giovedì 29 novembre 2012

Così il fascismo sopravvisse al Duce


Ci fu un tempo in cui la politica era scontro di passioni e confronto di visioni; ci fu un tempo in cui i militanti sacrificavano volentieri al partito tempo e denaro; ci fu un tempo in cui la ricchezza delle idee era inversamente proporzionale alla disponibilità di mezzi. 

Anche a quel tempo l'impegno politico poteva aprire le porte della galera, ma solo per reati d'opinione o in conseguenza di una militanza troppo vivace e certamente non per furto, appropriazione indebita o truffa. Sembrano tempi lontanissimi, o forse addirittura mai esistiti, eppure la storia della politica italiana del dopoguerra parte proprio da lì, dall'accesa partecipazione delle masse alla vita politica prima che la politica, per dirla con Guccini, diventasse solo «far carriera». La militanza politica era vissuta con disinteresse e spirito di sacrificio, come ricordano a esempio le storiche divisioni tra democristiani e comunisti immortalate da Guareschi che però trascura un terzo protagonista della politica di allora: i neofascisti, tanto determinati e appassionati quanto ignorati.

Un prezioso aiuto a capire il tempo che fu ci viene da uno studio di Elisabetta Cassina Wolff, docente di Storia contemporanea all'Università di Oslo, la quale, grazie a un contributo dell'università norvegese, ha pubblicato per Mursia un saggio dedicato ai giornali e alle idee dei reduci della Repubblica Sociale Italiana: L'inchiostro dei vinti. Stampa e ideologia neofascista 1945-1953 (pagg. 394, euro 18).

Pur essendo una pubblicazione accademica, il libro è scorrevole e appassionante e arricchisce la conoscenza del mondo degli «esuli in patria», aggiungendosi agli studi di Giuseppe Parlato e ai saggi di Antonio Carioti che in anni recenti hanno fatto luce sul mondo, a lungo negletto, dei fascisti dopo Mussolini. Privi di rappresentanza politica ma ricchi di idee e passione, i neofascisti sopravvissuti alla catastrofe, prima di organizzarsi in un partito politico si confrontano e si aggregano su una miriade di riviste, ricche di appassionati dibattiti ideologici che la Wolff ha pazientemente ricostruito. Sono esaminate raccolte di pubblicazioni rarissime e spesso ignorate dagli storici, che vanno da La Rivolta Ideale a Lotta politica, da Rataplan a Asso di bastoni, da Imperium a Meridiano d'Italia, da Il Rosso e il Nero a Tabula Rasa a tutte le altre che si richiamano esplicitamente all'esperienza fascista, ragione per la quale sono stati esclusi pur interessanti periodici come Pensiero Nazionale del fascista rosso Stanis Ruinas e Pagine Libere degli epigoni dei sindacalisti rivoluzionari.

Nel variegato schieramento neofascista emergono le tre grandi correnti proposte inizialmente da Giorgio Pini e ormai accettate dalla storiografia ufficiale: quella dei «socializzatori», rivoluzionari e di sinistra; quella dei «corporativisti», sostanzialmente conservatori; e infine quella dei «tradizionalisti», seguaci di Evola e ironicamente definiti «figli del Sole».

A giudicare da come sia finita l'esperienza neofascista - seppellita con Rauti tra sputi e schiaffi - si stenta a credere che invece sia nata in mezzo a grandi slanci ideali e solide basi ideali. Il dibattito tra le diverse anime del neofascismo è acceso ma alto, e sin dall'inizio fa piazza pulita dei luoghi comuni che vedono il fascismo come una dittatura totalitaria che si impose con la violenza per agire come braccio armato del capitalismo. Il fascismo è una parte integrante della storia italiana, il tentativo di raggiungere l'effettiva indipendenza nazionale con tutte le forze disponibili e soprattutto con la partecipazione responsabile di tutti gli italiani, senza alcuna differenza, alla costruzione della casa comune. Quanto poi ai contenuti effettivi di questa rivoluzione mancata, non può che stupire il livello elevato del dibattito tra idealisti gentiliani, corporativisti conservatori e tradizionalisti evoliani. Il neofascismo, insomma, seppe andare oltre la rivendicazione del proprio passato e offrì critiche efficaci e proposte interessanti alla democrazia parlamentare di cui profeticamente denunciava l'inevitabile trasformazione in partitocrazia corrotta.

Il dibattito ideologico tra le varie anime fu intenso, esplicito e spesso sincero fino alla brutalità, come dimostra la critica di Julius Evola verso l'eccessivo opportunismo del Msi, che già nel 1953 era guidato, secondo il filosofo, da politicanti incapaci di guardare aldilà di mete contingenti. Il modello da seguire, suggeriva l'autore del celebre Gli uomini e le rovine, doveva invece essere il Partito Comunista Italiano, una forza organizzata dotata di mezzi e denaro, con un notevole peso elettorale e soprattutto una chiara e precisa visione del mondo che pretendeva, e otteneva, una granitica e intransigente fedeltà alle idee professate. Altri tempi, altri uomini, stesse rovine.

(di Luca Gallesi)

mercoledì 28 novembre 2012

Renzi spieghi che se vince Bersani, c’è Monti. E trasformi la sua faccia in slogan


Se Matteo Renzi vince alle primarie del centrosinistra, dopo, gli verrà facile diventare presidente del Consiglio. Svuoterà tutto il centrodestra a venire. Se, invece, taglia il traguardo del ballottaggio Pier Luigi Bersani, ecco: ci sarà un’altra storia. Il premier del prossimo governo, infatti, sarà ancora una volta Mario Monti. E con una maggioranza di tutti con tutti, oltretutto. Compresa la Forza Italia 0.2 di Silvio Berlusconi. Questo è il nocciolo, semplice e pieno, tutto di sostanza e senza essenza (se proprio vogliamo usare la metafora della cipolla di Aldo Busi dove non si sa mai qual è il cuore). Qui, di “quore” non ce ne deve stare punto perché è nell’aritmetica che si conclude la faccenda. Ho fatto la prova con molti elettori “de sinistra” portandoli davanti a questo osso, chiedendo loro: “Ma se è sicuro che con Renzi andate a vincere le elezioni perché non lo votate adesso, alle primarie?”. Incredibile, neppure questo argomento li smuove perché prevale, nella grande maggioranza, il riflesso condizionato dell’appartenenza, scorgono in Renzi un estraneo e non lo votano perché la sinistra non si libera dal complesso di superiorità morale, preferiscono ancora la scelta minoritaria.

Come a scansare la responsabilità di sporcarsi le mani con l’osso duro della politica. E l’unico consiglio che posso dare a Renzi, in questo frangente così caldo di politica, è quello di far circolare il ragionamento di cui ho detto sopra: meglio la gallina Renzi domani che l’uovo Bersani oggi, prossimo ad essere cotto nell’acqua della grande coalizione eterna. Solo con Renzi, la sinistra, può sporcarsi con la larga Italia all’odor di minestrone e mettere in tasca l’uomo qualunque. Certo, forse Renzi non è la sinistra ma di sicuro Bersani, con tutta la sua struttura, non è manco il Partito comunista. Nella macchina da guerra del segretario del Pd sopravvive la nomenclatura, quella casta praticona, tutta coop, ma pur sempre estranea alla natura profonda degli italiani che, al contrario, vogliono vincere aggrappandosi a quello che più degli altri somiglia a loro e Renzi, appunto, assomiglia agli italiani. Faccia uno slogan della sua stessa faccia. Farà vincere la sinistra. E riempirà tutto il vuoto a destra, ops, centrodestra.

(di Pietrangelo Buttafuoco)

lunedì 26 novembre 2012

Il Machiavelli del '900 contro il potere di tecnici e finanza


L'aveva chiamata san Casciano la sua casa del buen retiro a Plattenberg, il luogo natìo in cui tornò per trascorrere la lunga vecchiaia fino alla morte, all'età di 97 anni, nel 1985. San Casciano, come l'ultima casa-esilio di Niccolò Machiavelli, quando si ritirò dall'attività di Segretario. 

Ma Carl Schmitt confidò in un'intervista che aveva battezzato così la sua casa non solo in onore di Machiavelli ma anche perché San Casciano è il santo protettore dei professori uccisi dai loro scolari. Schmitt si identificava in ambedue, nell'autore de Il Principe, nel suo lucido realismo politico e nel suo amore per la romanità; ma anche nel Santo, perché si sentì tradito da molti suoi allievi. Quell'intervista dà il titolo a una raccolta di scritti di Carl Schmitt, curata da Giorgio Agamben e riapparsa da poco (Un giurista davanti a se stesso, Neri Pozza, pagg. 314, euro 16,50).

Non è un caso ma un destino che Carl non si chiami Karl. La matrice cattolico-romana e latina è decisiva nella sua biografia intellettuale. La tradizione a cui si richiama Schmitt è lo jus publicum europaeum, di cui «padre è il diritto romano e madre la Chiesa di Roma»; la fede in cui nacque, visse e morì è quella cattolica apostolica romana; «la concezione di Schmitt - notava Hugo Ball - è latina»; la lingua latina era per lui «un piacere, un vero godimento»; un suo saggio chiave è Cattolicesimo romano e forma politica, e l'annesso saggio sulla visibilità della Chiesa. E non solo. La critica di fondo che Schmitt rivolge alla sua Germania è «il sentimento antiromano» che la percorre da secoli e che sostanzia la differenza tra cultura evangelica e cattolica. È una divergenza che spiega molte cose del passato e anche qualcuna del presente. Compresa quell'asprezza intransigente dei tedeschi e di altri popoli di derivazione protestante verso i Paesi mediterranei di formazione greco-latina e cattolico-romana. È quello per Schmitt il vero spread tra tedeschi e latini.

Ma Schmitt va oltre e coglie l'incompatibilità tra «il modello di dominio» capitalistico-protestante dei tedeschi e il concetto romano-cattolico di natura, col suo amore per la terra e i suoi prodotti (che Schmitt chiama terrisme). «È impossibile - scrive Schmitt - una riunificazione tra la Chiesa cattolica e l'odierna forma dell'individualismo capitalistico. All'alleanza fra Trono e Altare non seguirà quella di ufficio e altare o fabbrica e altare». È possibile invece che i cattolici si adattino a questo stato di cose. Per Schmitt il cattolicesimo ha il merito d'aver rifiutato di diventare «un piacevole complemento del capitalismo, un istituto sanitario per lenire i dolori della libera concorrenza». Schmitt ravvisa un'antitesi radicale tra l'economicismo, condiviso dai modelli americano, bolscevico e nordeuropeo, e la visione politica e mediterranea del cattolicesimo, derivata dall'imperium romano. Rifiuta pure di riferirsi ai valori perché di derivazione economicista.

