), che prevedeva l’introduzione di una moneta unica europea, la creazione di un Sistema di banche centrali (Sebc) e l’istituzione di una banca centrale europea (Bce), come unica istituzione capace di autorizzare l’emissione di banconote e stabilire la loro quantità. Nel 1997, un anno prima dell’introduzione dell’euro, fu stipulato tra i paesi della Ue il Patto di stabilità e crescita (Psc), detto anche Trattato di Amsterdam, con l’obiettivo di limitare, attraverso l’imposizione di sanzioni, il disavanzo pubblico degli stati.

Contestato, nel 2003, da Germania e Francia, gli stessi paesi che oggi ne reclamano il rispetto, il Patto di stabilità non ha mai funzionato, perché il problema non è l’indebitamento, ma è la moneta. L’euro, gestito dalla Bce, pur non essendo la moneta sovrana di nessuno stato nazionale, si regge solo perché gode il privilegio di una speciale protezione legale da parte di tutti. La soluzione, secondo la scuola austriaca, sta nel ritorno, non alle banconote nazionali, ma alla moneta reale, in Europa e negli stati nazionali. Una società libera e rispettosa della proprietà privata dovrebbe accogliere una molteplicità di monete naturali lasciando alle persone la scelta del migliore mezzo di scambio tra le alternative possibili.

La cartamoneta non potrebbe reggere la concorrenza delle monete naturali, ricche di un valore intrinseco, cioè capace di essere sempre rimonetizzate. “Non occorre cambiare gli strumenti quali le banconote, la cartamoneta e l’organizzazione delle banche centrali – scrive Hülsmann – ma le norme legali sotto cui operano le Banche centrali e sotto cui si produce la cartamoneta. Occorre abolire i privilegi legali delle Banche centrali e delle autorità monetarie”.

Il problema è in realtà più vasto perché non basta abolire i privilegi legali, se non si mutano i princìpi di fondo della società moderna, che ha sostituito il primato della metafisica e della morale con quello abnorme dell’economia. Non si tratta di utopia, ma di un ritorno al reale: quel reale che deve essere ritrovato su tutti i piani e a tutti i livelli, dall’economia alla politica, dall’arte alla filosofia. Gli utopisti definiscono utopia tutto ciò che si discosta dai loro sogni deformi. Ma al di fuori del reale c’è solo la follia autodistruttiva di chi oggi guida l’Europa.

(di Roberto de Mattei)

Il pensiero antisemita di Giorgio Bocca


Sono i «Protocolli dei Savi anziani di Sion» un documento dell’internazionale ebraica contenente i piani attraverso a cui il popolo Ebreo intende giungere al dominio del mondo. La logica costruzione del testo trae ragione e causa da un esame critico e profondo della realtà del mondo e della natura umana. Non vi sono perciò ragionamenti aprioristici ed astratti, ma solo studio, critica, deduzione e, come ultimo risultato, la proposizione.

Il povero «gojm» o «gentile» così il testo chiama i non Ebrei, leggendo quei «Protocolli» rimane al tempo stesso stupito ed atterrito. Anche se è in grado di sceverare da ciò che ha effettivo valore tutto quello che può essere enfasi ieratica o presunzione propria di chi si crede prediletto da Dio, il lettore ariano rimane impressionato dinanzi ad un’opera così macchinosa e gigantesca, così ammalata di criminalità con tanta tenacia e spaventosa perseveranza condotta attraverso ai secoli da esseri che si sono sempre tenuti nell’ombra ed al riparo di propizi paraventi.

Il testo, dopo aver enunciato il principio che diritto è uguale a forza, descrive i mezzi ed indica i risultati a cui il popolo Ebreo è già arrivato e quali mete dovrà ancora raggiungere per possedere il monopolio della forza, cioè del diritto, cioè del dominio del mondo.

In questo intento il popolo eletto, sparsosi per volontà di Dio in tutte le parti del mondo, ha lottato e lavorato per allontanare i «gentili» sempre più da una visione realistica della vita, per gettarli in braccia all’utopia, per indebolire la forza dei loro governi e per carpire nel frattempo le loro sostanze per mezzo della speculazione. Lungo tempo è durata la preparazione consistente nella formazione di un reticolo capillare, unito negli intenti e potente nella finanza; quindi ha avuto inizio l’opera di dissolvimento.

I primi ostacoli da abbattere erano le due forze dell’aristocrazia e del clero. Gli ebrei preparano la rivoluzione francese; l’aristocrazia cade nelle loro mani per mezzo del denaro, il clero viene combattuto e discreditato per mezzo della critica e della stampa. Il malgoverno da essi prodotto stanca e disgusta il popolo. Gli ebrei lanciano allora il grido: «Libertà, eguaglianza, fratellanza». La massa illusa e piena di speranza abbatte le solide istituzioni e prepara il campo a quelle forme di governo liberali e democratiche in cui gli ebrei, padroni dell’oro, divengono i dominatori.

Dice il testo: «Abbiamo trasformato i loro governi in arene dove si combattono le guerre di partito» e più oltre «l’abuso di potere da parte dei singoli farà crollare tutte le istituzioni». Un gran passo è già stato fatto, ma altre forze sono ancora da abbattere: la famiglia e la religione. Menti ebraiche preparano allora e confezionano per i veramente ingenui «gentili» un’altra più affascinante utopia: il collettivismo. Cervelli ebraici dirigono la rivoluzione bolscevica, banchieri ebraici la finanziano.

Dice il testo: «Lasceremo che cavalchino il corsiero delle vane speranze di poter distruggere l’individualità umana». Quando non esisteranno più nerbi di forza che si possano opporre, quando i popoli saranno esasperati dal fallimento di queste teorie e delle forme di governo che ne sono la conseguenza, allora, con la forza del denaro, gli ebrei imporranno la loro autocrazia, solida, forte e decisa, unita nella persona del monarca del sangue di Davide, imperniata sulla divisione gerarchica delle caste.

Non tutti i «gentili» – per sfortuna degli ebrei – sono stati però degli «ingenui» o «zucche vuote» come essi amano chiamarli.

Anche essi, o almeno una parte di essi ha saputo guardare il viso non amabile forse, ma pur tuttavia immutabile, della realtà. Un colpo tremendo deve aver subito il cuore ebreo nel vedere sorgere un movimento, quale quello fascista che denunciava la inconsistenza pratica della parola libertà nel campo politico dove gli uomini sono in tal modo costrutti da trasformare la libertà loro accordata in anarchia. Una rabbia immensa deve aver riempito il cuore degli anziani di Sion, nel sentire dei non ebrei dire che il comunismo è un’utopia irraggiungibile e che le sue applicazioni pratiche sono costruzioni meccaniche e crudeli dove milioni di schiavi lavorano per una minoranza di dirigenti (ebrei).

L’odio di chi vede svelati i suoi piani è enorme, l’odio di chi vede rovinati i propri piani è tremendo. Questo odio degli ebrei contro il fascismo è la causa prima della guerra attuale. La vittoria degli avversari solo in apparenza, infatti, sarebbe una vittoria degli anglosassoni e della Russia; in realtà sarebbe una vittoria degli ebrei.

