martedì 28 settembre 2010

Da Bossi avanspettacolo di quart'ordine


Gli hanno costruito attorno l'aura del "vecchio saggio", un po' oracolo un po' padre nobile. E lui sembra essersi calato nella parte con disinvoltura. Ma al dunque, è sempre il capo partito spiazzante e irridente, perfino volgare a volte e mai pentito di ciò che dice e che fa. Chiede rispetto per sé e per il "suo" popolo, ma non sembra incline a riservarne altrettanto agli altri. Lo conoscete da gran tempo, ma non finirete mai di conoscerlo: il suo nome è Bossi; Umberto Bossi.

Così, tanto per non farsi trascurare ed esorcizzare l'ossessione dell'oblio che lo perseguita, come se non gli bastassero le feste simil-pagane durante le quali "battezza" con l'acqua del Po i suoi cavalieri e le quotidiane intemerate contro il Sud, di tanto in tanto trova il modo per rinverdire antiche abitudine e dà il meglio (dal suo punto di vista ovviamente) di sé lanciando selve d'ingiurie contro Roma. La quale non sarà più "ladrona", come al tempo dei truculenti proclami, ma è pur sempre un trogolo. Perciò il leader della Lega, ministro del governo della Repubblica italiana, e non di quella Padana, non prova neppure a mordersi la lingua prima di dire "sono porci questi romani", riprendendo l'arcaica (e comica) storpiatura di SPQR. È il caso di offendersi? L'avesse detto qualcun altro, forse sì. Ma dal "vecchio saggio" bisogna aspettarselo. È avanspettacolo di quart'ordine che può far ridere un po' di malmessi "padani" che s'accontentano di poco evidentemente. Non è però il caso di imbastirci sopra una polemica politica.

Naturalmente, il sindaco Alemanno e la presidente Polverini fanno benissimo a replicare invocando l'intervento del premier: glielo impongono i ruoli istituzionali che ricoprono. Ma sanno bene, in cuor loro, che le "bossiate" sono assolutamente innocue. Credo non ci sia nessun romano disposto ad offendersi; la stupidata va derubricata tra le battute di pessimo gusto, ricordando anche che quando i romani correvano con le bighe, per riprendere l'apologo di Bossi, i popoli a nord del Tevere facevano a gara per diventare cittadini (non sudditi) di Roma, invocando sulle loro città il marchio che oggi il ministro padano prova a ridicolizzare. Lasciamo perdere la storia. Piuttosto è l'argomento che ha ispirato l'infelice battuta ad offrire qualche motivo di riflessione: l'annunciato Gran Premio automobilistico a Roma. Bossi, non conoscendo i termini della questione, è preoccupato che lo si voglia scippare a Monza per portarlo nella Capitale. Il ché, nella sua ottica, come si sa molto vasta, sarebbe un intollerabile abominio, uno scippo da meritare forse una guerra di secessione. Rinchiuso nelle sue valli, dove vorrebbe pure trasferire qualche ministero, nessuno lo ha informato che il nuovo evento sportivo sarebbe aggiuntivo e non sostitutivo di quello esistente. Dovrebbe prendersela con i suoi collaboratori o, quantomeno, leggere un po' di più i giornali, al fine di non incorrere in una topica talmente macroscopica che non consente giustificazioni di sorta da parte di chicchessia.

Resta, comunque, il tic antiromano che, pur trascorrendo il tempo, di tanto in tanto riemerge dai recessi della memoria del "vecchio saggio". Diciamo soltanto che non è bello e finiamola qui. Ma avvertiamo pure la coalizione, di cui la Lega è parte integrante, che se questa inelegante uscita del suo leader è l'avvio della campagna elettorale, come c'induce a ritenere soltanto perché siamo malpensanti, qualcuno gli spieghi che non è ancora venuto il tempo di staccare la spina al governo. Forse accadrà, ma non sarà Bossi a decidere quando. Con buona pace di chi fa di tutto perché sia proprio lui a fischiare la chiusura di questa languente e torbida legislatura.

(di Gennaro Malgieri)

lunedì 27 settembre 2010

Meglio le urne del caos


Se per Gianfranco Fini il futuro arriverà con la lentezza del suo messaggio video, non scorgo per lui un avvenire brillante. Pure in un’epoca dominata dal totem della velocità, avrebbe fatto meglio a usare la posta tradizionale e non le diavolerie di Internet. Non ci avrebbe imposto un sabato interminabile, reso logorante da un rinvio dopo l’altro. Come sarà successo a tanti, anch’io mi sono sentito nell’anticamera di un dentista che non rispetta gli appuntamenti e tarda a farsi vedere.

Finalmente, dopo le sette della sera, il dentista Fini si è presentato. A mani nude e senza nessuna voglia di impegnarsi nel lavoro. Mi è parso spompato, frettoloso, per niente battagliero. Non ci ha rivelato nulla sulla proprietà della casa di Montecarlo. È del cognato Giancarlo Tulliani? Forse sì, forse no. Nella nebbia è apparsa soltanto una microscopica autocritica: ingenuità, arrabbiature senza esito. Più una scusa paradossale: a Montecarlo operare con società da paradisi fiscali «è obbligatorio». Anche un uomo di Stato come lui non poteva evitare la trappola dell’offshore.

Insomma, non è accaduto niente di niente. Fini si è limitato a una flebile difesa, come vittima di un “gioco al massacro” condotto da una Spectre di sconosciuti. Ha evitato di ripetere i giudizi pesanti che gli conosciamo: la democrazia italiana è «a rischio», prigioniera di una rete fatta di «ricatti e terrore». Non ricordo un'autorità istituzionale arroccata, almeno a parole, su una linea tanto sovversiva. In grado soltanto di generare conflitti sempre più pericolosi.

Per questo, come cittadino, provo paura. E mi domando se esista il modo per spegnere un incendio che può estendersi e incenerire tutto. Il Bestiario ne vede uno solo: ritornare alle urne prima che finisca questo maledetto 2010 o subito dopo. Bisogna lasciar sfogare gli istinti maligni in una battaglia elettorale. Pur sapendo che non sarà una prova facile. Dovremo affrontare l’inferno. Tuttavia non riesco a immaginare nessun’altra strada capace di ridare alla politica un minimo di normalità, di quiete, di dignità.

Del resto, le elezioni anticipate sono ormai un obbligo che sarebbe molto pericoloso non onorare. Guardiamoci attorno. Il governo Berlusconi è in coma. Non solo stenta a governare, ma non ha neppure la forza di decidere la nomina di ministri e di autorità pubbliche che mancano da tempo. Il Pdl, architrave della maggioranza, non è più quello che aveva vinto le elezioni del 2008. Dal suo interno è nato un nuovo partito, Futuro e libertà, un gruppo aspramente nemico della casa madre. Nessuno sa dire quale sarà la forza elettorale dei futuristi. Ma poca o tanta che sia, di certo strapperanno voti alla cassaforte del Cavaliere.

Anche il premier si trova in un mare di guai come non lo era mai stato dai tempi del primo ribaltone, quello del 1994. È anziano, stanco, sostenuto soltanto dall’ostinazione a durare. La Lega di Umberto Bossi viene ritenuta in ascesa, ma i voti che le accreditano sono per ora teorici e tutti da conquistare. Le opposizioni di centrosinistra si dibattono nel marasma. Il Partito democratico è squassato dalle divisioni interne e non sembra in grado di compattarsi attorno a un leader riconosciuto dall’insieme delle correnti. L’Italia dei valori avanza pretese da grande parrocchia, però Di Pietro si muove come un agitatore di piazza. Ogni volta che appare in tivù, la sua tribuna costante, urla, sbraita, lancia proposte ansiogene, rivolte a distruggere più che a costruire. Il capo di Sinistra e libertà, Nichi Vendola, è un illusionista avventato. Convinto di poter guidare un fronte in grado di battere il centrodestra.

Su questo caos incombe una data gonfia di rischi: il mercoledì 29 settembre. Quel giorno, Berlusconi presenterà alla Camera il programma di rilancio del governo. Tuttavia è ancora buio fitto sulla conclusione del dibattito. Ci sarà una mozione di fiducia? Oppure una semplice conta dei voti a favore del premier? La famosa quota 316 di cui tanto si parla verrà raggiunta o il governo cadrà? E se anche non cadesse, quanto potrebbe durare ancora? Venerdì il premier ha garantito che resterà in sella fino al 2013. Ma i cimiteri sono pieni di leader convinti di campare all’infinito.

Dunque non resta che affrontare la prova delle urne, anche con l’attuale legge elettorale. So bene che ha molti difetti e andrebbe migliorata. Però non credo che, in questo disordine avvelenato, sia possibile cambiarla con un confronto non sanguinoso. So altrettanto bene che al voto ci arriveremo attraverso un percorso di guerra. Segnato da tappe orrende che è facile prevedere. Una violenza verbale sempre più maligna. Scontri fra bande avversarie.

Conflitti sociali a ciclo continuo. La discesa in campo del ribellismo rosso e, forse, di quello nero. Gli assalti della criminalità organizzata, un potere politico nascosto che si rivela sempre quando i partiti mostrano la loro impotenza. E di proposito non metto in conto ciò che potrà emergere dalle sabbie mobili della crisi economica e finanziaria. Certo, andare alle urne subito risulterà per tutti una prova del fuoco. Ma sarà sempre meglio rischiare che tirare a campare nella palude odierna. Sotto la luce livida dei televisori che, ogni sera, scaraventano nelle nostre case i dossieraggi di Bocchino, le acrobazie barocche di Vendola, le chiassate di Di Pietro, i brontolii di Bersani, i ruggiti faticosi di Bossi, le velleità sudiste di Casini. E per finire, i bla bla alluvionali del Cavaliere, premier senza più premierato.

(di Giampaolo Pansa)

Ecco perché il Cav non deve essere stappato


Sì è vero, Berlusconi è il tappo del sistema politico italiano che blocca o fre­na il suo pieno manifestarsi. Berlusconi è il tappo che impedisce la fuoriuscita dei liquami della partitocrazia. Se salta il tappo, salta quello straccio di demo­crazia bipolare su cui ha retto la Secon­da Repubblica, garantendo almeno l’al­ternanza. Si passa alla Terza Repubbli­ca, che magari non sarà la Prima, ma con lei farà rima.

Se salta il tappo, che per molti politici e politologi è la causa di tutti i mali presenti e della caduta così in basso della nostra politica, si dispie­gherà finalmente la politica come voi de­siderate. E allora verrà il bello: il centrodestra si farà in quattro, e il centrosini­stra pure. Più un paio di terzi­ni della politica che preten­deranno di giocare al centro. Insomma verrà raddoppiato il quadro politico presente che nato bipolare con ten­denza al bipartitismo, si è già convertito al bipolarismo con tendenza al quadriparti­tismo, più Casini al centro. Ora i cinque soggetti si prepa­rano a diventare dieci. Risor­geranno sinistre radicali e de­stre sociali o dissociate, i cen­trini saranno almeno due, uno cattolico e l’altro laico, salterà il patto con la Lega e dall’altro versante con Di Pie­tro, mancando il tappo che coagula i due poli, e non escludo affatto per la stessa ragione il divorzio tra cattoli­ci democratici e sinistra de­mocratica.