Nei saggi e nelle interviste raccolti da Agamben, figura anche un testo che apparve in Italia nel '35, in un'antologia curata da Delio Cantimori col titolo di Principi Politici del Nazionalsocialismo. Peccato che non siano stati più ripubblicati il saggio introduttivo di Cantimori e la prefazione di Arnaldo Volpicelli che sottolineava le divergenze tra fascismo e nazismo, e fra la teoria di Schmitt sull'Amico e il Nemico e l'idealismo di Gentile, a cui egli si ispirava, per il quale il nemico era accolto e risolto nell'amico, ogni alterità era superata nella sintesi totalitaria e «sostanza e meta ideale della politica non è il nazionalismo ma l'internazionalismo». Qui sta, diceva Volpicelli, «la differenza fondamentale e la superiorità categorica del corporativismo fascista sul nazional-socialismo». A proposito di Hitler, Schmitt ricorda che una volta confessò di provare compassione per ogni creatura e aggiunse che forse era buddista. Hitler era gentile nei rapporti personali, nota Schmitt, e non aveva mai visto il mare. Riferendosi al suo ascendente sul pubblico, rileva «la sua dipendenza quasi medianica da esso, dall'approvazione, dall'applauso interiore».

Le interviste percorrono i punti centrali delle opere di Schmitt: la critica al romanticismo che sostituisce Dio e il mondo con l'Io; il Nomos della terra e la contrapposizione con le potenze del mare; la derivazione teologica dei concetti politici; la dialettica amico-nemico; la teoria del partigiano e la sovranità come decisione nello stato d'eccezione; quel decisionismo peraltro estraneo alla sua indole («Ho una peculiare forma di passività. Non riesco a capire come la mia persona abbia acquisito la nomea di decisionista», confessa con autoironia). E poi la sua raffinata passione letteraria, anche in questo erede di Machiavelli.

C'è una ragione di forte attualità del pensiero schmittiano. È la sua doppia previsione della spoliticizzazione che avrebbe portato al dominio mondiale dei tecnici e dell'avvento di guerre umanitarie che sarebbero state più inumane delle guerre classiche, perché condotte nel nome del bene assoluto contro il male assoluto. L'intreccio fra tecnica, economia e principi umanitari è l'amalgama che comanda oggi il mondo. Per assoggettare i popoli, scrive profeticamente nel '32, «basterà addirittura che una nazione non possa pagare i suoi debiti». Schmitt descrive «la cupa religione del tecnicismo» e nota che oggi la guerra più terribile può essere condotta nel nome della pace, l'oppressione più terrificante nel nome della libertà e la disumanità più abbietta nel nome dell'umanità. L'imperialismo dell'economia si servirà dell'alibi etico-umanitario. Il potere, avverte Schmitt, è più forte della volontà umana di potere e tende a sovrastare in modo automatico, impersonale: «non è più l'uomo a condurre il tutto, ma una reazione a catena provocata da lui». Non dunque un complotto ordito da poteri oscuri ma un automatismo indotto da una reazione a catena non più controllata dai soggetti umani. Quella reazione a catena passa dall'incrocio fra tecnica e finanza ed è visibile nell'odierna crisi globale. Da qui la necessità di rifondare la sovranità della politica. E di ripensare al Machiavelli del '900, quel tedesco in odore di romanità che ipotizzava la nascita di un patriottismo europeo. La Grande Politica di Schmitt e il suo nemico: il Tecnico, bardato di etica, a cavallo della finanza.

(di Marcello Veneziani

sabato 24 novembre 2012

Bombe su una popolazione inerme

Hanno ucciso Supermario con un omicidio "tecnico"


Ecco il primo romanzo double face. O meglio, un romanzo che cambia di «genere» a seconda di quando lo si legge. Se lo si legge entro il 24 novembre è fantapolitica. Se lo si leggerà dopo il 24, e non sarà avvenuto quel che racconta, sarà storia alternativa o ucronia. Ma cosa racconta? L'assassinio di Mario Monti il 24 novembre 2012 nel centro di Roma: un attentato dinamitardo all'altezza della mostruosa Ara Pacis di Meyer. È auspicabile che nessuno s'indigni, dato che negli ultimi dieci anni sono apparsi romanzi, film, opere teatrali che hanno descritto l'assassinio, esplicito o implicito, del Cavalier Silvio Berlusconi. Nessuno ha mai protestato, e gli si è allungata la vita. Il fatto è che i nostri due ultimi premier non sono stati e non sono simpatici a molti ambienti politici, oltre che a un cospicuo numero di italiani, e l'antipatia si riverbera anche nelle opere d'invenzione letteraria.

Adesso Pierfrancesco Prosperi, architetto di professione e scrittore di fantascienza (ma anche di fantastico, orrore, poliziesco e spionaggio, oltre che sceneggiatore di fumetti) dal 1960, firma Bersaglio Mario Monti (Reverie, pagg. 200, euro 15) concretizzando gli umori degli anarco-insurrezionalisti, i seguaci delle teorie di Bakunin, che però trovano il loro humus in una nazione che dimostra un tessuto sociale sfilacciato, una specie di sindrome di assuefazione alla violenza quotidiana, che non reagisce più emotivamente ai disastri che la circondano. Tra le righe di quest'opera si legge una denuncia del degrado generale del Paese, al quale hanno concorso le ribalderie e l'arroganza degli uomini del Potere.

Prosperi adotta una tecnica che gli riesce molto bene (si pensi ai due romanzi sull'Islam italiano editi da Bietti): procede per capitoli cronologici intrecciando le vicende di più personaggi, descrivendo scene in apparenza slegate, inframmezzando il tutto con documenti (articoli, estratti di libri, dichiarazioni, comunicati ecc.) tra il vero e il falso, comunque plausibili. Soltanto alla conclusione tutti i tasselli andranno al posto giusto e tutto sarà chiaro. O quasi, dato che nelle storie di Prosperi domina il Caso o il Fato, che si diverte a giocare scherzi beffardi e inaspettati.

Qui, ad esempio, la storia del killer Nico Raimondi che ha un conto psicologico e morale in sospeso con il Potere, e quella del poliziotto Michele s'intersecano sino all'incontro decisivo nel momento cruciale che si concluderà in modo del tutto inaspettato. Su di loro aleggia la figura del presidente del Consiglio, del tecnico per eccellenza, la cui personalità e la cui carriera sembrano avere la loro fonte in Il Grigiocrate, la «biografia non autorizzata» di Grandi, Lazzeri e Marcigliano, edita da Fuorionda, di cui Reverie, specializzata in ucronie, è una costola. Monti è considerato una specie di taumaturgo della politica europea: risolve la crisi atomica con l'Iran e il problema del rigassificatore di Brindisi, riporta in Italia una famosa collezione d'arte (ma non i marò dall'India...), addirittura salva un'impiegata dell'Agenzia delle Entrate ostaggio di un attentatore. E pare addirittura avere virtù miracolose: l'impiegata, moglie del poliziotto Michele, ritiene infatti che sia stato proprio Lui con le sue parole a far sì che sia rimasta finalmente incinta... Potere del Verbo tecnico!

Ma Monti è inviso alla frangia più oltranzista degli anarchici internazionalisti guidata da un misterioso aristocratico francese vestito di bianco e con papillon, molto snob ma devoto alla causa del popolo che soffre. Il mondo è abbastanza marcio per farlo cadere nel caos dal quale rinascerà una società di eguali. È l'Effetto Domino e bisogna cominciare dall'Italia, considerata «il ventre molle dell'Occidente». Così si prepara l'attentato che si verificherà sul lungotevere il 24 novembre 2012. Non ci resta che leggere e aspettare...

(di Gianfranco de Turris)

In democrazia casa Pound può manifestare


La manifestazone indetta da Casa Pound, circolo di estrema destra che, autorizzata dalla Questura, dovrebbe svolgersi oggi a Roma con partenza da Piazza della Repubblica e arrivo al Co- losseo, ha sollevato lo sdegno e l'indignazione di una collezione di “democratici e antifascisti” (il circolo Mario Mieli, Queer Lab, la Casa internazionale delle Donne, le Madri per Roma città aperta, attivisti della sinistra, con l'aggiunta di Luca Telese, attuale direttore di Pubblico, che in un recente passato ha lavorato per un quotidiano notoriamente antifascista e antirazzista come Il Giornale).

I “democratici e antifascisti” hanno chiesto alla Prefettura di vietare il corteo e di chiudere la sede romana di Casa Pound richiamandosi anche alla legge Scelba del 1952 che vieta la ricostituzione del partito fascista (alla quale Palmiro Togliatti che, a differenza di costoro, non era un cretino, si oppose perché capiva benissimo che si comincia con i fascisti e si finisce con i comunisti) e alla più recente legge Mancino (specchiatissimo personaggio coinvolto, sia pur per falsa testimonianza, nell'inchiesta palermitana sui rapporti e i presunti accordi Stato-mafia) che punisce, con la reclusione, le manifestazioni di “odio razziale”. Ora, secondo il volantino distibuito da Casa Pound, la manifestazione è contro “la casta, i tecnici, la finanza, i mercati, le Banche, l'usura”. Non si vede che cosa ci sia di “fascista” in tutto questo, sono obiettivi che potrebbero essere tranquillamente abbracciati anche dai ragazzi dei “centri sociali” oltre che da moltissimi cittadini che non si riconoscono né nella destra né nella sinistra.

Sono stato invitato un paio di volte dai ragazzi di Casa Pound a presentare i miei libri (e, “democra- tici” permettendo, ci tornerò il 22 febbraio), così come, in molte altre occasioni, da circoli culturali che si richiamano alla sinistra e all'estrema sinistra. E a Casa Pound non ho notato nulla di facinoroso, di violento, di “fascista” (ciò non ha impedito ai “centri sociali” romani di inserirmi in una minacciosa “lista nera”, così come il Congresso in-ternazionale ebraico per aver io difeso non Priebke ma i suoi diritti, mi ha bollato da “nazista”, ignorando, almeno lo spero, che mia madre, Zinaide Tubiasz era ebrea e che ha visto l'intera sua famiglia di origine sterminata dai nazisti sul fronte russo-tedesco).

Ma le impressioni che ho avuto frequentando saltuariamente i ragazzi di Casa Pound sono personali e possono anche essere sbagliate. Ma la questione, qui, è un'altra. Ed è di principio. Una democrazia, se vuole essere tale, deve accettare tutte le opinioni, tutte le idee, anche quelle che le paiono più aberranti e le sono radicalmente antagoniste. È il prezzo che la democrazia paga a se stessa e che la distingue dai regimi totalitari. L'unico discrimine, in democrazia, è che nessuna idea, giusta o sbagliata che sia, può essere fatta valere con la violenza. Leggi come quella Mancino, che vietano le manifestazioni di idee o addirittura l'espressione di alcuni sentimenti, sono leggi liberticide degne del Codice fascista di Alfredo Rocco (io ho il diritto di odiare chi mi pare, fermo restando che se gli torco anche solo un capello devo andare dritto e di filato in gattabuia).

I sedicenti “democratici e antifascisti” che vogliono impedire il corteo dei ragazzi di Casa Pound, perché “fascisti”, prima di sparare cazzate demagogiche dovrebbero almeno cercare di capire che cos'è realmente una democrazia. Ma temo che sia un'impresa disperata e che avesse ragione Mino Maccari quando affermava: “I fascisti si dividono in due categorie: i fascisti propriamente detti e gli antifascisti”.