A quale ariano, fascista o non fascista, può sorridere l’idea di dovere in un tempo non lontano essere lo schiavo degli ebrei? È certo una buona arma di propaganda presentare gli ebrei come un popolo di esseri ripugnanti o di avari strozzini, ma alle persone intelligenti è sufficiente presentarli come un popolo intelligente, astuto, tenace, deciso a giungere, con qualunque mezzo, al dominio del mondo.

Sarà chiara a tutti, anche se ormai i non convinti sono pochi, la necessità ineluttabile di questa guerra, intesa come una ribellione dell’Europa ariana al tentativo ebraico di porla in stato di schiavitù”.

(di Giorgio Bocca, La Provincia granda – Sentinella d’Italia, Foglio d’ordini settimanale della Federazione dei Fasci di Combattimento di Cuneo, il 14 agosto 1942).

BUON NATALE

mercoledì 21 dicembre 2011

Scrive la prefazione al killer di Firenze: per Lerner è criminale


L’ombra lunga dei famigerati Protocolli dei Savi di Sion e del fantomatico complotto giudaico-massonico che mira al governo occulto del mondo, si proietta da oltre un secolo sull’antisemitismo europeo, estendendosi sino a oggi. E alimentando a sua volta cospirazioni, forme di razzismo intellettuale e processi ideologici.

È il caso di Gianfranco de Turris, intellettuale che non ha mai negato la propria appartenenza all’area della destra culturale e ora accusato di «connivenza» con Gianluca Casseri, l’autore della strage xenofoba di Firenze del 13 dicembre scorso.

De Turris, giornalista Rai e collaboratore del Giornale, presidente della Fondazione «Julius Evola» e tra i massimi esperti italiani di letteratura fantastica, è da giorni al centro di una violenta polemica per aver firmato la prefazione di due libri di Casseri: il romanzo magico-esoterico La chiave del caos (scritto in coppia con Enrico Rulli) e soprattutto il pamphlet I Protocolli del Savio di Alessandra, pubblicato dal killer di Firenze pochi mesi fa per Solfanelli, in cui si smonta il recente romanzo di Umberto Eco, Il cimitero di Praga, che ruota proprio attorno alla fabbricazione del falso documento antisemita: Casseri legge i Protocolli come una fabula nella quale è però possibile vedere una sorta di profezia rispetto a «paure» che percorrono i nostri tempi, come il controllo del mondo da parte di misteriose oligarchie economico-finanziarie. Pericoli denunciati anche da pensatori al di sopra di ogni sospetto, a partire da Toni Negri con il suo Impero.

Una tesi che De Turris, nell’introduzione al libro di Casseri, rilancia, ponendosi la domanda: «E se questi fantomatici programmi su politica, economia, vita sociale, mortale, religione eccetera per disintegrare la società dei “gentili” e controllarla, inavvertitamente avessero un minimo di riscontro nella realtà effettuale dell’ultimo secolo, cioè negli anni successivi alla elaborazione dei Protocoli (1902-05), beh allora il caso non sarebbe chiuso e lo si dovrebbe ridiscutere in una nuova luce». Da qui l’attacco a De Turris, accusato di connivenze xenofobe col killer di Firenze: sia dall’associazione «Articolo 21», che ha presentato un’interrogazione alla Commissione di Vigilanza Rai; sia da Gad Lerner, che lo ha chiamato in causa nella trasmissione L’Infedele e sul proprio blog.

De Turris, a lungo vicecaporedattore dei servizi culturali al Giornale Radio Rai e dal 2003 conduttore della trasmissione L’Argonauta (con contratto fino al prossimo giugno), conobbe Casseri, grande appassionato di fantascienza e di fantasy, in occasione di alcuni convegni: «l’avrò visto una decina di volte, forse meno, nel corso di una ventina d’anni». Una conoscenza che lo ha portato a leggere il libro sui Protocolli: «Mi interessava la sua lettura di quel celebre testo, non visto come pamphlet antisemita ma come un romanzo antiutopico che, a inizio del ’900, voleva mettere in guardia da alcuni pericoli che avrebbero potuto verificarsi in futuro, e che in parte certi studiosi contemporanei denunciano. E questo ho scritto nella prefazione».

Abbastanza - da parte di severi censori del pensiero - per metterlo alla gogna, associandolo alle peggiori teorie antisemite. «Quando ho saputo dei fatti di Firenze non volevo crederci, mi sembrava surreale... Non potevo neppure immaginare la follia di Casseri. Nella mia carriera avrò firmato centinaia fra libri, introduzioni, antologie... La polemica che mi ha infangato, alimentata da gente che non mi conosce e non ha letto i miei lavori, dimostra che toccare certi argomenti è ancora tabù.

Si è strumentalizzata una tragedia per criminalizzare un’area politica: CasaPound, la Fondazione Evola, me e la mia trasmissione...». Odio chiama odio.

(di Luigi Mascheroni)

lunedì 19 dicembre 2011

Antipolitica e partitocrazia


Il senatore Andrea Fluttero, del Pdl, sta facendo circolare fra i suoi colleghi parlamentari una lettera in cui si lancia contro “l’ondata di antipolitica” e di discredito che ha colpito la classe dirigente. Fluttero ammette, bontà sua, che ci sono “comportamenti quanto meno discutibili di esponenti pubblici”, ma che accanto a queste “mele marce” ce ne sono tante buone. Io non dubito che in Parlamento assieme a una quantità impressionante di ladri, di taglieggiatori, di lestofanti, di opportunisti, di fancazzisti e di Minetti ci siano delle persone perbene e anche colte, naturalmente in relazione al bassissimo livello culturale oggi in circolazione. Purtroppo il problema della democrazia italiana non è solo e tanto quello della scadente qualità dei suoi rappresentanti, ma è soprattutto di sistema.

La nostra democrazia non è mai stata, fin dal primo dopoguerra, una democrazia ma una partitocrazia. La questione affonda le radici nella nostra storia. Dopo l’ 8 settembre tutti i partiti, dai comunisti ai monarchici, si riunirono nel Cln per dare un contributo, sia pur marginale, alla lotta contro il nazifascismo. Dopo la guerra si spartirono quel che era rimasto dello Stato italiano (prefetture, sindaci, presidenti delle Province). Dopo di che, mentre l’Italia si ricostruiva, cominciarono a occupare tutto ciò che riguardava lo Stato e il parastato e in modo molto rapido se già nel 1960 il grande giurista Giuseppe Maranini fece in Parlamento un vibrante discorso contro la partitocrazia, seguito a ruota dallo stesso presidente del Senato Cesare Merzagora (allora in Parlamento non esistevano solo persone specchiate ma anche di cultura). Naturalmente rimasero inascoltati. I partiti, in competizione fra loro, forti della propria posizione dominante, per raccattare il consenso si diedero a elargire favori clientelari che non hanno nulla di diverso dal “voto di scambio” mafioso che pure praticavano. Inoltre dai primi anni 80 cominciarono a praticare la grassazione sistematica su ogni appalto (la prima Tangentopoli ci è costata 630 mila miliardi di lire, un quarto del debito pubblico).