Se salta il tappo si verseran­no i liquami della partitocra­zia e il Paese tornerà ingover­nabile, con governi piccoli e deboli, a tempo, gioia dei po­teri forti e dei mediatori con ricattino annesso. Non che adesso siano rose e fiori, tut­t’altro; di liquami è investito anche il Pdl, ragazzi, e ci so­no affaristi e mezze tacche ma si preferisce tacere nel no­me dello schemino amico­nemico su cui regge il bipola­rismo. Non esprimo dunque un giudizio morale dicendo che poi verrà la fogna men­tre ora navighiamo in chiare fresche e dolci acque; no, la fogna c’è già, eccome. Solo che con la svolta partitocrati­ca, con il salto del tappo, la fogna non verrà più convo­gliata in due collettori, non sarà subordinata all’esigen­za di garantire la governabili­tà e la stabilità, ma diventerà il quadro del sistema. Non prospererà più dentro il siste­ma, accovacciata tra le sue pieghe, ma coinciderà con il sistema, sarà la più coerente rappresentazione del qua­dro politico.

Se salta il tappo, il futuro che ci aspetta sarà una demo­crazia decapitata, acefala. Abbiamo deprecato, anzi hanno deprecato per anni, la democrazia con la leader­ship, accusandola di cesari­smo e di populismo; avremo la democrazia senza leader ma oligarchica, con tanti ca­petti di passaggio e populi­smi da passeggio. Non han­no capito lorsignori che il ve­ro problema della nostra de­mocrazia non è la leadership forte, semmai l’assenza di una leadership alternativa. E non hanno poi capito che il guaio del nostro sistema poli­tico non è la presenza di un leader troppo forte ma di una politica troppo debole, debole di proposte, di classe dirigente e contenuti. Non è la leadership a generare il vuoto di progetti e di élite , ma è il vuoto di progetti e di élite a essere riempito da una leadership forte. Il partito personale non nasce dall’im­posizione demagogico- auto­ritaria di Berlusconi, ma na­sce quando la politica non ha più niente da trasmettere e allora si lega a un leader: non è solo il caso di Berlusco­ni. Scomparsa la Dc c’è Casi­ni, scomparsa la sinistra c’è Vendola o c’era Veltroni, scomparsa la destra c’era Fi­ni. La Lega è il nome colletti­vo per dire Bossi, L’Italia dei valori è la metafora per non dire solo Di Pietro.

La politica fa schifo, dice Sergio Romano sul Corsera , e subito concordo. Ma poi mi guardo intorno e vedo che cos’è oggi la magistratu­ra, cosa sono i giornali, cos’è la cultura, cos’è l’imprendi­toria signora Marcegaglia, cosa sono le élite e allora ho l’impressione che la politica sia ancora una volta, demo­craticamente, lo specchio del Paese e delle sue classi di­rigenti. Ma vi pare normale che si possa leggere a pochi centimetri dalla disamina di Romano una difesa di Fini considerato in buona fede: anche per lui, come per Scajola, fu dato a sua insapu­ta l’appartamento del suo partito al cognato e a una mi­­steriosa società con sede nei Caraibi, fu dato il contratto Rai alla suocera, e via dicen­do? Via, offendete la vostra intelligenza e la vostra digni­tà a parlare di buona fede.

E a quegli altri di Repubblica che piangono la morte del dissenso in Italia, avete mai detto una sola parola quan­do i leader che voi difendete, o voi stessi, condannavate al­la morte civile il dissenso di destra? Ma con che faccia, con che stomaco venite a di­re queste cose? E il linciaggio verso il Giornale e Libero per aver fatto giornalismo d’in­chiesta e aver pubblicato ciò che è stato poi confermato, dove lo mettete? Concludo: se la politica è scesa così in basso, i giornali, e non solo loro, si sono collocati alla stessa altezza. Ma se salta il tappo, brinderemo finalmen­te coi liquami.

(di Marcello Veneziani)

domenica 26 settembre 2010

Il futuro? Sarà populista


«Non sottovalutate mai il potere del popolo», ha spiegato Christine O'Donnell, candidata sostenuta dal Tea Party, dopo aver vinto le primarie repubblicane in Delaware. «Noi non siamo un partito, siamo un popolo», ha detto Silvio Berlusconi ai suoi sostenitori. «Noi siamo gente del popolo», ha precisato Mario Borghezio, europarlamentare della Lega nord in un talk-show su La7. E ci sarà molto "popolo viola" oggi a Cesena alla Woodstock di Beppe Grillo con lo slogan (e soprattutto il libro in libreria) «Prendiamoci il futuro», mentre il popolo della rete non si capisce chi sia, ma c'è sempre. Ma se il futuro è populista, il passato e il presente che colpe hanno?

Le fratture sociali, con la mancata efficace transizione dalle economie industriali e nazionali a quelle globali, e la paura dello straniero, sotto forma di immigrazione da governare, fanno sì che s'aggiri per l'Europa lo spettro del populismo, che poi torna buono quando ci sono le elezioni anche ai partiti dei più buoni.

«Almeno in Europa», spiega Marco Tarchi, docente di scienze politiche a Firenze e autore nel 2003 di un libro dal titolo L'Italia populista. Dal Qualunquismo ai girotondi, «è sotto gli occhi di tutti che il futuro è populista. In America è diverso, lì è trasversale. Anche Obama è stato accusato di populismo».

Ma da che cosa nasce questo flusso continuo di malumori che si trasformano in odio e in x sulla scheda elettorale, «se non dalla questione immigrazione, come primo elemento, e dalla corruzione della politica, perduto il motore dell'ideologia, come secondo elemento»? Ovviamente la novità – Tarchi lo aveva già scritto nel libro del 2003 – è che venature di questo tipo si colgono forti anche a sinistra, per esempio nella Die Linke tedesca. Ricorda Tarchi che già vent'anni fa gli studiosi iniziavano a prevedere che sarebbero potuti nascere «movimenti populisti capaci di raccogliere fino al 15 per cento dei consensi, oggi siamo lì». Perché sono molte le grandi e antiche linee di frattura – centro/periferia, Stato/Chiesa, datori di lavoro/lavoratori – ma a queste oggi si è aggiunta «la difficile gestione di una società multietnica e multiculturale». Le linee di frattura creano le posizioni radicali e un fronte molto vivo di conflittualità. «Fino ad alcuni anni fa si pensava che certi paesi potessero essere immuni da questi fenomeni: l'Olanda, la Gran Bretagna, la Svezia. Esempi travolti».

E la causa di questo muro infranto? «Un cortocircuito di mentalità populista e imprenditori politici che la sfruttano. Così il carburante oggi è sparso un po' ovunque. Perché un po' ovunque destra e sinistra stanno vivendo un processo di acquisizione di una mentalità politica professionale che crea un forte distacco del pubblico elettorale», dunque altri, non i partiti tradizionali, cercano di interpretare i «brontolii» e di sollecitarli. La tentazione populista, inoltre, affascina sempre più strati dell'opinione pubblica «perché il ceto medio è il grande perdente di questa fase storica», però c'è un elemento positivo nel fatto che esistono ancora «partiti che hanno la capacità di trattenere nel sistema questi movimenti, senza farli diventare antisistema. Il populismo gestito è un fenomeno sistemico. È improbabile che questi partiti raggiungano da soli la maggioranza, ma è sempre più probabile che abbattano il muro dell'illegittimità». Può esistere un populismo senza capopopolo? Per Tarchi, è molto difficile: «Il popolo ha bisogno di un suo ventriloquo per parlare con una sola voce».

L'Italia è all'avanguardia su questo fronte, dice Luciano Canfora, ordinario di Filologia greca e latina presso l'Università di Bari. «Se dovessi, sotto tortura, dare una definizione di populismo, direi che è l'unione di un capo carismatico e di un movimento in cui l'elemento irrazionale prevale. Queste due cose stanno assieme di solito perché un capo indica un nemico. Per esempio, il nazionalsocialismo riversò contro gli ebrei tutte le frustrazioni proletarie e, come dice August Bebel, l'antisemitismo è il socialismo degli imbecilli». Però Canfora non pensa che il populismo sia un fenomeno nuovo, «se non forse per gli esempi di caudillismo dell'America latina», insomma «non è un incubo futuro», c'è sempre stato. Semmai «nel periodo ideologico, termine che io uso in senso buono, ci sono state delle parentesi positive, come dal 1945 al 1950, al momento della nascita delle Costituzioni europee. Ma già nel '56 Pierre Poujade eleggeva 50 deputati in Francia e non è che Jean-Marie Le Pen sia molto diverso». L'origine di questi fenomeni, anche per Canfora, è sociale, «è quello che aveva capito Adolf Hitler», il problema è che o si fanno riforme vere «oppure è più facile additare un nemico. Freud direbbe che c'è un Es scatenato contro un nemico che non è tale, come nel caso degli extracomunitari». Sarà anche che le nuove tecnologie, l'informazione accelerata, aiutano la diffusione del virus? «Ma vale anche il contrario, le stesse tecnologie dovrebbero servire pure a controllare queste pulsioni. Le tecniche sono tutte neutrali. I problemi vengono dalle fratture sociali».

Altre «ragioni strutturali inducono a prevedere una stagione di populismo», spiega Agostino Giovagnoli, professore di Storia contemporanea all'Università Cattolica di Milano. Perché siamo passati da società «in cui contavano le opinioni pubbliche, come contrappeso agli esiti elettorali, a società in cui il ruolo delle opinioni pubbliche si è affievolito». Perché i circuiti rapidi e diretti della comunicazione impongono nuove forme alla politica. «La svalutazione della carta stampata, internet e la tv hanno rivoluzionato le cose, ma al fondo del fenomeno c'è sempre una ragione sociale: la centralità del cittadino consumatore è diventata l'essenza stessa della politica». Se per Giovagnoli è difficile che questi fenomeni si trasformino in nuove, vere forme di rappresentanza, è più facile che influenzino tutto il campo della politica, perché «è in crisi il sistema stesso della rappresentanza, la democrazia delegata». A voler vedere un elemento di ottimismo, ci potrebbe perfino essere, e in parte c'è già, anche «essere uno sbocco positivo: venivamo da una democrazia elitaria, dunque erano prevedibili» forme di apertura a metodi di partecipazione più ampia e diretta, «il problema è che i partiti che sono in difficoltà usano il populismo per rafforzarsi, come dimostra perfettamente il caso di Nicolas Sarkozy in Francia sulla questione dei Rom». L'elemento più preoccupante, invece, «è la morte della cultura politica, nel senso che il dibattito non è più sulle cose, sulle riforme». Ma, «giochi di parole a parte», che differenza c'è tra il popolarismo, tradizione italiana, e il populismo? «Il popolarismo evoca qualcosa di antico, una politica che sapeva cogliere e trattenere interessi collettivi. Oggi questi interessi sono molto difficili da interpretare. Il moderno populismo, invece, nasce dalla rivoluzione dei consumi, un'evoluzione storica che inizia negli anni 80».