(di Massimo Fini)

giovedì 22 novembre 2012

Marco Tarchi: diffidano della base, conta il capo


Marco Tarchi, politologo, il centrodestra italiano ha molti problemi con la successione post-berlusconiana. Ma anche in Francia, come dimostra l’Ump, le cose non vanno bene. Come mai tutta questa allergia alle primarie?

"Dipende da due caratteristiche psicologiche (verrebbe da dire antropologiche) degli ambienti di destra. Da un lato c’è la considerazione che gli elettori dei partiti di questa area hanno della politica: la ritengono un male inevitabile, un settore delicato in cui devono mettere bocca solo i competenti e gli addetti ai lavori, quindi non se ne vogliono occupare troppo. Rifuggono dal militantismo, hanno interessi maggiori nella vita. Dall’altro lato c’è la tendenza ad affidarsi alle qualità umane (e politiche) di singoli soggetti – i “capi” – più che a quelle di un’indistinta base. Diffidano del collettivo, delle assemblee. Vogliono guide certe e univoche".

Le primarie stanno facendo bene al Pd, si vede dai sondaggi. Ma quale effetto potrebbero avere sul Pdl, con una tale frammentazione di candidature?

"Prima di parlare dei benefici effetti delle primarie sul Pd aspettiamo i risultati. Sulle reazioni dei delusi è meglio non azzardare pronostici. Per i motivi che ho ricordato, molti elettori del centrodestra (riguardo agli iscritti e soprattutto ai militanti e ai dirigenti, il discorso da fare sarebbe tutt’altro) non gradirebbero scontri fratricidi e toni pesanti: ne hanno visti e sentiti fin troppi negli ultimi anni, e lo hanno dimostrato con esodi e disaffezioni. Preferirebbero una designazione univoca e, almeno formalmente, corale".

Il paradosso del Pdl sembra essere questo: da partito a guida carismatica a partito a guida incerta. È la sua nemesi?

"Sicuramente, perché quando ci si affida a un “uomo provvidenziale”, si finisce per fare a meno di dirigenze stabili e articolate, scelte sulla base di precise capacità e competenze. Si ascende nelle gerarchie solo per effetto della benevolenza del capo, o tutt’al più – se si è in presenza di un partito-coalizione qual è il Pdl, in virtù di accordi (sempre soggetti a contestazioni) fra le componenti.
Non sono stati pochi gli studiosi che, di fronte al perdurare dell’onnipotenza berlusconiana, con i suoi corollari di scarsissima collegialità direttiva, hanno ipotizzato un tracollo al momento della successione. Pare non avessero torto".

Quale futuro per la componente più vicina agli ex An?

"Più che dalla loro volontà, dipenderà dalle mosse degli altri settori – ormai molto frastagliati – presenti nel partito. Potrebbero aprirsi spiragli di opportunità all’interno di un nuovo gruppo dirigente unificato, oppure potrebbe rendersi necessario, per contare, staccarsi e puntare su una lista federata a una sorta di replica di Forza Italia ma più caratterizzata a destra. Non sono certo che gli ex-An resteranno uniti in questa fase turbolenta: alcuni loro esponenti si sono avvicinati ai berlusconiani “storici” e non vedrebbero di buon occhio un ricongiungimento con La Destra di Storace, necessario al progetto di cui ho fatto cenno".

Buttafuoco, sul rogo dell'ironia c'è posto per tutti


Ora che la Rai ha cancellato Questa non è una pipa, i fan di Pietrangelo Buttafuoco se lo ritrovano almeno in libreria con Fuochi (Vallecchi, euro 14,50), in uscita il 28 novembre, un «best of» di incursioni politiche degli ultimi anni. 

Buttafuoco è forse il miglior fabbro del giornalismo cattivo. Sin da quando, praticante al Secolo d'Italia a inizio anni '90 firmava un boxino con lo pseudonimo Dragonera. Il direttore Gennaro Malgieri chiudeva il giornale ma non controllava la rubrica. La mattina dopo leggeva attentamente, prendeva carta e penna e cominciava a scrivere biglietti di scuse. Buttafuoco riuscì a farlo litigare con tutti, da donna Assunta agli alti papaveri dell'Msi.

Buttafuoco, pur lanciando frecce infuocate a destra e a sinistra, è più un umorista che un polemista. Usando la tecnica indiretta alla Pirandello: l'apparenza comica lascia intravedere la tragedia. Un esempio: la scena in cui l'autore descrive l'incontro con Gianfranco Fini in una strada di Roma. Spiega Buttafuoco, ex militante dell'Msi «tradito» da un Fini alla disperata ricerca di legittimazioni centriste: «È riuscito, lui, con le sue cravatte sbagliate, a distruggere un partito - un ambiente, una comunità - che da Bolzano a Trapani aveva superato le persecuzioni, l'ostracismo e l'indifferenza». Ma nella scena dell'incontro i due non si parlano: Fini è nell'auto blu. Si guardano attraverso il vetro, si riconoscono per l'attimo che basta al giornalista per notare una cravatta che ha il colore del «cane in fuga, bandiera di un'ambizione stritolata».

Molte frecce infuocate in questo libro sono riservate alla sinistra della gente che piace. Ecco Tiziano Terzani. «L'orientalista non si veste da orientale, il latinista non si veste da antico Romano, il grecista non si veste da Aristotele. Con la banalità antioccidentale non si fa orientalismo, ma nobile caricatura, più che orientalisti si fabbricano dei disorientati». Per spiegare il successo di Fabio Fazio, si recupera la fenomenologia di Mike Bongiorno di Umberto Eco: «Al tempo del Mike, la tivù non era ancora diventata il cuscino trapuntato di colte sfumature, quello che è Fazio Fabio, cuscino di pregiate natiche».

E Oriana Fallaci? I due erano divisi da potenti motivazioni ideali. Destra «spirituale», saracena, socialista quella di Buttafuoco, destra illuminista, amica degli Usa, cattolica solo come lascito storico, quella della Fallaci. Dal «coccodrillo» di Buttafuoco per la «nemicona»: «Chi scrive adora Oriana Fallaci, non fosse altro che per un delizioso tormentone cui la sottoponeva Giuliano Ferrara. Chi scrive era al Foglio, giornale, ai tempi, con articoli non firmati. Ogni volta che le capitava sotto il suo attento occhio un pezzo appunto anonimo ma di suo gusto, chiedeva a Giuliano: “Chi ha scritto quest'articolo?”. E Ferrara, divertito, piano piano le diceva: “But', But', Butta'... Buttafuoco”. E giù urla: “Quello strrronzooo d'un maiaaale!”».

Troviamo un Dell'Utri «gatto di marmo imperturbabile e però ironico», un Berlusconi «a cui piace piacere al punto di anteporre il fottere al comandare». E nel ritratto-intervista che Buttafuoco gli dedica, Scalfari comincia con lo spiegare all'autore una mossa imparata da ragazzino, nei balilla: come si fa il saluto romano.

(di Bruno Giurato

mercoledì 21 novembre 2012

La Francia ha smarrito la via della grandeur


Comunque lo si guardi, è un disastro. L'opposizione che si spacca nel momento in cui deve scegliere il suo nuovo leader, la maggioranza di governo che vede la sua popolarità in caduta libera e la sua linea economica sottoposta al fuoco di fila della stampa liberista, continentale e insulare, leggi Germania e Gran Bretagna e, quel che è peggio, delle agenzie internazionali di rating, discutibili certo, ma non per questo ininfluenti. 


A pochi mesi dalle presidenziali che sancirono la sconfitta di Nicolas Sarkozy e la vittoria di François Hollande, la Francia è insomma nel marasma e sempre più ci si rende conto che non potendo nessuna nazione fare una politica nazionale, che si vada da destra a sinistra, o viceversa, non cambia niente. Siamo tutti prigionieri dell'Europa, anche quelli come i francesi che si illudevano di fare parte dell'amministrazione carceraria.

Cominciamo dai guai in casa dell'Ump, il partito che dieci anni fa fu chiamato a raccogliere liberal-gollisti, centristi e destra e portò poi Sarkozy alla presidenza della Repubblica. Dopo la mancata rielezione di quest'ultimo e il suo, più o meno forzato, ritiro dalla scena politica e partitica, la corsa alla nuova leadership era ristretta a due nomi, François Fillon, già primo ministro del presidente sconfitto, e Jean François Copé, già segretario del partito. Ha vinto quest'ultimo, per nemmeno cento voti (87.388 contro 87.290), ma la lotta è stata così aspra, velenosa, con reciproche accuse di furti e di brogli - ubuesque l'ha definita Le Monde rievocando quel Père Ubu di Jarry, simbolo di grottesca pazzia - che molti si chiedono se l'Ump sopravviverà a sé stesso. Oltretutto, Copé è accreditato di una linea politica più a destra rispetto allo sfidante sconfitto, un po' nell'onda dell'ultimo Sarkozy quando andò a cercare i voti lepenisti. Bisognerà però vedere se, nei cinque anni che separano dalle prossime presidenziali, questa «virata» dragherà consensi dal partito di Marine Le Pen o conforterà l'elettorato nell'idea che se c'è già una destra estrema ormai conquistata alla democrazia, tanto vale metterla alla prova e non accontentarsi di un'imitazione.

Naturalmente, l'implosione dell'Ump è foriera di un possibile ritorno sulla scena dello stesso Sarkozy, da alcuni osservatori considerato paradossalmente il vincitore morale di una competizione fratricida. Senza di lui, dicono, non c'è leader e rischia di non esserci nemmeno un partito. Se sarà così, quel che è certo è che nei tempi lunghi gli toccherà cercare di rimettere insieme i cocci di una spaccatura così eclatante, ma intanto, nei tempi brevi, se la deve comunque vedere con l'affaire Bettencourt, quel complicato intreccio di soldi privati e malaffare pubblico e politico per il quale la procura di Bordeaux l'ha chiamato a testimoniare.

Vediamo ora l'altro fronte, quello di chi governa. La popolarità di Hollande è attualmente intorno al 35/36 per cento: solo Chirac riuscì a fare di peggio, nel 1995, anche lui appena sei mesi dopo essere stato eletto. I francesi rinfacciano al neo-presidente di aver firmato il nuovo trattato sulla governance europea, di aver aumentato l'Iva e messo nuove tasse nonostante le assicurazioni contrarie date in proposito. I media tedeschi hanno preso a definire la Francia «il malato d'Europa», l'inglese Economist se n'è uscito mettendo in copertina una baguette fasciata con il tricolore e sormontata da una miccia accesa: «La bomba a orologeria nel cuore dell'Europa» era il titolo. Come se non bastasse, ieri Moody's ha declassato la Francia, replicando in pratica ciò che Standard and Poor's aveva fatto all'inizio dell'anno: dalla tripla A l'ha fatta scendere a AA1, con previsione negativa per i mesi a venire. Che cosa si rimprovera al governo di Hollande? «Perdita di competitività, graduale ma continua, rigidità del mercato del lavoro, dei beni e dei servizi, diminuzione della possibilità di resistere a nuovi choc della zona euro», visti i suoi importanti legami commerciali e bancari con i Paesi fragili dell'Unione monetaria.