L’avvento dellimprenditore Berlusconi, che pur era partito lancia in resta contro “il teatrino della politica”, non solo non ha sanato nessuna di queste anomalie strutturali della democrazia italiana, ma ha portato in Parlamento il peggio della Prima Repubblica aggiungendovi, di suo, un cospicuo manipolo di troie. E anche la Lega, un movimento che pure era partito per fare piazza pulita dell’occupazione partitocratica dello Stato, si è presto adeguata inserendo i suoi uomini in ogni ganglio del potere a cominciare dalla Rai. Così, negli anni, è montato in buona parte della cittadinanza un disgusto e un disprezzo per la classe politica che non data dalla crisi economica, ma la precede (alle ultime amministrative il 40 % non ha votato). Ma l’assoluta incapacità di affrontare una situazione di emergenza ha portato alla luce tutte le magagne della classe politica e oggi i sondaggi danno l’astensionismo intorno al 45 %. Si potrebbe sperare che sia il colpo di grazia. Ma non sarà così. Dopo la parentesi bocconiana, i partiti – e se ne avvertono già le avvisaglie nei talk show – continueranno a fare, imperterriti, quello che han sempre fatto.

Mentre, a mio avviso, potrebbe tornar buona oggi una proposta di Guglielmo Giannini, il fondatore dell’Uomo Qualunque, impraticabile negli anni 50, l’epoca delle ideologie, ma plausibile ora che le ideologie sono morte e che fra destra e sinistra non ci sono che differenze di dettaglio: un Ragioniere dello Stato, nominato per cinque anni e non rieleggibile.

(di Massimo Fini)

sabato 17 dicembre 2011

Una fiaccola per affrontare il buio

Questo non è un cucù come gli altri ma è un appello rivolto a tutti e riservato a pochi. Nasce da una storia dolorosa. Carmelo I. - mi hanno detto di scrivere il suo cognome ma sento di rispettare la soglia- ha militato da ragazzo nel Fronte della gioventù. Da adulto, ancora giovane, ha scoperto un cancro e ora è al terzo ciclo di chemioterapia. Ha chiesto agli amici, che in quel tempo si chiamavano in altro modo, di avere con sé, nell' estrema avventura, la bandiera dei suoi vent'anni, il tricolore con la fiaccola del Fronte al centro. I suoi amici non riescono a trovarla, l'hanno chiesto anche a me che fino a 17 anni militai nel Fronte, capeggiando una sezione. Realizzai con un archetto l'unica manifattura della mia vita, lo stampo di una fiaccola per riprodurne la sagoma sui muri. Era bella la fiaccola ed era fiera la mano che l'impugnava. Ho pensato allora di rivolgere un appello. Sono tanti i ragazzi passati da quella militanza, me ne accorsi una volta che parlai del loro sogno tradito dal leader. Allora chiedo a tutti loro e ai fondatori del Fronte, Massimo Anderson e Pietro Cerullo che guidava la Giovane Italia: se avete una bandiera con la fiaccola contattate chille_s@camera.it . Confesso che mi ha colpito questa richiesta, non solo per la tragedia ma anche per la tenera fedeltà ai propri vent'anni e per la voglia di dedicare la propria vita, anzi di avvolgerla nel simbolo di un ideale di gioventù che resta il segno di nobiltà e di passione pubblica in un'epoca privata d'ambedue. Una fiaccola per affrontare il buio.

(di Marcello Veneziani)

venerdì 16 dicembre 2011

"Comodo sparare su CasaPound"


«È una questione di cameramen, non di camerati. CasaPound è vittima di un riflesso condizionato, di chi ha interesse ad associare la camicia nera alle mascelle quadrate e alle zucche vuote. È un giochino, un intreccio pericoloso. Ma che fa molto comodo». Pietrangelo Buttafuoco conosce bene CasaPound, il centro sociale con l’anima a destra che oggi è finito nel mirino e lo difende. Per questo il suo telefono non smette di squillare. Tutti la stessa domanda: CasaPound è davvero un covo pericoloso che va chiuso al più presto? Gianluca Casseri, l’uomo che ha ammazzato i due senegalesi a Firenze, frequentava il centro e oggi sono molti quelli che puntano il dito e gridano alla chiusura, dimenticando i tanti arresti di militanti, di neo brigatisti nei centri sociali «rossi» che continuano tranquillamente a funzionare e che nessuno ha mai fatto chiudere. «A CasaPound non c’è razzismo e xenofobia. Lì non esiste questa porcheria. Il resto è caricatura che fa comodo ai giornali. Ai cameramen, appunto, che evocano mostri per farne un carnevale ideologico».

Cosa aveva in comune Casseri con CasaPound?

«Niente. Da una parte c’è un ragioniere pazzo, uno squinternato che transita dalle loro parti. Un tipo malato di estremismo, cresciuto con il linguaggio volgare e feroce dei giornali, che vede l’Eurabia e schiuma rabbia, che ha in mente le pisciate e gli sputi sul Battistero. Dall’altra un circolo culturale di altissimo livello che oggi subisce l’attacco e la critica di gente che non conosce questo centro».

Cosa si fa a CasaPound?

«Musica e cultura. Un circuito culturale che ha sedi in tutta Italia. Hanno anche una radio, “Radio Bandiera Nera”».

Nome inquietante.

«Ma no, detto così sembra riduttivo, ma davvero fanno ottimi programmi, hanno il loro gruppo musicale gli Zeta Zero Alfa. Ma non solo, c’è molta solidarietà. È uno dei fulcri al centro. Faccio un esempio concreto: quando c’è stato il terremoto in Abruzzo sono stati tra i primi a organizzare aiuti. Anche se alla notizia dell’arrivo di un nucleo di CasaPound, la comunità magrebina ha avuto paura».

E come è andata a finire?

«Gli africani ringraziarono pubblicamente CasaPound».

E allora perché oggi c’è chi vuole chiudere il centro?

«Additare ora fa comodo alla sinistra, ma anche alla destra. Che usa CasaPound per dire di essere migliore e usa la caricatura del fascista cretino».

A chi si ispirano?

«Alla poetica di Ezra Pound prima di tutto. Orientata al multiculturalismo, all’apertura. CasaPound non appartiene al ’900. Quindi chiamarli fascisti sarebbe come liquidarli, schematizzarli. Loro non sono né di Alleanza nazionale né di altro gruppo politico. Non fanno politica, ma cultura».

Ma un centro sociale di ispirazione fascista non rischia di accendere qualche fiammella d’odio?

«Di sicuro c’è bisogno di una profonda riflessione e ripensamento, ma non ha senso chiudere».

Un centro sociale aperto anche ai non «camerati»?

«Ma sì. Ma certo. Io ci sono andato spesso con Paola Concia. E con tanti altri amici di sinistra».