Ottana, tre fucilate contro la casa del sindaco


Cinquecento grammi di gelatina e nitrato d'ammonio. Che deflagrano fuori dalla porta dell'Eiss, l'ente privato che eroga servizi sociali in paese. Provocando gravissimi danni. E, nemmeno cinque minuti dopo, tre fucilate sparate da un calibro 12 alle finestre della casa del sindaco Gian Paolo Marras, 40 anni, ex cassintegrato Legler, eletto a maggio. Con i pallettoni che bucano i vetri, rimbalzano su muri e soffitto. Feriscono a un polso la moglie Maria Grazia. Sfiorano la bimba di quattro anni. E arrivano dentro la culla del suo fratellino di due mesi.

Questo il bollettino di guerra della notte di Ottana. Che, miracolosamente, non registra nessun ferito. Ma lascia il paese intero sgomento. Con decine di persone, svegliate ieri a mezzanotte e quarantacinque dall'esplosione che sconquassa la palazzina gialloverde a pochi metri dal Comune, che da mattina si dividono incredule tra il centro sociale distrutto e la casa del sindaco, che irremovibile annuncia: «Mi dimetto».

Tutto accade in pochi minuti. Manca un quarto d'ora all'una quando il sonno dei 2500 abitanti del comune barbaricino è interrotto da un boato fortissimo. Arriva dall'Eiss, un ente privato che da qualche decennio lavora in collaborazione con Comune e Regione erogando servizi sociali. Carabinieri e polizia si mettono in moto e arrivano sul posto. Lo spettacolo che trovano è spettrale.

La porta della piccola palazzina in via Libertà è sventrata. Come la tettoia sovrastante. Sulla soglia un buco profondo una decina di centimetri segna dove la bomba è esplosa. Le finestre, anche una del vicino Comune, spaccate. Sulla strada vetri e detriti. Dentro calcinacci e mobilia in pezzi dappertutto.

Non c'è però nemmeno il tempo di rendersi conto della situazione. È circa l'una quando al centralino dei carabinieri arriva la telefonata disperata del sindaco Gian Paolo Marras. Stanno sparando alle finestre di casa sua. Sventagliate di pallettoni. La moglie è ferita.

I carabinieri della compagnia di Ottana, guidati dal capitano Antonio Parillo, si catapultano nella villetta di pietra e tufo di via Boeddu. Dove l'ex cassintegrato Legler, eletto a maggio nella civica «Noi per il futuro» vive con la moglie Maria Grazia Puddu e i due figli: una di quattro anni e uno di due mesi.

Anche qui la scena che si presenta è surreale. Tre delle quattro finestre della facciata sono crivellate dai colpi. I pallettoni, esplosi da un fucile da caccia calibro 12 dal muretto che delimita il giardino, hanno sfondato i vetri. Sono rimbalzati sul soffitto. Nella stanza di destra del piano di sopra, la prima a essere colpita, dormivano il sindaco, la moglie, e i due bambini ai due lati del letto. Quando i colpi sono arrivati i vetri spaccati hanno coperto il lettino della bimba. Che si è alzata urlando. Poi i pallettoni sono rimbalzati su muro e soffitto. Uno è finito vicino al polso della moglie Maria Grazia, bruciandola. Un altro si è appoggiato inerte nella culla del bimbo.

Il fuciliere sente le urla ma non si ferma, e spara altre due colpi sulle finestre del piano di sotto. Con i pallettoni che sfiorano la gamba del sindaco. Che scendeva le scale per prendere il telefono e avvisare i carabinieri. Arriva il 118, la moglie di Marras è ferita, ma rifiuta il ricovero «devo allattare» spiega. Entrambi sono sotto choc.

La notte passa veloce, e dopo poche ore Ottana si sveglia ferita. Volontari e impegati svuotano l'Eiss dalle macerie, mentre a pochi metri i bambini delle elementari fanno lezione. Gli artificieri dell'arma hanno già fatto i rilievi. La bomba era una micidiale miscela di gelatina e nitrato d'ammonio.

A poche centinaia di metri amici, familiari, ex compagni di lavoro, consiglieri comunali, semplici cittadini, portano la loro solidarietà al sindaco. Che, con la faccia tirata e la paura negli occhi, trova l'energia per una riunione straordinaria nella taverna di casa. C'è da annullare il consiglio previsto nel pomeriggio. Da fissare un'assemblea nei prossimi giorni. Da annunciare le proprie «irrevocabili» dimissioni.

In un attimo il cielo si gonfia di pioggia. E un velo plumbeo di tristezza e paura cala sulla nobile decaduta dell'industria della Sardegna centrale. Che, invece di risollevarsi, sembra cadere ogni giorno un po' più in giù.

sabato 25 settembre 2010

Fli? Niente a che vedere con la Nuova Destra

Si può ancora parlare di ideologia politica? Esiste ancora un'etica della responsabilità politica che vada oltre i giochi di potere e le dinamiche di partito? I pensieri «progressisti» della Nuova Destra degli anni 70 e 80 possono trovare un parallelo con il neonato Futuro e Libertà di Gianfranco Fini? Questi e a molti altri interrogativi hanno animato l'incontro tra Marco Tarchi (già ideologo della Nuova Destra, ora docente di scienza politica all'Università di Firenze e autore del volume «La rivoluzione impossibile») e il sottosegretario allo Sviluppo Economico Stefano Saglia.

Attraverso una serie di domande, più o meno provocatorie, i due hanno discusso dell'attività politica di Tarchi nel passato e della politica di oggi, alla luce dell'esperienza dell'onorevole Saglia. «Paragonare le mosse del presidente della Camera Fini a quelle della Nuova Destra missina non sarebbe corretto - spiega l'onorevole Stefano Saglia - la metapolitica dei primi, alla perenne ricerca di provocazioni culturali che smuovessero l'Msi, non ha nulla a che fare con il desiderio di arrivare al potere del secondo». E poi l'affondo: «Gianfranco Fini, dopo aver sopportato a fatica l'ascesa al potere del premier Berlusconi ora vuole sostituirsi a lui e salire sul carro dei vincitori che riusciranno a sconfiggere il presidente del Consiglio. Una mossa che non mi piace per niente».

Volendo proseguire con i parallelismi: la Nuova Destra poteva considerarsi il lato progressista dell'Msi, così come Futuro e Libertà lo è oggi per il Pdl? «A giudicare dalla mia esperienza nella metapolitica missina direi di no - assicura Marco Tarchi - la Nuova Destra non era modernista e non cercava accesso ai salotti buoni, erano solo le idee a muovere la nostra ritrovata voglia di ideologia». Quella di Futuro e Libertà - osserva l'onorevole Saglia - «è un dietro front nei confronti di temi, quali la bioetica e l'immigrazione, che fino a tre anni erano stati affrontati in tutt'altro modo»

Gianfranco traditore e ladro di sogni


Io so chi c’è dietro le carte che accusano Fini. So chi le ispira, conosco bene il mandante. Non c’entra affatto con Palazzo Chigi, i servizi segreti, il governo di Santa Lucia. È un ragazzo di quindici anni che si iscrisse alla Giovane Italia. Sognava un’Italia migliore, amava la tradizione quanto la ribellione, detestava l’arroganza dei contestatori almeno quanto la viltà dei moderati, e si sedette dalla parte del torto, per gusto aspro di libertà. Portava in piazza la bandiera tricolore, si emozionava per storie antiche e comizi infiammati, pensava che solo i maledetti potessero dire la verità.

Quel ragazzo insieme ad altri coetanei fondò una sezione e ogni mese facevano la colletta per pagare tredicimila lire di affitto, più le spese di luce, acqua e attività. Si tassavano dalla loro paghetta ma era solo un acconto, erano disposti a dare la vita. Il ragazzo aveva vinto una ricca borsa di studio di ben 150mila lire all’anno e decise di spenderla tutta per comprare alla sezione un torchio e così esercitare la sua passione politica e anche di stampa. Passò giorni interi da militante, a scrivere, a stampare e diffondere volantini. E con lui i suoi inseparabili camerati, Precco, Martimeo, il Canemorto, e altri. Scuola politica di pomeriggio, volantini di sera, manifesti di notte, rischi di botte e ogni tanto pellegrinaggi in cerca di purezza con tricolori e fazzoletti al collo. Erano migliaia i ragazzi come lui. Ce ne furono alcuni che persero la vita, una trentina mi pare, ma non vuol ricordare i loro nomi; lo infastidiva il richiamo ai loro nomi nei comizi per strappare l’applauso o, peggio, alle elezioni per strappare voti. Perciò non li cita. Sa solo che uno di quei ragazzi poteva essere lui.

È lui, il ragazzo di quindici anni, il vero mandante e ispiratore delle accuse a Fini. Non rivuole indietro i soldi che spese per il torchio, per mantenere la sezione, per comprare la colla. Furono ben spesi, ne va fiero. Non rivuole nemmeno gli anni perduti che nessuno del resto può restituirgli, le passioni bruciate di quel tempo. E nemmeno chiede che gli venga riconosciuto lo spreco di pensieri, energie, parole, opere e missioni che dedicò poi negli anni a quella «visione del mondo». Le idee furono buttate al vento ma è giusto così; è al vento che le idee si devono dare. Quell’etichetta gli restò addosso per tutta la vita, e gli costò non poco, ma seppe anche costruirvi sopra qualcosa. No, non chiede indietro giorni, giornali, libri, occasioni e tanto tanto altro ancora.

Però quel che non sopporta è pensare che qualcuno, dopo aver buttato a mare le sue idee e i loro testimoni, dopo aver gettato nel cesso quelle bandiere e quei sacrifici, dopo aver dimenticato facce, vite, morti, storie, culture e pensieri, possa usare quel che resta di un patrimonio di fede e passione per i porci comodi suoi e del suo clan famigliare. Capisce tutto, cambiare idee, adeguarsi al proprio tempo, abiurare, rinnegare, perfino tradire. Non giustifica, ma capisce; non rispetta, ma accetta. È la politica, bellezza. E figuratevi se pensa che dovesse restare inchiodato alla fiamma su cui pure ha campato per tanto tempo. Però quel che non gli va giù è vedere quelle paghette di ragazzi che alla politica dettero solo e non ebbero niente, quei soldi arrotolati di poveracci che li sottraevano alle loro famiglie e venivano a dirlo orgogliosi, quelle pietose collette tra gente umile e onesta, per tenere in vita sezioni, finire in quel modo. Gente che risparmiava sulla benzina della propria Seicento per dare due soldi al partito che col tempo finirono inghiottiti in una Ferrari. Gente che ha lasciato alla Buona Causa il suo appartamento. Gente che sperava di vedere un giorno trionfare l’Idea, come diceva con fede grottesca e verace. E invece, Montecarlo, i Caraibi, due, tre partiti sciolti nel nulla, gioventù dissolte nell’acido. È questo che il ragazzo non può perdonare.