Una volta all'Eliseo, insomma, Hollande ha dovuto prendere atto che i margini di manovra politica da lui evocati in campagna elettorale, non esistevano: sono i poteri finanziari ad avere in mano gli Stati nazionali, e non c'è alternativa. Tanto era stato velleitario il tentativo del suo predecessore di far passare l'immagine di un'Europa a guida franco-tedesca, tanto si è rivelata falsa l'immagine della «forza tranquilla» del successore che rimetteva al suo posto la tracotanza della cancelliera Merkel.

Va del resto ricordato che sei mesi fa non fu Hollande a vincere le elezioni presidenziali, quanto Sarkozy a perderle. Il primo in sostanza divenne presidente per gli errori del secondo, caratteriali e politici, un misto di egolatria e scarso senso di opportunità, la fuga in avanti nella politica estera (la sciagurata guerra di Libia), come diversivo di una politica interna che non andava da nessuna parte, il combinato disposto di una volontà di potenza megalomane quanto deficitaria. Un leader incapace, vanitoso e arrogante, questo si rivelò Sarkozy. Hollande, al contrario, era un buon burocrate, a proprio agio nei di corridoi di partito, tenace, carrierista, ma non decisionista, un uomo senza spigoli e quindi in grado di assorbire i colpi, ma allo stesso tempo incapace di sferrarne di decisivi. Un politico di transizione, insomma, non di rottura, adatto per delle rotte tranquille, quelle nelle quali il comandante di una nave si limita a far osservare ai suoi passeggeri le più elementari norme di sicurezza e intanto li invita a guardare lo splendore dei tramonti dal ponte di coperta. Oggi che tutta l'Europa è in tempesta, serve altro, soprattutto servirebbe qualcuno in grado cambiare rotta.

(di Stenio Solinas)

sabato 17 novembre 2012

Bologna, torna l’ombra dei palestinesi sulla strage


La notizia ha il crisma dell’ufficialità in quanto comunicata al Parlamento dal ministero dell’Interno: la procura di Bologna, nell’ambito dell’inchiesta sulla Strage di Bologna, sta indagando su un misterioso viaggio a Roma nel novembre 1981 del palestinese Abu Anzeh Saleh, uomo di riferimento in Italia dei guerriglieri marxisti del Fplp e del superterrorista Carlos. 

Un viaggio inquietante, considerando che Saleh era agli arresti domiciliari a Bologna e che fu necessaria un’autorizzazione specifica della magistratura dell’Aquila (il palestinese era stato arrestato per l’indagine sui missili palestinesi sequestrati a Ortona). E siccome all’Aquila non erano tanto d’accordo, si mosse da Bologna il giudice Aldo Gentile, che scrisse ai colleghi abruzzesi spiegando che la deroga ai domiciliari era «necessaria» alle sue indagini sulla bomba alla stazione.

Sono passati 32 anni da quella strage, eppure le indagini della magistratura bolognese vanno avanti. E siccome ci sono dei condannati a pena definitiva (i neofascisti Giusva Fioravanti e Francesca Mambro), come si sa, ogni passo in avanti lungo la cosiddetta «pista palestinese», a seconda dei punti di vista scatena rabbia o speranza. C’è un deputato del Fli, Enzo Raisi, che da tempo si batte per la «pista palestinese»; le ultime rivelazioni sono legate a una sua interrogazione. Chiedeva, Raisi, se fosse vero che ad Abu Anzeh Saleh era stato concesso di lasciare i domiciliari e andare a Roma, perché si fosse mobilitato il giudice Gentile, che cosa ne sapesse il ministero dell’Interno. 

Ed ecco che il sottosegretario all’Interno, Carlo De Stefano, uno che di certe materie se ne intende essendo stato per anni il responsabile dell’Antiterrorismo, risponde che in effetti è tutto vero. Dagli archivi della corte di appello dell’Aquila, miracolosamente intatti nonostante il terremoto, è riemersa una istanza di Abu Anzeh Saleh del 22 settembre 1981 «per essere autorizzato a lasciare Bologna per poter svolgere il proprio lavoro». La richiesta è bocciata una prima volta a ottobre. Saleh ci riprova nei mesi seguenti ogni volta cambiando la motivazione. Una volta in ragione «dell’attività di intermediazione commerciale tra imprese italiane ed operatori arabi». Un’altra volta perché ha necessità di conferire con il suo avvocato difensore. Alla fine, l’autorizzazione arriva e Saleh può andare a Roma, dove rimane una decina di giorni, tra novembre e dicembre 1981. 

Ebbene, ora la procura di Bologna indaga su quel soggiorno capitolino di Saleh. L’interrogativo è ovvio: perché tanta insistenza nel lasciare i domiciliari? Chi doveva incontrare nella Capitale? Perché il giudice Gentile lo voleva a Roma? «Mi sembra abbastanza incredibile che gli sia stato concesso un permesso del genere - sostiene Raisi - per un incontro con l’avvocato. La spiegazione ufficiale non regge». 

La risposta del sottosegretario De Stefano, molto dettagliata (ed è la prima volta che finalmente le questure e gli archivi dei tribunali trovano documenti che troppo spesso dichiarano «smarriti»), al riguardo si chiude con una esplicita postilla. «Sono in corso attività investigative della questura di Bologna delegate dall’autorità giudiziaria nell’ambito del procedimento penale n. 13225/11 concernenti, tra l’altro, la posizione del cittadino Abu Anzeh Saleh e coperte da segreto istruttorio. Non risultano disponibili, pertanto, ulteriori elementi, in quanto anche i dati richiesti con lo specifico quesito posto dagli onorevoli interpellanti, sono coperti da segreto istruttorio». La vicenda non è chiusa.

(fonte: www.lastampa.it)

venerdì 16 novembre 2012

Leader di Hamas ucciso mentre valutava una tregua con Israele


“Credo che abbiano fatto un errore strategico che costerà la vita a molte persone innocenti da entrambe le parti”: a parlare è l’attivista e pacifista israeliano Gershon Baskin, uno dei principali negoziatori tra israeliani e palestinesi per il rilascio del caporale Gilad Shalit e che nelle ultime settimane era rimasto in contatto con Ahmed Jabari (nella foto ndr.), il comandante del braccio armato di Hamas ucciso mercoledì da un’operazione militare israeliana.

In un’intervista rilasciata ieri al quotidiano israeliano Haaretz, Baskin sostiene che con l’omicidio di Jabari “è stata uccisa la possibilità di raggiungere una tregua” con Hamas.

Il mediatore spiega, infatti, che al momento in cui è stato ucciso, Jabari stava valutando una bozza di proposta di tregua permanente con Israele.

Secondo Baskin il documento di tregua proposta a Jabari includeva anche una serie di protocolli per il mantenimento di un cessate il fuoco permanente anche nel caso di episodi di violenza transfrontalieri tra Israele e Gaza.

L’attivista ha ribadito ad Haaretz che alti funzionari israeliani erano perfettamente a conoscenza della tregua in fase di negoziato, ma nonostante questo avrebbero approvato l’assassinio del leader di Hamas, ben sapendo che questo avrebbe messo fine alla relativa calma degli ultimi giorni, portando ad un’escalation del conflitto.

Sempre lo stesso Baskin, infine, conclude sottolineando come la posizione di Jabari negli ultimi due anni si fosse molto ammorbidita, “aveva interiorizzato la convinzione che le cicliche esplosioni di violenza con Israele non fossero di alcun beneficio per Hamas o gli abitanti della Striscia e molte volte aveva agito per prevenire il fuoco di Hamas su Israele. Anche quando Hamas aveva partecipato al lancio di razzi, quelli dei suoi uomini cadevano in zone aperte e disabitate, e questa era una scelta intenzionale”.

Il quotidiano progressista israeliano, spesso critico nei suoi editoriali verso le politiche militari del proprio paese, ieri presentava nella sua versione on line altri due articoli che di fatto ridimensionavano il ritratto di “super terrorista” di Jabari diffuso, dai media nazionali e internazionali, dopo il suo omicidio.

In uno di questi articoli si sosteneva addirittura che la tregua negoziata nei giorni scorsi e quella proposta ad Hamas di cui parla Beskin rientravano in una precisa strategia per far abbassare la guardia ad Hamas, dando al movimento la percezione di una certa sicurezza, prima di colpirlo duramente.

Secondo altri analisti e commentatori, che in queste ore stanno riempiendo pagine e pagine di interpretazioni degli sviluppi delle ultime ore, quanto sta accadendo a Gaza (e soprattutto la possibilità di un’ulteriore estensione delle operazioni militari) andrebbe inserito nel più ampio contesto mediorientale che comprende anche la crisi siriana e le tensioni con l’Iran.

(fonte: www.atlasweb.it)

lunedì 12 novembre 2012

Povero Cav., senza nemmeno un Bruto che lo pugnali


E’ il predellino dell’Ambulanza. Non basta il lapsus del barzellettiere subito trasformato in barzellettato. La svista rivelatrice, infatti, è un’altra: “Gli voglio bene come a un figlio” ha detto Berlusconi di Alfano in conferenza stampa congiunta ed è stato il momento esatto in cui tutta l’incompiuta da 25 luglio s’è svelata nell’esatto contrario: è finita che nell’Ambulanza ci sono entrati tutti i tremebondi congiurati e non più lui, non di certo il capo che di quelle primarie non sa che farsene e tiene tutti loro lì, ancora per la saccoccia. Soldi non ce ne sono, dice, e Rocco Crimi, tesoriere del Pdl, si dimette seduta stante. Giusto per non restare travolto dal predellino dell’Ambulanza.

Non ha il Quid. Si sa. Ma non ha neanche il Quoque. Angelino Alfano che s’è ritrovato senza il “quid” del carisma, sottrattogli da Silvio Berlusconi, s’erge impettito ma adesso si scopre senza le idi in tasca. Non l’accoltella, infatti, il suo Cesare per essergli figlio nel “quoque tu”.
Non basta la rabbia consumata contro l’ex presidente di Confindustria – “nei sondaggi prende meno di me!” – e su cui ricorda a tutti quel che Rino Formica dice a proposito di Luca Cordero di Montezemolo (dice, il Formica, “Ma era solo un’altra Minetti, quello! Era la Minetti dell’Avvocato…!”). E non si accontenta, il determinato Angelino, della papera del gelataio, Federico Grom, gettata sul piatto come un’invettiva per svelarsi al dunque congiurato e opportunista.

Senza Quoque, l’uomo privo di Quid non sa come farlo il tanto atteso 25 luglio. Non è neppure Dino Grandi per risolvere giusto in questo novembre un Gran Consiglio, magari facendogli la sorpresa di un’Ambulanza parcheggiata nel cortile di Palazzo Grazioli che se lo porti via, infine, il Cavaliere Berlusconi, come nel 1943 accadde a Benito Mussolini dopo il colloquio col Re a Villa Savoia.
E’, dunque, il predellino dell’Ambulanza. “Sarebbe benemerita cosa levarsi dai c…”. Così, manco due giorni fa, questo auspicio riecheggiava a modo di mantra tra le fila degli ex An in marcia verso la riunione dell’ufficio di presidenza del partito dove vi arrivavano apposta in ritardo ma era così tutto teso, tutto livido e tutto così certificato nel fallimento che nessuno faceva caso del rovinio di sedie: “Non ci sono occhi per piangere”, mormorava accorato Ignazio La Russa.