Oggi Casa Pound ha più o meno consenso di un tempo?

«Il consenso studentesco è sicuramente aumentato. Ma per un semplice motivo. Che loro pescano negli ambienti popolari, a differenza dei centri sociali di sinistra che notoriamente sono frequentati da ragazzi di buona famiglia. Ma questa è un’altra storia».

(fonte: www.ilgiornale.it)

Massmedia e spirale dell’odio


Ho buoni rapporti con la redazione fiorentina de La Repubblica: sono sempre molto gentili, m’intervistano spesso. È vero che nemo propheta in patria, ma in fondo l’aver scritto, parlato e insegnato per lunghi decenni nella mia città ha pur voluto dir qualcosa.

Ma lassù, nei quartieri alti della Direzione Megagalattica del Quotidiano dei Cittadini Laici, Democratici & Intelligenti, ci dev’essere qualcuno che non mi ama. È vero: anche da lì, talvolta, partono al mio indirizzo segnali benevoli; qualche amico ce l’ho. Ma in genere non si sprecano. Di recente, la Laterza ha pubblicato un mio libro di quasi ottocento pagine, Il Turco a Vienna, dedicato all’assedio ottomano del 1683 alla capitale del Sacro Romano Impero e che mi è costato almeno cinque anni di duro lavoro e di ricerche in mezza Europa, quasi tutte pagate di tasca mia. Sembra che le vendite vadano bene, e molti giornali ne hanno parlato come di un evento culturale importante. Non sta a me decidere. Ora, l’editore mi avverte che giorni fa La Repubblica – che spesso regala paginoni a illustri carneadi – mi ha dedicato una scarna, svogliata nota. Bontà sua.

Invece, di molto minor distrazione il medesimo quotidiano mi fa oggetto quando si tratta di aspetti problematici se non imbarazzanti del mio curriculum. Ogni volta che ad esempio si parla di neofascismo, specie in contesti delicati se non atroci quali i commenti al tragico fatto di sangue fiorentino del 13 dicembre scorso, ecco rispuntare il nome di tal Franco Cardini che negli Anni Sessanta, poco più che ventenne, militava nell’organizzazione Giovane Europa, bollata (e non stiamo qui a discutere se e fino a che punto con ragione) come neonazista. Proprio il 15 dicembre, due giorni dopo l’uccisione di due senegalesi da parte di un cinquantenne pistoiese che non è forse imprudente definire squilibrato, Gianluca Casseri, ecco che il quotidiano romano delle Persone Intelligenti dedica un intero paginone (pagina 21) all’Allarme razzismo: e, in un articolo a firma Carlo Bonini dal titolo Neofascisti, traccia anche graficamente l’albero genealogico dei gruppi estremisti. E lì mi ritrovo insieme con l’odierno esponente leghista Mario Borghezio citato quale radice, in quanto affiliato tra 1956 e 1975 (in realtà la mia esperienza riguardò il periodo 1965-1969) a Giovane Europa, della malapianta dalla quale sarebbero usciti i gruppi animati da (orrore!) Franco Freda e cui s’ispirerebbe oggi (raccapriccio!) Casa Pound. Insomma, un filo nero legherebbe uno studioso settantunenne noto, tra l’altro, per le sue posizioni sovente rilevate (anche da La Repubblica) come filomusulmane a un cinquantenne asceso al disonore della cronaca per aver sparato all’impazzata su un mucchio di extracomunitari. E tutto ciò naturalmente, come se nulla fosse, senza un rigo di commento e di precisazione.

Ovviamente, non solo non ho nulla di cui vergognarmi e da rinnegare a proposito di quella mia giovanile militanza: anzi, al contrario, me ne vanto come di una cosa generosa, coraggiosa, disinteressata e pulita, che proprio in quanto emarginata, minoritaria e calunniata si rivelò per me una grande scuola di coraggio civico e di tolleranza (perché una persona onesta, perseguitata a torto, impara a sue spese e sulla sua pelle quanto sia prezioso il non perseguitare mai nessuno). Le mie riflessioni su quell’esperienza sono contenute in due libro, L’intellettuale disorganico (Aragno) e Scheletri nell’armadio (La Roccia di Erec). In questo Paese di gente che quando si tratta di se stessa ha la memoria corta, io ne ho una da elefante: e ne vado fiero. Soltanto, esigo che quando si ricorda si richiami correttamente il passato e lo si valuti per quel che obiettivamente significa, non per quel che fa comodo.

Mi ha invece impressionato molto sfavorevolmente il fatto che, in reazione alla tragica giornata fiorentina, da più parti – e specie nel campo di quella sinistra che ormai sembra da mesi allo sbando, e che recentissimamente altro non ha saputo se non associarsi piuttosto acriticamente alle lodi rivolte al governo dei finanzieri ispirato dalla Goldman Sachs – ci si stia attaccando alla solita scappatoia retorica e soprattutto strumentale, la denunzia del neofascismo (e del fascismo tout court) come radice di tutti i nostri mali. Che l’attuale situazione possa dar la stura a ogni sorta di follìa e che casi del genere – e penso anche all’aggressione al campo rom di Torino – possano moltiplicarsi nella misura in cui si aggravano preoccupazioni e tensioni diffuse, è un fatto. È forse stata una crisi di contingente disperazione collegata anche a motivi socioeconomici che può aver armato la mano di Casseri. Il nesso esiste, o è almeno probabile. Ma come sarebbe corretto reagirvi, e come vi si sta reagendo? Da parecchi mesi, ormai, i massmedia italiani sembravano orfani della loro eterna madre ed ispiratrice, la Resistenza. Niente paura: ci stiamo tornando, come sempre nei momenti di crisi, quando ci sia necessità di sbattere un mostro in prima pagina per far dimenticare le cose serie. Un mostro comodo, sempre pronto, a portata di mano, che finisce col non disturbare nessuno tra quelli che contano e che non desiderano essere disturbati. Specie se hanno delle responsabilità affettive in quanto ci sta capitando.

Ecco perché una giornalista di grande professionalità come Lucia Annunziata, intervistando in TV il presidente delle Case Pound d’Italia Gianluca Iannone, non perde nemmeno un minuto per esaminare un fenomeno pur degno d’interesse, quello dei Centri Sociali di Destra, per cercar di comprenderne sul serio l’anima interna, ma si dà senza esitare alla demonizzazione indiscriminata sulla base di un falso sillogismo: dal momento che Gianluca Casseri, l’assassino di Firenze, frequentava una Casa Pound, se ne deduce che quell’ambiente sia un covo di potenziali delinquenti che si abbeverano esclusivamente ad aberranti tesi razziste. Con una logica del genere, tutte le chiese cattoliche dovrebbero esser chiuse come centri di violenza sessuale in quanto in alcuni ambienti del genere si sono perpetrati casi di pedofilia e tutti i partiti politici sciolti come associazione a delinquere vista la frequenza con la quale al loro interno si verificano episodi di corruzione, concussione, peculato e via dicendo.