Da Berlusconi il ragazzo non si aspettava nulla di eroico, e neanche da Bossi o da Casini. E nemmeno da Fini, tutto sommato. Capiva i tempi, i linguaggi e le esigenze mutate, le necessità della politica, il futuro... Poteva perfino trescare e finanziare la politica con schifose tangenti; ma giocare sulla pelle dei sogni, giocare sulla pelle dei poveri e dei ragazzini che per abitare i loro sogni si erano tolti i due soldi che avevano, no, non è accettabile.

Attingere da quel salvadanaio di emarginate speranze è vergognoso; come vergognoso è lasciare col culo per terra tanta gente capace e fedele nei secoli, che ha dato l’anima al suo partito ed era ancora in attesa di uno spazio per loro, per favorire con appaltoni rapidi e milionari il suddetto clan famigliare. Lui non crede che il senso della vita sia, come dice Bocchino in un’intervista, «Cibo, sesso e viaggi» (si è scordato dei soldi).

Il vero ispiratore e mandante dell’operazione è lui, quel ragazzo di quindici anni. Si chiama Marcello, ma potrebbe chiamarsi Pietrangelo o Marco. Non gl’interessa se Gianfrego debba dimettersi e andarsene all’estero, ai Caraibi o a Montecarlo, o continuare. Lo stufa questo interminabile grattaefini. È pronto a discutere le ragioni politiche, senza disprezzarle a priori. Sentiremo oggi le sue spiegazioni (ma perché un videomessaggio, non è mica Bin Laden). Però Fini non ha diritto di rubare i sogni di un ragazzo, di un vecchio, di un combattente. Non ha diritto di andarsi a svendere la loro dignità, i loro sacrifici, le loro idee. Non può sporcare quel motto di Pound che era il blasone di quei ragazzi; loro ci hanno rimesso davvero, lui ci ha guadagnato. Quel ragazzo ora chiede a Fini solo un piccolo sforzo, adattare lo slogan alla situazione reale e dire: se un uomo è disposto a svendere casa, o non vale niente la casa o non vale niente lui. E la casa valeva.

(di Marcello Veneziani)

Le domande e la decenza


Il videomessaggio promesso per le prossime ore dovrà essere il momento della verità per Gianfranco Fini. Si tratta di una scelta giusta, anche se tardiva, perché il presidente della Camera avrà la possibilità di chiarire tutti gli aspetti ancora oscuri della vicenda della casa di Montecarlo. E anche di dare una risposta convincente a un'opinione pubblica frastornata da tutto ciò che è accaduto e sta accadendo in questi giorni: l'apertura di una delle pagine più torbide e avvilenti della politica italiana, mai come oggi macchiata da sospetti, guerre di dossier, insinuazioni, denigrazioni, lotte di potere che finiscono per infangare, insieme, ruoli istituzionali e apparati di sicurezza.

Dovrà dire, come già il Corriere ha provveduto a chiedere nell'agosto scorso, come mai la casa di Montecarlo, eredità di Alleanza Nazionale, sia finita nella disponibilità del «cognato» Giancarlo Tulliani: il «disappunto» e lo sconcerto già evocati dal presidente della Camera non bastano. Dovrà dire qualcosa sul contratto di compravendita a una società off-shore. Sull'asserita congruità del prezzo di vendita dell'immobile. Dovrà dire se in questi mesi tormentati ha chiesto al signor Tulliani ragguagli sulla titolarità della (anzi delle) società che hanno acquistato la casa per poi affittarla allo stesso soggetto che se n'era fatto intermediario. E soprattutto, davvero sopra ogni altra cosa, quale risposta il presidente della Camera ha ricevuto dal signor Tulliani.

Sinora Fini ha dichiarato di confidare nelle indagini della magistratura. Non è sufficiente. Oltre agli (eventuali) reati esistono i comportamenti: lo stesso «codice etico» che a Mirabello Gianfranco Fini ha dichiarato di voler stilare a tutela dell'onore della politica. La sua non dovrà essere una risposta ai magistrati, ma alle istituzioni, alla politica, e persino a quella fetta di opinione pubblica che guarda con interesse alle posizioni del presidente Fini. Le risposte le deve Fini, ma anche il premier. È vero che uomini a lui vicini (o gli stessi servizi che dipendono da Palazzo Chigi) hanno contribuito a costruire dossier per demolire la figura pubblica della terza carica dello Stato? Accusa degli alleati, non dell'opposizione.

Solo così è possibile fermare quella spirale di imbarbarimento della lotta politica che lascia allibita e sgomenta l'opinione pubblica incapace di rassegnarsi all'idea che la guerra nella maggioranza non abbia nessuna attinenza con i contenuti, ma con un avvitarsi sempre più disinibito nei gorghi delle rappresaglie, dei colpi bassi e dei massacri mediatici. È incredibile che il conflitto politico abbia come incontrastati protagonisti faccendieri e avventurieri, autentiche barbe finte (o un po' posticce), accompagnatori, investigatori, carte intestate di paradisi fiscali, siti caraibici che prima anticipano notizie bomba e poi fanno sparire le notizie anticipate, precari ministri della Giustizia che, sia detto con il massimo rispetto per il governo sovrano di Saint Lucia, difficilmente appaiono paragonabili a luminose figure di studiosi del diritto come Giuliano Vassalli o Giovanni Conso. La soglia della decenza è stata oltrepassata. Non resta che tornare indietro e riacquistare, tutti, un profilo di dignità. Per quanto malandata, l'Italia non merita un trattamento simile.

(di Pierluigi Battista)

giovedì 23 settembre 2010

Il bipolarismo sessuale di Vendola

Se conta la legge del contrappasso, dopo Berlusconi il prossimo premier sarà donna o gay. È su questa elementare legge biopolitica di compensazione che basa la sua fortuna Nichi Vendola: dopo il Mandrillo verrà la Donnola, dopo il celodurismo bossiano e la seduzione berlusconiana, verrà l’epoca dell’orecchino e del diversamente seduttivo. Leader non se ne vedono in giro, se ne è accorto ora pure Galli della Loggia; solo mezzi leader e quaquaraquà. Niente donne. A questo punto meglio cambiare genere.

Per farsi sdoganare, Nichi ha rassicurato l’Italia moderata che di gay a Palazzo Chigi c’è già stato un democristiano. E giù tutti i giornali a fare il minuetto dell’ipocrisia e interrogare in giro su chi fosse: tutti sapevano, cronisti inclusi, ma fingevano di non sapere. Alludevano all’interessato. Anziché creare un morboso gossip che circola oltre gli scritti, non è meglio dire chiaro e tondo che il nome in questione è quello presunto di Emilio Colombo, aggiungendo che si tratta di una maldicenza? E per confortare lo stesso Colombo e poi Vendola, è possibile aggiungere che la stessa maldicenza raggiunse altri due premier, Rumor e perfino Spadolini? Naturalmente aiutava la circolazione della voce gaia il loro statuto di signorini. Ricordo alcuni passaggi, devo dire eleganti, nei comizi di Almirante a proposito delle suddette «vergini». Ma era l’epoca macha, e un leader della destra nostalgica doveva essere e mostrarsi come il duce, uno sciupafemmine virilone e galante. Sessualmente la Dc era il partito della neutralità e dell’anestesia erotica, della sessualità flebile o repressa, o addirittura della castità; e invece l’Msi era il partito priapesco, dell’erezione permanente, con una sacra fiamma che si accendeva non solo nei cuori ma anche più in basso.

Ora che il tempo è mutato e dopo la parabola mandrillesca da Craxi a Berlusconi, il bipolarismo esige una differenziazione sessuale tra i due poli. Mancando infatti contenuti politici e passioni ideali, le differenze si aggrappano a tutto, anche a organi tutt’altro che ideologici. Vendola sta trasformando quel che un tempo era considerato un handicap in una risorsa. Perciò si gloria della sua omosessualità come punto di differenza e di futurismo rispetto alla vecchia politica passatista e stancamente eterosessuale. Vuol dimostrare che dal Cialis all’orecchino c’è progresso sociale e morale.
Se posso dirvi la mia, non considero l’orecchino di Vendola e il suo statuto omosessuale come criteri di giudizio politico, né in bene né in male. Arrivo a dire che preferivo l’omosessualità privata di alcuni suoi predecessori a quella pubblica; e non perché prediliga l’ipocrisia, ma al contrario, perché non ritengo l’omosessualità un titolo di merito o di demerito per i concorsi pubblici, compreso quello a premier. Vero è che nella prima Repubblica alcuni politici uscirono di scena perché ricattati con dossier e foto omosex.

Trovo però che la sua scelta di vita dovrebbe restare intima, non coperta da segreto di Stato ma da buon gusto e da sobria distinzione tra sfera pubblica e sfera privata. Viviamo un paradosso: l’omosessualità, che attiene alla sua sfera privata, diventa oggetto di dibattito pubblico; e il comunismo, professato da Vendola fino a ieri (fu eletto in Rifondazione comunista), viene coperto da un velo di riservatezza, quasi ricacciato nella sfera dei gusti intimi. Come dire, ognuno ha i suoi vizietti privati, ove per vizietto non si intende l’omosessualità ma il comunismo. No, signori, ho troppo rispetto per la storia e anche la tragedia del comunismo per confinarlo tra le tendenze intime da rimuovere nei discorsi pubblici. Preferirei un leader che si dichiarasse erede di Peppino Di Vittorio o perfino di Lenin, piuttosto che di un premier democristiano gay in quanto gay.

Di Vendola penso tutto il bene e tutto il male possibile. Ho istintiva simpatia verso di lui perché proviene da due mondi che mi sono cari: la poesia, con vista sulla filosofia, e la mia Puglia, con vista proustiana sullo stesso tempo perduto.

Nichi ha la testa bombata di un mio amico pugliese d’infanzia, Peppino, anch’egli scapolo e malato di filosofia. La differenza è che da pugliese più legato alla tradizione preferisco le orecchiette agli orecchini. Riconosco a Vendola buona fede e slancio ideale. Mi piace la sua passione civile, il suo parlare accorato, la sua intelligenza, le sue letture e mi disturba poco la sua zeppola. Però l’altro giorno l’ho visto al Tg1 rispondere sulla sanità: ha fatto un predicozzo morale e una tirata ideologica che poteva andar bene per un prete o un filosofo ma non per un governatore di una regione che nel 2009 ha accumulato un debito di 300 milioni di euro nella sanità. Allora dico: non ti puoi permettere di dare lezioni di principio se la tua regione sta così inguaiata. E non puoi chiamarti fuori dalle indagini sulla sanità perché se un governatore non segue direttamente quel che avviene nel primo settore di spesa e di impegno con i cittadini della regione che governa, non è adatto a governare.

Ecco, Nichi, il problema è questo: il tuo comunismo lirico mi piace come genere letterario, non come modo di governare. Dei pugliesi che ti hanno votato non riesco a dir male e non solo perché sono miei conterronei, ma anche perché hanno voluto scommettere sulla passione civile, sul sogno, sulla politica come ideale che tu hai saputo suscitare. Mi piacerebbe vederti in lizza a livello nazionale per la stessa ragione.