E davvero l’Ambulanza ci vuole. Al Pdl, di quel che sarà, non resta altra possibilità che il tradimento. Non è più tempo di dirle le cose con le buone. Anche Antonio Di Pietro viene tradito in queste ore, tutti i suoi fedelissimi pretoriani e i consoli delle province remote lo lasciano solo e dilaniato tra le case. Beppe Grillo che lo indica per il Quirinale sembra riprendere il costume antico del decoro repubblicano di Roma. E il capo dei grillini fa con Di Pietro come l’Anziano che, ai senatori macchiatosi di sconfitta, consigliava un onorevole riparo: quello di prendere un bagno caldo e poi, congedatosi da tutto, aprirsi i polsi. L’elogio che ne fa Michele Santoro, poi, è pari pari preso dal discorso di Marco Antonio dopo che tanti Bruto-Donadi hanno già sciolto nel rancore tutte le loro arringhe.
E’ il voltafaccia che fa la storia. Se Napoleone Bonaparte non avesse tradito la Rivoluzione non avrebbe potuto vincere da Imperatore per confermarsi figlio dei Robespierre e della Ghigliottina. Così il Duce: se non avesse tradito il socialismo non avrebbe potuto fabbricare il fascismo e restituirsi all’idea proletaria di Salò. E così Cristo: se non avesse tradito gli ebrei non avrebbe potuto fondare il cristianesimo e riconfermare il giudaismo e lo stesso Cristo cercò qualcuno che lo tradisse, non solo Giuda, ma la stessa Chiesa, costretta mondanamente a tradire il figlio di Maria per sopravvivere e farne dogma di quell’Inquisitore di Fedor Dostoevskij che lo interroga il Nazareno, lo riconosce e, a maggior ragione, lo condanna.

Forse non riesce il 25 luglio su Berlusconi perché ha casa nella salda cassa dalla capacità illimitata di liquido e non ha neanche bisogno dei tedeschi per farsi rimettere in piedi. Di tutte le zucche, Berlusconi, ne ha fatto deputati. E siccome il tradimento è emancipazione e autonomia Berlusconi sa che non c’è riuscita nella congiura in atto per assenza di indipendenza e maturità nei suoi. Gli ha dato nome e cognome, gente che al più avrebbe avuto pubblicità solo al citofono di uno studio professionale. Ciò che ancora detta legge è il blasone di casa e cassa. Quando qualcuno prova ad andare via dall’azienda, Fedele Confalonieri, così sentenzia: “Vai, vai pure. Ma ricordati che fuori fa freddo”. E’ la misura dell’abbandono sotto la teca dell’archetipo, questa. L’unico che ha provato a tradire Berlusconi è Giulio Tremonti. Lo ha fatto con misura e calcolo. Senza passione e forse senza risultati se, come pare, Rino Formica ha già inviato all’indirizzo di Sondrio una lettera per levare all’ex ministro di Berlusconi la pelle e la patente di socialista riformista.

Non riesce il 25 luglio perché solo ora, con le dimissioni di Crimi, nel frattempo che l’Ambulanza corre, si scopre una difficile verità. I piediellini non hanno manco i soldi per pagarsi i manifesti. E sono Privi della Libertà, altro che Popolo della Libertà. Si tradisce sempre per qualcuno e con qualcuno. Senza qualcuno – come dire senza Quid e senza Quoque – si diventa cannibali.
Nel 1994, nell’infarto di Tangentopoli, si tradiva dandosi mani e piedi alla magistratura. I berlusconiani, oggi che non c’è un’altra parte non possono farne del Caimano un Cinghialone perché, al contrario, hanno solo la distruzione davanti a loro. E un destino di cannibalismo. E’ tutto un ripetersi, “Cosa sarà di noi, domani?”. E mentre Berlusconi gli mette sotto il muso un dinosauro dei suoi – “uno come me”, dice – magari Gianpiero Samorì da Modena, “un personaggio che fa tutto senza sporcarsi la giacca”, la scolaresca prova il rito dell’uccisione del padre, com’è accaduto puntando i piedi per ottenerle queste benedette primarie, dopo di che, si vede. E quel che si vede è che mancano santi cui votarsi.
Sono tempi senza santi, questi. Certo, c’è Giovanni Favia che tradisce Grillo. Ma è santo che non suda. C’è Emilio Fede che fa la ola intorno a Berlusconi e viene tradito a sua volta da Lele Mora (o è il contrario?). Valter Lavitola, poi, che tradisce tutti ma strilla continuamente di essere stato tradito da chiunque, e in particolare da Berlusconi, il santo che non paga. Ovvio, c’è Francone Fiorito che è stato tradito da Francesco Battistoni, poi c’è la Polverini che, dice lei, è stata tradita dal sistema. Formigoni, invece, è tradito dal look. E Berlusconi, che è abbandonato da Gianfranco Fini, non fa catena con Fini, rovinato dal cognato Tulliani. Quindi Alessandro Sallusti, tradito da Renato Farina. E Vittorio Feltri pure, tradito. E così il Santo Padre tradito dal “corvo”. Il Corvo dal Papa. I fiorentini sono traditi da Renzi (la città madre da uccidere) e Mitt Romney tradito, infine, dall’America.

Berlusconi che pure tradì Bettino Craxi sa bene che non funzionò il tradimento del Psi verso il proprio leader. Il padre del Garofano che, nel momento del crollo, cercò in Enrico Boselli un suo Alfano, ebbe invece i Benvenuto e i Del Turco, poi ci fu la diaspora e un tradimento riuscito ci fu solo nel Pci, che non era più quello di Palmiro Togliatti e di Enrico Berlinguer, capi orbi di dissenso, ma quello di Achille Occhetto che, avendo tradito Alessandro Natta, fu a sua volta tradito da Massimo D’Alema e Walter Veltroni. Tradire l’Urss fu vitale per il comunismo italiano e senza scomodare il luogo comune di Tomasi di Lampedusa il cambiare per non cambiare di Gorbaciov fallì perché solo un tradimento compiuto regge la pagina di Shakespeare, non la generica adesione ai principi dei diritti dell’uomo e della democrazia, i soviet crollarono e solo tra le macerie della macchina totalitaria poté venire alla luce, con chiarezza, l’eternità delle nevi di Russia.

Poiché solo Nicolò Machiavelli fa catechismo forse c’è materia – giusto insegnamento di Achille Bonito Oliva, “L’Ideologia del traditore” – per far dottrina di un’arte difficile quanto la messa in pratica di una morale: l’etica del traditore. E se proprio non vogliamo fare storia ché qui stiamo facendo il giornale, se quindi non vogliamo citare Ramón Mercader (cognato di Vittorio De Sica) che spaccò la testa a Lev Trotsky dopo essersi spacciato per amico suo, né Efialte che tradì Leonida suggerendo ai persiani di Serse (secondo Erodoto quasi cinque milioni di soldati) un percorso per aggirare i leggendari trecento opliti spartani presso il passo delle Termopili, ci sarà da ricordare almeno Steve Jobs che tradisce il suo socio in affari e geniale tecnico Steve Wozniak strappandogli la Apple; e ci sarebbe Facebook che non fu un’idea di Mark Zuckerberg ma dei fratelli Cameron e Tyler Winklevoss, raggirati dal social nerd che nel frattempo aveva anche chiesto all’amico – che poi ovviamente tradirà – Eduardo Saverin di aiutarlo a trovare finanziatori per l’impresa.

L’antimafia ha appunto origine dal tradimento di Tommaso Buscetta che, al pari di ogni bestemmiatore, tradisce quel sangue per confermarsi uomo d’onore. Come Napoleone, come Cristo. Non è un esercizio di stile il tradimento. E’ un viatico di solidità. E’ il rituale dell’umanità in cammino. Ed è la bassa cucina nel vapoforno della politica. Ci sono stati tempi da retroscena nell’Italia che fu teatro per Gano di Magonza e per Jago, il sussurratore delle Venezie. Romano Prodi tradì Ciriaco De Mita ma nel frattempo Mino Martinazzoli aveva già tradito la Democrazia cristiana portando a compimento il suicidio. Francesco Cossiga si peritò di picconare la Repubblica tradendo tutti, anche Marco Pannella si sentì tradito da Barbara Palombelli e Francesco Rutelli. Li battezzò i Ciano immedesimandosi lui nel Duce. Il figlio del Fabbro fa da archetipo e in Italia e nel mondo fa testo solo il 25 luglio. I venticinqueluglisti, oggi, sono merce rara. Servirebbero come il pane per dare una degna uscita di scena al Cav. e Berlusconi che ha dunque verificato l’impossibilità di essere tradito, dovrebbe procurarsi il modo – come Cristo con Giuda, come Otello con Jago, come Orlando il paladino con Gano di Magonza – di averlo un accoltellatore, un Renzi tutto per sé, e non un pm, che lo consegni alla durezza di una sconfitta. Solo il tradimento potrà salvare lui e il suo ventennio, solo un 25 luglio riuscito, a costo di pagarselo da solo e farlo nuovo di pacca, potrà fargli la strada libera verso la meritata pagina di storia e non al cortile querulo dei lotofagi, tutti mangiatori di quelle begonie dei prati d’Arcore, aedi di un tempo che almeno la violassero l’intimità di Palazzo Grazioli come un tempo Claudio Martelli, l’unico che potesse aprire il frigorifero in casa di Bettino, profanò senza scadere nella caricatura delle fedelissime amazzoni, devote quanto accecate nel fragore della disfatta mesta di un’età, quella dei Pdl, i Privi della Libertà dove tutti arrivano primi al traguardo del predellino. Quello dell’Ambulanza. Senza Quoque e senza Quid.

(di Pietrangelo Buttafuoco)

venerdì 9 novembre 2012

Da Fiuggi al Pdl, 15 anni vissuti da senza tetto


Se Sparta piange (ma sì, no­bilitiamo un po’ le nostre miserie politiche), Atene non ride. Tempo tre lustri, e l’aver voluto cambiare indiriz­zo e ragione sociale, ha signifi­cato per gli ex missini del tem­po che fu ritrovarsi senza fissa dimora. Sfrattati. Quelli che si illusero con Fi­ni, rischiano di scomparire co­me partito alle prossime elezio­ni (a meno che non scompaia­no addirittura prima, nascosti e/o riciclati in una qualche coa­lizione). Quelli che restarono con Ber­lusconi, pagano lo scotto di chi si ritrova a contemplare il tra­monto di un regno: ciascuno per sé, nessun vincolo né pietà per i più deboli. Più numerosi dei transfughi del Fli, qui natu­ralmente ci saranno più «salva­ti » rispetto agli «ex amici» desti­nati a essere «sommersi», ma il quadro d’insieme non muta: la fine di un mondo e di un’eti­chetta politica, la destra. Ironia della storia, nemme­no vent’anni dopo essere stata sparata in orbita, la destra si ri­trova dunque dispersa nello spazio politico italiano, ma il paradosso è che il moderati­smo tenacemente perseguito in quest’arco di tempo per ripu­lirsi e proteggersi da quel­l’estremismo «nero» così tanto rinfacciato e, va riconosciuto, spesso e volentieri così avvilen­te, le si ripresenta oggi come un boomerang. 