Ma la logica saggiamente distinzionista, che vige in tutti gli altri casi, non vale per i neofascisti che, come le sospette streghe della Salem seicentesca o dell’America di McCarthy, sono colpevoli per definizione e in quanto marginali non sono mai in condizione di difendersi. È chiaro che, se Gianluca Casseri frequentava Casa Pound, su quest’ultima e su tutti i suoi veri o supposti predecessori ricade la responsabilità ultima, o almeno la complicità morale, del duplice delitto fiorentino. Un capro espiatorio ideale, che contribuisce a sviar l’attenzione della gente e a liberarla dalla spiacevole memoria sia dal tristissimo passato recente (dalle guerre neocoloniste dell’ultimo ventennio al ridicolo malcostume dell’era berlusconiana) sia da un presente fatto di crisi e di sacrifici dall’incerto esito. Le cose vanno male? La colpa, in fondo, è sempre del diavolo, cioè del fascismo. E rispunta la panacea democratica universale, la Resistenza.

Il bello è che da questo quadro finisce con lo scomparire perfino il triste protagonista immediato, lo sciagurato omicida-suicida. Poco e distrattamente si è indagato anche su di lui: qualche nota di colore, come i cimeli fascisti che teneva in casa. Poco è trapelato della sua personalità, oscura e contorta forse, ma di non trascurabile spessore. Nel 2010 Gianluca Casseri aveva pubblicato insieme con Enrico Rulli (un altro battitore intellettuale libero, impiegato delle ferrovie e simpatizzante di sinistra) un romanzo di tipo fantaesoterico edito dal vicentino Punto d’Incontro, La chiave del Caos, ambientato nella Praga magica dell’imperatore Rodolfo II, pieno di straordinarie e inquietanti somiglianze con Il cimitero di Praga di Umberto Eco, edito dalla Bompiani proprio nello stesso anno; mentre nell’ottobre successivo usciva a Parigi Le Kabbaliste de Prague, di Marek Halter, di tema affine. Una stranissima coincidenza, sulla quale sarebbe interessante se lo stesso Eco potesse dire una parola. Ma a proposito di un altro tema echiano, nucleo appunto dell’ultimo romanzo del semiologo alessandrino, cioè la genesi dei celebri Protocolli dei Savi Anziani di Sion, Gianluca Casseri scrisse e nel novembre 2010 pubblicò e diffuse in proprio, sul suo sito chiave_caos@libero.it, un interessante saggio dal titolo I Protocolli del Savio di Alessandria.

La lettura di questi scritti, alla luce del folle gesto del 13 dicembre scorso, proietta sulla personalità dello sfortunato, sciagurato Gianluca Casseri una luce livida, di erudizione fumosa e disordinata eppure intensa: una personalità controversa, turbata, infelice. Da questo intellettualismo frustrato – nulla, nella società dell’immagine e del successo, è meno tollerabile del non sentirsi notati e riconosciuti – possono esser nati e cresciuti la forsennata mania razzista degli ultimi tempi e il cupo desiderio di vendicarsi di una società distratta e ingrata ripetendo il gesto di Erostrato, l’incendio del tempio di Artemide in Efeso perpetrato affinché la gente parli, sappia, riconosca. L’inferno della perpetua damnatio memoriae preferibile alla morte lenta e silenziosa dell’anonimato. Una tragedia nella tragedia, che purtroppo non restituisce le vite innocenti dei senegalesi uccisi, che non reca sollievo alle loro famiglie, ma che a sua volta è suscettibile di un pensiero meno convenzionale, meno distrattamente condannatorio. La riduzione di tutto alla rinnovata condanna della follìa fascista, per giunta comodo passepartout per sottrarsi ad analisi più impegnative, capro espiatorio per tutte le stagioni, exutoire chiamato frettolosamente in causa per cavalcare strumentalmente la contingenza e magari distrarre l’attenzione dalla ricerca dei responsabili principali della crisi nella quale attualmente l’Europa e il mondo si dibattono, è intollerabile.

(di Franco Cardini)

giovedì 15 dicembre 2011

La folle caricatura della destra uscita fuori dalla folle tragedia fiorentina


Al direttore - Non faccio che mettere in spam tutta la spazzatura d’estrema destra che mi transita dal computer. Va in cestino e siccome non di fogne si tratta ma di miserabili parodie di tragicità defunta ci metto il carico di rabbia. Faccio un esempio: leggo di un Msi-Dn, di un tal Saya, che è massone di Messina. Tal Saya è il difensore dell’occidente, della Cristianità e dei Masculi. E’ giusto quello che presenta una delegazione al congresso di Scilipoti dove ad accompagnare la sua gentile signora ci sono due tipi in foggia paramilitare. Portano legge e ordine. Portano Dio, Patria e Famiglia e hanno la fiamma di Almirante al braccio. Che pena, dunque, vedere quell’emblema, simbolo di una storia, ridotto a far da coperchio a certi minestroni di pura porcheria: razzisti, xenofobi e cyber-templari. Qualsiasi cosa trova alloggio in quella pignatta da dove sbucano croci celtiche e rune. E Militie. Tutto secondo caricatura. Per come piace ai cameramen che, infatti, se li cercano questi dalla mascella quadrata e dalla zucca vuota per farne un carnevale ideologico. A furia di farne miseria della storia tutti i miserabili sono accorsi a mendicare una propria memoria. E povera camicia nera, allora – feticcio di tragicità – ridotta a mascherata. Povera fascisteria buttata nel cesso della mostrificazione. A forza di evocare mostri si va in botola. E viene facile l’esorcismo su Casa pound. Solo che Casa Pound, vittima di un riflesso condizionato e non di un teorema, ha un’altra storia.

Nessun razzismo e mai xenofobia, anzi. Vivono nel quartiere cosmopolita di Roma, piazza Vittorio. Stanno con gli ultimi. E se un ragioniere innamorato di fantasy è transitato dalle loro parti – inseguendo chissà che incubo – per poi andare ad ammazzare due senegalesi, c’è solo un orrore orbo di perché. Certo, la malattia dell’estremismo fa malato il ragioniere. E non è il ’900. Se vogliamo seguire le orme del ragioniere non si arriva a Lovecraft, mi spiace. La carta geografica della sua mente era quella Firenze di sputi e pisciate sul Battistero. Tante belle parole spese per quei poveri disgraziati uccisi e nessuno che gridi forte i loro nomi. Un consiglio, dunque: non cerchino le tracce, troveranno le orme.

P.s. Adesso parlo per fatto personale. Non ci avrei mai messo piede se solo ci fosse un solo rutto di quella schifezza qual è l’estrema destra. A Casa Pound fanno musica e solidarietà. Spiazzano. E voglio ricordare due fatti. A Poggio Picenze, in Abruzzo, all’indomani del terremoto il giornalista collettivo raccontò della paura della comunità magrebina per la presenza di un nucleo di Casa Pound. Finì che gli africani ringraziarono pubblicamente Casa Pound e il sindaco sta adoperandosi per intitolare la biblioteca al noto poeta. Secondo fatto: quando arrivarono a Roma i black bloc, per cinque minuti buoni, in tutte le redazioni del giornalista collettivo galleggiò l’idea che fossero quelli di Casa Pound, sotto mentite spoglie, a scatenare i disordini. Ecco, fosse stato vero, specie con il governo Berlusconi in carica su cui fare fuoco, avremmo avuto Saya ospite del Tg3. Con gentile signora al seguito.