Tifo per te nelle primarie della sinistra. Ma so bene che «cum li sermoni non si governano li stati», come diceva un tuo omonimo che la politica la conosceva bene, in teoria e in pratica.
In un empito visionario, arrivo ad auspicare la seguente riforma della politica: vorrei che ci fosse una bipartizione della politica, in camera alta e in camera bassa, in premierato di gestione e presidenza di orientamento. Una si occupa della realtà con un occhio ai valori, l’altra dei valori con un occhio alla realtà. Ecco, in questo binario, ti vedrei bene sul versante non di gestione ma di orientamento. Perché se Berlusca è un sultano, come dice Sartori, tu sei un ayatollah. Pure uno scarrafone è bello a Imam suo.

(di Marcello Veneziani)

martedì 21 settembre 2010

Pietrangelo Buttafuoco: "Fini ha tradito tutti i nostri valori"


Pietrangelo Buttafuoco è un intellettuale di destra deluso e arrabbiato, anzi vergognato. Lo ha detto anche alla trasmissione «L'ultima parola» di Gianluigi Paragone, purtroppo vista da pochi perché si è protratta su Raidue fino all'una e mezza di notte.

Pietrangelo, parlami di questa tua amarezza di ex missino che si sente tradito.

«Quelli come me provano vergogna perché eravamo infilati tra la gente vera, che non è quella che si costruisce la carriera. Gente che incontravi a Catania, a Messina, a Enna, c'era questa umanità proletaria che credeva nei nostri valori e si entusiasmava. E in quella lunga fase di maggiore tensione, quando nessuno ci affittava i locali per le sedi perché temevano che li bruciassero, cominciammo a comprare le case. Ricordo perfettamente quando Almirante mandava le cambiali fatte per comprare le sedi a colleghi e simpatizzanti di partito che potevano permettersi il lusso di pagarle per conto del Msi. Alla famiglia Lazzano di Sciacca arrivavano regolarmente le cambiali da pagare, e il vecchio Lazzano le pagava. Era una pratica diffusa. Chiaro che la gente che ti ha dato aiuto poi si vergogni di questi fatti. Saranno 70 metri quadri l'appartamento di Montecarlo, ci sarà la cucina da 4000 euro, però è il dettaglio in sé che è deplorevole».

Tra l'altro s'è scoperto che nell'atto davanti al notaio di Montecarlo le firme del locatore e del locatario sono identiche, come se il cognato di Fini avesse affittato l'appartamento a se stesso.

«Sì, vero, ma la cosa peggiore è di non avere avuto mai un microfono a disposizione per raccontare il nostro punto di vista, facevamo una fatica immane avere uno spazio in Rai, la peggiore Rai di tutti i tempi, e perciò grida vendetta che l'unico sforzo politico è stato concedere l'appalto per un varietà televisivo alla suocera di Fini. Una cosa vergognosa e offensiva per quelli che hanno fatto i campi off, quelli che hanno fatto la battaglia culturale, soprattutto la battaglia contro l'egemonia culturale della sinistra. Cosa pensa Fini di fare la battaglia contro il conformismo con la trasmissione del varietà di sua suocera? Questo fa indignare, a maggior ragione chi come me ormai non fa più politica da una vita. L'altra sera quindi mi sono addolorato vedendo come andava il dibattito e ad un certo punto quello che ero io una vita fa ha preso il posto di quello che sono io oggi, del giornalista di oggi».

Ma oggi il partito di Fini dove va?


«Ma guarda, quelli che sono accanto a Fini a cominciare da Fabio Granata, dalla Perina, da Fabio fatuzzo a quelli che sono nella fondazione Fare Futuro, tutta gente che conosco bene, con cui sono cresciuto e con cui ho condiviso la battaglia politica, sono sicuramente coerenti perché continuano a dire le stesse cose che dicevano nel Msi, ma con una differenza sostanziale, e cioè oggi dicono che Fini era l'ostacolo fondamentale a quel processo di trasformazione del Movimento sociale. Perché nel frattempo che noi facevamo una battaglia politica all'interno del Movimento sociale, che era una battaglia culturale, di valori, c'era Gianfranco Fini che era l'ostacolo di tutto ciò. Oltretutto Fini aveva un partito, l'ha sfasciato, l'ha chiuso infilandosi in una catena di contraddizioni. Disse: "Dopo il predellino siamo alle comiche finali". Dopo due giorni lui era accanto a Berlusconi dimenticando le comiche finali. Dopodiché entra nel Pdl, dopo dice che il Pdl non gli piace e fa di tutto per sfasciarlo. Lui doveva semplicemente tenere il punto e tenere quel partito. Basta attenersi ai fatti e i fatti lo inchiodano alle contraddizioni. La rabbia e la vergogna io le confino in quei due episodi che secondo me sono gravi, la casa di Montecarlo e l'appalto Rai alla suocera, e sono abbastanza per provare repulsione».

lunedì 20 settembre 2010

Perchè Sakineh è scomparsa dai giornali italiani?

Et voilà! Un movimento con le mani, un gesto improvviso da una parte e Sakineh sparisce dai giornali e dai TG. Ma come, non è più in pericolo di essere lapidata? Non c'è più urgenza di salvarla da un destino infausto? No, ogni urgenza è sparita da quando Dieudonne M’Bala M’Bala, leader del partito antisionista francese, è andato a Teheran e ha chiesto informazioni ad Ali Zadeh, vice presidente del Consiglio della Magistratura e portavoce del Ministro della Giustizia. Dopo di che, tornato in patria, l'ha riferito a Thierre Meyssan, giornalista ed analista francese, che l'ha riportato in un articolo.

Infatti viene smontata tutta la montagna di bugie che sono state riferite su questa storia. Innanzitutto la prima cosa: non solo l'Iran ha aderito alla moratoria sulle lapidazioni, ma nel Codice Penale iraniano questa sanzione è stata praticamente cancellata. Infatti, perchè qualcuno possa essere condannato per adulterio, deve essere visto nell'atto di fare rapporti sessuali con persone diverse dal marito o dalla moglie da almeno quattro testimoni contemporaneamente. E' chiaro che una situazione del genere si può verificare sul set di un film porno, ma non nella realtà. Sakineh Mohammadi Ashtoni è stata condannata per omicidio: lei una sera ha drogato il marito e ha spinto l'amante Issa Taheri ad ucciderlo. Al termine del processo entrambi sono stati condannati a morte per impiccagione. Attualmente il processo è sottoposto all'esame della loro Corte Suprema, che sta valutando se il processo è stato fatto correttamente. I tempi non sono definibili (ogni processo ha sue peculiarità) ma l'esecuzione, se avverrà, lo sarà solo al termine di questo esame.

Allora, da dove vengono tutte queste notizie false? In parte dal figlio, che continua a vivere tranquillamente nella città di Tabriz, dove è spesso in contatto telefonico con giornalisti occidentali, che hanno il suo numero e con cui parla regolarmente (cosa anomala per un regime repressivo, no?). Ma la cosa più interessante è un'altra persona che spesso dà informazioni ai giornali e che viene qualificato come un avvocato di Sakineh. In realtà Javid Houstan Kian non è affatto un avvocato, ma è solo un amico del figlio. E non è vero che è scappato dall'Iran perchè perseguitato dal cattivissimo regime, ma semplicemente perchè hanno scoperto che lui fa parte di una organizzazione terroristica, i Mujaheddin del popolo, finanziata da Israele e responsabile di molti attentati dinamitardi contro i cittadini iraniani. Per la cronaca, è stato lui a riferire che Sakineh era stata frustata in carcere, per esempio; oppure che l'avevano torturata per costringerla a dire il falso nelle interviste televisive. Ed è probabile che il figlio della donna - che evidentemente vuole salvare la madre dalla pena di morte a qualunque costo - segua pedissequamente il copione da lui scritto. Un copione che ovviamente, data l'appartenenza di Kian ai Mujaheddin del popolo, è stato scritto alla sede del Mossad o della Cia.

Per scoprire queste cose è bastato andare a fare una chiacchierata in Iran con un responsabile, il portavoce del Ministro della Giustizia. Possibile che in Italia non ci sia stato un giornale o un telegiornale che abbia avuto la possibilità di inviare una persona che chiedesse un semplice colloquio? Tutta l'editoria italiana ha avuto un momento di rincoglionimento generale oppure sotto c'è qualcosa che ha impedito a tutti i giornali italiani e a tutti i telegiornali italiani di dire la verità? Basta rifletterci un attimo e la risposta è facile.

(di Antonio Rispoli)

Gianfry e Walter le prodezze dei co-affondatori


Spappolocrazia. Il neologismo sta ad indicare che il sistema Italia è in preda allo spappolamento. Fini schizza a est, Veltroni schizza a ovest, Miccicchè schizza a sud, Bossi schizza a nord. Mastella corre a Napoli, Vendola accorre da Bari, Chiamparino soccorre da Torino, Pisanu fa il tamburino sardo, Lombardo fa il sultano siculo e nell’harem delle alleanze fa fuori una concubina al giorno. Totò Cuffaro divorzia da Casini, il cui partito è in preda allo spappolamento, come i resti di Alleanza nazionale, Di Pietro vampirizza Bersani, ma a sua volta è vampirizzato dai grillini. Si spappola il Sud in una miriade di partitini a vocazione territoriale. E il Paese trema come un budino spappolato, diviso tra Nord, Sud e Roma capitale, la scassatissima trinità.

In questo clima cresce il randagismo parlamentare. Turbe di deputati privi di collare sciàmano randage per le strade della Capitale in cerca di nuove affiliazioni, nuovi padroncini e rassicurazioni di collegi. Abbaiano in interviste, tirano sul prezzo, si concedono al miglior offerente, giurano fedeltà per avere conferma di seggi o mostrano malessere per godere almeno di un’adozione a distanza. Si rivedono cari estinti: Diliberto e Ferrero riemergono dai sarcofagi del comunismo; ho visto l’altro giorno un altro glorioso trapassato, Pecoraro Scanio, operatore ecologico in senso politico, che vendeva tappeti verdi su una tivù locale. Riaffiora dopo un millennio perfino una mummia piemontese, Oscar Luigi Scalfaro, antenato paleolitico della Democrazia cristiana avanti Cristo. Si riaccendono polemiche perfino con l’antico egizio Giulio Andreotti. Attendiamo con ansia il ritorno dei ragazzi, tipo Ciriaco De Mita e Arnaldo Forlani.

Nel nostro Paese sta avvenendo qualcosa che somiglia alla fine di un lungo sceneggiato; scorrono i titoli di coda con i nomi dei partecipanti, anche alle puntate precedenti. Si preparano per il gran finale tutti quanti, comparse, protagonisti e antagonisti, per poi salutare il gentile pubblico pagante.