Non è moderato il nuovo sog­getto che ha nome Movimento Cinque stelle e che minaccia di fare sfracelli; non è moderato l’odiato-amato ex alleato leghi­sta; non è moderato il fronte elettorale astensionista, ovve­ro quella parte del popolo italia­no che se avesse fra le mani un parlamentare, senatore o depu­tato non fa differenza, lo pren­derebbe tranquillamente a cal­ci, ma intanto come protesta ha deciso di non andare a vota­re.

Per molti versi, è una situazio­ne che ricorda quella di Tan­gentopoli e del tracollo della Prima Repubblica, solo che chi era allora estraneo, del tutto o in parte, al disastro istituziona­le precedente, ora si ritrova, di fatto, corresponsabile e il non aver pensato per tempo a un ri­cambio e/o una successione è ciò che maggiormente ne con­diziona la sua classe dirigente. Di questo, i «forza-italioti» so­no destinati a pagare ovviamente il prezzo, ma si può dire che il loro legame con il capo fondatore era tale da rendere difficile, se non impossibile, co­me le rare eccezioni hanno di­mostrato, una logica che non fosse di mera sudditanza.  

È qui però che i difetti di quel­la che allora era una destra «an­tisistema », si rivelano ancora più impietosi. Perché con tutte le sue pecche ideologiche e le sue incapacità umane, c’era dietro di essa una storia, un patrimonio anche morale, un ba­cino elettorale, una certa idea del’essere e del vivere.

Si preferì invece un appiatti­mento sul più potente alleato e, al proprio interno, uno sbri­gativo regolamento dei conti con chi non si mostrava entu­siasta quanto al nuovo corso. Ancora: ci si cullò sull’idea del delfinato, ovvero il passaggio più o meno spontaneo del ba­stone del comando, ma non si ebbe nemmeno la pazienza e l’intelligenza di condurla sino in fondo. Fallito anche questo, chi comunque rimase dentro il più grande contenitore, lo fece per meglio disperdersi, non cer­to per distinguersi. Il resto è sto­ria di questi ultimi, miseri tem­pi, la messa all’incanto di tutto ciò che c’era stato prima. 

Fatti salvi casi individuali, dif­ficilmente nel Polo della liber­tà post-berlusconiano ci sarà dunque posto per una destra or­mai senza identità né storia né dimora. Certo, in una logica di liste civiche e di nuovi soggetti politici, ci può anche stare l’en­nesima rifondazione, ma va te­nuto conto che un partito che si chiama Destra, frutto anch’es­so di una Fiuggi digerita fuori tempo, già esiste e per quanto di dimensioni ridotte e di scar­so e discutibile appeal, appare più credibile, come collocazio­ne, di una nuova costola fuoriu­scita sulla destra del Pdl.

Certo, ci potrebbe essere una fusione fra questi due soggetti, ma i rancori fra gli ex colonnelli di quella che un tempo fu Alle­anza nazionale, ricordano quelli dei Duellanti del raccon­to di Joseph Conrad. Continua­no a odiarsi anche se non si ri­cordano più il perché.   

(di Stenio Solinas)

I partiti sono finiti, esistono solo nei talk-show


Un giorno di fine settembre di quest'anno ero a colazione da Beppe Grillo nella sua bella casa di Sant'Ilario, sopra Genova, da cui, nelle giornate limpide, si domina tutto il Golfo, da Spezia fino alla costa francese. Beppe mi faceva vedere, sotto, il braccio di mare in cui si allena, nuotando, anda e rianda, per circa un chilometro. Ma la traversata dello Stretto di Messina era ancora di là da venire. Si parlava, oltre che di cose che con la politica non c'entrano niente, delle elezioni amministrative del maggio precedente. “Tu hai salvato il sistema dei partiti e la finzione democratica” gli dicevo. “Perché?”.

"Perchè se il movimento 5 Stelle non si fosse presentato, quelli che l'hanno votato avrebbero disertato le urne e ci sarebbe stata un'astensione vicina al 50% che avrebbe reso evidente che un italiano su due non crede più alla democrazia rappresentativa”.

L'argomento vale, a maggior ragione, dopo le elezioni regionali siciliane se a un'astensione enorme (quasi il 53%) mai raggiunta in Italia, si aggiunge il 18% dei voti presi da Grillo e i suoi che sono innanzitutto, anche se non esclusivamente, voti contro la democrazia partitocratica.

La somma dice che due siciliani su tre hanno voltato le spalle alla democrazia rappresentativa, ai partiti e il dato si proietta, legittimamente, sulle prossime elezioni politiche di aprile (l'astensionismo siciliano è sempre stato, più o meno, nella media nazionale).

Se questo avverrà (è anzi molto probabile che l'astensionismo cresca ancora, perché negli ultimi anni è sempre andato aumentando) i partiti cosiddetti tradizionali si troveranno a spartirsi un 30% del parterre elettorale. Potranno avere ancora, formalmente, percentuali roboanti (come il 30,5% del Pd-Udc in Sicilia) ma in realtà inesistenti perché calcolate solo su un terzo degli italiani con diritto di voto. E se a questo già magro bottino sottraessimo i voti degli apparati, dei clientes, di coloro la cui sussistenza dipende direttamente dalla fidelizzazione a una forza politica, i voti obbligati insomma, vedremmo che il voto vero, il voto libero, non esiste praticamente più se non nelle forme del non-voto, cioè dell'astensione.

La verità è che i partiti sono finiti. Esistono ancora, per il momento, nei talk-show e nel girotondo mediatico, che da loro dipende, dove i loro uomini si comportano come se fossero i padroni del vapore, tracciano strategie per il futuro, intessono alleanze, si propongono di cambiar nome, e faccia, di allargare il proprio elettorato quando non esiste più un elettorato, battibeccano sconciamente fra di loro somigliando molto ai polli di Renzo che si beccavano furiosamente l'un l'altro senza rendersi conto che sarebbero finiti, di lì a poco, nella padella dell'Azzeccagarbugli. Vivono nel virtuale. Con le elezioni di aprile questa farsesca rappresentazione di un potere che non hanno più, di una credibilità che hanno perso per strada, una lunga strada, durata 30 anni di abusi, di soprusi, di prepotenze, di malversazioni, di ruberie, di grassazioni volgari da domestiche infedeli, finirà. Realizzando quello che in un preveggente pamphlet di Simone Weil del 1943 era ancora un wishful thinking e che era intitolato "Manifesto per la soppressione dei partiti politici".

(di Massimo Fini)

martedì 6 novembre 2012

Il rautismo come rivoluzione dei libri


I libri. Erano questi a segnare la differenza tra Pino Rauti e il resto delle destre. Nazionali o sociali che fossero. Il suo ritratto, ciò che lo tramanda, sono gli occhiali: veri e propri fondi di bottiglia. Ed era questo lui, uno studioso. Per fare dottrina e prospettiva. Magari anche per sbagliare. Ma nell’immediato. Non nelle visioni. Non in quel cammino dove il tempo trasfigura i destini dei popoli. Ebbe l’utopia propria dei calabresi. Fu soldato ed ebbe accanto una militia fatta di facce mirabili, quella di Paolo Andriani, quella di Giulio Maceratini, quella di Giampiero Rubei, quella di Marcello Perina, quella di Ignazio Diminica, quella di Fabrizio Falvo, quella di Fabio Granata, quella di Flavia Perina, quella di Enzo Cipriano e quella di Umberto Croppi. E poi tanti altri, tutti segnati dalla rivoluzione dei libri. Libri che si stampavano in faccia. Libri che avevano fatto delle rovine di un popolo e di un secolo una biblioteca. Questo fu il rautismo: uno scaffale. Senza di lui non ci sarebbe stata la Nuova Destra, senza di lui non ci sarebbe stato il socialismo tricolore di Beppe Niccolai, senza di lui Gianfranco Fini non avrebbe potuto sperimentare l’eresia perché solo con Rauti la destra poté scoprire di essere a sinistra, andando oltre. Senza fischiare. Piuttosto leggendo i Cantos. Con Manfredi.

(di Pietrangelo Buttafuoco)

Tra coerenza e tradimento


Schiacciato dalla folla su una balaustra all'ingresso della chiesa di San Marco a Roma, ho visto sfilare tutta la destra italiana, quella nostalgica, quella moderata e quella radicale, ai funerali di Pino Rauti. È stato un documentario dal vivo di un mondo ferito e non suoni strano quel «vivo» riferito a un funerale. 

Da qualche anno le manifestazioni più vive e riuscite della destra sono i funerali. Non c'è solo l'antica familiarità del mondo missino con i riti nostalgici per i caduti, con l'estetica mortuaria. C'è la percezione comune di un mondo che volge alla fine. Quella ferita ha ripreso a sanguinare alla vista di Fini, contestato con feroce durezza: voglio pensare che Fini non abbia voluto - almeno stavolta - disertare e rendere onore a un leader, pur sapendo di andare incontro al pubblico vituperio. Non era il momento e il luogo per contestare Fini, ma va compresa la rabbia e la delusione di quel mondo ferito e ipersensibile ai tradimenti.

Ma lasciamo i Fini che passano e tentiamo un bilancio del rautismo. Rauti tentò la folle impresa di far politica a colpi di idee e visioni del mondo. Trasferì la nostalgia del piccolo mondo missino dalla Repubblica Sociale al Sacro Romano Impero, immettendo il fascismo nel più maestoso fiume della Tradizione, con la T maiuscola. Sognò l'Europa in pieno nazionalismo missino, lanciò il comunitarismo in pieno cameratismo, scoprì l'ecologia in piena ideologia e istigò alla lettura giovani militanti, sottraendoli al puro attivismo e alla retorica patriottarda. A lui si avvicinò l'ala colta giovanile che non si accontentava dei saluti romani e del tricolore, leggeva Evola e lo preferiva a Gentile, faceva i campi hobbit e riteneva il liberal-capitalismo il nemico principale. Rauti esortò a leggere e pensare un ambiente versato nell'azione, nell'etica della sconfitta e nell'estetica del risentimento. «Veniamo da lontano» fu il suo motto. Aveva la lungimiranza ideale dei grandi miopi e la scarsa dimestichezza pratica. Le sue lenti spesse lo resero un alieno per la destra militante. Rauti perse la sua aura di ayatollah intellettuale quando perse le diottrie, dopo un'operazione agli occhi. È come se si fosse secolarizzato, spogliandosi delle sue lenti.