(di Pietrangelo Buttafuoco)

lunedì 12 dicembre 2011

"Grande civiltà, piccolo Stato" L’Italia secondo Dostoevskij


Ah, l’Italia, «un piccolo regno unito di second’ordine, che ha perduto qualsiasi pretesa di valore universale, cedendola al più logoro principio borghese - la trentesima ripetizione di questo principio dal tempo della prima rivoluzione francese - un regno soddisfatto della sua unità, che non significa letteralmente nulla, un’unità meccanica e non spirituale (cioè non l’unità mondiale d’una volta) e per di più pieno di debiti non pagati...». immagine Non è Bossi che parla né suo nonno. E non è nemmeno Pino Aprile, l’autore anti-sabaudo di Terroni. Ma è un osservatore esterno, molto esterno, e speciale, molto speciale. Che non polemizza con Napolitano, stroncando il suo libro Una e indivisibile (stroncare il libro di un Presidente della repubblica è diritto di critica o vilipendio del capo dello Stato?). Ma addirittura con Cavour, di cui pure riconosce la genialità ma applicata ad una causa indegna e piccina. L’irriverente italoclasta è addirittura Fëdor Dostoevskij. L’appunto che ho citato è nel suo Diario di uno scrittore nell’anno di grazia 1877. Dostoevskij non è un detrattore dell’Italia ma un sostenitore convinto dell’Italia universale e non statuale, o per dirla con Herder, dell’Italia come nazione culturale, non politica.

Non è bello concludere il compleanno d’Italia, ovvero l’anno in cui l'Italia ne ha compiuti 150, con questa nota aspra e feroce. Ma Dostoevskij amava l’Italia e ci era venuto in pellegrinaggio culturale e spirituale. Ne parlava con cognizione di causa e amore d’Italia. Nello stesso testo, Dostoevskij osservava: «Per duemila anni l’Italia ha portato in sé un’idea universale capace di riunire il mondo, non una qualunque idea astratta, non la speculazione di una mente di gabinetto, ma un’idea reale, organica, frutto della vita della nazione, frutto della vita del mondo; l’idea dell’unione di tutto il mondo, da principio quella romana antica, poi la papale. I popoli cresciuti e scomparsi in questi due millenni e mezzo in Italia comprendevano di essere i portatori di un’idea universale, e quando non lo comprendevano, lo sentivano e le presentivano. La scienza, l’arte, tutto si rivestiva e penetrava di questo significato mondiale». Tutto barattato per una piccola unità statuale? In fondo Dostoevskij abbracciava da russo e ortodosso, l’idea cattolica e giobertiana del primato mondiale e civile d’Italia che trascendeva dalla sua unificazione statuale, anche se la prefigurava.

Lo scrittore russo era tutt’altro che vicino a una visione internazionalista, di tipo socialista e utopico, che condanna per il suo astratto universalismo. Nell’anno dell’Unità d’Italia, il 1861, Dostoevskij fondava una rivista, Vremja (Il tempo) che era tutta percorsa da un fremito di patriottismo russo e slavofilo e da un rifiuto dell’occidentalismo come omologazione mondiale. La romanità come principio universale, l’imperium come principio ordinatore del mondo e la cristianità che si fa cattolica - cioè universale - a Roma, erano per lui il paradigma dell’unità spirituale del mondo. A cominciare dalla Terza Roma degli Czar (contrazione russa di Cesare, non a caso). Anzi, la sua idea è che sarebbe stata la Russia «a condurre a conclusione la missione dell’Europa», come scriveva in una lettera dell’inverno 1856 a Majkov. In una pagina assai attuale Dostoevskij lamenta la subordinazione dell’Europa alla Borsa e al credito internazionale; ma poi spende la sua vena profetica in un delirio antigiudaico, ritenendo che siano gli ebrei a muovere la borsa, le banche e i capitali, condizionando gli Stati nazionali. («Non per nulla dominano là ovunque gli ebrei nelle Borse, fanno muovere i capitali, sono i padroni del credito e della politica internazionale» scrive nel marzo del 1877, per poi concludere con una filippica contro il giudaismo).

Dostoevskij scrive sull’unità d’Italia a ragion veduta, serbando la memoria dei suoi viaggi in Italia in cui rimase abbagliato dall’arte e dalla civiltà italiana, le rovine pagane e lo splendore medioevale, rinascimentale e barocco dellla Roma cattolica e apostolica. Visita l’Italia, e arriva a Torino quando era capitale e poi scende a Roma, di cui soffre il gran caldo settembrino e si estenua a percorrerla a piedi, in una intensa settimana di bellezza. Qualche anno dopo vi ritorna, prima a Milano e poi a Firenze, nel breve periodo in cui era capitale d’Italia.

E si arrabbia con i russi che spargono da noi «i loro rubli in carte di credito» e le russe che «puttaneggiano con i principi Borghese». Un quadro di sorprendente attualità, che sembra alludere al nostro presente, principi Borghese a parte... Al suo tempo riguardava la nobiltà russa, ora invece i nuovi ricchi della Russia postsovietica e le avvenenti russe in cerca di sistemarsi o sfondare.

Non sposiamo affatto l’idea negativa di Dostoevskij sull’unità d’Italia, e continueremo a considerare nobile e degna la causa a cui si dedicò il conte di Cavour. Difenderemo la memoria del Risorgimento, che è la traduzione civile e nazionale della Risurrezione, cara a Dostoevskij forse più che a Tolstoj. E senza cancellare le pagine infami scritte dopo l’Unità, i massacri e le deportazioni, continueremo a difendere la nascita necessaria e benefica dello Stato Italiano, la sua indipendenza e il suo sviluppo che integrò il popolo nella nazione.

Ma è giusto concludere l’anno dell'italianità ritrovata (e subito ri-smarrita), ricordando che l’Italia nazione culturale è universale e millenaria, mentre l’Italia politica e risorgimentale è domestica e secolare. Italia, grande nazione in piccolo Stato. L’Italia dell’unità evoca uno Stato, l’Italia della tradizione evoca una civiltà.

(di Marcello Veneziani)

I rovinati da Berlusconi


Noi, noi che siamo stati
rovinati da Berlusconi, noi che l’abbiamo sempre difeso, restando nei paraggi del suo largo ombrello, adesso che l’ha chiuso per consegnarsi mani e piedi a Pier Ferdinando Casini siamo come i cani. Costretti a roteare su noi stessi per acchiapparci la coda. E venirne a capo.