Dopo la partitocrazia venne la spappolocrazia. Stanchi della monarchia berlusconiana, i residui tossici dei vecchi partiti danno luogo a questa convulsa stagione di spaccature e riemersioni. Eppure avevamo raggiunto, per caso o per destino, la fortunosa coincidenza di un governo stabile, di una maggioranza larga, di un Paese che poteva tirare un sospiro di sollievo perché non aveva davanti a sé, per tre lunghissimi anni, la prospettiva di un sisma elettorale. Non c’erano elezioni in vista, poteva essere l’occasione per tutti, da destra a sinistra, per lavorare proficuamente sul futuro, ridisegnare progetti, culture politiche, selezionare classi dirigenti, prepararsi insomma alla scadenza di questo governo. Potevano investire per una volta su una doppia carta: lasciare che un governo governasse per davvero, lasciando la possibilità di realizzare il suo programma, o, dal punto di vista dell’opposizione, dimostrare la sua incapacità di farlo. E dall’altra parte avviare un laborioso piano per presentarsi nel 2013 alle urne con leader adeguati, classi dirigenti rinnovate, programmi e linguaggi adeguati alle nuove sfide. Invece no, si è preferito la cospirazione, la congiura, la scissione, il regicidio mediatico, l’anarchia dello spappolamento. Basta con il capo-popolo, hanno gridato i capetti di tanti popolini, quasi tutti al cinque per cento o giù di lì, a cominciare dai due figliocci traditori del comunismo e della missineria.

Se ci fosse un Plutarco disposto a scrivere le vite parallele dei piccoli uomini che non hanno fatto la storia, ma l’hanno solo disfatta, si potrebbe scrivere una storia parallela di Walter e Gianfranco. Con Walter sparì la sinistra dal Parlamento italiano; quella radicale fu messa fuori dal cono d’alleanza, e il Pds perse la esse di sinistra per farsi un sapone neutro. Con Gianfranco sparì la destra dal Parlamento italiano, quella sociale fu messa fuori gioco, e come il pentito Brusca, Gianfranco sciolse An, ancora adolescente, nel liquido del Pdl. Liquidatori della destra e della sinistra, ora i due leaderini stanno sfasciando i rispettivi partiti di cui erano cofondatori e di cui sono ora coaffondatori.

Veltroni ha più seguito di Fini, e il Pdl è ben più grosso del Pd, però la marcia è parallela. La differenza tra i due è a vantaggio di Veltroni: lui, perlomeno, ha fatto il sindaco di Roma, ha inventato un suo modellino tra notti bianche, fiction e festival, ha costruito una sua rete cine-teatral-culturale e i libri a sua firma, almeno, li scrive lui. Di Fini, invece, restano solo i comizi in tv o nelle Mirabello d’Italia, vincitore del festival delle parole vuote di cui narrava ieri il Corsera. Sono loro oggi i simboli viventi di un sistema morente, i testimonial e indossatori dello spappolamento nazionale. Benvenuti nella spappolocrazia.

(di Marcello Veneziani)

Urge frate per benedire il povero Pd


«Deve correre dai frati a farsi benedire». Lo diceva mia nonna Caterina Zaffiro di una persona afflitta da troppe disgrazie. Vorrei dare lo stesso consiglio al Partito democratico. Ma può lo stato maggiore del Pd precipitarsi al convento più vicino e chiedere di essere benedetto dal primo frate che incontra? Penso proprio di no. È vero che nel Pd gli ex democristiani sono tanti. E non mancano le pie donne come Rosy Bindi. Però immagino che, dopo un’apposita assemblea, un dibattito ampio e la presentazione di più mozioni, il consiglio di mia nonna verrebbe respinto.

Eppure il settembre 2010 passerà alla storia come il più iellato del partito di Pierluigi Bersani. Preso di mira dalla sfortuna anche nelle piccole faccende. Per dirne una, sapete che cosa è accaduto alla Festa del Pd a Reggio Emilia, roccaforte post-comunista? I dirigenti reggiani avevano accolto un gruppo di nove detenuti del carcere locale che, in prigione, si erano iscritti a un corso per addetto alla ristorazione.

I galeotti sembravano contenti di fare i cuochi alla festa democratica. Godevano di un permesso speciale, dalle 12 alle 24. Poi ritornavano a dormire in cella. Hanno fatto così tutti, tranne due. A festa conclusa se ne sono andati chissà dove. Uno di loro doveva scontare una condanna per omicidio. E sino a oggi non li hanno ripresi.

Sembra un film con Alberto Sordi e Nino Manfredi. Invece è una storia vera, scovata dalla Gazzetta di Reggio, il primo quotidiano della città. Non ne ha parlato quasi nessuno, per un motivo banale e, insieme, fantozziano. Il Pd non fa più notizia, se non per le risse interne che lo squassano. Dovrebbe essere il contrario, visto lo stato comatoso del centro-destra e l’ipotesi di elezioni anticipate. Eppure succede. Infatti i titoloni di questi giorni hanno un suono lugubre. Sono rulli di tamburo che annunciano una sanguinosa resa dei conti interna fra Bersani, Max D’Alema e il redivivo Perdente di Successo, ossia Walter Veltroni.

Un commentatore perspicace come Massimo Franco, del Corriere della sera, ha paragonato il dramma del Pd a quello del Pdl che ha portato alla scissione i futuristi di Gianfranco Fini. È un’osservazione che mi ha colpito, però non del tutto. Al fondo del contrasto fra il mondo di Silvio Berlusconi e quello finiano c’era, e c’è tuttora, anche una separatismo culturale ormai definitivo. Leggo ogni giorno il Secolo d’Italia e mi sembra di rivedere il vecchio Espresso degli anni Cinquanta. Tornano a rivivere autori, libri, film, mode culturali, personaggi, manie e vizi snobistici che erano stati decisivi per la mia disordinata formazione di imberbe laico-socialista. Quello del Secolo è un antiquariato che mi commuove. Ma non so quanto sia adatto ai furibondi tempi d’oggi.

Le stesse domande mi suscita la guerra scoppiata dentro il Pd. Perché è esplosa? A che cosa mira? Quali retroscena nasconde? Per quale motivo il magico Uolter ha appiccato l’incendio che rischia d’incenerire il primo partito d’opposizione? Nessun quotidiano riesce a spiegarlo con chiarezza. C’è un solo fatto evidente: il virus del suicidio politico, dopo aver fatto il suo lavoraccio nel Pdl, adesso ha traslocato nei democratici per mandare anche loro al tappeto. E proprio nel momento meno adatto a una malattia senza speranza: quello che vede l’avversario di sempre, il Caimano, menomato da una scissione e nel terrore di una sconfitta in Parlamento.

Da ex elettore del Pd, diventato un astensionista abituale, mi sento solidale con quel povero cireneo di Bersani. A proposito dell’insorgenza veltroniana ha esclamato: «Ecco un bel pacco di Natale per Berlusconi!». E se non ricordo male ha aggiunto: quando un partito guarda soltanto il proprio ombelico, può anche chiudere bottega perché non ha più nessun futuro davanti a sé.

Qualche lettore del Bestiario avrebbe il diritto di domandarmi: «Visto che lei non va più a votare, perché le preme tanto la sopravvivenza della parrocchia di Bersani?». Me lo sono chiesto anch’io. E ho trovato una risposta che mi sembra convincente. Cari amici, stiamo vivendo tempi ruvidi, che diventeranno sempre più cattivi e difficili. La paralisi del sistema partitico sta eccitando troppi spiriti malvagi che vedono nel caos politico un’occasione formidabile per mettere in mostra la loro vocazione al ribellismo, alla violenza fisica, alla conquista militare della piazza.

Ce lo confermano le aggressioni a Dell’Utri a Como e Milano, poi alla festa nazionale del Pd a Torino contro il presidente del Senato e il segretario della Cisl. Quindi alla festa del Pd di Milano contro il senatore Ichino. E quanto è accaduto dopo. Giovedì il ministro Gelmini non ha potuto andare a un dibattito al Corriere della sera per l’assedio di bande antagoniste. Persino la Lega ha dovuto annullare la festa per Miss Padania a Genova, dal momento che il ribellismo rosso non la voleva.

Leggo dodici quotidiani al giorno per capire quel che sta accadendo in Italia. E ne ho tratto una convinzione raggelante: la libertà di parola in pubblico è dimezzata. Certo, si può tentare di metterla in pratica con la protezione massiccia delle forze dell’ordine. Ma è una prova avvilente. Di solito sono i regimi autoritari a decidere chi può parlare e chi no. Però non mi pare che ci sia stato nessun golpe.

Con questi chiari di luna, dobbiamo augurarci la dissoluzione del Pd? Per quanto mi riguarda, non sono così sciocco. Dunque mi schiero con Bersani. Salvate il soldato Pierluigi. E lasciatelo lavorare in pace.

(di Giampaolo Pansa)

sabato 18 settembre 2010

L’Urbe «rifondata» a statuto speciale torna sulla breccia


Roma diventa Capitale. Ma come, finora lo era solo per scherzo? No, per carità, Roma è Caput da millenni, prima di limitarsi a essere «solo» Capitale d’Italia. Ma ora, a 140 anni dal XX settembre, assume per legge lo statuto speciale di Capitale, con risorse e prerogative straordinarie.

Sarà stato il castigo della Provvidenza ma nell’autunno del 1870, dopo la breccia di Porta Pia, Roma finì sommersa sotto una terribile alluvione. Al fianco della Chiesa di S.Maria della Minerva, proprio dove aveva sede la Santa Inquisizione, c’è una lapide che ricorda l’alluvione del dicembre 1870 e segna il livello che raggiunse l’acqua: ad altezza d’uomo. I papalini collegarono il disastro alla collera divina per la profanazione di Roma cattolica, per gli insulti contro Pio IX definito da Garibaldi «un metro cubo di letame», per la prigionia del Papa che si definì «sub hostili potestate constitutus», sottoposto a un potere ostile. Non fu indolore il passaggio di Roma dal Papa Re al Regno d’Italia; e chissà cosa sarebbe accaduto se il Papa anziché in San Pietro, si fosse trincerato in piena Roma nel Palazzo dei Papi dove lui abitava, il Quirinale. Oltre le gesta eroiche di quei giorni o gli avvenimenti epici della Repubblica romana, vanno ricordate anche le pagine più dolorose: per esempio nel 1867, quando due operai romani lanciarono bombe in una caserma pontificia, uccidendo venti zuavi e poi furono processati e condannati a morte dal tribunale papale. O dopo l’avvento di Roma capitale, il 13 luglio del 1881, quando fu assaltata la salma di Pio IX, con le sassate al corteo, la violazione del feretro e le bestemmie di una folla inferocita, incurante delle Guarentigie che garantivano rispetto e incolumità al Papa. Quanta ostilità tra i «buzzurri» piemontesi e gli «oscurantisti» clericali, tra massoni e atei radicali da una parte e dall’altra parte nobiltà nera e papalini, con le celebrazioni ancor oggi contrapposte. E poi i futuristi che sognavano di svaticanizzare l’Italia, le sinistre atee che urlavano, ricevendo scomuniche... Un quartiere intero a ridosso di San Pietro, Prati, sorse quasi in sfregio al Papato. Col XX settembre gli ebrei compirono la loro piena integrazione nella città anche se vanno dette due cose solitamente omesse: fu Pio IX a sghettizzare gli ebrei a Roma, abbattendo il muro che li separava; e fu Mussolini, nel 1931, a firmare un concordato con la comunità israelitica che per la prima volta ebbe pieno riconoscimento giuridico dallo Stato italiano.