Rauti cercò in un primo tempo di trasferire il pensiero impolitico di Julius Evola nella militanza politica del Msi e poi di Ordine nuovo e poi ancora del Msi, in cui rientrò. Subì il carcere per il suo radicalismo ideologico, coinvolto nella strage di Milano; ma ne uscì indenne, eletto a pieni voti in Parlamento nelle elezioni del '72. Poi, alla morte di Evola ma sul filo della sue opere più trasgressive - come Cavalcare la tigre - Rauti intraprese, lui di destra tradizionale e radicale, un percorso inedito che lo portò a vagheggiare «lo sfondamento a sinistra» e l'alleanza rivoluzionaria. L'impresa si condensò soprattutto in una vivace rivista quindicinale, Linea, da cui siamo passati in tanti, ed ebbe un ruolo decisivo nella nascita della cosiddetta Nuova Destra. Era una linea di forte suggestione che apriva nuovi scenari, pur occhieggiando al fascismo sociale e rivoluzionario. E liberava la destra militante dalla sindrome dell'assedio, del ghetto e della guerra civile permanente con la sinistra. Ma la linea rautiana non ebbe interlocutori a sinistra, e trovò scettica ironia a destra; si perse nel fumo astratto di una lotta al liberalcapitalismo che non aveva compagni di strada né strumenti idonei per così titanica impresa. La sua linea fu sconfitta da Almirante che aveva più grande fascino oratorio e sapeva toccare come pochi le corde della nostalgia. Almirante ti guardava negli occhi con i suoi occhi azzurri; lo sguardo di Rauti si perdeva nei vetri dei suoi occhiali. Nessuno dei due poteva dirsi stratega politico: Rauti guardava troppo lontano, Almirante troppo vicino. L'uno faceva della politica una Visione del Mondo piuttosto nebulosa; l'altro faceva della politica un sublime teatro di piazza e di video, una fiammata che durava l'arco di un comizio. L'Ideologo e l'Artista.

Per galvanizzare i militanti Rauti soleva dire che il peggiore dei nostri è meglio del migliore dei «loro»; frase utile per cementare un ambiente diviso, ma falsa e foriera, nelle menti più deboli, di uno stupido settarismo. La sezione non era il tempio di un ordine cavalleresco.

L'audace svolta a sinistra di Rauti avvenne sull'orlo della scissione di Democrazia nazionale dal Msi. Rauti, invece, restò nel Msi capeggiando una corrente di minoranza e di opposizione interna ad Almirante e poi a Fini. La sua casa madre fu per anni in via degli Scipioni in Roma, un centro politico-librario in cui transitavano militanti e lettori. Poi la breve ma infelice esperienza di segretario del Msi, fin troppo cauto, curiosamente schierato a fianco della Nato nella guerra contro Saddam Hussein, lui che rappresentava la destra filopalestinese e antiamericana (mentre Fini, al seguito di Le Pen, andava a trovare il dittatore irakeno). Negli anni seguenti, gli ex rautiani superarono di gran lunga i rautiani e si disseminarono ovunque. Anche larga parte degli odierni finiani provengono dalla corrente rautiana e antifiniana. Le idee che mossero il mondo fu il suo libro più noto (a cui si aggiunse l'imponente Storia del Fascismo scritta con Rutilio Sermonti). Con la nascita di An, Rauti abbandonò il partito e suo genero, Gianni Alemanno, e tentò la vana impresa di rianimare la fiamma tricolore. Finì male, tra diaspore e microscissioni; più che un partitino avrebbe dovuto forse far nascere una Fondazione per formare i giovani e garantire la continuità con le radici sul piano storico e culturale. Passò per nostalgico, lui che ai tempi in cui Fini esaltava il Duce, sosteneva di andare oltre il fascismo. Rivoluzionario sul piano delle idee, Rauti era una persona mite e cortese, con una vita tranquilla, sin da quando era redattore de Il Tempo, attaccato alle sue abitudini domestiche (i più intransigenti camerati gli rimproveravano la pennica pomeridiana e il braccino corto, il familismo e il salotto col cancelletto per interdire l'accesso sui divani al cane volpino). 

Rauti può dirsi l'Ingrao della destra o forse il Bertinotti. Restò a mezz'aria tra la politica e la cultura, ma fece un pezzo di storia della destra, e non la peggiore. La brutta fine della destra - e di Fini in particolare - esalta per contrasto la figura e la statura di personaggi come Pino Rauti. Al loro cospetto, giganteggia. Non solo le sue lenti erano di spessore. Mancò la fortuna, forse il coraggio, non il valore.

(di Marcello Veneziani)

lunedì 5 novembre 2012

L'ombra del Bilderberg: "Monti fa gli interessi dei poteri forti mondiali"


«Monti? È Goldman Sa­chs » risponde in automatico Da­niel Estulin, scrittore-investigato­re russo (ma vive in Spagna) che col suo Il Club Bilderberg ­la storia segreta dei padroni del mondo si candida alla palma di maggior co­spirazionista del pianeta.

Se è un folle, le sue follie interessano pa­recchia gente: più di tre milioni di copie vendute in 81 paesi e 50 lingue diverse. Intervistarlo equiva­le ad entrare in un thriller (ne stan­no facendo un film) che ha per protagonisti banchieri, squali della fi­nanza, magnati dell’industria, po­litici, lobby e logge segrete. Den­tro questo plot, c’è pure Mario Monti, membro delle annuali riu­nioni del Bilderberg: «Monti è la perfetta esemplificazione del con­cetto di Compagnia unica mondiale (One World company Ltd, ndr) teorizzata da Lehman Brothers per il vertice Bilderberg del 1968».

E che sarebbe?
«L’idea che gli Stati nazione siano superati, e che la grande finanza, che già controlla l’industria attra­verso le banche, debba prendere il posto delle nazioni. È quel che è successo».

E il nostro premier Monti?
«È il custode degli interessi del­l’oligarchia finanziaria, non elet­to da nessuno».

Lei è un complottista.
«Il gruppo Bilderberg non è una te­oria cospirazionista, non è una so­cietà segreta. È una realtà, lo stru­mento con cui le oligarchie finan­ziarie, le élite di Usa e Europa, rie­scono a imporre le loro politiche ai governi».

Il gruppo Bilderberg si è riuni­to due settimane fa in Virginia: cos’avrebbero deciso?
«Hanno discusso del problema Russia, o meglio di Putin, che sta diventando un grande inconve­niente per loro. Un membro euro­peo del Bilderberg ha ammesso che “Putin è di gran lunga il più for­midabile avversario per i nostri piani”».

Perché?
«Bilderberg è partico­larmente preoc­cupa­to per il gasdotto Sou­th Stream, che potreb­be risultare vincente rispetto a quello Ue­ Usa “Nabucco”. Ma la maggiore preoccu­pazione è il tentativo di Putin di integrare l’Asia in un blocco sot­to la sua leadership , e poi l’intesa con l’Iran. Insieme controllereb­bero il 50% del gas mondiale. Per­ciò il Bilderberg continua a finan­ziare il “Fronte civile unito” di Ka­sparov contro Putin».

Hanno parlato anche della cri­si in Europa.
«Hanno deciso che la Spagna ver­rà sacrificata sull’altare della fi­nanza. Il sistema bancario spa­gnolo è al collasso, la Santander ha un debito di 800 miliardi, e il Bil­derberg lo sa. Il prestito di 100 mi­liardi è il primo passo verso la pie­na proprietà del Paese da parte della finanza mondiale. La Spa­gna non esiste più».

E l’Italia sì?
«L’Italia non è la Spagna, non ha bolle immobiliari, ha poco debito privato e ha un sistema creditizio solido, con 750 anni di storia. E so­prattutto alcune delle sue grandi imprese formano una parte im­portante del Bilderberg Group».

Secondo le sue fonti avrebbero deciso le sorti del dollaro.

«Una delle principali conclusioni del meeting 2012 è che gli Usa do­vranno svalutare il dollaro rispet­to allo yuan per ridurre il debito de­gli Usa».

Ma almeno lei ha capito cosa ci facesse Lilli Gruber al Bilder­berg?
«È una giornalista con molte en­trature tra la “ money people ”. E la­vorando in una tv importante ha accesso a un larga audience . E que­sto interessa il Bilderberg».

sabato 3 novembre 2012

Il fascista che bruciò con la sua Fiamma


Con la scomparsa di Pino Rauti si chiude virtualmente la pa­rabola di una certa destra ita­liana, quella neofascista che, soprav­vissuta alla Prima Repubblica, cercò di ritagliarsi un ruolo nella Seconda, si rifondò, abiurò e si scisse, infine si autosciolse. Politicamente, Rauti morì al tempo del lavacro di Fiuggi e dell’annesso candeggio della cami­cia nera. Rifiutando l’uno e l’altro, probabilmente sapeva di condannar­si suo malgrado a emblema di quella visione sterile e nostalgica del Msi e del fascismo di cui pure era stato ne­gli anni Settanta il più tenace e lucido avversario, ma alla base di quella scel­ta c’era più sentimento che ragione, più senso etico che calcolo. Nel nau­fragio di quella che era stata la nave della sua vita, Rauti scelse insomma di affondarvi insie­me, ma va anche detto che il de­stino gli concesse, nel quindi­cennio successivo, di vedere via via finire in fondo al mare le scia­luppe di salvataggio allora ap­prontate con così tanta celerità, ma senza troppa cura. La coeren­za, si sa, in politica non è un valo­re, ma nella vita di tutti i giorni impedisce la vergogna.

Intellettuale prestato alla poli­tica, Pino Rauti fu soprattutto un uomo di minoranza e di oppo­sizione, più a suo agio con i libri che con le alchimie delle corren­ti e delle maggioranze di partito. Non aveva la retorica oratoria di un Giorgio Almirante, né gode­va del prestigio di un Pino Ro­mualdi, uno che il Movimento sociale lo aveva fondato in clan­destinità, da ricercato politico. Eppure, nella secon­da metà de­gli­anni Set­tanta del se­colo scorso, fu per la frangia più inquieta e interessan­te di quel mondo gio­vanile il ca­talizzatore di un’idea di modernizzazione che per un certo perio­do sembrò fare brec­cia in quel­lo­che era ri­masto sostanzialmente un parti­to di reduci e di vinti dalla storia. In sostanza, Rauti elaborò una teoria per la quale invece di rassegnarsi a essere l’ultima trincea dell’anticomunismo e/o la ruota di scorta della Demo­crazia cristiana, il Msi doveva porsi l’ambizione di «sfondare a sinistra». Fallito il sorpasso del Pci nel 1976, questo partito era destinato, secondo la sua anali­si, a logorarsi nella equivoca for­mula della «solidarietà naziona­le » e quindi si apriva la possibili­tà di proiettarsi all’interno della società civile, alla ricerca di nuo­vi interlocutori e nuove conver­genze.

Per fare questo occorre­va, naturalmente, rinnovare il proprio di partito, «andare ol­tre », aprirsi a nuove e diverse for­me di comunicazione e di inse­diamento sul territorio, cercare di sintonizzarsi più con il males­sere che con il benessere, più con gli emarginati che con i «ga­rantiti ». Soprattutto, bisognava farla finita con l’identificazione in una destra conservatrice che, di fatto, lasciava il monopolio delle istanze sociali e del progresso alla sinistra, un pedaggio costoso e che non portava da nessuna parte.