Noi, noi che siamo stati rovinati da Berlusconi, mentre lui ha scelto di dismettere la sua parte politica rovinando l’idea stessa di fazione, non possiamo che abbaiare alle nostre stesse natiche. Come si può essere, infatti, faziosi se quell’idea tutta italiana di guelfi e ghibellini, per tramite dei Pannunzio e dei Longanesi, arrivata agli Scalfari e ai Montanelli, deve adesso risolversi nello scoprire che sulla punta esatta della nostra conclusione (parlo di noi, noi che siamo stati rovinati da Berlusconi) abbiamo Emilio Fede, non certo un Indro Montanelli, rovinato pure lui, buonanima, costretto a passare alla storia come un comunista.

Uno che sceglie il campo delle libertà, uno che coglie l’occasione di riemergere dalla marea conformista prendendosi il passaggio di diciassette anni di berlusconismo – l’occasione buona per un punto di vista diverso – si rovina perché si ritrova marchiato da truffatore. Rosicchiamo, infatti, la coda che è il nostro inizio e la nostra fine e finisce che ci ritroviamo a masticare le memorie difensive redatte da avvocati – i furboni d’un tempo – diventati succhiasoldi (di suoi soldi) senza peraltro avergli mai fatto vincere una causa. Se non è una sceneggiatura da commedia all’italiana non è certo tragedia, tutto è parodia e quello che ci ritroviamo cacciato in gola è la coppola storta di don Verzé che nessuna mitezza di Sandro Bondi potrà mai rendere digeribile. I versi, appunto, sono stati fatti perversi dalla bottega politica e finirà che perfino Nichi Vendola dovrà rinunciare alla poesia – non sarà più possibile la miscela di poesia e politica – altrimenti rischierà di essere epigono, una sorta di Guido da Verona davanti a siffatto Gabriele D’Annunzio.

Noi, noi che siamo stati rovinati da Berlusconi non siamo soli nella disgrazia. Con noi, rovinati quanto noi, ci sono anche i suoi più rabbiosi nemici: sono quelli contro cui abbiamo incrociato le lame, sono i Roberto Benigni, i Fabio Fazio, ma anche i Michele Santoro, o gli amici del Fatto, quelli che con il loro fucile sempre carico devono sparare alle quaglie adesso che non c’è più Berlusconi. Devono accontentarsi di Mario Monti. Oppure farsi largo dentro il cortile della sinistra come hanno fatto l’altro giorno. Hanno messo in prima pagina Ezio Mauro, il direttore di Repubblica, come a farne una segnaletica. Era stato fotografato allo stadio accanto a Pier Francesco Guarguaglini, l’ex presidente di Finmeccanica, quello dalla liquidazione milionaria. Il direttore e il manager si sono ritrovati seduti accanto casualmente ed è sembrato un vecchio trucco quello del Fatto, uno degno del Sun inglese, della Bild tedesca, il giornalismo da prurito, o meglio ancora uno di quelli che faceva Jo Stajano, lo scandalosissimo primo trans d’Italia che si appostava accanto agli irreprensibili ministri cattolici per farsi fotografare e poi far scrivere ai giornali scandalistici: “Che ci faceva l’invertito Jo col ministro Clelio Darida?”.

Berlusconi, insomma, ha lasciato una grande fregatura a chi l’ha amato e a chi lo ha odiato ma a voler stabilire chi è più malandato – chi, più infelice, tra Augusto Minzolini o Roberto Saviano – è ovvio che sia il direttore del Tg1 quello messo male perché se Saviano potrà far conto sulla rendita aureolare, Minzolini che fu quel dio del taccuino retroscenista non riuscirà a rendersi credibile quando darà le notizie da Parigi, da New York o da qualunque luogo sceglierà di andare dopo la sua ovvia epurazione perché, poi, tutti, non guarderanno la Tour Eiffel o lo skyline dei grattacieli alle sue spalle ma solo e sempre – tutti – penseranno all’Enciclopedia Treccani. Quella che si teneva dietro nei suoi editoriali.

Noi, noi che siamo stati rovinati da Berlusconi, dovevamo capirla l’antifona quando già l’avevano dovuta capire i terzisti. Il mancato abbraccio con il mondo di Luca Cordero di Montezemolo, di Paolo Mieli, di Lamberto Dini, di Renato Ruggiero che fu ministro degli Affari esteri con Berlusconi per poi tagliarla lì, subito subito, è l’errore degli errori del berlusconismo. Tutto quel mondo presentabile che stava con lui di nascosto per vedere l’effetto che fa nel “vengo anch’io” non aveva che da aspettare un fischio per fargli da classe dirigente. Sono stati molto tentati e, pur vestiti di terzismo e di distacco, certamente l’hanno votato.

Certo, non volevano farsi fotografare con Silvio, giusto per non cadere nella trappola di Jo, ma gli editoriali di Piero Ostellino e di Pigi Battista, le aperture di credito di Sergio Romano (ma anche quelle di Mario Calabresi, direttore della Stampa, ben lieto di liberarsi di Barbara Spinelli, “pubblicata anche quando non eravamo d’accordo”), poco potevano quando, vedendosi sfilare sotto il naso gli Stracquadanio, le Brambilla e i Frattini, hanno rivisto un vecchio film, quello dove i compagni di cordata vengono trasformati in camerieri. Anche Mike Bongiorno se ne andò via da lui, se la filò con Fabio Fazio e perfino Mediaset, pupilla dei suoi occhi, perse smalto con lui regnante per conclamato conflitto d’interessi laddove l’interesse non deve essere qui inteso in termini di propaganda o di news drogate bensì in raccolta pubblicitaria. La battaglia per la pubblicità di un tempo, infatti, ai tempi gloriosi di Marcello Dell’Utri, non era rivolta contro i film d’autore ma per vincere la concorrenza e, ahinoi, hollywoodizzare l’Italia.

Arrivandogli le inserzioni in forza del ruolo, invece, ci si sedeva sul comodo, tutto era dovuto ed è perciò che si rovinavano le ballerine, si rovinava il meraviglioso Bagaglino, si rovinava il gareggiare con la Rai e chissà cosa diventerà poi quella formidabile macchina (finalmente liberata) col figlio, Piersilvio, formidabile di suo, che però si dedica un giorno sì e un giorno no a dichiarare al Corriere della Sera di voler assumere Giovanni Floris. Come se il povero Alessio Vinci, cui è toccato in eredità “Matrix”, fosse un arancio caduto a terra e non il campione strappato alla Cnn. Ecco, nel buttarsi a sinistra metterà Curzio Maltese alla direzione del Tg5.

E ci sarebbe da aprire il foglio del libro più scottante, quello dell’informazione, con tutta la pittoresca pletora della pubblicistica che s’è raccolta nei giornali di destra. O in tivù. Non senza i famosi “nuovi Santoro”. E la macchina del fango, poi, ridotta a cacchina: con quello straordinario scoop di Claudio Brachino sui calzini del giudice Mesiano.