Dal XX settembre del 1870 passò molta acqua sotto i ponti del Tevere, dai Patti Lateranensi tra Stato e Chiesa nel ’29 al dominio della Dc che fu una prolungata anestesia del conflitto tra laici e religiosi. E nel centenario dell’Unità d’Italia, Papa Giovanni XXIII e il cardinal Montini, che poi diventerà Paolo VI, definirono provvidenziale l’unità d’Italia e l’avvento di Roma capitale e riconobbero, come da laico scriveva Prezzolini, che la Chiesa grazie al XX settembre si era liberata del potere temporale, e non era più un piccolo regno ma riprendeva la sua missione universale e spirituale. Insomma, anche la Chiesa riconobbe che la breccia di Porta Pia fu una benedizione per l’Italia e per il cattolicesimo. Con questo spirito, il 20 settembre il Cardinal Bertone, segretario di stato vaticano, il presidente della Repubblica Napolitano e il sindaco di Roma Alemanno si incontreranno sulla breccia per superare anche simbolicamente quella ferita. E poi per proclamare, in Campidoglio, l’avvento dello statuto speciale per Roma capitale.

Ma per costruire una memoria condivisa non si deve mai usare l’ipocrisia di nascondere le lacerazioni del passato e rimuovere i fatti storici più controversi. Al contrario, si devono confrontare le opposte eredità e poi arrivare ad una sintesi nel segno della concordia, che rispetti le diversità più irriducibili ma renda condivisa alla fine l’unità. Un convegno in Campidoglio sancirà in tre sessioni il ripensamento del XX settembre, da un punto di vista cattolico, da un punto di vista laico e infine dal punto di vista dell’identità nazionale. Poi una domenica di festa, musei aperti di notte, mostre inaugurate, concerti e teatro. Insomma il 20 settembre come festa popolare, di tutti. C’è invece chi ha nostalgia del XX settembre come la festa de noantri, riservata a radicali e massoni. Massimo Teodori, ad esempio, sul Corriere della sera, chiedeva di «difendere Porta Pia dal clericalismo» e accusava la Chiesa di aver posto veti nel convegno di oggi a storici sgraditi. Vorrei informarlo che l’unico storico (da me proposto) che non figura tra i relatori del convegno è il cattolico tradizionalista Roberto de Mattei, vicepresidente del Cnr e biografo di Pio IX. I laici ci sono tutti.

L’avvento di Roma capitale fu importante per tre ragioni. La prima, perché solo a Roma la storia dell’unità d’Italia si incardinò nella storia di una civiltà, la civiltà romana e poi cristiana - medioevale, rinascimentale e barocca - ma anche la civiltà del diritto, dello stato, della civitas imperiale e universale. La seconda, perché solo a Roma si compì l’Unità d’Italia, il sud si ricongiunse al nord ed entrò nella storia comune del paese, nei ministeri e nella vita delle istituzioni. La terza, perché a Roma la coscienza civile del paese si incontrò, prima scontrandosi, con la coscienza religiosa del paese. Tre ragioni forti e ancora valide. Poi ci sono anche le altre facce indegne e caciarone di Roma: la Roma prostituta di Lutero e la Roma ladrona e parassita, la Roma grottesca di Flaiano e Manganelli, o di Sordi e Fabrizi, la Roma porcona e vitaiola descritta da Fellini e Pasolini, la Roma de’ core e la Roma de’ trippa... Sorprende sapere da un libro del vice Sindaco Mauro Cutrufo, La quarta capitale (ed. Gangemi), che Roma è il comune più esteso d’Europa, ha un’area che equivale a quella di otto capitali europee messe insieme, inclusa Parigi. Ed è più vasto di Mosca e di New York. In occasione dell’anniversario, del convegno e della legge speciale esce un Manifesto per Roma Capitale che è stato presentato ieri in Campidoglio, voluto dal sindaco, scritto e approvato dal comitato d’indirizzo che presiedo.
Roma, gloriosa baldracca e santissima viziosa, torna sulla breccia.

(di Marcello Veneziani)

martedì 14 settembre 2010

I moti di Reggio, il Sessantotto del Sud


Nell’estate di quarant’anni fa, 1970, a Reggio Calabria scoppiò la più lunga rivolta urbana che la storia della nostra repubblica ricordi. Durò sette mesi, da luglio a febbraio, costò vittime, una strage misteriosa sul treno del Sole, e lasciò ferite insanabili. Tutto nacque, come è noto, per il trasferimento del capoluogo di regione a Catanzaro per la nascente amministrazione regionale.

È uscito di recente un testo fotografico e un dvd - Reggio: dalla rivolta alla riconciliazione, pubblicato dalla Gazzetta del sud - con immagini e filmato inediti sui moti reggini, a cura di Mimmo Calabrò. Un testo che ci restituisce il sapore di quella battaglia e di quel clima, al di là del racconto ufficiale che ne fecero i media, in larga parte ostili agli insorti.

La sommossa di Reggio va ricordata per quattro ragioni. Fu la prima rivolta contro le Regioni, esplosa nello stesso anno in cui nascevano, di cui fu battesimo di sangue; fu l’ultima rivolta del Sud, l’ultima insorgenza popolare e populista nel Meridione contro il potere centrale, prima che il Meridione si consegnasse all’apatia o alla criminalità organizzata; fu forse la prima volta che in Italia e nell’Europa libera e democratica scesero per strada contro la popolazione i carri armati, come nei paesi comunisti dell’est. E infine fu l’ultima rivolta di popolo capeggiata dalla destra, una destra rivoluzionaria, nazionalpopolare e sindacalista che agiva ai bordi dell’Msi, della Cisnal e lambiva in modo trasversale altre forze politiche. Non solo esponenti interni al potere e ai partiti, ma anche movimenti estremi di destra e di sinistra, se si pensa all’attenzione positiva che Lotta Continua e Adriano Sofri riservarono a quella rivolta. Un po’ come era accaduto mezzo secolo prima a Fiume quando la sinistra rivoluzionaria del tempo, Gramsci incluso, seguì con favore la rivolta nazionalista e interventista di D’Annunzio e dei suoi legionari. Dannunziano fu lo slogan della rivolta reggina, «Boia chi molla»; ma diversi furono il clima e la statura dei protagonisti. Reggio fu il ’68 dei terroni, la banlieu dei cafoni.

La rivolta di Reggio fu un’insurrezione di segno localista su cui si depositò da un verso la polvere di ideologie rivoluzionarie accese dal clima violento ed eversivo di quegli anni e dall’altro l’eco antica di malesseri e insorgenze meridionali. Non fu una Vandea, e non ebbe i tratti cattolici e reazionari, nobiliari e contadini della jacquerie contro i rivoluzionari, anche perché scoppiò in una città e non in campagna e scoccò proprio nel giorno della presa della Bastiglia, il 14 luglio. E poi i nemici, per gli insorti di Reggio, non erano i rivoluzionari al potere, ma un ceto di moderati che rappresentavano semmai la stagnazione e il conformismo. La rivolta reggina ebbe tuttavia qualche somiglianza con le insorgenze popolari del Sud nel 1799 o con i Vespri Siciliani, per andare ancor più indietro nel tempo. E Ciccio Franco, il suo leader più popolare, evocò il fantasma napoletano di Masaniello in salsa sindacale.

La ribellione di Reggio dimostrò come il trasferimento di poteri e competenze a livello locale inneschi facilmente guerre locali e conflitti per l’egemonia territoriale. Era il tempo in cui la secessione rischiava di fiorire a sud. Seguì poi la rivolta dell’Aquila ma diverso fu il peso, le vittime e la durata di quella sommossa, nata anch’essa dalla crisi di rigetto delle Regioni e da un conflitto di supremazie cittadine. A Reggio le Regioni già mostrarono i loro peccati d’origine e le loro artificiose competenze, ma dimostrarono soprattutto che smantellando l’Italia dei prefetti e dello Stato centrale non si andava incontro ad una democrazia matura e federale, più vicina al territorio, ma ad una perdita di autorevolezza e di legittimità delle istituzioni pubbliche. La gente si allontanava anziché avvicinarsi alle istituzioni. Con le Regioni si accelerò in Italia la crisi dello Stato democratico e della repubblica, già avviata con la rivolta studentesca del ’68 e l’autunno caldo sindacale del ’69. Quella di Reggio nel ’70 apparve la terza rivolta, quella delle periferie e della polveriera meridionale contro uno Stato svuotato di compiti e di prestigio.

Dopo Reggio il Sud smise di insorgere a livello popolare, preferiì defilarsi nei propri comodi, nel clientelismo e nel malgoverno, o consegnarsi in alcune zone alla malavita organizzata. Quel «Boia chi molla», demagogico ed eversivo, non scevro di violenza, fu l’ultimo grido del Sud prima di sprofondare in quel coma da cui non si è più ripreso. È curioso pensare che la repressione violenta della Rivolta avvenne ad opera di un governo moderato, guidato da un democristiano morbido e doroteo come Emilio Colombo. Intervistato da Calabrò a distanza di quarant’anni, Colombo non è pentito di quella repressione, ma è convinto di aver fatto bene a mandare i carri armati sullo splendido lungomare reggino. Eppure non pochi furono i morti lasciati per le strade, morti civili in prevalenza, ma anche delle forze dell’ordine. Misterioso fu pure l’incidente stradale del 26 settembre 1970 in cui morirono 5 anarchici che si recavano a Roma a consegnare materiale di denuncia mai ritrovato. La stampa, la stessa stampa che era indulgente con gli scontri e le barricate dei contestatori, fu in prevalenza ostile alla rivolta reggina.

A Reggio quell’estate di quarant’anni fa si spezzò il legame già sofferto tra Sud e Stato, tra Meridione e Istituzioni, e si acuì il degrado scontroso della Calabria poi aggravato dai folli insediamenti industriali nella piana di Gioia Tauro e dai loschi errori del ceto politico, con rare eccezioni (a Reggio, ad esempio, i sindaci Falcomatà per la sinistra e Scopelliti per la destra). Pur nel suo velleitario estremismo, quella rivolta fu l’ultimo atto politico di un popolo che pensava ancora di poter cambiare la realtà con la mobilitazione, gli slogan e le barricate. Poi restarono le clientele, i clan e la defezione. Dopo la protesta venne l’omertà, dopo la rivolta venne il letargo. Il Sud boia alla fine mollò.