Era quella di Rauti una pro­spettiva interessante, ma com­portava un giro di boa che la mi­noranza a lui facente capo non era in grado di imporre, e che la maggioranza almirantiana si guarderà bene dall’appoggiare. Finirà nel nulla, ma il non rimo­dernarsi allora presenterà il con­to un decennio dopo.

A un giovane d’oggi,tutto que­sto appare preistoria, e già il so­lo parlarne mette in evidenza il salto che successivamente ha fatto la politica. Nel giro di dieci anni, infatti, la caduta del Muro di Berlino aprirà il via allo smot­ta­mento e alla scomparsa del co­munismo in Europa, il venir me­no del fattore K provocherà la fi­ne della Democrazia cristiana come elemento cardine del siste­ma politico italiano, Tangento­poli e gli scandali legati alla cor­ruzione economico- politica apriranno il varco a quella crisi istituzionale e di potere che va sotto il nome di Prima Repubbli­ca. Nulla sarà più come era stato prima.

Nemmeno, anche se suo mal­grado, il Movimento sociale, di cui nel 1990 Rauti è diventato in­tanto il segretario, al posto di quel Gianfranco Fini intronizza­to tre anni prima da un Almiran­te ormai malato e che ha conti­nuato nel piccolo cabotaggio di un partito sempre più minorita­rio, stretto fra un reducismo sempre più patetico e un antico­munismo ormai senza più co­munisti. È, quella di Rauti, però una segreteria fuori tempo mas­simo e talmente breve, appena un anno, da apparire più come un incidente di percorso di un Fi­ni non ancora saldamente al co­mando, che una reale volontà di cambiamento. Una segreteria resa oltretutto possibile grazie a una convergenza dei vari oppo­sitori del dopo Almirante, e non per una reale forza politica del suo eterno avversario. La nuova pillola ricostituente della suc­cessiva gestione finiana, sarà «il Fascismo del Duemila»: l’acqua di Fiuggi, di lì a qualche anno, la evacuerà con tutto il resto.

La storia non si fa con i se, e quindi è inutile chiedersi cosa sarebbe potuto essere il Msi se quello «sfondamento a sinistra» da Rauti teorizzato fosse stato ve­ramente messo in pratica. C’era in lui, come in tutti quelli della sua generazione e della sua par­te, un misto di sindrome da scon­fitti e di fedeltà comunque alle ragioni e ai torti di una sconfitta, che ne faceva dei soggetti politi­ci più a loro agio con la testimo­nianza che con l’esercizio del po­tere.

Legati a un’epoca, psicolo­gicamente erano insomma inca­paci di liberarsene. E tuttavia, c’era in questa fedeltà a ciò che si era stati, una dignità di cui, vi­sti i nostri tempi, va oggi ricono­sciuta la caratura.

(di Stenio Solinas)

Pino Rauti e la destra diversa


Pino Rauti è stato il simbolo vivente della complessità della destra italiana. La scarsa dimestichezza del giornalismo politico del nostro Paese ad affrontare i personaggi «cruciali» della vita pubblica, soprattutto quando sono difficili da incasellare nelle gabbie ideologiche, lascia spazio all'incomprensione o, peggio, alla rimozione. È accaduto a Rauti, intellettuale di natura gramsciana (tanto per sfuggire alle definizioni scontate), che con la sua ostinata capacità di attirarsi i fulmini demolitori dell'establishment politico e mediatico, ha testimoniato il primato della cultura in politica a spese del piccolo cabotaggio elettoralistico e partitocratico. In questo senso egli ha riassunto la sua militanza per oltre sessant'anni finendo per rappresentare quella certa idea della destra che confonde gli osservatori non meno che la maggior parte di coloro che nella destra stessa pure si riconoscono o si sono riconosciuti. 

La sua fiera «diversità» Rauti l'ha dispiegata tutta nel perimetro dell'irregolarità, il ché gli ha procurato notevoli fraintendimenti che tuttavia non lo hanno mai fatto deflettere dalla convinzione maturata fin da giovanissimo: la necessità, cioè, di coniugare i valori tradizionali con la «questione sociale» in una sintesi che oggi potremmo arditamente definire «metapolitica» che immaginava a fondamento di una Repubblica pacificata e modellata secondo i criteri della partecipazione e del decisionismo. Si fa presto a liquidare Rauti come un «incendiario d'anime», per usare la forte e suggestiva espressione che la Pravda - niente di meno - coniò per lui nel 1979 quando perfino in Unione Sovietica ci si accorse che dalle idee rautiane, ben articolate nell'ambito di giovani politici che erano anche intellettuali, e veicolate da un giornale che egli aveva appena fondato, Linea, poteva venir fuori una destra non convenzionale, ma alternativa a quella stereotipata dei perbenismi in voga e un po' parruccona, funzionale ai ceti borghesi e rassicurante lo stesso sistema dei partiti. 

Una destra «rivoluzionaria», insomma, gravida di idee e capace di una suprema apostasia: la negazione delle virtù plebee in nome di una paradossale aristocraticità sociale, più vicina alla concezione di un George Sorel e del sindacalismo che ne discendeva che ad una destra tutta «legge e ordine» il cui conservatorismo si esauriva nel perimetro quieto dell'opposizione parlamentare. Rauti ha tentato, in parte riuscendoci, con le sue iniziative politiche e culturali, con le sue riviste, i suoi libri (comunque la si pensi resteranno fondamentali «Le idee che mossero il mondo» e la «Storia del fascismo» in cinque volumi scritta insieme con Rutilio Sermonti), i suoi centri di studio e di riflessione che raccolsero la gioventù più reattiva e anticonformista della destra dalla fine degli anni Sessanta in poi. La complessità di una destra che si richiamava non al fascismo in quanto tale, ma al più vasto mondo intellettuale tradizional-conservatore, le cui ascendenze evoliane innanzitutto erano innegabili, è testimoniata proprio dall'azione formatrice di Rauti per il quale le nuove scienze e l'ambientalismo, il radicalismo istituzionale ed il popolarismo localistico, le tematiche giovanili - dalla musica alternativa all'arte d'avanguardia, dalle problematiche femminili alla rilettura dei fenomeni aggregativi da cui discesero i famosi Campi Hobbit, dalla narrativa fantastica alla fumettistica che era appannaggio soltanto della sinistra, tanto per citare alcune espressioni che contribuirono a svecchiare la destra italiana - e la rivisitazione del solidarismo in una chiave che prevedeva il superamento della lotta di classe e la messa in discussione del capitalismo finanziario, fornirono al mondo che si ritrovava nel Movimento Sociale Italiano un vero e proprio arsenale di idee per combattere, come si diceva allora, la «buona battaglia». 

Rauti è stato il motore di tutto questo fermento di innovazioni che neppure la più dura, accanita, mostruosa persecuzione politica e giudiziaria a cui è stato sottoposto per circa quarant'anni, ha frenato. E di questa pagina della storia personale di Rauti che s'intreccia con quelle più controverse e problematiche della storia repubblicana, un giorno si dovrà dare conto, partendo dall'assunto che le idee non si processano e non si possono costruire mostri funzionali ad una strategia elaborata in chissà quali santuari che avrebbe dovuto destabilizzare il sistema allo scopo di stabilizzare assetti di potere che si facevano la guerra con gli strumenti che purtroppo abbiamo conosciuto. Legioni di inquisitori e di pistaroli hanno provato a distruggere la credibilità di Rauti, la sua onorabilità, il suo stesso mondo politico, ma non ci sono riusciti. Gli innumerevoli processi che ha affrontato non soltanto non lo hanno piegato, ma lo hanno reso più forte: è sempre stato assolto, uscendo indenne dalle numerose inchieste che, come testimoniarono i suoi colleghi del Tempo, fin dal 1972, nulla avevano a che fare con un giornalista che amava l'impegno politico e lo interpretava come un assoluto dovere civile anche quando le «pericolose» o «rischiose» idee che professava potevano costargli caro. 

Nonostante tutto le innumerevoli volte che è stato eletto deputato, parlamentare europeo e rappresentante del nostro Paese nel Consiglio d'Europa, dimostrano che la fiducia che gli veniva accordata - condivisa peraltro da tutto il suo partito - era più forte dei pregiudizi. Rauti, comunque, è sempre stato un'anima inquieta. Fin da quando giovanissimo aderì alla Repubblica Sociale Italiana e fu poi imprigionato nei campi di concentramento nordafricani maturò la convinzione che il suo sarebbe stato il destino di un «agitatore». Tra i giovani aderenti al Msi della prima ora, mostrò immediatamente insofferenza anche verso un ritualismo neofascista nostalgico e privo di spessore spirituale, tanto da far parte del «commando» dei Far, occultamente diretto da Pino Romualdi, accusato di attentati sovversivi (per la cronaca, non un capello venne torto a nessuno) e mandato alla sbarra nel 1951 insieme con tanti altri rivoluzionari, il più illustre dei quali, si presentò al Palazzaccio in carrozzella, accompagnato e difeso gratuitamente dal più grande avvocato del Novecento, Francesco Carnelutti: era Julius Evola la cui «Autodifesa» resta tra i testi più significativi per comprendere la stagione dei vinti nella Repubblica democratica ed antifascista. In quelle circostanze, nel mentre la lotta politica si faceva più dura, Rauti maturò la convinzione che il parlamentarismo nel quale si stava confinando il Msi lo avrebbe condannato all'estinzione. 

Promosse il Centro Studi Ordine Nuovo, che, contrariamente ad una vulgata menzognera, nulla aveva di «sovversivo»; condusse parallelamente la polemica politica e indirizzò verso la formazione culturale numerosi giovani. Poi la riconciliazione con il Msi di Almirante e l'ambiziosa battaglia per «sfondare a sinistra» convinto che soltanto la destra nazionale e sociale poteva dare al Paese una conformazione nuova. Ne divenne segretario nel 1990, ma anche per giochi di potere interni la sua esperienza al vertice del partito durò poco. 

Molto ci sarebbe da dire di quella confusa stagione che, comunque, resta la più fervida dopo il tempo almirantiano segnato dalla Grande Destra. Rauti se n'è andato dopo i suoi amici con cui ha vissuto il sogno della rivoluzione impossibile: Giano Accame, Enzo Erra, Fausto Gianfranceschi. Tutti protagonisti di una destra incompresa dalle riserve ancora ricche per chi volesse penetrarla ad là delle coltri nebbiose che impediscono una seria visione politica. Lo raccomandava Rauti soprattutto ai suoi giovani amici: non disperdere il raccolto di una storia poiché senza radici non vi può essere avvenire. È ciò che di più prezioso rimane di lui in chi lo ha ammirato, gli ha voluto bene e perfino in chi lo ha contestato. Comunque la si pensi, al suo cospetto, oggi si deve ammettere che Rauti è stato un uomo della destra complessa, appunto, non convenzionale, impastata di certezze e di contraddizioni e perciò viva, che, non merita di essere liquidata come il frutto di una marginale ideologia.

(di Gennaro Malgieri)