Noi, noi che siamo stati rovinati da Berlusconi la smetteremo di raccontarcela in privato e prima o poi, anche il grandissimo Vittorio Feltri, riconoscerà che gli Angelucci – e stiamo dicendo gli Angelucci! – al confronto con tutta questa fiera delle improvvisazioni al ribasso, sembrano tanti Lorenzo de’ Medici.
Tutti pensano che Berlusconi abbia rovinato Marco Travaglio o Roberto Benigni (Sabina Guzzanti no, perché annoiava già da prima) ma non è così, anche Santoro troverà la strada per tornarsene in Rai. Quelli che si sono veramente rovinati sono quelli della struttura Delta (Mauro Masi, facciamo per dire, prima di Silvio, era stimato nell’ombra, prendeva premi, eccelleva) tutti quelli che si sono tinti i capelli come lui e noi, noi che l’abbiamo sempre difeso anche quando – rispetto al cane di cui sopra – noi che avevamo tutti i buoni motivi per dire: “Ma ‘u cani non è mio!”, siamo ro-vi-na-ti.

Noi, tutti noi coscientemente finiti in malora, ci siamo rovinati nel diventare macchiette e cosa dovevano essere allora i Sindona o lo stesso Riina per un Andreotti, ora che il furbo, per noi deve essere Valterino Lavitola?

Noi, tutti noi precipitati nella rovina, a suo tempo l’avevamo scritto, qui, sul Foglio, il lungo elenco di tutti quelli rovinati da Berlusconi. Un gran signore come Jas Gawronski, un analista della politica come Mimmo Mennitti, un filosofo come Lucio Colletti, un genio della tivù come Agostino Saccà e tutta un’infinita teoria di uomini, proclamati di volta in volta, “braccio destro”, ingoiati dall’oblio. Proviamo a farne i nomi… ecco, non ne ricordiamo uno. Forse Alessandro Meluzzi? Nel rovinio ci sono anche tutti quelli che sono mancati all’ultimo appuntamento, quelli come Roberto Antonione e Gabriella Carlucci (per un pelo anche Ghedini), danneggiati in finale senza neppure vantare il privilegio dell’estrema scilipotizzazione. E restare così – da rovinati – nel cuore di Berlusconi.

L’ultimo che gli resta da rovinare a Berlusconi è se stesso. Tutto cominciò con una frenesia a volte trattenuta, a volte sparata coi fuochi d’artificio. E in tema di fuochi non si può dimenticare quella prima campagna elettorale, Silvio Berlusconi contro Luigi Spaventa, collegio Roma centro, con gli amici che si raccomandavano con Duccio Trombadori di far votare bene la sua mamma. Votare Berlusconi alla Camera non era un problema. Al Senato c’era da votare per Giulio Maceratini, fondatore con Pino Rauti di Ordine Nuovo. E Duccio Trombadori, occhi al cielo, diceva: “Ma come faccio a dirglielo? Mamma è stata partigiana! Faceva la staffetta partigiana. Portava materiale clandestino all’hotel Flora!”.

Tutto proseguì nel finire del secolo scorso, il Novecento moriva dolcemente e alle signore s’alzavano i calcagni. Fabio Granata se ne partì per Arcore e si ritrovò nei prati di “una storia italiana” con tante hostess che gli facevano i test per il casting elettorale. Fece il suo ingresso in società Daniela Santanchè e con lei capitava di vedere, nei convegni dell’Italia che scende in campo, Paola Ferrari e Alba Parietti. Berlusconi vinse le elezioni e alla Camera, in Transatlantico, passò da lì Ignazio La Russa che si sentì chiedere da Luigi Sidoti, un deputato di Catania: “Gnazio! Un posto ‘na cultura ppi mia non c’è?”. Tanti diventarono parlamentari, si ritrovarono alla Camera tanti che non erano messi nel conto e tutta un’Italia mai rappresentata si ritrovò alla ribalta anche facendosi danni da sola in forza di ingenuità e per far passare tutto in cavalleria.

Tutto ebbe a proseguire e i colleghi dei grandi giornali dicevano, “insomma, scrivetelo un diario”. E, insomma, l’abbiamo fatto questo benedetto diario. Al Caffè della Pace, dietro piazza Navona, misero un cartello tipo “i signori fascisti sono pregati di accomodarsi altrove”. Si andava tutti al Rubirosa, c’era la buonanima di Pinuccio Tatarella, c’era Filippo Milone, l’attuale sottosegretario alla Difesa, che cantava benissimo (altro che Apicella) e c’era Italo Bocchino, il più lesto di noi, che riusciva a sedere a un tavolo vicino a quello di Paolo Berlusconi. C’era da farsi avanti, con Salvatore Sottile, al Secolo d’Italia compilavamo i questionari che Repubblica sottoponeva a Teodoro Buontempo. Alla domanda sull’autore di riferimento gli scrivevamo “Camille Paglia”. Teodoro ci diede soddisfazione perché poi se lo studiò bene bene “Sexual personae”, c’era proprio da farsi avanti e quando io, io che sto rileggendo il mio diario, dissi a Paolo Mieli di essermi formato sulla Nue e sul catalogo Einaudi giustamente ebbi in risposta un “ma che palle!”.

Tutto ebbe a proseguire perché tutti volevano il nuovo. Ebbi perfino una sbandata da think tank, una piccola ubriacatura liberale a forza di frequentare i convegni di Marcello Pera e sto scoprendo da quei vecchi quaderni che mi piaceva perfino Woody Allen – ne sono rinsavito a colpi di Martin Heidegger – solo che adesso, specie di questi tempi, con la barzelletta che s’è rovinata ogni reputazione, appena dico: “La sapete quella?” mi ritrovo guardato male e non posso rifugiarmi nell’avanspettacolo. Tutto è esaurito, tutto è cancellato.

Ma è l’epoca che interessa, non il privato, Berlusconi ha maneggiato la politica senza conoscerla, disprezzandola, ingaggiando gare col Corriere della Sera sulla conoscenza di tutto Luigi Sturzo, cui si paragonava, facendo man bassa col ghostwriter di turno. Tutto però è politico e la rovina è solo quella della weltanschauung – larga quanto si vuole, eccentrica quanto basta, arcitaliana nell’aspirazione – che non ha più avuto modo di accordarsi con questo qui, l’uomo del fare, che s’è svelato per l’uomo dell’io-io-io che non è proprio un raglio ma il muro invalicabile dove si sfascia ogni noi. E quando si va dal dentista ed entra l’igienista dentale, ecco, tutti, tutti noi, le controlliamo lo stacco di coscia. O il decolleté.

L’ultimo che gli resta da rovinare – l’ultimo amante da tradire – è se stesso. E anche chi non è stato né con Berlusconi né contro Berlusconi, a riprova che in Italia il né-né non è possibile, si ritrova rovinato. Anche chi non ne ha beneficiato viene marchiato. Anche noi né né. Appena ne parli male, ecco, “corre verso il carro del vincitore”. Quando ne parli bene, ecco, “lo stipendiato”. Mai una volta che si possa fare un esercizio di critica, e quindi, è chiaro: ecco, sono rovinato.

(di Pietrangelo Buttafuoco)