(di Marcello Veneziani)

domenica 12 settembre 2010

Un presidente forte, va cambiata la Carta


Quant’è bella la Costituzione, e quant’è carina sua figlia, la democrazia parlamentare. Fini l’ha indossata in video, sfilando con la Carta in mano, i grandi saggi della Repubblica italiana, da Sartori a Zagrebelsky, l’agitano ogni giorno contro il Tiranno; la stampa e la nomenklatura inneggiano ogni giorno a mamma e figlia. Venerdì ero al Festivaletteratura di Mantova e ho ascoltato l’ex presidente della Corte costituzionale, Gustavo Zagrebelsky. Introdotto dal direttore del Corriere della Sera, Ferruccio de Bortoli, prudente e signorile com’è il suo stile, il Professore ha difeso l’immortalità e l’immodificabilità della Costituzione contro la diagnosi di vecchiaia e la terapia di modificarla. E ha sostenuto che l’unica vera democrazia è quella parlamentare, rappresentativa, mentre la democrazia diretta o presidenziale non è una democrazia ma un’investitura autoritaria dall’alto, col popolo che si limita a dir di sì.

La convinzione del Professore è la sintesi autorevole di quel che ci ripetono ogni giorno i Maestri Cantori della Conservazione, studiosi, giornali, politici. Ora è comprensibile e anche rispettabile che si difenda l’immutabilità della Costituzione e la preferenza per la democrazia parlamentare. Ma è inaccettabile che chi preferisce la democrazia presidenziale e chiede la revisione di alcuni articoli, non principi ma applicazioni storiche, della Costituzione, debba passare per un eversore, un tifoso della dittatura. Qui, anziché salire nei piani alti delle dottrine giuridiche e costituzionali, bisogna al contrario scendere alla scuola dell’obbligo e affacciarsi sulla vita reale. È falsa e pure devastante la convinzione che l’unica, vera democrazia sia quella rappresentativa: è falsa perché la più grande democrazia occidentale, gli Stati Uniti, è una repubblica presidenziale. E la democrazia più vicina a noi, patria dei diritti umani e della libertà e dell’uguaglianza, la Francia, è una repubblica semi-presidenziale. E il Paese di più antica democrazia, l’Inghilterra, non ha una repubblica presidenziale solo perché c’è la monarchia. Dunque la tesi è falsa. Ed è pure devastante perché anziché elevare il livello del dialogo sulla riforma, cercando di passare dalla boutade e l’insulto al confronto, squalifica a priori la tesi opposta che pure è condivisa dalla «trascurabile maggioranza degli italiani». I professori che sostengono questa visione manichea si assumono una grave responsabilità perché scavano un fossato incolmabile anziché portare a rigore un confronto tra due idee diverse di democrazia. La democrazia presidenziale favorisce la deriva populista? Il problema però è che il rovescio del populismo non è la democrazia liberale ma il dominio delle oligarchie e il primato dell’indecisionismo.

L’elezione diretta ha il vantaggio di favorire una democrazia responsabile in cui chi decide risponde al popolo sovrano e non alle oligarchie o ai partiti. Anche se il suo rovescio, ne convengo, è la crescita della demagogia e della semplificazione. Viceversa nella democrazia delegata chi comanda è al buio, non risponde direttamente del suo operato, esprime poteri deboli in continuo negoziato tra loro. E questo genera una democrazia controllata dalle oligarchie, dagli interessi più forti, e favorisce l’avvento delle caste. Ma non mi sognerei mai di dire che la democrazia rappresentativa non sia una vera democrazia, non giudico un sistema politico dalle sue degenerazioni; dico che dovendo scegliere, considerando l’esperienza della storia e della nostra in particolare, preferisco il modello di democrazia presidenziale, decisionista e responsabile a quello della democrazia parlamentare e delegata.

Questo comporta inevitabilmente di modificare la Costituzione. Premetto: la Costituzione non solo va rispettata, ma merita di essere condivisa. La nostra è una bella Costituzione; scritta anche bene, diceva ieri De Bortoli. Certo, nasce dal compromesso tra la cultura cattolica, la cultura laico-liberale e la cultura socialista-marxista. Ma rifletteva la reale composizione del Paese e nei suoi principi occhieggia anche a un ospite in ombra; la cultura della nazione e dell’umanesimo del lavoro, della terza via rispetto al marxismo e al capitalismo; cioè quella cultura che era diventata impronunciabile perché evocava l’esperienza del fascismo, il pensiero di Giovanni Gentile, l’amor patrio e il modello sociale italiano. Per la stessa ragione non era possibile pensare allora, in un Paese appena uscito dal fascismo e dalla monarchia, ad una democrazia presidenziale con una forte leadership. Ma la Costituzione non è una mummia, non fu dettata sul Monte Sinai, vive nella storia, è suscettibile di modifiche nella sua parte applicativa.

Sul piano dei principi e delle culture civili, esistono due modelli di patriottismo: il patriottismo della Costituzione, di chi crede che il patto costituzionale e la carta siano il fondamento della cittadinanza e della democrazia. E il patriottismo della tradizione di chi invece ritiene che il fondamento civile di un Paese, la fonte del legame civile e istituzionale siano la storia, la cultura, la lingua, gli usi, i costumi, la religione civile, l’esperienza di un Paese, come pensava ad esempio Edmund Burke. Sono due idee rispettabili e divergenti di democrazia: chi crede nel patriottismo della tradizione non nega il valore della Costituzione, però pensa che le carte esprimano patti e regole da rispettare ma non abbiano la forza di rendere coesi popoli, nel disegno di una democrazia comunitaria. È legittimo dissentire da questa idea di democrazia ma non è giusto squalificarla come una scorciatoia autoritaria.

In coda lasciatemi occupare delle miserie umane. Dopo aver costruito una carriera sulla democrazia presidenziale, Fini si barrica dietro la Costituzione per sopravvivenza personale. Penoso, ma più penosi sono i foglietti finiani che si adeguano al loro capo, cambiano pure loro opinione e si scoprono difensori della democrazia parlamentare e magari della partitocrazia. Capisco, devono campare. Ma trovo avvilente che accusino viceversa chi è rimasto coerente a quell’idea di democrazia responsabile, decisionista e comunitaria con una leadership forte, eletta direttamente dal popolo, come asserviti a Berlusconi. Quell’idea, ve lo ricordo, piaceva a Schmitt, a De Gaulle e alla destra, piaceva ad Almirante e a Fini prima che entrasse nella Camera oscura. Non sapete cosa siano la libertà e la coerenza e non riuscite a uscire dall’alfabeto della servitù.

(di Marcello Veneziani)

Premiato «Archanes» la fanta-archeologia di Valerio M. Manfredi


Che Valerio Massimo Manfredi con il suo volume di racconti Archanes (Mondadori) abbia vinto ieri il Premio Scanno, giunto alla sua 38ma edizione, ha un suo significato, al di là del riconoscimento ad un nome che riassume in sé parecchie caratteristiche: narratore, conduttore televisivo, ma soprattutto archeologo e docente universitario. Un antichista, insomma, che non solo conosce e ama la classicità greco-romana, ma soprattutto riesce a calarsi nella mentalità, nel modo di pensare e agire, di quei nostri lontani progenitori, là dove sono le nostre radici culturali.

I suoi romanzi, a partire da Palladion che risale ormai a 25 anni fa, sono un sapiente dosaggio di conoscenza approfondita e partecipe di quelle vicende e di quei miti con trame complesse in cui spesso si affaccia l’elemento fantastico e qualche volte addirittura fantascientifico, e una struttura a intrigo che ricorda il giallo, lo spionaggio e l’avventura. Insomma, Valerio Massimo Manfredi scrive romanzi e racconti «che si fanno leggere», ma che al contempo non sono superficiali, non sono anacronistici come quelli che spesso ci propinano gli americani, con modi di dire e di fare attribuiti agli antichi che si rifanno a modi di dire e di fare moderni e contemporanei: il che raggiunge vertici insuperabili di ridicolo.

Ecco perché è significativa la vincita al Premio Scanno, un premio nato nel 1972 e che dal 1975 ha iniziato a segnalare letteratura e narrativa, creando poi sezioni per il diritto, l’economia, la sociologia, la medicina e le tradizioni popolari. Lo fondò infatti Riccardo Tanturri, la cui nobile famiglia è originaria del paese abruzzese, docente di letteratura italiana, scrittore, poeta e giornalista.

Ora vince il premio letterario un libro di… avventura. Ah, ma allora si tratta di un libro per ragazzi, dirà qualcuno meravigliandosi di tanta audacia. Non è così. A parte che a questa «categoria» vengono ascritti noti capolavori di Stevenson e Conrad, le sue origini sono nobili e per nulla infantili. L’avature era quella cui andavano incontro i cavalieri medievali, un fatto non voluto, non cercato, un evento che accadeva, e che si doveva affrontare, indipendentemente dal risultato. Insomma, una vera e propria «prova» come si legge in tanti romanzi cavallereschi. Non quindi storie superficiali per affascinare i bambini, se questo per alcuni può essere considerata una diminutio.

Valerio Massimo Manfredi è stato uno dei primi autori italiani, se non il primo, a dare nella seconda metà del Novecento una dimensione «moderna» al romanzo di avventura, mescolandolo, come si è accennato, ad altri «generi» attuali: il trhiller, la spy story, l’intrigo internazionale, la fantapolitica. Poi se ne sono aggiunti altri come Sergio (Alan D.) Altieri, Andra Carlo Cappi, Stefano Di Marino, Gianfranco Nerozzi e così via, il che permette di creare finalmente una «scuola» che in precedenza non esisteva per la mancanza di opere edite.

Archanes, nelle cinque lunghe storie che lo compongono, si può considerare una piccola summa delle tematiche preferite da Manfredi. Intanto c’è Limes, forse la migliore: ambientata nel VII secolo d.C. descrive l’incontro/scontro fra i romani e i barbari, in questo caso i Longobardi. Manfredi riesce a calarsi nella mentalità degli ultimi rappresentati di una romanità già parecchio cristianizzata, e quindi profondamente modificati in certi valori, e quella dei nuovi arrivati che portano - così si capisce - una nuova linfa vitale a forze ormai esangui. In fondo il paterfamilias Eutichio Crescenzio Severo è già diviso tra Simmaco e S.Ambrogio, Rutilio Namaziano e S.Agostino. Di fronte ha dei barbari che però già si stanno romanizzando, quasi senza saperlo. Il risultato sarà inevitabile, come si può capire da quel che sarà il seguito dell'incontro, sul confine, il limes (reale e simbolico) delle due proprietà terriere, fra Serena e Cuniperto.

In Archanes e Gli dei dell’Impero siamo invece ai nostri giorni con due racconti che corrono entrambi sul filo del giallo archeologico, specialità dell’autore. Midget War e Millennium Arena ci spostano in un futuro vicino in cui la tecnologia la fa da padrone, lo spionaggio industriale e gli intrighi internazionali sono lo sfondo, insieme agli istinti primordiali dell’uomo come la vendetta e la violenza. Anche qui, nella seconda storia, emerge l’amore di Manfredi per la classicità. Uno dei personaggi, direttore di un settore dello spionaggio italiano, è uomo di azione ma anche di lettere: ama il latino, ha vinto il Certamen Ciceronianum e viene coinvolto nell’intrigo proprio mentre sta recandosi ad un concorso internazionale di poesia latina. Insomma, usa la mitraglietta e il calamo allo stesso modo!

(di Gianfranco de Turris)